Culture mediterranee e dimensione donna: alcune (personali) considerazioni sul tema delicato della violenza

di Vinicio Serino            17 ottobre 2014

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Immagine2Metodologia

Con questo intervento, ispirandomi anche a posizioni della antropologia funzionalista (cfr. i lavori di E. Leacock), cercherò di sfatare ovvero ridimensionare un mito: quello della “marginalità femminile” e quindi del presunto, ridotto o addirittura inesistente “potere” della donna nell’ambito delle passate culture mediterranee.
Paradossalmente, come d’altra parte avviene spesso nel corso della storia, la violenza esercitata ha, in qualche modo, funzionato da “levatrice” di “aliquid novi” che, nei caso specifici qui sotto riportati, anziché “schiacciare” il soggetto colpito ha prodotto l’effetto opposto. Dando luogo a quello che potrebbe essere definito modello culturale ad effetto inverso … Storie di donne che la violenza non ha affatto annientato ma che, anzi, ha contribuito ad innalzare al rango di modelli ideali, forti, condivisi seppure alternativi, ispirativi di comportamenti altrui, spesso divenuti, nel tempo, dominanti.
La Grande Madre, la generante
“Nell’Europa del Neolitico e in Asia Minore … nell’arco di tempo tra il 7000 ed il 3000 a. C.”, sostiene l’antropologa lituana M. Gimbutas, “ la devozione religiosa si rivolgeva alla ruota della vita e alla sua ciclica rotazione … il punto focale della religione comprendeva nascita, nutrimento, crescita, morte e rigenerazione, parallelamente alla coltivazione delle messi e all’allevamento degli animali. I popoli di questa era ritenevano imponderabili le forze naturali … e adoravano molte dee, o forse una sola dea in molte forme. La dea manifestava le sue innumerevoli forme attraverso varie fasi cicliche che vigilavano sul buon andamento di ogni cosa …” (Gimbutas, 2005).La donna, non l’uomo, era l’asse portante di questa società. Ma poi altri popoli, popoli guerrieri, imposero, secondo la Gimbutas, un nuovo ordine, quello della supremazia del maschio: non più, allora, maternità ma paternità; non più generazione, ma distruzione; non più amore ma violenza …
Penelope, la fedele ed astuta tessitrice
Penelope rappresenta bene l’idea di donna del mondo omerico. “… la saggia Penelope”, “donna bellissima” tra i pretendenti, straziata dal canto di Femio, che intona la storia (penosa) del ritorno degli Achei da Troia … Essa è il simbolo stesso della fedeltà coniugale. Ma nell’immaginario collettivo, per via della celebre tela, è diventata anche il simbolo della astuzia femminile, in grado di tener testa efficacemente ai maschi, opponendo la sua intelligenza costruttiva alla forza sciocca e brutale. “Allora di giorno la gran tela tesseva/ e la sfaceva la notte, con le fiaccole accanto … “ Così l’ha immortalata Omero nella sua Odissea.

Cornelia, l’educatrice
Haec ornamenta mea”: questi sono i miei gioielli, è la frase attribuita alla matrona romana figlia di Publio Cornelio Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, sposa del Tribuno della plebe Tiberio Sempronio Gracco e madre dei due tribuni della plebe, grandi riformatori della Repubblica romana, Tiberio e Gaio Sempronio Gracco. Tacito seppe cogliere bene , nel suo “Dialogus de oratoribus, la grandezza di questa donna che nel suo seno e nel suo grembo aveva educato quei due figli a grandi ideali, spingendoli coraggiosamente a riformare la società romana, anche al costo della propria vita.
Maria di Nazareth, Virgo et Mater
La Madonna dei cristiani, personaggio, come è noto, molto amato anche dalla cultura islamica – non ultimo per la pia tradizione che la vuole soggiornare, nella fase finale della sua vita terrena in Efeso, insieme con l’evangelista Giovanni – è, da due millenni, il simbolo mediterraneo della dolcezza dell’amore materno. Un amore che si coglie sempre, in ogni momento della sua esistenza, ma soprattutto nella struggente sofferenza subita durante la passione del figlio. Mater dolorosa et lacrimosa, sed semper suavis et dulcissima … Senza essere irriverente Maria rappresenta una sorta di “continuum” ideale con le storie narrate dalle antiche mitologie mediterranee della Grande Madre generante di ogni forma di vita …

Ipazia, la martire pagana
“ Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura.”
Così canta, in uno dei suoi Epigrammi, il poeta Pallada di Alessandria (IV-V secolo d.C.) a proposito di Ipazia (da Upatos, il più elevato?), figlia del matematico alessandrino Teone, matematica ed astronoma lei stessa, nonché, capo della celebre Scuola Alessandrina, centro della ricerca medica e ascientifica, dal 393 dell’e.v. Perché, allora fu uccisa e fatta a pezzi da monaci Cristiani nel 415? Perché coltivava ancora il culto degli antichi dei? O perché, con la sua “tanta cultura”, rappresentava un (pericoloso) modello alternativo di donna?

Teodora, la politica
“… Non appena giunse all’adolescenza e fu matura, entrò nel novero delle attrici e divenne subito cortigiana, del tipo che gli antichi chiamavano ‘la truppa’. Non sapeva suonare flauto né arpa, né mai s’era provata nella danza; a chi capitava, ella poteva offrire solo la sua bellezza, prodigandosi con l’intero suo corpo.” In modo malevolo Procopio di Cesarea, storico della Corte Imperiale ed esponente della potente consorteria del Senato, illustra la giovinezza di Teodora (500- 548 e. v.) , destinata a diventare moglie e (ascoltata) consigliera dell’Imperatore Giustiniano … Fu lei che contribuì, in maniera decisiva, con la sua determinazione e con le sue arti di grande mediatrice, a mantenere l’unità dell’Impero in un’epoca di formidabili tensioni religiose.

Fatima, la madre dei Califfi
Fātima bint Muhammad, Fātima al-Zahrā, (Fātima la Luminosa) (Mecca 605, Mecca 633) fu la quarta e ultima figlia di Maometto. Sposò Alī ibn Abī Tālib cugino del profeta e quarto califfo “ortodosso“, nonchè primo imam per lo Sciismo. Fatima fu la sola, tra le figlie di Maometto, a generare una discendenza, con al-Hasan ibn Alī e al-Husayn ibn Alī.
In vita subì molti torti, come l’ affronto – mancato per l’intervento di Maometto – di un’altra moglie per suo marito Alī ibn Abī Ṭālib Alī.. Dovette anche affrontare l’opposizione del califfo Abū Bakr, per altro amico di Maometto, contrario a che lei, la figlia del Profeta,che incamerasse alcuni dei beni acquisiti dal padre nella prima fase della espansione islamica.
Fatima, colei che allatta, che dà il nutrimento, rimane una sorta di icona esemplare della sofferenza e della rassegnazione, elevata, da questo punto di vista, ad esempio della straordinaria fortezza d’animo del giusto: una (tranquilla) fortezza al femminile …
Sherazade, l’intrattenitrice
La vicenda dell’origine de “Le mille e una notte” è nota: ogni notte la bella Sherazade, andata sposa al re Shāhrīyār, lo intrattiene con una storia. In questo modo evita la morte perchè il sovrano, per vendicarsi del tradimento di una delle mogli, è uso uccidere sistematicamente le sue spose al termine della prima notte di nozze. Per mille e una notte Sherazade riuscirà nel suo intento, fino a quando il re, innamoratosi di lei, recederà dal suo insano proposito. Come in Penelope, sua ideale progenitrice, l’inventiva, la creatività, ma anche la pazienza, virtù molto comuni tra le donne, premiano. E salvano, la vita …

Beatrice, la Fede secondo Dante
Della Beatrice dantesca non si sa praticamente nulla. Se davvero non è ancora possibile identificarla con certezza con la figlia del banchiere fiorentino Folco Portinari e la sposa bambina di Simone de’ Bardi, a sua volta rampollo di una famiglia di grandi banchieri , è comunque fuori di ogni dubbio che seppe incidere, in maniera indelebile, sulla poesia e, soprattutto, sulla architettura filosofica di Dante. Dio è amore, ci dice appunto Dante, attraverso Beatrice : e per comprendere la natura di questo amore è necessario l’abbandono totale delle cose di questo mondo. Delle sue convenzioni, delle sue banalità, dei suoi pregiudizi, della sua vanagloria. Beatrice è la Fede, quella autentica, che innalza l’essere davvero libero alle vette del divino … Dagli occhi della mia donna si move / Un lume si gentil, / che dove appare / Si veggion cose ch’uom non può ritrare / Per loro altezza e per loro esser nuove … dice di lei Dante ne Le Rime. Quel lume è, appunto, la fede, come sapeva l’iconologo Cesare Ripa che rappresenta la prima delle virtù teologali con una donna recante nella mano destra una candela accesa, posta alla sommità di un cuore.
Caterina, l’innamorata di Cristo
“In altro non sta la pena nostra, se non in volere quello che non si può avere. “ “Nella amaritudine gusterai la dolcezza, e nella guerra la pace”. Sono due tra le affermazioni più significative della santa senese, poi diventata dottore della Chiesa romana e Patrona d’Italia e d’Europa.Una innamorata di Cristo che avrebbe, pesantemente, inciso sul grande corso della Storia degli uomini, convincendo il Papa a ritornare a Roma, dopo il tempo di Avignone … Ci riuscì con un “santo inganno” che servì a restituire il Pontefice alla sua domus naturale, la Sedes Petri romana.

Giovanna, la vergine guerriera
Vissuta in un periodo di immensi travagli – tra il 1412 ed il 1431 – indotta dalle voce di San Michele, di S. Caterina e di S. Margherita, Giovanna d’Arco, la Pulzella d’Orleans, si consacrò a Dio, facendo voto di castità. Quelle stesse voci le ingiunsero di correre in soccorso del delfino di Francia, Carlo, in guerra con gli inglesi ed i loro alleati borgognoni. In un clima di violenza, non sottostò alla violenza, ma impose alle sue truppe un modello di tipo monastico – forse ispirato a quello dei cavalieri Templari ? – vietando ogni saccheggio e prevaricazione; imponendo la preghiera quotidiana e la confessione; obbligando a mantenere con la popolazione civile un rapporto di collaborazione e non di rapina, come era consuetudine negli eserciti del tempo. Secondo i suoi persecutori per avere salva la vita non avrebbe dovuto riprendere le armi; né portare i capelli corti, come gli uomini ; né indossare vesti maschili. Ma lei rifiutò: e le fiamme del rogo la avvolsero, dopo essere stata riconosciuta come eretica, ad appena diciannove anni.

Artemisia, l’emancipatrice
Chiudo queste mie riflessioni con il caso di Artemisia Gentileschi, figlia ed allieva di Orazio, pittore caravaggesco presso cui condusse il proprio apprendistato. Era l’unico modo per imparare ed esercitare l’arte, essendo impedito, all’epoca, alle donne di svolgere lavori fuori della propria sfera domestica e tali da assegnar loro un qualche ruolo sociale. Salvo quello della cortigiana e/o della prostituta … Era stata troppo in anticipo sui tempi per poter presentarsi come un modello di riferimento per le donne della sua epoca: anche per questo – non solo per la sua avvenenza – fu stuprata dal pittore Agostino Tassi … E forse si vendicò idealmente con il suo “Giuditta uccide Oloferne” dove il volto del generale nemico degli ebrei sembrerebbe riprodurre proprio quello del suo violentatore …

Uno zodiaco al femminile
Ho giocato. Ma solo per raccogliere, da questo personale florilegio delle culture mediterranee, dodici fiori che simboleggiano altrettante peculiarità della condizione femminile. Ossia:
La maternità naturale, propria della Grande Madre;
L’astuzia “positiva”, propria della fedele Penelope;
La capacità educativa, propria della romana Cornelia,
La disponibilità al sacrificio di sé, propria di Maria, Vergine e Madre;
La libertà di affermare posizioni anche scomode e pericolose, propria di Ipazia, la martire pagana;
L’intelligenza politica , propria di Teodora imperatrice;
La forza d’animo, propria di Fatima, diletta figlia del Profeta;
L’inventiva creativa, propria di Sherazade, la giovane intrattenitrice;
L’abbandono di se, proprio della Beatrice dantesca;
La forza persuasiva, propria di Caterina, la mistica di Siena;
Il coraggio cavalleresco, proprio di Giovanna, vergine guerriera;
La propensione emancipatrice, propria di Artemisia, la dipintora.
– Uno zodiaco fatto di dodici, straordinarie gemme …

In fine
Che la bellezza irradi e compia i nostri lavori … Bellezza è donna …

BIBLIOGRAFIA
D. Alighieri, Rime, Note di Gustavo Rodolfo Ceriello, Milano 1952;
La Bibbia di Gerusalemme, Bologna 2009;
F. Cardini, Giovanna d’Arco, Milano 1999;
R. Contini e G. Papi ( a cura di), Artemisia, Roma, 1991;
F. Gabriel ( a cura di ), Le mille e una notte, Torino 1964;
M. Gimbutas, Le dee viventi, Milano 2005;
E. Leacock, Women’s Status in Egalitarian Society: Implications for Social Evolution, in Current Anthropology, vol. 33, no. 1, supp. Inquiry and Debate in the Human Sciences: Contributions from Current Anthropology, 1960–1990 (Feb., 1992 (ISSN 00113204 & E-ISSN 15375382)), p. 225 ff. (essay originally appeared in Current Anthropology, vol. 19, no. 2 (Jun., 1978),
P. Misciattelli, Lettere di S. Caterina da Siena, Firenze 1939;
Omero, Odissea, nella versione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963;
F. M. Pontani ( a cura di), Antologia Palatina, Libro IX, Torino 1979;
Procopio di Cesarea, Storie Segrete, a cura di F. Conca e P. Cesaretti, Milano 1996;
C. Ripa, Iconologia, a cura di Piero Buscaroli, Milano 1992;
Muhammad ibn Jarīr al-Tabarī, History of the Prophets and Kings, V.2, Albany, NY, 1987-1996;
P. Cornelio Tacito, Dialogus de oratoribus, Napoli 2009.

La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-II parte

di Linda Gargelli            11 ottobre 2014

leggi in pdf La funzione terapeutica della fiaba – L. Gargelli – II^ parte

ImmagineInutile e alquanto superficiale illudersi che i nostri bambini vivano esclusivamente nell’eterna spensieratezza, immersi in una realtà ludica del tutto priva di esperienze emotive negative come angoscia, tristezza e preoccupazione. In realtà, dietro l’apparente gaiezza di un sorriso possono celarsi importanti preoccupazioni e pressanti tempeste emotive, con la differenza che l’adulto riesce meglio ad esteriorizzare i propri patemi, mentre il bambino non riesce a dare un nome a ciò che lo affligge, andando spesso incontro alla rimozione. Per rimozione si intende quel processo psicoanalitico attraverso il quale si esclude dalla coscienza determinate rappresentazioni connesse a una pulsione il cui soddisfacimento sarebbe in contrasto con le altre esigenze psichiche.
La rimozione genera angoscia e può, soprattutto nei bambini, in comportamenti difficili e di sfida o in veri e propri sintomi nevrotici, come enuresi notturna, incontinenza fecale, iperattività, bullismo, fobie, ansia di separazione, ecc.
Proprio come il cibo, alcune emozioni necessitano di essere digerite e metabolizzate. Se ciò non avviene, il carico energetico associato a tali emozioni, troppo difficili o troppo forti da gestire, non si estingue da solo, ma rimane bloccato dentro di noi.
Come disse anche Freud riguardo alla rimozione e all’inconscio: “le emozioni proliferano [lì] nel buio” (Freud, 1917, p.54); così l’angoscia emotiva repressa sfocia sotto forma di sintomi nevrotici.
Il problema come fa notare la Sunderland è che il bambino non possiede le risorse per regolare il proprio livello interno di eccitazione emotiva e da qui l’idea centrale di utilizzare e servirsi delle storie, per aiutare il fanciullo a gestire il carico emotivo.
Una storia, secondo la Sunderland, assume connotazioni terapeutiche quando aiuta il bambino a parlare delle proprie emozioni influendo positivamente sulla sua personalità e facilitando la crescita psicologica. Ma se è vero che i bambini hanno bisogno di aiuto per venire a capo dei loro stati emotivi, qual è il ruolo della fiaba in tutto questo? Per la Sunderland è proprio qui che risiede la radice del problema: i bambini non parlano facilmente delle proprie emozioni, poiché il linguaggio di tutti i giorni non corrisponde al linguaggio naturale con il quale esperiscono le proprie emozioni.
Il linguaggio naturale delle emozioni è fatto di immagini e di metafore, proprio come quello di cui si sostanziano le fiabe. Per questo “prendendo in prestito” motivi fiabeschi conosciuti o costruendone di nuovi si può entrare in sintonia con le trame interiori del bambino. Inoltre le comuni denominazioni dei sentimenti tendono a livellare e ad appiattire quello che il bambino sta sperimentando, mutandolo in qualcosa per lui di estraneo e lontano. James Hillman , psicoanalista di matrice junghiana, sottolinea che
“l’anima desidera risposte immaginative che la muovano, la delizino, la sprofondino”(Hillman,1983, p.38), così intendendo che l’adulto in cerca di una sintonia con i motivi inconsci del fanciullo deve familiarizzare con la base poetica della propria mente: “la mente è fondata sulla sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo fare è poiesis. Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, ascoltare le storie con un’attenzione poetica, che colga in un solo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quello terapeutico e quello estatico” (ibidem, p.61). Una storia terapeutica può quindi rendere il bambino capace di ascoltare, vedere, sapere e sentire con più chiarezza e, allo stesso tempo, offrire all’adulto la possibilità di sviluppare un’empatia più profonda di quanto sarebbe possibile con parole letterali. Le fiabe, inoltre, con il loro specifico codice emotivo, creano spazi di introspezione e tempi di riflessione più consoni alle modalità di apprendimento del bambino rispetto alle consuetudinarie situazioni in cui l’adulto si impone con consigli rigidi e diretti, spesso ignorati, evitati e rigettati. Il bambino, con il supporto delle immagini metaforiche contenute nella storia, è in grado di osservare i propri sentimenti da una distanza di sicurezza che gli permette di non affogare nel mare tempestoso del suo inconscio. Un’altra caratteristica peculiare delle storie con finalità terapeutiche è, come scrive la Sunderland, “avere il diritto di dire di no o mi dai fastidio, poter essere diverso, poter cambiare il modo in cui ci si sente, poter liberare l’ansia, ecc.” (Sunderland, 2000, p. 28).
Il racconto di fiabe può essere utile per rielaborare non solo emozioni complesse, ma anche veri e propri traumi. Quando le emozioni relative a un trauma sono orribili e spaventose vengono relegate nell’inconscio, ma è proprio in questo luogo che diventano ancor più dannose, poiché assillano la mente e plasmano indirettamente il comportamento dell’individuo. Se un bambino traumatizzato non racconta la storia del suo dramma, può continuare a viverlo in modo inconscio, attraverso un comportamento difficile o estremo. Possiamo dire che un trauma non è ciò che è accaduto ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto. La costruzione o la lettura di una fiaba offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, dare un nuovo nome al dolore ridefinendone i suoi confini. In questo modo è possibile depotenziare il ricordo traumatico, rivivendolo attraverso l’identificazione con i personaggi fiabeschi e metabolizzandolo consciamente. Un trauma per poter essere superato non va rilegato nelle cantine dell’inconscio, ma va attraversato e la fiaba offre la possibilità di fare ciò: è come un piccolo lume che, se portato nel buio più profondo, riesce ad illuminare e schiarire tutto ciò che c’è intorno in modo da permetterci di esplorare i lati più oscuri del nostro essere. La ricerca in questo ambito mostra come, nell’agire alcuni tratti dell’evento traumatico, il bambino che l’ha subito può assumere sia la parte del persecutore sia la parte della vittima. Molti bulli da cortile spesso sono stati loro stessi vittima di bullismo. L’esito è davvero triste, poiché il trauma viene ripetuto in maniera compulsiva e automatica, tramite la coazione a ripetere senza essere pienamente sentito o vissuto consciamente. Ma se i bambini hanno l’opportunità di mettere in scena le vicende che sostanziano il loro trauma e mostrarle a qualcuno che li ascolti e li aiuti a elaborare le emozioni ad esso associate, non avranno bisogno di continuare ad agire parti della storia traumatica in modo antisociale ed estremo.

Come il terapeuta può ideare e raccontare una storia terapeutica.

La costruzione di una storia terapeutica ha come finalità quella di parlare con empatia e precisione della questione emotiva o del problema che sta tormentando il bambino, attraverso immagini espressive ed evocative che possono abbracciare l’intero dipinto, ovvero la realtà più profonda dell’esperienza emotiva di un bambino. Per individuare il nucleo problematico del fanciullo dobbiamo cercare di rintracciarlo nei suoi giochi, nei suoi sogni, nei suoi sintomi nevrotici e nei comportamenti estremi. Possibili situazioni problematiche potrebbero essere: sentirsi solo, sentirsi escluso, sentirsi impotente, sentirsi in trappola, ecc. Fondamentale è ideare un personaggio con il quale il bambino possa identificarsi, compiendo in questo modo lo stesso viaggio del protagonista, patendo delle sue sconfitte e angosciandosi delle sue eventuali prove da superare, ma mantenendo anche lo stesso suo coraggio per andare avanti.
Per identificazione si intende quel meccanismo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma parzialmente o totalmente nel modello di quest’ultima. Se non c’è identificazione con il personaggio fiabesco non c’è azione terapeutica. Per favorire l’identificazione è consigliabile creare un personaggio con gli stessi affanni e tensioni emotive del bambino. Ad esempio, se il bambino si sente escluso e solo, il personaggio fiabesco dovrà contenere tratti di esclusione e di solitudine. Questi primi passaggi sono molto delicati perché richiedono al terapeuta di trasferire la situazione ansiogena provata dal bambino nel luogo e nel tempo lontano e sospeso delle fiabe, modellando un contesto metaforico che possa accogliere i conflitti e i disagi del fanciullo, che trovano corrispondenza nel mondo reale. Se, ad esempio, si individua nel bambino un problema di enuresi notturna, in seguito al quale il piccolo si sente pieno di vergogna, la possibilità di portare il tema in un contesto fantastico, che potrebbe essere rappresentato da un porcospino nella foresta che fa continuamente la pipì senza accorgersene, potrebbe fornire la protezione dal disgusto attraverso un’espressione indiretta.
Ma quali sono le immagini metaforiche che possiamo inserire nel racconto e che possono essere il più possibile evocatrici delle sofferenza del bambino? Nella tabella sottostante sono riportati alcuni scenari reali che, secondo la Sunderland, potrebbero divenire immagini metaforiche da inserire nella storia terapeutica, per dar voce in maniera indiretta al disagio del bambino.

Figura n° 1. Situazione interiore e corrispondente immagine simbolica.

La funzione terapeutica della fiaba - L. Gargelli - TABELLA

 

 

 

 

 

Il passaggio successivo e centrale per attribuire alla fiaba il potere terapeutico è quello di mostrare con calma e senza correre il percorso dal momento critico alla soluzione della crisi, creando un ponte tra i due mondi rappresentato dal range delle possibili soluzioni, che permetta al bambino di non affogare e farsi trascinare dalle correnti delle sue emozioni, ma di osservare dall’alto e da una situazione di sicurezza le possibili opzioni. Fondamentale è mostrare il protagonista mentre affronta il problema, usando delle strategie simili a quelle del bambino ed evidenziando come questo modo di affrontare il problema lo conduca in acque agitate o in un vicolo cieco con risultati distruttivi. La trama della fiaba terapeutica in questo momento deve mostrare l’errore fatale che quella modalità di reazione al problema porta il protagonista a sperimentare nella sua vita una sorta di crisi, interiore o esteriore. Dopo la crisi (da crisis = scelta), avviene il cambiamento, una sorta di lisi dalla quale il protagonista viene fuori da vincitore e rin-sanato. Questa è la parte più viva, perché suggerisce al protagonista, e indirettamente al bambino, la soluzione, la nuova rotta da prendere, il meccanismo più maturo da acquisire. La storia mira alla trasformazione dell’individuo, chiaramente visibile nel finale. Basti pensare alle fiabe classiche dove il brutto anatroccolo si trasforma in cigno, il burattino pinocchio in bambino o Cenerentola in principessa. Possiamo quindi concludere che la struttura della fiaba terapeutica si compone di tre parti: la prima, in cui viene riportato il luogo, il tempo e i personaggi principali (il contesto di vita del bambino); la seconda, dedicata alla crisi, momento culminante in cui il soggetto si trova di fronte ad eventi catastrofici ed apocalittici che possono distruggerlo (manifestazione esteriore delle problematiche che assalgono il bambino); l’ultima, caratterizzata dalla trasformazione del protagonista (potenziare e progettare nuove strategie di resilienza e offrire meccanismi difensivi più maturi). Vladimir Propp che ha analizzato in Morfologia della Fiaba (1928) migliaia di fiabe provenienti da quasi tutto il mondo, ha individuato gli elementi comuni e principali che dovrebbero essere contenuti all’interno delle storie, e quindi anche all’interno delle nostre fiabe terapeutiche. Questi elementi universali e trans-culturali sono: l’ indeterminatezza spaziale e temporale (C’era una volta tanto tempo fa, in un paese lontano lontano..), l’allontanamento dal luogo d’ origine (la povertà che spinge i personaggi ad allontanarsi, la fuga dal cattivo, le focacce da portare alla nonna, ecc, il tranello (il lupo, la fonte stregata, ecc,) con il superamento della prova supportato molto spesso da un aiutante e il lieto fine, dopo una serie di peripezie/imprese che l’eroe ha dovuto superare. Riassumendo il pensiero di Margot Sunderland, una storia per avere degli effetti terapeutici deve: offrire delle opzioni alternative al comportamento da tenere di fronte ad un possibile ostacolo, offrire nuove possibilità e soluzioni creative per fronteggiare e superare problemi apparentemente insormontabili, mostrare come trattare in modo più efficace e molto meno doloroso i più comuni problemi emotivi e infine offrire opzioni per un nuovo modo di essere.
Qui di seguito riporterò una storia terapeutica ideata da Margot Sunderland per un suo piccolo paziente fortemente traumatizzato per essere stato picchiato dal padre, così tanto da essere inserito in un istituto. Lì, malgrado si fosse fatto dei buoni amici, subiva azioni di bullismo dagli altri ragazzi, perché era ancora troppo fragile e vulnerabile.
La storia di Minuscolino nella Foresta Spaventosa.
Minuscolino era un pulcino che un giorno si trovò, invece che nella fattoria, nell’orribile sottobosco di una foresta. Improvvisamente, una scimmia gli ruggì contro e lui si raggomitolò e rimpicciolì fino a diventare una pallina. Camminò ancora un po’, ma poi le foglie scricchiolarono in modo sinistro e lui si sentì ancora più piccolo. E poi un gufo fischiò forte e lui si sentiva sempre più piccolo e poi Minuscolino vedeva che la foresta era enorme, più si sentiva minuscolo. Dopo che tutti i tipi di creature delle foresta gli ebbero ringhiato addosso, gridato in faccia, dopo che ebbero sogghignato o strillato, lui si sentì più piccolo di un corpuscolo. E siccome si sentiva un corpuscolo, il più piccolo degli insetti che viveva nella giungla voleva mangiarselo. Così minuscolino cominciò a scappare a tutta velocità e si nascose. E mentre era li nascosto pensò che voleva arrendersi. “Che senso ha vivere in un mondo tropo grande?”, pensò. E proprio in quel momento passo di lì volando un uccello con delle piume bellissime. “Ehi, ti ho visto nascosto laggiù”, gli disse.“Perché non vieni fuori di lì e non ti bevi una tazza di tè con me?” Minuscolino rispose che non poteva. “Il mondo fuori dal mio nascondiglio fa troppa paura.” “Figurati”, disse l’uccello, “Se stiamo assieme non fa per niente paura. E’ vero che fare da soli, cose coraggiose, può fare troppa paura, puoi sentirti molto solo; ma insieme può essere divertente e interessante. E, pensa un po’, qui c’è anche il mio amico Porcospino!”. E così Minuscolino, Porcospino e l’uccello meraviglioso andarono tutti insieme a casa dell’uccello meraviglioso a bere una tazza di tè. E quando per la strada incontrarono dei fastidiosi insetti, gridarono forti e tutti assieme “Buh”, e così gli insetti non li disturbarono più. E quando i gufi fischiarono forte, l’uccello meraviglioso, Minuscolino e Porcospino risposero fischiando, cosi’ i gufi dissero: “Va bene, allora andremo a fischiare da un’ altra parte”. Minuscolino non si era mai sentito bene in tutta la sua vita. Sentiva dentro di sé un bel calduccio e i tre amici, insieme, passarono proprio un bel pomeriggio a bere il tè. Dopo quel giorno che tutte le volte che Minuscolino sentiva che stava per rimpicciolirsi diventare piccolo piccolo pensava: “Ops è il momento di chiedere aiuto ad un amico” e così faceva. Non si dimenticò mai di come si stava bene insieme agli altri, e quanto invece da soli ci si sentisse terribilmente abbandonati e spaventati, e come il mondo sembrasse un posto orribile dove vivere. E cosi’ da quel giorno in poi, la vita di Minuscolino, diventò una vita molto più bella da vivere.
L’autrice in prima istanza ha individuato il nucleo problematico del bambino: l’intensa paura che tutti gli altri possano fargli del male come il padre e la forte ondata di impotenza che ne consegue. Ecco che la Sunderland crea il personaggio di Minuscolino, che ricalca fedelmente le caratteristiche del fanciullo, favorendone così l’identificazione: un pulcino spaventato e solo, che si sente così piccolo e impotente da preferire di diventare così minuscolo da essere quasi invisibile. L’invisibilità di Minuscolino sembra fornirgli un senso di protezione: se mi rendo impercettibile nessuno mi vedrà e mi farà del male. Questa è anche la strategia difensiva che il bambino metteva in atto con i compagni dell’istituto. La foresta spaventosa è il contesto metaforico che simboleggia l’istituto in cui egli vive e i numerosi animali che tentano ripetutamente di aggredirlo sono rappresentativi dei ragazzi che mettevano in atto azioni di bullismo, approfittando della sua vulnerabilità. La Sunderland mostra al suo piccolo paziente, tramite questa storia cucita appositamente per lui, che il meccanismo che egli utilizza per fronteggiare la situazione in realtà lo rende ancora più triste e solo: scappare o nascondersi non lo rende certo più felice. Il momento critico viene rappresentato dalla voglia di arrendersi di Minuscolino seguito immediatamente dalla possibilità di una nuova soluzione, rappresentata dalla comparsa del bellissimo uccello che lo invita ad unirsi a lui invece di continuare a nascondersi. Ecco che la Sunderland mostra con chiarezza la nuova opzione che Minuscolino (il bambino) potrebbe adottare: gli altri non sono tutti perfidi e malefici, ci sono persone disposte anche ad esserti amiche e che è proprio da questi legami che si può diventare forti e sicuri, impedendo agli altri di approfittarsi di noi.
Prima di cimentarsi nel racconto di una fiaba terapeutica è importante accertarsi che il bambino sia aperto e recettivo. Sarebbe opportuno creare sia all’interno dell’ambiente scolastico sia all’interno dell’ambito familiare uno spazio nell’arco della giornata adibito al racconto delle storie, in modo che il bambino associ questi luoghi a momenti in cui si sente compreso e rassicurato dalla calda sensazione di calma e tranquillità di chi interagisce con strumenti per lui naturali e alla sua portata, come la fiaba. Per captare la sua attenzione dobbiamo usare una lettura attiva, enfatizzando parole, mantenendo il contatto visivo e supportandosi anche con la gestualità, in modo da coinvolgerlo e favorire l’ identificazione con il personaggio. Ovviamente una lettura piatta e monotona, priva di ritmo e con la stessa tonalità dall’inizio alla fine, potrebbe essere utile per conciliare il sonno, ma non lavorerebbe certo nelle complesse vicende interiori del nostro piccolo ascoltatore. Importante è poi non aver fretta: bisogna lasciare il tempo che il bambino assimili le vicende dei personaggi imbevendole dei suoi significati. Per questo a volte è importante non bloccarci alla prima lettura ma rileggere il racconto più volte. Bettelheim scrive che solo dopo aver riascoltato più volte una storia, “le libere associazioni inerenti alla storia gli frutteranno il più personale dei significati del racconto, e lo aiuteranno quindi ad affrontare il problema che lo opprime” (Bettelheim, 1975, p.18). Fondamentale affinché la storia agisca nell’ordinare il caos emotivo del fanciullo è non uscire dalla metafora della fiaba stessa, evitare di dire “il coniglietto della storia è triste proprio come te, non credi?”,almeno che non sia lui stesso a offrirci in modo palese il paragone, dichiarando di sentirsi proprio come quel coniglietto.
Il potere della storia risiede soprattutto nelle sue espressioni indirette, poiché attenuano le resistenze e sbloccano inibizioni dovute al senso di vergogna e alla paura degli ostili commenti adulti. Se la storia è ben fabbricata i significati lavoreranno latentemente e probabilmente ad un livello subcosciente è quindi inutile interrogarsi in maniera compulsiva se il nostro piccolo ha recepito più o meno correttamente il messaggio fornito. Un’efficace strategia da utilizzare per potenziare gli effetti terapeutici della storia è quella di non offuscare il messaggio finale con dettagli irrilevanti, ma procedere astraendo il più possibile, cioè ridurre la storia, anatomizzarla alle sue caratteristiche fondamentali. Ornarla di eccessivi particolari potrebbe annebbiare il reale contenuto.
In conclusione, l’uso di una storia terapeutica, offerta da un adulto empatico e coraggioso nel tentativo di “perdersi” nel mondo interiore del fanciullo, si configura come una sorta di guarigione psichica che si attua fino alla trasformazione dell’individuo che torna a governare i moti della sua psiche e di conseguenza gli eventi della sua vita, pieno di nuova energia, capace ora di affrontare il mondo con serenità, con forza, con coraggio e determinazione.

Quando il bambino diventa l’autore: la storia terapeutica come test proiettivo.

La Sunderland, oltre ai motivi fiabeschi costruiti dall’adulto per il bambino, si avvale di un’altra metodologia: le storie che il bambino inventa all’interno del setting terapeutico, per entrare in contatto con le sue emozioni più profonde. Con questa seconda modalità il prodotto fantastico che il bambino crea e dona all’adulto funziona come un vero e proprio test proiettivo. Nella storia che egli produce proietta nella trama stati d’animo, intenzioni, desideri, paure ed altre tematiche inconsce che potrebbero, se escluse totalmente dal campo della coscienza, originare conflitti intrapsichici, interferendo negativamente sullo sviluppo psicologico. La funzione terapeutica della fiaba, in questo caso, si sostanzia nel tentativo di riuscire a far comunicare al bambino le problematiche represse che lo tormentano, proiettandole nelle trame che egli costruisce.
Quando si passa dal ruolo di inventori di storie terapeutiche a quello di ascoltatori empatici di una storia narrata da un bambino, diventa fondamentale, come scrive Margot Sunderland, “cercare i temi emotivi centrali e ricorrenti e non i dettagli e il significato delle singole immagini” Sunderland,2000, p.71). La stessa Sunderland illustra il caso di Giudit , bambina di cinque anni, che narrava una storia apparentemente criptica e incomprensibile, in cui compariva ripetutamente il motivo di una bomba che veniva lanciata su un uovo, rendendolo infecondo, e di una tartaruga che salendo su un pisello lo schiacciava fino a tritarlo. In questo caso i temi nevralgici che emergono sono il sentirsi abusati, impotenti ed intrappolati; basti pensare alla differenza di potenza tra una bomba e un uovo ed una tartaruga e un pisello. Per rispondere in maniera efficace a questo racconto, bisogna, come già precedentemente suggerito, rimanere all’interno della metafora, ovvero evitare esortazioni come “povera Giudit, la bomba che si imbatte sull’uovo potrebbe forse essere tuo padre quando ti picchia?”, e al tempo stesso colludere quasi con il suo dolore dicendo: “Deve essere molto angosciante per quel piccolo uovo vivere continuamente nel terrore che la bomba possa esplodere da un momento all’altro su di lui”. Solo così la bambina può sentirsi compresa e può continuare ad aver fiducia in noi. Non bisogna poi soffocare il significato “in embrione” della storia, spingendo il bambino ad andare nella direzione in cui vogliamo noi, né imporre la nostra trama sulla sua. Qualsiasi tentativo di modificare, suggerire e reindirizzare non è supportivo, ma semplicemente dannoso, in quanto oscura la vera entità della storia. Questo è un problema molto frequente: spesso quando gli adulti cercano (di solito senza esserne consapevoli) di scappare da un loro proprio senso di sconforto sentono il bisogno di rendere la storia del bambino una bella storia, con sentimenti buoni e a lieto fine. Il paradosso è che al bimbo viene trasmessa più speranza se trova qualcuno in grado di ascoltare e di condividere la sua mancanza di speranza. Nell’ascoltare e interpretare la storia di un bambino il pericolo in cui molte persone incorrono è quello di giocare a fare lo psicoanalista, usando esclusivamente significati chiusi, soffocando molte volte la vera essenza delle immagini interiori del fanciullo. Quando si attribuisce un significato ad un’ immagine che emerge da un racconto bisogna sempre considerare il contesto di vita reale del bambino. L’analisi del contesto e l’attribuzione di significato sono due processi inscindibili; infatti, all’interno di una fiaba, la comparsa dell’elemento “serpente strisciante” potrebbe rappresentare per un bambino una creatura che sta lentamente progettando una morte sinistra mentre per un altro un simpatico e colorato verme. Questo dipende dalla storia personale di ogni soggetto, che è unica e irripetibile. Un’ulteriore istruzione è quella di evitare di trarre deduzioni da una sola storia: sono i temi e i paesaggi psicologici ricorrenti che formano un disegno più chiaro del mondo interno del bambino. Infine, quando si lavora con la storia di un bambino la Sunderland dice di “incoraggiare il bambino a mettere in scena nuove possibilità”(ibidem, p.25), così il bambino, con l’ausilio della storia, può sperimentare un modo più efficace e creativo per stare al mondo; anche se, spesso, quando i bambini sono sul punto di desiderare di sperimentare una possibilità attraverso una storia, se non sufficientemente incoraggiati, si tirano indietro. Da qui l’importanza di premiare il coraggio con entusiasmo.
Qui di seguito verrà riportato un esempio di alcuni frammenti di storie, con le relative interpretazioni effettuate dal terapeuta, inventate da un piccolo paziente di Margot Sunderland, durante le sue sedute di psicoterapia. L’autore di queste storie viene presentato dalla Sunderland con le testuali parole: “Eddie è un bambino di sette anni che ha visto più volte suo padre colpire la madre. Era così terribile che ha scelto di dimenticare l’esperienza. Ma dai quattro anni in poi, è diventato un bambino tremendo nell’ambito dei giochi in cortile. Una volta ha spinto a lungo la testa di una bambina sulla ghiaia. Stava mettendo in scena la storia del suo trauma” (ibidem p. 54).
“il poliziotto, il pompiere, il dottore e la vigilessa muoiono e rimane lo spazzino a scoparli via” (ibidem p. 54). Il significato psicoanalitico è che tutti i “protettori”, ovvero tutte quelle figure che dovrebbero offrire aiuto, sono rese impotenti, poiché il bambino ha sofferto il dolore atroce di non ricevere aiuto da nessuno e di non vedere nessuno che aiutasse sua madre mentre guardava suo padre che la picchiava. In questo caso Eddie proietta il suo senso di solitudine e di non protezione in quelle figure, che invece di offrire aiuto come usualmente fanno vengono improvvisamente spazzate via.
“Questa è la storia di un giardino crudele. L’albero grande picchia l’albero piccolo, e cosi’ l’anno dopo non ci sono fiori su di lui. Tutte le Margherite guardano. Vogliano fermarlo ma sono troppo piccole per fare qualsiasi cosa” (ibidem p.54). Il messaggio che Eddie vuole darci è che nutre un grande dolore verso se stesso poiché ogni volta si trova nel ruolo di spettatore impotente. Il bambino proietta se stesso nell’immagine della piccola margherita che vorrebbe fermare la violenza dell’albero grande, figura che rappresenta la proiezione del padre, ma essendo troppo piccola non riesce a far altro che guardare la scena in maniera passiva. L’albero piccolo che viene percosso dall’albero grande rappresenta la proiezione della madre maltrattata dal padre e l’immagine del giardino crudele è proiezione dell’ambiente violento familiare
− “Il piccolo verme piange e grida: “Mamma, mamma, c’è un corvo grandissimo!”. Il piccolo verme sta chiamando la sua mamma, ma la mamma verme scappa perché anche lei ha paura. La mamma verme finisce finisce mangiata dal grande corvo. Molte cose stanno strisciando sulla terra” (ibidem pp.54-5). Eddie, con la trama della sua storia, vuole comunicare il desiderio che la mamma lo salvasse dal vedere l’orribile spettacolo, anche se non poteva aiutarlo, perché lei stessa era colpita e spaventata. Il particolare dello strisciare sulla terra potrebbe corrispondere alle sue emozioni di disgusto per quello che vedeva, ma è difficile da stabilire. Il piccolo verme è la proiezione che il bambino fa di sé stesso, mentre il corvo che si avventa sulla mamma verme rappresenta il padre.

Cenni su alcune tecniche proiettive che utilizzano temi fiabeschi.

Come già accennato nel paragrafo precedente, la favola può essere utilizzata come strumento proiettivo per indagare le dinamiche della personalità infantile. Le tecniche proiettive fanno riferimento ad una classe specifica di misure che hanno come scopo quello di rilevare le caratteristiche intrapsichiche, le intenzioni, i processi, gli stili, le tematiche e le fonti alla base dei possibili conflitti di personalità. L’ambiguità dello stimolo e la minimizzazione del materiale sono le caratteristiche peculiari che permettono all’individuo, nel nostro caso il bambino, di proiettare liberamente nella situazione presentata i processi che sottostanno e strutturano la personalità.
Il bambino, ancor più dell’adulto, ha difficoltà a prendere coscienza della molteplicità di emozioni, paure e conflitti che investono la sua sfera soggettiva e ad esprimerli all’esterno in tutta libertà, sia per la difficoltà a verbalizzare i concetti sia per il timore della critica adulta, una volta che questi sono espressi. Il materiale ludico-simbolico rappresentato dalla fiaba permette al bambino una più facile esteriorizzazione e proiezione dei propri problemi, grazie alla sua attitudine ad animare e a rendere partecipi dei propri stati d’animo oggetti e personaggi esterni. Uno di questi strumenti proiettivi è il “Test della famiglia fatata”, dove si chiede al bambino di immaginare che tutte le persone della sua famiglia siano trasformate in un personaggio delle fiabe, invitandolo a traslare i membri del nucleo familiare in oggetti, persone o animali magici. Solitamente prima dell’inizio dell’attività pittorica si suggerisce una serie di personaggi, animali, doni fatati, ostacoli materiali che si presentano maggiormente nei racconti per l’infanzia, come principi e principesse, orchi, draghi e rospi, montagne e castelli incantati, con lo scopo di incentivare e stimolare il soggetto all’ideazione grafica. Il disegno permette in questo modo di accedere direttamente alle rappresentazioni mentali del bambino. Tilde Giani Gallino (2008), autrice del test, sceglie l’attività grafica come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio reale ed emotivo del bambino, focalizzandosi sul significato psicologico delle immagini magiche-simboliche e sulle loro correlazioni con quelle familiari e parentali. Gli scenari familiari, di qualsiasi tipo siano, vengono continuamente interiorizzati e inglobati dal bambino; mettere su carta personaggi a carattere magico-simbolico consente di proiettare su di essi quelle tensioni interiori che non avrebbero altrimenti modo di essere allentate ed esteriorizzate all’esterno, pur agendo in modo latente. E’ bene ricordare che le diverse fantasie sui personaggi familiari con la loro universalità e complessità sono ben conosciute in psicoanalisi come fenomeno che va sotto il nome di “romanzo familiare”, tipico dei ragazzi in età pre-puberale. Per la Giani Gallino, quindi, l’attività grafica fondata su temi fiabeschi si pone come strumento privilegiato di analisi della rappresentazione simbolica dello spazio emotivo e reale infantile.
Dalla ricerca si evince che nell’esame delle figure magiche spicca notevolmente la quantità di “gnomi e nanetti” disegnati dai maschi contro “principesse e re” delle femmine per rappresentare il proprio sé (self) e talvolta anche padri e fratelli. Interpretando questa trasformazione come un giudizio di valore espresso dai disegnatori nei confronti degli altri e di se stessi non possiamo fare a meno di cogliere in questa proiezione un tentativo di ridicolizzare e sminuire certi membri della famiglia verso i quali si prova sentimenti di rivalità. Nei soggetti che disegnano se stessi come un nanetto o uno gnomo è evidente una svalutazione della propria immagine psichica e o sociale, che può essere portavoce di gravi complessi nel corso dello sviluppo psicologico. Nell’analisi dei disegni delle bambine emerge un gran numero di “regine e principesse, di “re e principi azzurri”; da questo si rileva la presenza di una certa persistenza del senso di autorità (i monarchi visti come simbolo dell’autorità parentale). Nei casi di gravi compromissioni dello sviluppo psico-sociale del soggetto si assiste alla totale eliminazione del self (sé): nel disegno i soggetti non si auto-raffigurano in nessun modo, negando la proiezione con i personaggi.
Un ulteriore test proiettivo basato su temi fiabeschi, per l’indagine psicologica dei problemi affettivi con la relativa oggettivazione dei conflitti ad essi implicati, sono le “Storie da Completare” di Madeleine Thomas (1953). Con questo metodo semplice e anche rapido, la Thomas propone di minimizzare il più possibile la soggettività dell’intervistatore e ridurre al tempo stesso le resistenze del bambino durante la prestazione. Questo metodo di valutazione intrapsichica si compone di una batteria di 15 favole, dove si parla della vita familiare, dei sogni e dei desideri di bambini immaginari della stessa età e con la stessa situazione familiare degli esaminati: ogni favola schematizza una situazione e lascia un problema sospeso. Una delle quindici storie è la seguente: “Un bambino va a scuola, durante la ricreazione egli non gioca con gli altri compagni ma resta tutto solo in un angolino. Perché?” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in The Madeleine Thomas completion stories test). Proposto il tema della favola, si chiede al bambino di svolgerlo a suo gradimento: supponendo che ogni soggetto interpreterà e proietterà il racconto attraverso il prisma deformante dei suoi pensieri, sarà possibile, analizzando le sue risposte, risalire alle tematiche inconsce che sostanziano le modalità di reazione al problema. Alla base vi è l’ipotesi che “ogni creazione immaginaria obbedisce a un certo determinismo, per cui è possibile, essendo in possesso di una tale creazione, risalire induttivamente alle cause psicologiche da cui deriva” (ibidem, p.53). L’ autrice del metodo “storie da completare” fa notare l’impossibilità di applicare il materiale fiabesco a bambini di età inferiore ai 4 anni e mezzo, a causa del pensiero principalmente dominato dall’egocentrismo che renderebbe difficile l’adattamento ai quadri delle favole. L’identificazione con gli eroi della favole (e quando c’è identificazione c’è reazione affettiva) può assumere forme diverse: può presentarsi come una reazione indiretta di difesa, per cui il bambino si oppone a qualsiasi tipo di esteriorizzazione conscia o inconscia, con atteggiamenti di mutismo o espressioni monosillabiche; oppure può configurarsi come una reazione diretta quando i problemi vengono enunciati senza deviazioni o travestimenti. La reazione diretta si perfeziona nell’obiettivazione totale, in cui il bambino proietta i suoi conflitti nella finzione proposta. Quando emergono resistenze come rifiuti o difficoltà a parlare, molto probabilmente si è toccato un punto nevralgico dell’individuo e questo rappresenta l’obiettivo primario.
Infine, citerei le “favole” di Louisa Düss, pubblicate negli anni quaranta con il titolo “La metohode des fables en psychanalyse infantile” (1957). Il test si compone di dieci storie con finale aperto da leggere al bambino. Nel costruire le sue favole, la Düss parte dal presupposto che se il soggetto è colpito da una storia e fornisce una risposta simbolica o al contrario manifesta una certa resistenza a rispondere, significa che la condizione del protagonista in questione determina in lui una catena di associazioni, che risveglia il complesso al quale è fissato. La Düss detta alcune condizioni fondamentali per procedere con il metodo da lei sistematizzato, quali la brevità e la semplicità del testo tale da essere compreso anche da un bambino di 3 anni, ma allo stesso tempo capace di incuriosire anche l’adolescente, l’eliminazione di situazioni scolastiche o familiari specifiche dove si corre il rischio che il bambino rintracci la sua realtà e dove può intervenire la paura di essere giudicato; si devono inoltre celare sufficientemente i conflitti, affinché la consapevolezza del soggetto non sia risvegliata ed egli possa facilmente identificarsi col personaggio della fiaba. Infine, non è consigliabile presentare le favole in un ordine qualsiasi, ma bisogna iniziare con le storie che celano il complesso a cui è legata la minor consapevolezza.
La somministrazione di questo test prevede di dire al bambino che gli racconteremo una storia e che egli dovrà costruirne il seguito a suo piacimento. La storia viene narrata direttamente mettendo enfasi e vita, ma senza eccedere nella drammatizzazione che potrebbe suggestionare il bambino provocando resistenze e allontanando il terapeuta dallo scopo perseguito. Per ogni favola l’autrice presenta un elenco di risposte ritenute “normali” ed altre definite “patologiche”, che sono utilizzate nell’elaborazione dei protocolli di valutazione. In conclusione, la Düss afferma di poter supporre la presenza di un complesso quando il comportamento dell’esaminato presenta le seguenti caratteristiche: “persistenza del complesso anche in altre favole, risposta immediata e inattesa, risposta sussurrata rapidamente, rifiuto di rispondere e silenzio, desiderio di ricominciare da capo” (Psicologia Contemporanea n°35, Carini, 1993 p.53 in La methohode des fables en psychanalyse infantile).
Alcuni esempi delle dieci favole della Düss sono:
− Favola della paura (per indagare sull’angoscia e l’autopunizione): “C’è un bambino che dice piano piano ciò di cui a paura. Di che cosa ha paura quel bambino?” (ibidem p.55)
− Favola dell’elefante (per indagare il complesso di castrazione): “Un bambino ha un piccolo elefante che gli piace tanto e che è tanto grazioso con la sua lunga proboscide. Un giorno tornando a casa da una passeggiata, il bambino entra nella sua stanza e trova che l’elefante è cambiato in qualche cosa. Che cosa è cambiato in lui? E perché è cambiato?” (ibidem p.55)
− Favola dell’oggetto costruito (per indagare sul carattere possessivo e ostinato, complesso anale): un bambino è riuscito a costruire qualcosa per terra (una torre) che gli piace tanto, proprio tanto. Che cosa ne farà lui? La sua mamma lo prega di darla a lei; lui può dargliela se vuole. Gliela darà?
− Favola dell’uccellino (per indagare l’attaccamento del bambino a uno dei genitori, oppure la sua indipendenza): “un babbo e una mamma uccelli e il loro bambino uccellino dormono nel nido, sul ramo di un albero. Viene a un tratto un forte vento, stronca l’albero e il nido cade a terra. I tre uccelli si svegliano di colpo. Il babbo svelto vola su un abete, la mamma vola su un altro abete; il bambino uccellino cosa farà allora? Sa già volare un poco”. (ibidem p.54)

Conclusioni.

Il mio interesse per questo tema nasce dal desiderio di recuperare il racconto di motivi fiabeschi, che sembrano ormai, da anni, giacere addormentati nel “dimenticatoio delle cose perdute”, sostituiti da tecnologici giochini monotoni propagati dagli schermi di computer, I-Pod e quant’altro di simile il mercato moderno compulsivo possa offrire. Questa generazione di bambini annoiati, passivi e smaniosi, incapaci di tuffarsi nel proprio mondo interiore per conoscersi e “costruirsi”, necessita di riscoprire la fiaba, poiché ottimo strumento pedagogico dotato di forti effetti terapeutici che favoriscono un sano sviluppo psichico. Credo che sia necessario ispirarsi alla vecchia “cultura del focolare”, quando il racconto di fiabe rientrava tra le attività ludiche principali e i bambini, con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta, si sedevano insieme, intorno al fuoco scoppiettante o all’aperto sotto la cupola stellata del cielo nelle aie dei contadini, smaniosi di sentire le fiabe narrate dagli adulti. Non è forse questa situazione appena descritta più stimolante e costruttiva di quella in cui i bambini si ritrovano ipnotizzati davanti a qualsiasi tipo di schermo piatto presente in casa? Non credo neanche sia giusto appellarsi alla scusa del tempo che i genitori non hanno più a disposizione come una volta, a causa del lavoro che li tiene impegnati quasi tutto il giorno. La lettura di una fiaba implica non più di quindici minuti e credo fermamente che questo quarto d’ora sia qualitativamente importante per la vita del piccolo. L’obiettivo del mio elaborato è quello di illustrare, avvalendomi della letteratura scientifica presente nel panorama internazionale inerente a questo tema, la funzione terapeutica della fiaba, dove per funzione terapeutica intendo la capacità di questo strumento di contribuire e facilitare la costruzione di una sana personalità in sintonia con l’ambiente circostante.
Tra gli autori del panorama internazionale che hanno affrontato questo tema ho scelto di concentrarmi su quelli che a mio avviso sono i più rappresentativi: Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz. Pur avendo entrambi una formazione di stampo psicoanalitico, appartengono a due scuole di pensiero differenti: il primo segue la corrente freudiana, mentre la seconda quella junghiana. Così ho avuto la possibilità di comparare i due diversi modi di intendere la funzione terapeutica della fiaba a più ampio spettro. Entrambi, seppur in maniera differente, confermano la mia ipotesi di partenza: la fiaba ha una natura terapeutica. Per Bettelheim il potere terapeutico sta nel fatto che la fiaba porta il bambino alla conquista dell’integrazione delle varie istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io. La fiaba mostra in forma simbolica il conflitto che le pressioni di queste istanze provocano e successivamente illustra anche le possibili modalità risolutive, con le quali il bambino impara a domare e gestire i moti del proprio inconscio. Ecco perché la fiaba ha una connotazione terapeutica: aiuta il bambino a costruire una sana ed equilibrata personalità. Per Marie-Louise von Franz la funzione terapeutica della fiaba si concretizza nel mostrare come raggiungere e sviluppare a pieno il Sé, grazie al processo di individuazione che la fiaba stessa permette di compiere. La fiaba consentirebbe all’individuo di arrivare a quella condizione ottimale nella quale il complesso dell’Io agisce in sintonia con il Sé, producendo una quantità minima di disturbi nevrotici. Con l’ausilio dei messaggi terapeutici che trapelano dai motivi archetipi fiabeschi, il Sé viene portato alla luce dalle profondità cavernose dell’inconscio. Per la von Franz i personaggi e gli ambienti fiabeschi sono pura espressione degli archetipi dell’inconscio collettivo; per questo l’analisi dettagliata delle fiabe ci permette di conoscere molto sul funzionamento dell’uomo.
Riassumendo, per Bettelheim l’obiettivo terapeutico si sostanzia nella conquista dell’integrazione delle istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, mentre per la von Franz questo si sostanzia nella conquista del proprio Sé. Ma in ambedue i casi sempre di “conquista si tratta”. All’interno di entrambi i paradigmi la funzione terapeutica della fiaba viene saldamente confermata.
Nel secondo capitolo ho scelto di basarmi sulle idee e sulle metodologie di Margot Sunderland, direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che si è a lungo dedicata all’educazione affettiva infantile tramite l’utilizzo di storie. La Sunderland parla di “storie terapeutiche”, intendendo con questo termine quei motivi fiabeschi, letti o costruiti dall’adulto o strutturati dal bambino stesso, che hanno l’obiettivo di alleviare o far emergere gli stati ansiogeni e conflittuali del fanciullo influenzando positivamente la sua crescita psicologica.
Emerge che, se scelta accuratamente, la fiaba ci permette di abbracciare empaticamente il mondo interno del fanciullo senza invadere la sua sensibilità, oltre che a fargli comunicare in maniera indiretta la natura delle sue emozioni. Il linguaggio simbolico e figurato delle storie permette al bambino di conoscere e gestire la sua caotica realtà emotiva senza rimanerne sopraffatto, inoltre offrono il tempo e lo spazio per poter riflettere, in tutta sicurezza e tranquillità, sulla “situazione problematica” che assilla la sua mente, mostrandogli che il meccanismo che utilizza per fronteggiare il problema non lo libera da angosce o minacce, ma lo tiene prigioniero delle sue stesse emozioni. Le storie terapeutiche della Sunderland, che l’adulto crea appositamente per il bambino, contengono nelle sue trame un nuovo meccanismo più maturo e creativo che il bambino dovrebbe imparare ad utilizzare per far fronte al problema, funzionando così come una sorta di campo di battaglia dove ci si allena per sconfiggere nemici e superare prove.
Si evince inoltre che la terapia effettuata per mezzo delle fiabe permette non solo di rielaborare emozioni difficili, ma anche veri e propri traumi. La costruzione o la lettura di una storia offre l’opportunità di storicizzare i fatti accaduti, osservandoli da un luogo sicuro e protetto, che il mondo incantato della fiaba offre. Con il suo lato ludicofantastico, ben lontano dalla realtà, la fiaba invita il bambino a rivivere parti dell’esperienza traumatica in maniera conscia così da depotenziarne gli effetti che avrebbero se segregate nell’inconscio. Quest’ultimo effetto terapeutico si realizza soprattutto nelle storie strutturate dal bambino, in quanto esse, avendo una natura proiettiva, permettono al bambino di traslare nei personaggi e negli eventi fantastici, che egli crea, i drammi che popolano il suo inconscio. Il caso di Eddie, illustrato nel secondo capitolo, mostra infatti come la costruzione di una storia, effettuata dal bambino stesso, possa addirittura smorzare pesanti ricordi traumatici raggiungendo aspetti del dramma rimossi nell’inconscio, che vengono così trasferiti sui personaggi tramite identificazioni e proiezioni.
Mi è sembrato utile riportare poi alcune informazioni fondamentali da adottare sia per costruire sia per raccontare e ascoltare una buona storia terapeutica. Per “confezionare” un’ efficace trama terapeutica bisogna, in prima istanza, individuare il tema nevralgico che preoccupa il bambino e poi traslarlo in forma “camuffata”, con metafore e simbologie nel contesto narrativo della storia. Questo passaggio si è rilevato fondamentale e il più complesso, perché è quello che permette di accedere alle rappresentazioni interiori del fanciullo e di capire come egli percepisce e costruisce il proprio essere nella realtà che lo circonda. Quando invece raccontiamo una fiaba, diventa fondamentale utilizzare una lettura attiva e coinvolgente che sappia rapire il bambino nel mondo della fantasia. Dalla ricerca emerge inoltre che spesso una sola lettura non è sufficiente per evocare le associazioni necessarie per raggiungere lo scopo prefissato. Rilevante è anche non uscire mai dalla metafora, poiché il potere delle fiabe risiede soprattutto nelle espressioni indirette e nel linguaggio dell’immaginazione. Quando invece da inventori e lettori di storie abbiamo l’immenso privilegio di diventarne gli ascoltatori, ovvero il pubblico di una storia narrata da un piccolo, l’orecchio e il cuore devono impregnarsi di empatia e bisogna soprattutto stare molto attenti a non filtrare il contenuto latente del motivo fiabesco con le nostre esperienze soggettive adulte. Bisogna riattivare il fanciullino che c’è in noi e giocare con la base poetica della nostra mente, per entrare in sintonia con le trame dei bambini.
Secondo il mio parere, sarebbe auspicabile abbinare alle storie terapeutiche di Margot Sunderland piccole rappresentazione tramite giocattoli, come pupazzi o burattini, che il bambino potrebbe mettere in scena dopo aver ascoltato o raccontato la storia.
La rappresentazione di ciò che ha ascoltato o raccontato potrebbe costituire un vero atto catartico, un momento liberatorio che potrebbe potenziare ulteriormente i benefici della storia. Sarebbe interessante creare dei laboratori di psicodramma per l’età evolutiva in quanto essendo lo psicodramma un metodo d’ approccio psicologico che consente alla persona di esprimersi attraverso la messa in atto sulla scena di esperienze di vita, potrebbe aiutare il bambino a stabilire un intreccio più armonico tra le esigenze intrapsichiche e le richieste della realtà. Il laboratorio psico-drammatico potrebbe fornire uno spazio di condivisione e di ascolto in cui si sollecitano le capacità creative del bambino e la libera espressione delle emozioni. Questa integrazione potrebbe essere di spunto per direzionare nuove ipotesi di ricerca.
Infine, nel mio elaborato, ho voluto riportare altre metodologie valutative, di natura proiettiva, che utilizzano temi fiabeschi per l’indagine della personalità e dei pattern conflittuali, a conferma del fatto che le fiabe sono uno strumento utile per l’indagine intrapsichica e non semplici racconti irrazionali, colme di sciocchezze, come purtroppo qualcuno sostiene.

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1 James Hillman è uno psicoanalista americano, nato nel 1926, che ha diretto lo Jung Institute di Zurigo e ha fondato il Dallas Institute of Humanities and Culture.

2Per coazione a ripetere si intende quella tendenza dell’individuo a ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale,anziché, a ricordarlo come parte del proprio passato.

3Vladimir Jakovlevičeskij Propp ( Pietroburgo 1895- Lenigrado 1970) compì gli studi di filologia slava nell’università della sua città, in cui, a partire dal 1923, insegnò prima lingua tedesca, e folclore poi.

4Questo esempio di storia terapeutica strutturata dall’adulto per il bambino è tratta dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l’intenzione”

5L’esempio sovrascritto è tratto dal libro di Margot Sunderland “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita e l’invenzione con le favole e l’invenzione”.

6Con questo termine si intende un gruppo di pensieri o immagini con notevole valenza emotiva.

7Gli esempi riportati sono tratti dall’articolo di Carini, M. (1993) Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile. Psicologia Contemporanea N° 38, p. 40-45

Bibliografia.

Bettelheim, M. (1976). “The uses enchantment. The meaning and importance of fairy tales”.( Traduzione italiana 1977) “Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe”. Milano: Feltrinelli editore.
Carini, M. (1993). “Le favole: una tecnica proiettiva per l’esplorazione delle dinamiche della personalità infantile”. Psicologia contemporanea n°35, 40-45.
Concato, G. Innocenti, F.B. (2010). “ Manuale di psicologia dinamica”. Francavilla al Mare: Edizioni Psiconline.
Franz (von), M.L. (1977). “Das Weibliche im Märchen, Bonz, Stuttgart”. (Traduzione italiana 1983) “Il femminile nella fiaba”.Torino: Bollati Boringhieri
Franz (von), M.L. (1969). “ An Introduction to the Psychology of Fairy Tales”. (Traduzione italiana 1980). “Le fiabe interpretate”. Torino: Bollati Boringhieri.
Franz (von), M.L. (1987). “The psychological meaning of redemption motifs in fairytales”. (Traduzione italiana 1990). “Le fiabe del lieto fine: Psicologia delle storie di redenzione”. Como: Red edizioni.
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Giani Gallino, T. (2008). Il mondo disegnato dai bambini. Il test della famiglia fatata, p.158-166
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Jung, C.G. (1936). “Die Archetypes und das Kollektive unbewusste”. (Traduzione italiana 1977) “Gli archetipi dell’inconscio collettivo”. Torino: Bollati Boringhieri. Propp, V.J. (1928). “Morfologija skazki”. (Traduzione italiana 1966) “Morfologia della fiaba”. Torino: Einaudi.
Sunderland, M. (2000). “Using story telling as a therapeutic tool with children”. (Traduzione italiana 2004) “Raccontare storie aiuta i bambini. Facilitare la crescita psicologica con le favole e l’invenzione”. Torino: Erickson. di redenzione”. Como: Red edizioni.

Le immagini di Giuseppe Panella

di Andrea Galgano 8 ottobre 2014

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9788884102027Scrive Andrej Tarkovskij:

«L’immagine artistica è un’immagine che assicura a se stessa il proprio sviluppo, la propria prospettiva storica. È un seme, un organismo vivente in evoluzione. È il simbolo della vita, ma è diversa dalla vita stessa. La vita include in sé la morte. L’immagine della vita o la esclude oppure la considera come l’unica possibilità di affermare la vita. L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo. L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità» (da Martirologio-Diari 1970-1986).

Il poderoso saggio di Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, edito dalla fiorentina Clinamen, indaga, in nome dell’immagine, descritta o reale o mentale, lo stretto rapporto tra le discipline volte alla formulazione del discorso, alle imagines memoriae, al legame tra visualizzazione e composizione.
La reale incompatibilità tra parole e immagini, partite dall’analisi di Foucault, punta all’origine della comunicazione, alla sua versatilità, e all’atto linguistico: «La poesia è, dunque», scrive lo studioso, «lo spazio in cui è possibile collegare immagini e parole, in cui si esalta e si definisce l’esperienza dell’identità coniugata attraverso le differenze dei suoi segni (o viceversa), il luogo in cui le similitudini nascoste all’interno dello strato roccioso dell’oblio emergono grazie all’azione corrosiva di succhi poetici sotterraneamente distillati e operanti in segreto» (p.16).
In un saggio, dal titolo L’arte della memoria, Francis Yates, soffermandosi sull’atavica e sostanziale uguaglianza tra poesia e pittura, confluita nella formula oraziana ut pictura poësis, così sintetizzava: «La teoria dell’equazione poesia-pittura poggia anch’essa sulla supremazia del senso della vista: il poeta e il pittore pensano entrambi per immagini, che l’uno esprime poetando, l’altro dipingendo. Le sottili e sfuggenti relazioni con le altre arti che percorrono tutta la storia dell’arte della memoria sono così già presenti nella fonte leggendaria, nei racconti attorno a Simonide, che vide poesia, pittura e mnemonica in termini di intensa visualizzazione».
La stuporosa fascinazione di Walt Whitman, che inaugura i prodromi della modernità, apre il catalogo del mondo alla sua composizione e le immagini «di cui il mondo esterno è composto si incontrano e si scontrano con le idee interiorizzate e introiettate in profondità nella mente del poeta, fino a realizzare un cortocircuito lirico continuo e travolgente che produce alla fine l’emergenza della poesia. […] Il poeta non può fare a meno del contatto con la materia della sua scrittura e con la concretezza dell’esperienza di vita che ne è il sostrato imprescindibile».
L’immagine illuminata di Whitman si staglia ed emerge come trionfo visibile e come elemento dinamico, con cui la poesia si appropria della pienezza delle immagini per compiersi e addentrarsi nel magma della realtà.
Laddove Hopkins fa ondeggiare la fresca profondità del reale con l’imperiosa potenza delle sue epifanie, «il gradiente sonoro delle parole utilizzate si fonde così con la descrizione dell’evento facendo emergere dallo sfondo indistinto della natura la forma privilegiata del canto libero» (p.26).
La raccolta delle immagini dà corpo alla sua campitura, al moto composito che si esprime ed emerge nella sua fosforescenza.
Il saggio percorre le linee di un mosaico che diventa preludio. Se D’Annunzio ha espresso la carnalità umbratile della parola e il suo fuoco, la totalizzazione (e tragicità) dell’io, l’incoscienza dello stile: è la dischiusura delle immagini a far nascere la germinazione poetica, Joyce percorre la selezione e collezione epifanica, come coniugazioni del Sublime «con l’idea catartica (e , quindi, aristotelica) della scrittura come espressione di “momenti di essere” che solo la loro (apparente) riuscita e perfezione potranno redimere dall’oblio e salvarli dall’essere confinati nella stanza buia della dimenticanza» (p.35).
Lo spostamento dell’imagismo di Pound, nato dagli stimoli teorici di Thomas E.Hulme, tocca il culmine breve dell’esattezza e della densità nuova del linguaggio dell’immagine («ciò che presenta un complesso intellettuale ed emotivo in un istante di tempo»), che sovrappone i livelli simbolici e letterali, inventando un verticale superamento visuale, un’ appropriazione del flusso metamorfico dell’esistente, e in questa ricerca «di valorizzazione della parola come “forma naturale” dell’immagine, il poeta americano cercava di liberarsi dal carico “filologistico” che aveva caratterizzato talune sue prime prove […] e di produrre un soffio rivitalizzante […]» (p.43).
Con Apollinaire la poesia inizia a farsi allusione ed espansione, condensa la sua lampante manifestazione in una scena visiva che «proprio per questo motivo e proprio perché accetta l’idea della fine della comunicazione artistica come evento esclusivamente verbale, rappresenta una forma ulteriore dell’utilizzazione delle immagini come parole e al posto delle parole».
Nei suoi successivi passaggi il saggio si snoda in tre direttive, che mettono a fuoco le analisi delle immagini all’interno del dispositivo di scrittura e di interpretazione critica.
L’istanza fenomenologica di Bachelard, analizzata nel volume, fa luce sullo spazio immaginato e sullo spazio in figura dell’immagine. Le fascinazioni (rêveries) elementari approdano al superamento della realtà che, se da un lato, sconfinano nell’esperienza onirica, dall’altro, diventano fenomenologia cosciente.
Bachelard, pertanto, come scrive Giuseppe Panella, «cerca di riscontrare (e di ritrovare di conseguenza) nell’azione dell’inconscio i segni più significativi ancora accessibili del loro processo di trasformazione in registro consapevole delle intuizioni e delle sospensioni di immagini che popolano la pagina scritta. Le immagini si fanno realtà nel momento in cui vengono riconosciute come tali» (p.62).
L’Arte come perfetta sintesi di “intuizione”ed “espressione”, come prospettato da Benedetto Croce, si richiama alla vichiana logica poetica, saldamente ancorata all’autonomia e alla fantasia dei suoi lumi sparsi.
Croce fa coincidere l’Arte con la conoscenza intuitiva, l’Armonia come suo segno distintivo, e conseguentemente, «ciò che è libero dai condizionamenti (concettuali e/o concreti) della pratica artistica perché è essa stessa una delle forme “autentiche”della pratica […] Certamente, la poesia non è solo espressione lirica e non è soltanto arte o letteratura, non è pura forma né grossolano contenuto, non è oggetto dell’attività singola di un singolo staccato dal proprio contesto storico, non è eternità congelata nell’atto dell’ispirazione come una sorta di folgorazione in decrittabile e/o ineffabile, non è solo tecnica o poiesis […], non è rilettura “in pensieri” del proprio Zeitgeist né anticipazione dello stesso, non è attività concettuale né pura e semplice espansione dell’Io in forme prescritte dalla tradizione o dalla convenzione letteraria o dal gusto o dal mercato delle lettere» (p.76).
L’indagine sulla traccia filologica di Contini prima, e Muscetta, poi, si sofferma sul rapporto della filologia come lettura, riscoperta e trasmissione di segni e studio di strutture.
Lo «scandaglio genetico» dell’opera, come nel caso della riscoperta dei Sonetti di Belli, mira a ricostruire il fulcro dei suoi passaggi e delle sue peculiarità espressive, attraverso l’impegno storiografico, e la sua forza antipopolare.
Il rapporto tra immagini e parole, nei diversi momenti della storia letteraria tra fine Ottocento e Novecento e nelle ipostasi delle avanguardie, analizza il lavoro scavato (direbbe Heaney) della parola poetica, come un limite sovrabbondante, che in esso trova forza e abbandono, capace di presentare la provocazione della realtà, la sua meraviglia e il suo assurdo.
Persino il silenzio diventa, come nel caso di Rimbaud, compiutezza e conclusione: «La poesia realizzata in termini di pura rappresentazione trova proprio nelle sue immagini la sua ultima metamorfosi in un diverso progetto di vita: dalla poesia si passa all’amministrazione coloniale e senza soluzione di continuità. Dalla lirica come rappresentazione “colorata “ del mondo (è il caso “pittorico” di Voyelles) non si può che giungere al mondo come caleidoscopio di colori, quale scomposta asimmetria di frammenti poetici che non si possono afferrare se non per un attimo» (p.131).
Il sogno e l’epifania poetica della città, poi, condensano il teatro di una totalizzante e suprema arsi immaginale, in cui rapportarsi al proprio inconscio (Aragon), all’inventario della sua topografi (Benjamin), al suo moderno teatro (Schnitzler), alla non località inestesa dei suoi passaggi e paesaggi e infine ai simulacri forgiati dalla sua identità (il dandy).
Il volume studia tutti gli scenari e i sentieri possibili: dal paradosso come costruzione della soggettività fino al suo rovesciamento nel feticismo che pertiene alle fondamenta della prospettiva borghese.
Paul Klee scrisse che il compito dell’arte non è riprodurre il visibile ma rendere visibile l’invisibile. Ciò che noi vediamo materialmente, non è detto che sia ciò che è oggetto di attrattiva, come testimonia l’incompiutezza della Pietà Rondanini, che esprime questo doppio movimento: usa il visibile come porta d’accesso all’invisibile e così realizza il Bello.
Il libro di Giuseppe Panella condensa nella sua pienezza d’insieme, non soltanto il rapporto segreto della parola con l’immagine, ma permette di vivere appieno il fascino della relazione e dell’ermeneutica, che sono traccia, ineludibile, di un canto mai svanito.
PANELLA G., Le immagini delle parole. La scrittura alla prova della sua rappresentazione, Clinamen, Firenze 2014, Euro 49,00.

La funzione terapeutica della fiaba tra Archetipi e Miti-I parte

di Linda Gargelli            4 ottobre 2014

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rackhamNegli ultimi anni la cultura occidentale, soprattutto dopo l’avvento di tecnologie sempre più avanzate, sembra aver perduto una modalità pedagogica importante per favorire lo sviluppo psicologico del bambino: il racconto di fiabe. Ciò che è andato perduto non sono tanto le fiabe di per sé, che si ritrovano oggi trasposte nei numerosi film per bambini, ma quel prezioso ed intimo momento in cui adulto e bambino entrano reciprocamente in contatto tramite un’interazione diretta, costituita dal racconto.
Per fiaba si intende una narrazione caratterizzata da racconti medio-brevi e centrati su avvenimenti e personaggi fantastici come fate, orchi, giganti e così via. Esse, di origine popolare, sono state tramandate oralmente di generazione in generazione per descrivere la vita della povera gente, le sue credenze, le sue paure, il suo modo di immaginarsi i re e i potenti e venivano raccontate da contadini, pescatori, pastori e montanari attorno al focolare, nelle aie e nelle stalle. Questo mio progetto nasce dal desiderio di recuperare il racconto di fiabe come potente strumento pedagogico poiché esso può costituire una sorta di addestramento alla vita. I bambini sentono il bisogno di una preparazione, di un’iniziazione, di un insegnamento e le trame fiabesche possono rappresentare una sorta di supporto, facendo sentire il piccolo meno solo e inadeguato di fronte agli ostacoli che la vita presto o tardi gli porrà.
Calvino considera la fiaba come: “una spiegazione generale della vita; il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi un destino: la giovinezza, che poi vede la sua conferma nella maturità e nella vecchiaia” (Calvino, 1956, p.17). Privando i nostri figli del comune retaggio fantastico, cioè della fiaba popolare ma anche delle fiabe più moderne, il bambino non può trovare da solo trame efficaci che lo aiutino ad affrontare i problemi della vita. Il materiale fiabesco offre queste trame che ricalcano fedelmente i passaggi basilari dell’esistenza di ogni individuo. Bettelheim sottolinea che la fiaba fornisce al bambino ciò di cui ha maggiormente bisogno: “essa inizia esattamente dove il bambino si trova dal punto di vista emotivo, gli mostra dove andare, e come procedere”(Bettelheim, 1976 p.120) . La fiaba diventa una sorta di “fidata consigliera” che suggerisce al bambino come muoversi nel percorso ad ostacoli della vita stessa.

L’ intento di questo mio progetto è quello di illustrare come il racconto di fiabe, sia quelle tradizionali1 sia le storie fantastiche di autori più moderni, siano un potente strumento educativo con forti implicazioni terapeutiche, che possono influire positivamente sul raggiungimento di un sano e completo sviluppo psicologico.
Molti studiosi si sono occupati delle valenza psicologica delle fiabe, ma per affrontare questo mio progetto, ho scelto di basarmi sul contributo di due autori che hanno vivamente sostenuto i benefici e gli effetti terapeutici che si possono trarre da esse: Bruno Bettelheim (1903-1990) e Marie-Louise von Franz (1915-1998).

Bettelheim, psicoanalista infantile di matrice freudiana, si è a lungo dedicato alle fiabe, soprattutto a quelle dei fratelli Grimm, ritenendole rappresentazioni dei miti freudiani, ossia quelle idee basilari che sostanziano la teoria di Freud, come, ad esempio, le fasi dello sviluppo psico-sessuale, le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, il complesso di Edipo, ecc., mentre Marie-Louise von Franz, psicoanalista svizzera di matrice junghiana, ne ha esplorato l’espressione degli archetipi2 contenuti nella struttura della fiaba.
L’importanza che le fiabe assumono nella vita mentale del bambino fu sottolineata già da Freud nel suo scritto “Materiale fiabesco nei sogni” (1913), in cui egli afferma che elementi derivanti da racconti fiabeschi possono essere frequentemente ritrovati nell’analisi dei sogni. Le fiabe rientrano, pertanto, nella complessa elaborazione dei simbolismi onirici inconsci, assieme ai miti, ai motti di spirito, ecc. Saper interpretare analiticamente il materiale fiabesco permette di raggiungere i contenuti segreti che popolano l’inconscio del fanciullo.

Nella seconda parte dell’elaborato svilupperò le idee di un’autrice più contemporanea, Margot Sunderland, psicoterapeuta infantile e direttrice del Institute for Arts in Therapy and Education di Londra, che utilizza la fiaba come strumento terapeutico, avvalendosi di due modalità: la prima è la costruzione da parte del terapeuta di una storia che ricalchi la situazione emotiva del bambino, mentre la seconda è la costruzione di una storia che il bambino stesso inventa e crea. In ambedue i casi si tratta di storie terapeutiche, ma seguendo il primo approccio, la storia creata dal terapeuta per il fanciullo ha come finalità l’esplorazione delle dinamiche emotive del bambino, aiutandolo a sentirsi più compreso e meno solo di fronte ai propri disagi e proponendo all’interno della trama possibili vie di uscita dalla situazione che lo tormenta.
Mentre nel secondo caso il bambino diventa l’autore di racconti fantastici e le storie che crea riflettono nelle trame e nel susseguirsi degli eventi i nuclei nevralgici delle sue vicende interiori. I protagonisti e le vicende fantastiche create dal piccolo si configurano come una proiezione del suo mondo interno. In questo modo la fiaba assume valore terapeutico, poiché essa si struttura come uno strumento proiettivo che può aiutarci ad indagare le dinamiche inconsce ovvero quei conflitti e quei pattern comportamentali che risiedono sotto il livello di consapevolezza e possono tormentare il bambino.

Per la Sunderland il materiale fiabesco ha connotazioni terapeutiche quando il racconto di storie può facilitare la crescita psicologica del bambino aiutandolo nell’esteriorizzazione delle vicende interiori. Ma perché il racconto di fiabe è stato messo al bando e sempre più ignorato dai genitori di oggi, che considerano la fiaba una letteratura di serie “B” e talvolta perfino dannosa per i propri bambini? Perché tanti genitori preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figlioletti tengono così di poco conto il valore della fiaba, privando i bambini di quanto queste storie hanno da offrire? La prima risposta che sorge a questi interrogativi è che il mondo occidentale, impregnato di razionalismo, non può offrire né spazio né tempo alle fiabe poiché, considerate quadri non veritieri della realtà, sono percepite inutili e malsane.
Alcuni genitori temono che raccontare ai loro piccoli gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe significhi dir loro delle “bugie”, poiché questi non trovano corrispondenza nel mondo reale. Questa loro preoccupazione trova spesso alimento nella domanda del bambino: “È vero quello che mi racconti?”. Molte fiabe offrono una risposta a questo interrogativo ancora prima che il quesito possa essere posto: cioè proprio all’inizio della storia. Spesso l’incipit delle fiabe viene trascritto come “C’era una volta..” o “Tanto tempo fa… in un regno lontano ..” e questa indeterminatezza spaziale e temporale fa intuire al bambino che i racconti sono veri “nell’antica e remota epoca del regno della fantasia”, poiché la verità delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa-effetto.

Altri genitori temono che i loro piccini si possono lasciar trasportare dalle loro fantasie finendo per credere nella magia, ma questi trascurano il fatto che ogni bambino crede nella magia avendo un pensiero prevalentemente animistico3 e che cessano normalmente di farlo quando diventano grandi. Altri ancora temono che la mente di un bambino possa fare una tale indigestione di fantasie fiabesche da trascurare d’imparare come si affronta la realtà. Ma questa erronea convinzione è smentita anche da Bettelheim il quale ne sostiene l’impossibilità: “Per quanto una persona sia complessa – piena di conflitti, ambivalenze, contraddizioni – la personalità umana è indivisibile. Quale che possa essere un’esperienza, coinvolge sempre tutti gli aspetti della personalità. E la personalità totale, per essere capace di affrontare la vita, deve poter essere sostenuta da una ricca fantasia combinata con una ferma coscienza e una chiara comprensione della realtà” (Bettelheim, 1976, p.117). Espresso in altri termini, affidarsi e usare la fantasia non esclude il fatto di vigilare sulla realtà tangibile.

Ci sono poi coloro che mettono al bando le fiabe tradizionali poiché ricche di personaggi mostruosi e terrificanti, così eliminando personaggi salienti o ancor peggio tramutandoli da malefici a bonari e trascurando, allo stesso tempo, il mostro che il bambino conosce meglio e lo preoccupa di più. Seguendo Bettelheim, in questo modo il bambino non è in grado di viversi “il mostro che sente o teme di essere, e che a volte arriva a perseguitarlo” (ibidem p. 119) . Tenere questo mostro all’interno del bambino, inespresso e nascosto nel suo inconscio può essere molto più pericoloso; mentre dargli vita con l’immaginazione significa alleggerire il fanciullo da massicce ansie e preoccupazioni, insegnandogli a dominarlo e a conoscerlo senza averne timore, tramite l’identificazione col personaggio.
Ma le fiabe popolari o le più generiche storie moderne lette o inventate dai bambini hanno davvero funzioni terapeutiche per il sano sviluppo psicologico?

1. La funzione terapeutica della fiaba secondo Bruno Bettelheim e Marie-Louise von Franz: significati psicoanalitici a confronto.

1.1 Due diversi modi di attribuire significati alle fiabe.

In questo secondo capitolo verrà illustrato e comparato il pensiero di due autori che hanno prodotto opere fondamentali sulla comprensione psicologica e sul valore terapeutico delle favole: Bruno Bettelheim (1903-1990), illustre psicoanalista infantile di matrice freudiana, e Marie-Louise von Franz (1915-1998), allieva e collaboratrice di Jung nonché grande esponente della psicologia analitica del XX secolo.
Per Bettelheim la fiaba permette di risolvere i problemi psicologici annessi al processo di crescita del bambino. La sua funzione è quella di illustrare in forma simbolica i tipici conflitti interiori, come superare delusioni narcisistiche, dilemmi edipici e rivalità fraterne, mostrando come questi possono essere risolti riuscendo ad abbandonare dipendenze infantili, conseguendo il senso della propria individualità e del proprio valore. Le favole, con le parole di Bettelheim, si occupano soprattutto di quei problemi “che preoccupano la mente del bambino, e quindi parlano al suo Io in boccio e ne incoraggiano lo sviluppo, placando al contempo pressioni preconscie e inconsce.
Le storie, nel loro svolgimento, ammettono a livello conscio e manifestano le pressioni dell’Es, e indicano dei modi per soddisfare quelle che sono in accordo con le esigenze dell’Io e del Super-io”. (Bettelheim, 1976, p.14)
Ad esempio la fiaba “I tre porcellini” illustra in maniera simbolica il conflitto tra il principio di piacere e il principio di realtà. In maniera indiretta la fiaba insegna al bambino che non bisogna essere pigri e prendercela comoda, perché altrimenti potremmo morire. Le case che i tre porcellini costruiscono simboleggiano il progresso dell’uomo nella storia. Il comportamento dei primi due porcellini rappresenta il modo di vivere secondo il principio di piacere (Es), senza darsi pensiero per il futuro e preoccuparsi dei pericoli della realtà. Solo il terzo porcellino ha imparato ad agire secondo il principio di realtà (Io); è in grado di rinviare il momento del piacere e agisce conformemente alla sua capacità di prevedere il futuro. Le azioni dei porcellini riflettono un progresso da una personalità dominata dall’Es a una personalità sotto l’influenza del Super-io, ma controllata dall’Io. Difatti, vivendo in accordo con il principio di piacere, i porcellini più piccoli cercano una gratificazione immediata. Il porcellino più grande ha imparato ad agire in conformità con il principio di realtà, rimandando il desiderio. Il lupo rappresenta le forze inconsce da cui l’individuo deve imparare a proteggersi e che possono essere sconfitte tramite la forza dell’Io.
La fiaba, in sintesi, cerca di far capire al bambino che è possibile raggiungere la soddisfazione, rispettando al contempo le esigenza della realtà.
L’obiettivo terapeutico della favola è quindi la conquista dell’integrità, perseguibile equilibrando le istanze intrapsichiche Io, Es e Super-io, in modo da placarne le pressioni che esercitano sull’inconscio del bambino, provocando conflitti difficilmente gestibili se lasciati giacere indisturbati nel serbatoio inconscio. Bettelheim utilizza dunque le categorie freudiane di Super-io, Io e Es per analizzare il contenuto delle fiabe, permettendo lo scontro tra le varie istanze intrapsichiche necessario per raggiungere un buon livello di maturità e soprattutto una sana personalità. Bettelheim, nel suo saggio “Il mondo incantato”, illustra la funzione pedagogica della fiaba e scrive: “ Il processo di sviluppo del bambino inizia con una fase di resistenza ai genitori e con la paura di crescere e termina quando il giovane ha realmente trovato se stesso, raggiungendo l’indipendenza psicologica e la maturità morale”( ibidem p.17). La fiaba permette al bambino di dialogare con i propri contenuti inconsci, poiché parla un linguaggio simbolico ed evocativo, non invadendo la sua intimità. Non va dunque detto al bambino il significato che la favola suscita in lui: la favola letta non va spiegata:
“è sempre un atto di invadenza interpretare i pensieri inconsci di una persona, per rendere conscio ciò che desidera mantenere preconscio e questo è particolarmente vero nel caso del bambino” ( Bettelheim, 1976 p.23). Fondamentale è che il bambino entri “indirettamente” in contatto con i propri motivi inconsci, poiché se totalmente negati alla coscienza o totalmente repressi la personalità subisce un danno. Il supporto offerto dal materiale fiabesco permette all’inconscio di affiorare alla coscienza e di rielaborarlo attraverso l’immaginazione, così da renderlo meno pericoloso e più malleabile. La fiaba, in quanto opera letteraria, mentre intrattiene il fanciullo, gli permette di evocare significati profondi in relazione al suo stadio di sviluppo. Afferma l’autore: “[…] le fiabe hanno un valore senza pari: offrono nuove dimensioni all’immagine del bambino, dimensioni che egli sarebbe nell’impossibilità di scoprire se fosse lasciato completamente a se stesso. Cosa ancora più importante, la forma e la struttura delle fiabe suggeriscono immagini per mezzo delle quali egli può strutturare i propri sogni ad occhi aperti e con essi dare una migliore direzione alla propria vita” (ibidem pp.12-13). I racconti presentano problemi umani universali (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte ecc.). La funzione terapeutica delle storie all’interno di questa cornice concettuale sta nel fatto che la fiaba si propone come una sorta di auto-cura, permettendo ai processi interiori di venire esteriorizzati tramite l’identificazione con i personaggi e la proiezione sulle trame narrate; il fanciullo trasla sul personaggio, con il quale si identifica, le proprie trame sentendosi meno solo, più rassicurato e soprattutto compreso. L’ esteriorizzazione è incoraggiata dalla fiaba, poiché essa parla di verità che non hanno a che fare con la quotidianità routinaria del bambino. L’incipit della storia come “c’era una volta”o “mille anni fa” introduce un altrove che non è il luogo e il tempo in cui siamo ma suggerisce che stiamo per lasciare il mondo della realtà, per entrare in un luogo antichissimo e remoto, simile allo spazio onirico dove la logica con la sua casualità viene sospesa lasciando spazio all’immaginazione e alla fantasia.
Un elemento che favorisce il processo di identificazione è la non ambivalenza dei personaggi, in quanto essi si presentano o come del tutto buoni o come del tutto cattivi. Prima e durante il periodo edipico, il bambino divide ogni cosa in opposti, scinde il buono dal cattivo, sia nel mondo esterno che in quello interno. La presentazione delle polarità del carattere, contenuta nei personaggi fiabeschi, permette al bambino di comprendere con meno difficoltà la differenza fra i due aspetti e al contempo di familiarizzare con la propria parte “oscura”, come l’aggressività, la rabbia, la gelosia, l’odio, ecc. che generalmente vede riflessa nei personaggi negativi. Quando il bambino si identifica con il personaggio fiabesco l’interrogativo che egli si pone non è “voglio essere buono?” ma “chi voglio essere?” ricalcando una questione esistenziale molto profonda che va ben oltre una semplice questione di preferenza e implica un’ ardita ricerca di significato per la costruzione della propria personalità.
Inutile tentare di tener i fanciulli sotto una campana di vetro illudendoli che tutto ciò che incontreranno e vivranno sarà roseo e meraviglioso, ma più utile e sensato è mostrargli che nella vita esistono anche gravi difficoltà e ostacoli, che possono essere superati con il coraggio e la determinazione. La struttura della fiaba assolve anche a questa funzione: oltre alla fata buona si può trovare anche la matrigna cattiva, ma quest’ultima può essere depotenziata e resa innocua, mettendo in atto le opportune strategie. Le fiabe per Bettelheim non sono semplici storielle per addormentare i fanciulli la sera, ma sono più profonde di quanto noi pensiamo. Ad esempio la formula finale “e vissero tutti felici e contenti” non implica un’illusoria credenza nella vita dopo la morte, bensì suggerisce al fanciullo che formando una relazione interpersonale, che nella fiaba può configurarsi, ad esempio, con l’unione della principessa con il principe, l’individuo può sfuggire all’angoscia di separazione e che è necessario uscire dalla “stretta dei genitori” senza che ciò implichi morte interiore e distruzione.
Alcuni motivi fiabeschi oltre a quello primario che è la conquista dell’integrazione, secondo Bettelheim, che possiamo trovare nelle fiabe possono essere:
– le trasformazioni dei personaggi che permettono di scindere una persona in due per mantenere incontaminata l’immagine buona, con questo espediente tutte le numerose contraddizioni sono improvvisamente risolte. (vedi il personaggio della matrigna che permette di scindere la madre nell’oggetto cattivo e malefico)
-il romanzo familiare: può contenere l’idea che i propri genitori non siano realmente i propri genitori e che il bambino è figlio di qualche altro individuo. Questa fantasia è utile perché permette al bambino di nutrire un’autentica collera contro il “falso genitore” senza avvertire sensi di colpa, ad esempio la figura della matrigna cattiva permette di proiettare i sentimenti negativi su di essa preservando l’immagine della madre buona.
-la sostituzione dell’ordine al caos: i personaggi essendo unidimensionali sono incarnazioni di aspetti tra loro diametralmente opposti, questo permette di sistematizzare il caos interiore del bambino e di isolare e separare tra di loro i diversi e contraddittori aspetti dell’esperienza proiettandoli anche su personaggi diversi.
-Conflitti edipici e risoluzioni: in alcune fiabe, ad esempio in Cenerentola o in Biancaneve, l’esistenza beata della fanciulla edipica con il padre viene interrotta dall’entrata in scena della perfida matrigna, raffigurata come un personaggio più anziano e malintenzionato che minaccia la coppia padre-figlia. I bambini edipici, grazie alla fiaba, possono godere pienamente di soddisfazioni edipiche a livello fantastico e mantenere buoni i rapporti con i genitori nella realtà.
Infine, mi pare utile riportare la distinzione che Bruno Bettelheim compie tra fiaba, mito e favola. Si definisce mito la narrazione di eventi fantastici o leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi eroi o sui rapporti tra l’uomo e la natura. Anche il mito, come la fiaba, rappresenta un conflitto interiore ma presentando il tema in forma grandiosa i personaggi acquisiscono tratti con i quali è difficile identificarsi, poiché noi umani rimarremo sempre inferiori agli dei. I miti riguardano le richieste del Super-io in perenne conflitto con le richieste dell’Es e le esigenze di autoconservazione dell’Io ma per quanto ci possiamo sforzare non riusciremo mai a vivere completamente all’altezza di quanto il Super-io, così come è rappresentato dai miti degli Dei, sembra chiederci. La fiaba contrariamente al mito non pone richieste, non fa sentire inferiori cosicché anche un bambino piccolo può identificarsi con facilità con i personaggi. Le favole diversamente dalle fiabe sono racconti brevi e semplici, per lo più di carattere morale, che hanno come protagonisti gli animali.
Secondo Bettelheim, la funzione terapeutica della favola è assai limitata rispetto ai benefici che si possono trarre dalle fiabe. Le favole presentano anch’esse un difficile conflitto interiore ma suggeriscono, in forma figurata, quello che le persone dovrebbero fare, imponendo o minacciando in modo moralistico la soluzione da adottare suscitando così ansia e timore che bloccano la discesa conoscitiva del bambino nel proprio inconscio.
In altri termini, parlano con il linguaggio autoritario e critico dell’adulto, dicendo cosa è giusto fare e cosa non fare, scartando così tutto il range di possibilità che il bambino dovrebbe consultare quando si trova in conflitto o in situazioni problematiche.
Per Marie-Louise von Franz, l’azione terapeutica delle fiaba mira alla descrizione e al potenziamento di un unico evento psichico estremamente complesso, che Jung definisce Sè, perseguibile tramite il processo di individuazione4.

Rifacendosi alla psicologia analitica junghiana, l’autrice sostiene che le fiabe consentono di studiare approfonditamente l’anatomia comparata della psiche in quanto esprimono in forma simbolica i processi dell’inconscio collettivo riproducendo alcuni modelli archetipici del comportamento umano. La von Franz abbraccia e condivide la tesi junghiana secondo la quale oltre ad un inconscio individuale che Jung chiama “inconscio personale” composto principalmente dai cosiddetti “ complessi a tonalità affettiva”, propri della vita psichica di ogni individuo, vi è anche un inconscio definito “ inconscio collettivo” dove risiedono gli archetipi, di cui la fiaba ne è pura espressione. L’inconscio collettivo può essere immaginato come un grande serbatoio comune e identico per tutti gli uomini che costituisce un substrato psichico universale di natura sopranaturale presente in ogni uomo. Con le parole di Jung: “un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non deriva da esperienze e acquisizioni personali e che è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto inconscio collettivo” (Jung, 1936, pp. 15-16). Ma che cosa sono questi archetipi di cui la fiaba ne costituirebbe un autentico riflesso?

Il termine archetipo (da archè, principio, origine, e typos, forma ma anche immagine) indica le “immagini primordiali”, esse sarebbero autoctone, capaci cioè di generarsi in forza autonoma, percepibili nella coscienza ma provenienti da una matrice inconscia comune a tutti i popoli. Il sé, al quale mira ogni fiaba, rappresenta l’archetipo fondamentale della psiche, l’obiettivo primario dell’intero corso della vita: la completezza umana, la compenetrazione delle forze opposte che da sempre influenzano il nostro comportamento. Marie-Louise von Franz definisce il Sè come “la totalità psichica dell’individuo, ma anche, paradossalmente, il centro regolatore dell’inconscio collettivo. Ogni individuo e ogni popolo vive a suo modo questa realtà psichica”(von Franz, 1969 p.2 ). La totalità psichica, di cui parla l’autrice, fa riferimento alle varie componenti che strutturano la personalità, esse devono essere integrate tramite il processo di individuazione, per poter raggiungere il Sè. Con il termine individuazione, si intende quel lento e quasi impercettibile processo di sviluppo psichico che conduce, nel corso della vita, verso l’unificazione e la fusione delle varie istanze dell’apparato psichico, che per la psicologia analitica junghiana sono:
– Io: il complesso centrale nell’ambito della coscienza, rappresenta la mente conscia – Ombra: è la parte inconscia della personalità caratterizzata da tratti e comportamenti che l’Io cosciente tenta di rimuovere o ignorare.
– Anima/Animus:secondo Jung, ognuno di noi porta in sé l’immagine dell’altro sesso, l’inconscio dell’uomo porta in sé un elemento femminile complementare e così dicasi per la donna che porterebbe un elemento maschile complementare.
-Persona (dal latino “maschera dell’attore”): si riferisce al proprio ruolo sociale, derivato dalle aspettative della società e dell’educazione.

Nei sogni, così come nelle fiabe, le varie istanze possono manifestarsi sotto forma di personaggi: l’anima, in quanto principio dell’eros, può venir rappresentata con immagini di donne che variano dalla prostituta e seduttrice alla guida spirituale (saggezza). Sono personaggi dai tratti effeminati, ipersensibili e talvolta melanconici, mentre i personaggi che incarnano l’Animus, essendo il principio del logos (razionalità), presentano caratteristiche di rigidità, intransigenza e spirito polemico. L’ombra si configura in quei personaggi più istintivi, selvaggi e primitivi, spesso nei sogni è rappresentata da una persona dello stesso sesso che sogna.

Nel volume “Le fiabe del lieto fine, Psicologia delle storie di redenzione” (von Franz, 1987), l’autrice sviluppa il concetto della storia a lieto fine attraverso la redenzione concepita come una liberazione, con la suprema possibilità di arrivare a conoscere e sviluppare il proprio Sè. Le fiabe non sono esclusivamente rilevatrici dello stato di salute psichica ma si propongono anche come metodo terapeutico, per ottenere un processo di guarigione, addestrando il soggetto all’individuazione, per raggiungere la percezione cosciente della propria e unica realtà psicologica, tenendo conto di potenzialità e limiti. Analizzando la struttura archetipica della fiaba, la psicoanalista svizzera scrive: “ al di sotto della superficie delle nostre vite quotidiane esiste uno strato della vita psichica dove gli eventi scorrono proprio come nelle fiabe. I grandi miti emergono e si sviluppano a partire da tale livello per poi ridiscendere nuovamente nel profondo dell’inconscio e trasformarsi in fiabe” (von Franz,1977 , p.22). In altre parole, le fiabe rappresentano gli archetipi in forma chiara e coincisa, offrendo preziosi contributi ed indizi per comprendere i processi che si attuano nelle psiche collettiva. Secondo la von Franz, l’interpretazione della fiaba non è altro che la traduzione della storia in un linguaggio psicologico. Il motivo e la ragione, che conducono a tale lavoro analitico, sono gli stessi che spingevano a raccontare fiabe e miti: l’effetto vivificante che se ne trae e la pace con il substrato inconscio istintivo che ne consegue. Attraverso il racconto è possibile leggere un processo personale e culturale: un tentativo di riconoscersi nelle fiabe. Nel suo libro Le fiabe interpretate (1969), l’ autrice arriva ad illustrare le fasi da seguire per una corretta interpretazione della storia archetipica. La fiaba per essere interpretata deve essere divisa nei suoi vari aspetti5:

1. Introduzione: l’introduzione più comune che generalmente si ritrova nelle fiabe è
“C’ era una volta…”. Questa formula indica una collocazione temporale e spaziale fuori dal tempo, in un non-tempo, in “nessun luogo dell’inconscio collettivo” (Ibidem, p.40).

2. Personaggi: contare il numero di personaggi all’inizio e alla fine può essere utile per cogliere un elemento archetipico della fiaba stessa: von Franz illustra l’esempio di reintegrazione del principio femminile, in un racconto dove all’inizio “il re aveva tre figli”, quindi va sottolineato che ci sono quattro personaggi e la madre assente. La narrazione, però, può finire con una disposizione diversa dei vari personaggi anche se il numero è invariato: il figlio, la sua sposa, la sposa del fratello e un’altra sposa, tre donne che erano totalmente assenti.

3. Esposizione o inizio del problema: all’inizio della storia vi sono sempre delle difficoltà, perché altrimenti non vi sarebbe la storia stessa, le crisi e le difficoltà vanno attentamente analizzate per centrarne il significato e captarne l’essenza.

4. Peripezia e Lisi: segue la peripezia che può essere una sola o molte e può durare anche parecchie pagine fino a giungere all’apice della tensione dopo la quale “avviene una lisi o, talvolta una catastrofe, una soluzione positiva o negativa, un esito finale”(Ibidem p.36)

5. Formule conclusive: dette anche “rite de sortie” per non rimanere nel mondo onirico dell’inconscio collettivo dove siamo stati condotti nel racconto della fiaba. Una caratteristica della conclusione in una fiaba che non troviamo in altri generi come miti e leggende è che essa alle volte può essere ambigua, cioè una conclusione felice seguita da un’osservazione negativa del narratore.

Per concludere la panoramica sui motivi fiabeschi di matrice junghiana portata avanti da Marie-Louise von Franz è utile illustrare alcuni personaggi con i relativi archetipi che rappresentano che possiamo trovare nelle fiabe. Ogni archetipo è scisso in due polarità opposte, tranne l’archetipo del vecchio sapiente (vecchio saggio) e della magna mater (la Grande Madre) che esprimono, il primo, la totalità del principio maschile e spirituale mentre, il secondo, la totalità del principio femminile e materiale. Il vecchio sapiente (vecchio saggio) che compare spesso come aiutante del protagonista è il più tipico archetipo dell’integrità dell’Io maschile, incarna il suo potenziale che gli fa cenno dal futuro ma soprattutto le sue forze vitali che vengono ad un compromesso con lo spirito cosciente. Quando esso compare nelle fiabe, indica un indizio della saggezza e della superiorità che l’individuo vorrebbe acquisire per sé, infatti esso compare quando il protagonista si trova in una situazione critica dove per poter uscire dalla situazione disperata necessita di attingere dalle riserve energetiche dell’inconscio per poter raggiungere lo scopo. La magna mater è l’equivalente del vecchio sapiente e presenta la totalità nella donna o la sua potenziale integrità. Non bisogna confonderla con quella parte del potenziale femminile che è la maternità.

Tra gli archetipi maschili possiamo trovare il personaggio del padre/orco, questa figura è la personificazione dell’autorità, della legge, dell’ordine, delle convenzioni sociali, oltre ad essere anche figura maschile protettiva. Questo archetipo nella polarità di orco simboleggia il padre oppressivo che tenta di manipolare la personalità in modo conformistico mentre al vertice opposto il padre buono che addestra il figlio al processo di individuazione. Il personaggio del giovane vagabondo o cacciatore è l’equivalente maschile della Principessa; dotato di giovinezza e gaiezza, ha in sé il seme della potenziale trasformazione nell’eroe e successivamente nel vecchio saggio, incarnando a tutto tondo i molteplici aspetti dell’Io; poiché egli è anche il Cercatore. L’aspetto del vagabondo rimanda a un personaggio privo di altre influenze se non quelle provenienti direttamente dal suo inconscio, il suo errare privo di obiettivi indica il rifiuto di diventare adulto rischiando così di rimanere un eterno fanciullo anche nella vecchiaia negandosi la condizione di uomo; l’aspetto del cacciatore simboleggia invece la passione piena di curiosità e di spirito avventuriero che contrasta con la pazienza, il sacrificio e la dedizione.

L’archetipo dell’eroe/cattivo raffigura l’audacia e lo spirito d’iniziativa dell’individuo. Se le attitudini di volontà e di potere di comando vengono esaltate ed estremizzate in tutti i campi possono sfociare in tendenze aggressive di natura antieroica facendo così emergere la parte negativa dell’archetipo, ovvero la figura del cattivo. Il cattivo rappresenta le radici dell’inconscio e questo archetipo ha una forte propensione all’egoismo che può portare alla megalomania, soprattutto se si trascura il versante emotivo.
La figura archetipica dell’imbroglione (o mago bianco) / (mago nero), è inafferrabile e alquanto complessa: i lati luminosi e quelli oscuri si compenetrano e sembrano molto meno differenziati che negli altri archetipi. Questa figura dapprima può essere utile ma diventare pericoloso in un secondo tempo (o viceversa). Tuttavia quando le difficoltà sono state affrontate e gli ostacoli superati, allora tutti gli sforzi avranno una ricompensa, qualunque cosa sia successa nel frattempo.
Anche gli archetipi che riguardano la sfera del femminile, come quelli maschili si presentano scissi in due polarità tra loro opposte uno tra i più comuni è quello della madre/madre terrificante (matrigna).

La polarità madre incarna l’aspetto materno e protettivo della donna: la creatrice del focolare, colei che dà cibo e rifugio mentre quella della madre terrificante è l’aspetto divorante, castrante e distruttivo della maternità che può anche sorgere in una madre comprensiva, iperprotettiva che inizia improvvisamente a minacciare la crescita, lo sviluppo e l’indipendenza dell’individuo, la madre che tiene i figli legati a sé con un amore e una dedizione abnorme può apparire anche in queste sembianze. Il personaggio archetipico della principessa/seduttrice, da una parte incarna le qualità eternamente giovani della spontaneità e del calore umano, mentre dall’altra incorpora l’immagine della fantasia erotica, la fatale sirena incantatrice e distruttrice di ogni autentico rapporto. L’amazzone/cacciatrice è l’archetipo che rappresenta le qualità intellettuali femminili dove nella prima metà compaiono tratti come la forte determinazione, tenacia, impegno e ambizione e nella seconda metà accanimento e frustrazione per le ambizioni irrealizzate. In ultima analisi, l’archetipo della sacerdotessa/strega indica, nella polarità di sacerdotessa, le qualità di saggezza, conoscenza, guarigione mentre nella polarità opposta di strega caratteristiche come la sensitività, l’estasi, l’occulto e l’extrasensoriale. Dopo questa descrizione non sarà difficile rintracciare molti personaggi tipici delle fiabe più note: il Re e la Regina, come Padre e Madre, l’Orco e la Matrigna, che rappresentano i loro aspetti negativi, il Principe (o Giovane) e la Principessa, la Fata (o sacerdotessa) e la Matrigna (strega), il Mago (Bianco) o lo Stregone (Mago nero), l’ Eroe e l’antagonista (il cattivo), il Vagabondo spesso rappresentato nella fiaba come il fratello minore disprezzato da tutti, l’eroina(o amazzone) e il suo aspetto negativo (la Cacciatrice o Assassina) e cosi via.

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1Con questo termine si intendono quelle fiabe legate alla tradizione orale e patrimonio del popolo che molti autori hanno raccolto e trascritto. Tra i trascrittori di fiabe di matrice europea più noti si possono citare: Charles Perrault (Francia) e i fratelli Grimm (Germania) e i più recenti Italo Calvino ( Italia), Alexander Afanosiev (Russia) e William Butler Yeats (Irlanda). Fra gli inventori di fiabe più celebri che non hanno trascritto fiabe popolari ma inventate di nuove riprendendo creativamente gli stilemi della tradizione popolare troviamo il danese Hans Christian Anderson, l’italiano Collodi e il britannico James Matthew Barrie.
2 La parola archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτυπος col significato di immagine: tipos (“modello”, “marchio”, “simbolo” e archè (originale). Nella concezione junghiana il termine viene usato per indicare le idee innate e predeterminate dell’inconscio collettivo.
3I bambini, soprattutto dai due ai sei anni, attribuiscono “vita” sia ad oggetti inanimati. Questa tendenza del fanciullo a considerare i corpi come vivi e dotati di intenzionalità, è stata definita da Piaget “animismo infantile”.
4 Il termine “individuo significa “non divisibile”. L’individuazione, secondo il pensiero junghiano, è il processo attraverso il quale l’individuo diventa se stesso, un essere umano intero e inscindibile. Esso tende alla realizzazione della totalità psichica e cioè dell’integrazione delle varie componenti della psiche: tale tendenza è espressione dell’archetipo del sé.
5Le fasi della struttura della fiaba sopraelencate sono tratte dal volume di M.L. Von Franz, Le fiabe interpretate, 1996.

La soglia di Susan Stewart

di Andrea Galgano             25 settembre 2014

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Susan Stewart Poet Writer Critic

Susan Stewart (1952) esprime la vitale vertigine di un nutrimento che attinge dal repertorio dei classici latini e greci e dalla coltre concettuale sedimentata dei poeti metafisici inglesi del Seicento, ma manifesta una pura e sostanziale ricerca espressiva che si sporge sulla conoscibilità del reale, sulla sua calorosa meraviglia e, infine, sulla concretezza che si fa immagine primordiale ed eco inscindibile.
Poetessa, membro dell’American Academy of Arts and Sciences, critico, traduttrice (ha tradotto l’Andromaca di Euripide), insegna storia della poesia ed estetica presso l’università di Princeton e nel 2005 ha ottenuto il titolo di Chancellor dall’Accademy of American Poets.
Il suo sguardo si afferma nella densità dell’essere. In essa la realtà emerge nella sua datità, nella sfrontatezza di una cosalità mai ridotta, ma vibrante nella profondità e nell’intensità di una «ambiguità instabile tra le profondità intime dello’io e, d’altra parte, il fondo misterioso della realtà che ci circonda, fino ad esiti solo apparentemente paradossali» (Antonio Spadaro):

«Lascia che ti parli del mio meraviglioso dio, di come si nasconda negli esagoni / delle api, di come la siccità che strofina le sue mani coriacee / sopra il mondo sia una sua creazione, così come la pioggia nei minuti silenziosi / che lasciano soltanto pensieri di pioggia. / Un atomo che lavora e lavora, un atomo che lavora nella notte / più profonda, poi esplode come la stella più lontana, molto / più piccolo di una puntura di spillo, molto più piccolo di uno zero che non ha / nessun desiderio, nessun desiderio verso di noi».

Scrive Roberto Mussapi:

«La Stewart […] restituisce un binomio di felicità visionaria e potenza rivelante su cui si innesta innanzitutto la poesia americana, e una dimensione metafisica, di origine europea, dove metafisico non indica una astratta speculazione nelle sfere celesti, ma la rappresentazione di realtà invisibili e incorporee attraverso immagini concrete, azioni, insomma la traduzione dell’ invisibile in visibile che è uno dei sogni e degli impulsi originari che muovono ogni artista. Come molti poeti americani del passato, è legata al mondo presocratico, vale a dire al pensiero greco delle origini, quando filosofia, cioè ragionamento logico, e poema, cioè cosmologia, canto della natura, si intersecano e a volte si fondono. Paesaggi, luoghi e figure elementari di un mondo percepito nel suo nascere: foresta, stelle, acqua, deserto, prato, lampo, rosa. Il mondo delle cose prime, rivelato dallo stupore del poeta che quanto più è immediato tanto è sapiente e sapienziale: «Io mi addormento in onore della pioggia, / in onore dell’inquietudine delle foglie, / e un gran fremito passa / sopra la terra; è la musica / del nostro dimenticare».

E ancora: «In Susan Stewart il mondo quotidiano, in cui la natura non è marginale ma onnipresente, si accende di lampeggianti rivelazioni, la vita è svelata in piccoli miracoli ininterrotti, continuamente celati nel mistero, cifra principe della realtà. Una poesia della soglia, continuamente al confine tra umano e divino, visione e meditazione filosofica. Immaginazione e pensiero trovano nella sua opera una formulazione nuova di un binomio cardinale della poesia d’Occidente». Pertanto il pieno brusio del suo magma cerca l’oscurità delle superfici, la sorgente primordiale e primaria di un luogo, «una fila di alberi, una fila di stelle. / Cercalo dunque: troverai che potresti perdere / il senso della profondità, / una foglia, un fascio / di carta, una federa / o una faccia / a forma di cuore, / un sibilo che infuria, / come i venti, come / la morte, in un groviglio / là nei rami».

È una danza avvinta che incontra i libri del buio («Buia la stella / fonda nel pozzo, / luminosa nell’acqua») e il silenzio muschioso, per premere contro l’oscurità, «andando più a fondo nell’acqua, nero nella nerezza, / la fonte dell’acqua che aspetta là, lontana sotto l’acqua / e l’acqua nera come carbone, / nera come qualsiasi cosa estratta dalla terra; / allora portala alla luce del giorno e schiarirà / ancora, trasparente nel bicchiere trasparente, invisibile / sulle mani, benedizione, / che scende, felicità che balena».
La grammatica delle sue linee ha radure luminose e sospensioni di anima. Il verso frastagliato, dislocato e franto condensa le punte iconiche della riflessione, della percezione del reale e del suo contrappunto esperienziale, quest’ultimo forgiato dall’intuizione e dall’immaginazione.
Il risveglio celebra la soglia dei contorni e la loro nitidezza condivisa, laddove la scena invernale e brinosa porge il suo nero solco impenetrabile.
Il dopo-immagine ghiacciato raccoglie il volo improvviso e nitido che precipita e discende, come un empito di fiato che unisce sacro e profano, nel suo sibilo che infuria, lasciando l’impronta di una notizia splendente e impossibile: eppure «la verità rimane / che non posso sapere solo quel che ho visto e se / viene ogni notte, ogni sogno, ogni stella o per niente». Il gufo, che in questo poema è, allo stesso tempo, invocazione, notturno ed esplorazione, – ossia «troubled-recognition topos», secondo la felice definizione di Randall Couch, diventa, come commenta Maria Cristina Biggio, «nell’istante della poesia e per sempre, meravigliosa creatura che sposa il paesaggio e redime il tempo-di-ora bloccato nell’attesa di fare “un sogno invernale”».
L’abbandono e la forza epistemologica della mobilita la sua ricerca di significato, si compromette con l’allungamento delle ombre e con la profondità della indeterminatezza dello slittamento della percezione visiva. Essa diventa, pertanto, il luogo della creatività e della fantasia, come finalità della forma.
In un’intervista rilasciata a Roberto Mussapi, su “Avvenire”, del 28 dicembre 2013, Susan Stewart traccia la sua vitale e meravigliosa stele poetica, affermando che

«La bellezza di ogni poesia è costruita sulla musica dei suoi suoni e intervalli misurati, sulla vividezza delle immagini, l’immediatezza e la tessitura del suo eloquio, e la sua evocazione di presenza. Le poesie sono vive, e la loro vita è più lunga di ogni nostra vita individuale. Il pensiero poetico è capiente, perché esalta non solo tutti i nostri poteri mentali (la ragione, l’immaginazione, le memoria e l’emozione insieme), ma anche i nostri ritmi fisici, il battito dei nostri cuori, il ritmo del respiro, gli occhi che si chiudono o si aprono. Nel leggere e scrivere poesia noi portiamo il nostro intero se stesso a significati condivisi. Come forma d’arte, la poesia ha valore in se stessa, il linguaggio attraverso il quale la poesia si compie non si esaurisce nell’esperienza o nei desideri del momento. No, la poesia vive oltre il contesto del suo farsi e la sua storia procede».

L’orbita immaginale e il colombario della sua anima lucente di buio fiutano e tentano di appropriarsi della vita piena e della sua realizzazione, come l’atto di fede che arreda la transizione e la liminalità. Esse interrogano, come scrive M. C. Biggio,

«l’idea di trascendenza (la luce, il volo, gli uccelli, le ali, le api, il vento, il “fuoco vivente”, il divino, la fuga, il paradiso, la bellezza lirica, il vorticare) e la realtà della discesa (l’oscurità, la cenere, il bruciare, la caducità, il radicato, il sotterraneo, il mondo fisico e i suoi elementi, ecc.). Sono motivi costanti anche la riflessione sul farsi e sulla forza epistemologica dell’invenzione poetica – capace di estendere la nostra imperfetta conoscenza del mondo e di tracciare una nuova mappa di mondi possibili rivelando il sacro e il misterioso di realtà trasfigurate dall’arte – e sull’ossimorica potenza della “memoria umana”, intesa come abisso, fondo incommensurabile in cui il tempo si fa quasi infinito nella vita breve e mortale dell’uomo che la possiede. Ad essi si accompagna l’interesse di Stewart per la perduta condizione edenica dopo la cacciata dei nostri mitici progenitori: il tema della caduta offre alla sua poesia la possibilità di farsi struggente ripetizione del giardino e, nel contempo, lamento dell’esperienza profondamente umana del limite, senza che in essa vengano mai meno né la capacità di confrontarsi con la tragedia e il male come parti del tutto, né la speranza e lo stupore per l’incommensurabilità dell’esistenza».

La poesia cerca l’ineffabile tangibilità e percepisce l’attesa e la lotta contro le soglie tenebre, l’osmosi dei passaggi, l’enigma, l’alchimia del linguaggio, per folleggiare «con il nonsense e l’ironia (intesa in senso romantico e in quello socratico di dissimulazione nella struttura discorsiva) per sottolineare il dubbio e l’incertezza che l’accompagnano, e che usa il mito come prezioso collante alle interrogazioni della cangiante e multiforme realtà. Per poter infine dire, al di là di quinte e sipari e con la più vasta gamma possibile di domini del reale, il favoloso mondo sognato in cui «nessuna morte è naturale» (Maria Cristina Biggio): «Una volta eri addolorato / e loro ti vennero incontro nell’aria bianca. / Entrarono in / una musica infinita, / il pavimento del tempio / era muschio calpestato. / Hai vegliato / per una fessura / nella pietra / che poteva aprirsi e / chiudersi liberamente, come / una mano. / Hai vegliato / nella verdezza mentre colmava l’aria bianca».
La densità ermetica della poesia di Susan Stewart si concentra sull’allusione, sull’incontro tra l’io e chi riceve, divenendo esplorazione d’infanzia e giovinezza del mondo.
La realtà si svela e compie il suo linguaggio e lo sguardo della Stewart, come visione binoculare, intuisce risvegli smossi, la nostalgia del passato trasferito e in transito, la frizione della vita e della morte e «tremare argento dell’elemento».
La sovrapposizione della memoria percorre le scapole della poesia in un contrasto metafisico e conoscitivo, vive di un trasalimento felice che illumina l’inizio per figurare la specificità dell’altro, ricalcarne le forme, conoscerne la fecondità.
L’erranza della materia, «Dove l’aria è intessuta di muschio che s’asciuga, / (in quel posto dove son cresciuta) la foresta in un groviglio, / un aroma di muschio dai funghi e dalle trine di muffe, / dolce-stellato andare, in un groviglio di rovi, di felci», permette di trapassare gli oggetti, di conoscere le stratificazioni, il limitare della foresta simbolica, che è «risorsa della natura, di tutto ciò che è oltre i fatti della storia, oltre i nostri concetti di spazio e tempo e le categorie e il nostro modo di conoscere e che, in quanto tale, precede la memoria e l’invenzione. La natura è l’indefinibile, l’illimitata risorsa al di sopra della quale la conoscenza si innalza – proprio come l’invisibilità sta al di là del visibile – non in senso mistico ma come un reale riconoscimento del limite dei nostri poteri analogo alla finitudine sancita dalle nostre morti individuali».
La chiarità e l’esatta precisione delle immagini di Susan Stewart si appropria delle trame e delle simmetrie dei giochi, come spostamento di forze (come lo spirito che vaga tra le foglie scosse di red rover) e ripiegamento svelato, riflessione sulle passioni e sui mali del mondo: «colui che si è riversato / nel suono, si è fatto parola del silenzio; / mandato in mezzo al tempo, si è fatto tempo che emerge. / Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce / e la paura assume i tratti dell’amore».
Fare precipitare la visione poetica tra le radici nascoste, lo stupore, gli abissi, tra le presenze vitali incise nella memoria fantasma e nella luce, nei vecchi dolori, è il genio dello scarto e della visione, situata nella «profonda mezzanotte del giorno e dell’anno».
Scrive ancora Maria Cristina Biggio:

«La Stewart accoglie, in una fantasmagoria di specchiata luce e ombra, le contraddizioni e i dubbi della realtà, allo stesso tempo accogliendo il progresso e l’avanzamento che nasce dal loro contrasto e scontro, lasciando entrare una variazione, formale e/o tematica nel verso ripetuto, che così slitta verso un significato di problematica discordanza, più cupo o perturbante che, appunto, disorienta il lettore […] Metafore e metonimia, metafore-metonimiche, giochi di parole e giochi con le parole […] sono la logica conseguenza di una metafisica instaurata con il senso (della vista, dell’udito, del tatto e di un senso vestibolare della vertigine o dell’equilibrio nell’attraversamento delle varie soglie), che viene poi necessariamente rappresentata in parole. Davanti all’eterno, all’invisibile, al non razionale, la parola umana prova a dire i cortocircuiti della razionalità, mentre il poeta sale e scende dalla mitica catena d’oro del linguaggio, tentando di avvicinare terra e cielo».

Persino il male, la caduta, il dolore diventano traccia meridiana ed eco di una possibile redenzione e di una nuova costruzione di mondo, come antifone che nominano e conservano le cose, come colonie perdute a punta di freccia e come litanie ripetute di uno shock ripetuto e continuo, che però non ha paura di richiamare i nomi di un mondo spezzato che riporta indietro il tempo, rallentato e pastorale (Elegia contro il massacro alla Amish School, west Nickel Mines, Pennsylvania, autunno 2006): « Lena, Mary Liz, e Anna Mae / Marian, Naomi Rose / quando il tempo si è fermato / dove il tempo ha rallentato / i cavalli portavano la pioggia. / Mary Liz, Anna Mae, Marian / Naomi Rose and Lena / le lanterne accese / nel buio mezzogiorno / nel processionale del dolore».
Il potere incantatorio del mito, laddove celebra la drammatizzata soglia dei vasti panneggi, va alla ricerca del linguaggio della memoria prenatale, celebra l’incisione dei luoghi e del tempo e, nelle sue prominenze lessicali, inscena una parola gravitata, «alla base immobile del mondo che gira», che non ammette eclissi, ma scava il suo sfioramento della visione presente, gli incontri trans temporali come riscrittura e connessione di qualcosa che non c’è ancora, ma trova la sua trama di inizi rianimati nel «sonno orlato di raso».

STEWART S., Columbarium, Ares, Milano 2006.
ID., Red Rover, Jaca Book, Milano 2011.
COUCH R., On the art of Susan Stewart (http://jacket2.org/article/art-susan-stewart)
MUSSAPI R., Quello stupore primordiale di Susan Stewart, in “Il Giornale”, 26 novembre 2014.
ID., Stewart, versi come atti di fede, in “Avvenire”, 28 dicembre 2013.
SPADARO A., Nelle vene d’America. Da Walt Whitman a Jack Kerouac, Jaca Book, Milano 2013.
BIGGIO M.C., Susan Stewart, due poesie (http://poesia.blog.rainews.it/2012/01/19/susan-stewart-due-poesie/)

La capacità a delinquere e la capacità criminale. III parte

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Terza Parte

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

 4 settembre 2014

Affinche si possa ben valutare capacità criminale di un soggetto è necessario prendere in considerazione alcuni requisiti. Del primo ne abbiamo già parlato nel precedente articolo (http://www.polimniaprofessioni.com/rivista/la-capacita-a-delinquere-e-la-capacita-criminale-i-parte/) ora passiamo ad analizzare gli altri.

IL MOVENTE.

Il secondo elemento affinchè ci sia la capacità criminale è il movente dell’azione criminosa compiuta.
Ad esempio, passando subito all’analisi giurisprudenziale dell’elemento, una recente sentenza della Cassazione Penale che ha fatto molto discutere è la numero 44480/2012, secondo cui, ” integra, infatti, il delitto di violenza sessuale anche il mero sfioramento con le labbra del viso altrui per dare un bacio, posto che tra gli atti suscettibili di concretizzare il reato de quo possono essere ricompresi anche quelli insidiosi e rapidi, riguardanti zone erogene su persona non consenziente.” 1
La sentenza richiamata è anche importante poichè riapre anche la questione della definizione di ” atti sessuali” ricomprendendone il semplice sfioramento delle labbra.
Sul punto che ci interessa, analizzando quanto sopra, si può ritenere che per gli atti sessuali, la giurisprudenza punisce “qualsiasi condotta che costituisca un’intrusione nell’altrui sfera sessuale, a prescindere dal movente e dalle finalità perseguite dall’agente.”
Questo perchè i giudici, spesso utilizzano il termine ” in modo atecnico.”2 riferendosi alle parti del corpo anatomiche ” che normalmente e notoriamente sono oggetto di concupiscenza sessuale e rientrano nella gamma della c.d. appetibilità sessuale.”
A tal proposito, parte della dottrina ha ritenuto che il giudice,per verificare la sussistenza dell’abuso sessuale, come nel caso di specie della sentenza in esame, non deve valutare solo le parti del corpo aggredite, ” non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite dal soggetto attivo e/o al grado di intensità fisica del contatto instaurato, ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva, esaminando la vicenda con un approccio interpretativo di tipo sintetico, volto, cioè, a desumere il significato della violenza sessuale da una valutazione complessiva di tutta la vicenda sottoposta a giudizio.”3

I PRCEDENTI DEL REO.

Prendendo in considerazione il soggetto di cui deve essere valutata la capacità criminale, vanno valutati i comportamenti precedentemente assunti dal soggetto: le precedenti condanne e i precedenti giudiziari, come anche gli eventuali fatti amnistiati, le aasoluzioni per prescrizione, per mancanza di querela o remissione, per non provata reità.4
IL COMPORTAMENTO CONTEMPORANEO E SUCCESSIVO AL REATO.

Si prende in considerazione il fatto che un soggetto ha l’inclinazione a compiere un delitto tanto maggiore quant’è l’efferatezza, il cinismo, la disinvoltura, la ferocia, la capacità di seviziare la vittima.
Utile ed importante è anche considerare l’atteggiamento posteriore al reato, valutandone l’indifferenz anei confronti della vittima, sentimenti di soddisfazione per il suo gesto, di mancanza di preoccupazione nel riparare il danno.
Potrebbe capitare la situazione in cui un soggetto, si autodenunci e confessi: un punto che va valutato come minor capacità criminosa del soggetto solo se deriva da vero pentimento.

IL CARATTERE DEL REO.

Importante è valutare e considerare la psiche del reo.
Valutare ciò è utile per comprendere la capacitàcriminale, ossia la capacità di determinazione.
Non è da pensare che questio elemento sia un semplice segno rivelatore ma è molto più importante poichè è la base stessa dell’attitudine.5

L’AMBIENTE.

Valutare l’ambiente in cui un soggetto mette in atto la sua capacità criminale, scsaturisce dalla littera legis dell’articolo 133 del codice penale, comma 1, numero 1, che prevede testualmente che ” il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione.”

STRUTTURA ANALITICA DELLA NORMA.

Nonostante la struttura analitica dell’articolo 133 del codice penale, il quale prende in considerazione tutti i requisiti di cui sopra esposto e spiegato, parte della dottrina ritiene che ” la norma manca di indicare i criteri finalistici sottesi, nel senso che non è chiaro se la gravità del fatto e la capacità a delinquere vadano interpretate in chiave retributiva ovvero specialpreventiva. Si tratta di uno snodo dottrinale rilevante, stante la polivalenza dei termini utlizzati, ancora fortemente dibattuto. Secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, la soluzione starebbe nei binomi retribuzione-gravità del reato e specialprevenzione-capacità criminale.”6
Altri sostengono che ” la chiave di volta dell’art. 133 c.p. risiede non tanto negli indici fattuali quanto nei criteri della gravità del reato e della capacità criminale.”7
Un accetto va debitamente posto circa l’ampia discrezionalità lasciata al giudice nel determinare la pena, legata forse all’impossibilità, secondo alcuni, da parte del legislatore di richiamare tutti i casi che possano verificarsi.8
Un aparte di dottrina ritiene questa elencazione minima della norma, ” ” residuo irrazionale” nell’attività del giudice, seppure ineliminabile, vista la normativa sulla determinazione della pena vigente nel nostro ordinamento, non sia ” efficacemente circoscritto”9

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE NUMERO 299 DEL 1992.

Sulla questione su esposta si è espressa la Corte Costituzionale, ritenendo che l’articolo 133 del codice penale, “specifica quali sono i connotati oggettivi e soggettivi del singolo caso dei quali il giudice può e deve tener conto per determinare la sanzione concreta e quali sono gli elementi dai quali egli può desumere le relative valutazioni. E la determinazione legislativa del minimo e del massimo della pena irrogabile per ciascun tipo di reato non rappresenta soltanto un limite alla discrezionalità giudiziale, ma costituisce anche un indispensabile parametro legislativo per l’esercizio di essa, un criterio guida senza il quale il potere così riconosciuto al giudice non sarebbe riconducibile al principio di legalità.
Mediante la determinazione legislativa del minimo e del massimo di pena, infatti, il compito che viene assegnato al giudice è quello di “proporzionare” la sanzione concreta non già al proprio giudizio di disvalore sul fatto previsto dalla legge come reato, ma alla scala di graduazione individuata dal minimo e dal massimo edittali, tenendo conto della volontà del legislatore di comminare il minimo a quelli, tra i casi riconducibili alla medesima fattispecie astratta, che siano connotati da minor gravità e presentino minori indici di capacità a delinquere, e di comminare, d’altra parte, il massimo edittale ai casi che, in base agli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., rivestono maggior gravità ed in cui siano ravvisabili indici di maggiore pericolosità personale.
La predeterminazione legislativa del massimo di pena irrogabile per un determinato tipo di reato costituisce quindi un requisito essenziale affinchè la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovi nella legge il suo limite e la sua regola e non si traduca, invece, in arbitrio.
Il principio di legalità della pena escluderebbe pertanto la legittimità costituzionale di reati a pena massima indeterminata: tant’è che tale ipotesi non ha modo di verificarsi nel nostro ordinamento, dato che – ove la specifica norma sanzionatoria non indichi il massimo edittale, si deve intendere che essa faccia riferimento alla durata massima prevista in via generale, per le singole categorie di pene, dagli artt.23-26 cod. pen. e 26 cod. pen. mil. di pace.
Ma il principio di legalità richiede anche che l’ampiezza del divario tra il minimo ed il massimo della pena non ecceda il margine di elasticità necessario a consentire l’individualizzazione della pena secondo i criteri di cui all’art. 133 e che manifestamente risulti non correlato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta. Altrimenti la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale in potere arbitrario.”10

______________________________

1 C. Cass. Pen., Sez. III, 26/09/2012, n. 44480. 2massimo della pena non ecceda il marg

2 Palumbieri, Introduzione, in Cadoppi (a cura di), I reati contro la persona. III. Reati contro la libertà sessuale e lo sviluppo psico-fisico dei minori, Milano, 2006, 53.

3 Fiandaca, voce Violenza Sessuale, in Enc. dir., Agg., vol. IV, Milano, 2000, 1153 ss.

4 F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale,Giuffè, 1989, 567.

5 F. Antolisei, op.cit.,Giuffè, 1989, 568.

6 http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/titolo-v/capo-i/art133.html

7 B. Cruccolini, in F. Palazzo, Corso di diritto Penale, Giappichelli, 2005.

8 F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, in Scritti di diritto penale. Opere monografiche, Milano, 2000, p. 100-101; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale , Parte generale 5° Ed..Zanichelli, Bologna, 2007. 742.

9 Dolcini, La commisurazione della pena, p.72.

10 C. Cost. 24/06/1992, n. 299.

La rilevanza della letteratura nella formazione dello psicologo

di Andrea Galgano             7 luglio 2014

*intervento alla Prima Conferenza Internazionale di Psicologia Dinamica, Cenacolo di sant’Apollonia, Firenze, 27-28 ottobre 2012

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de chirico

Un buon libro lascia al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale. Quando la letteratura è al suo apice ci sembra che d’improvviso ricordiamo qualcosa d’importante che sapevamo ma abbiamo scordato.

O.Lagercrantz, da L’arte di leggere e scrivere

In un breve scritto dal titolo Poesia, filosofia, psicoanalisi Umberto Saba afferma che una persona «guarita dalla psicoanalisi non scriverebbe più poesie, neanche qualora avesse sortito dalla nascita il felice ingegno di Dante»[1]. Secondo Saba, e Rilke più tardi,  l’attenuazione del narcisismo, la cancellazione dei demoni, perseguita dalla psicoanalisi, attenuerebbe anche la fecondità e la fertilità poetica.

Ma se ogni poesia, come direbbe Wittgenstein, può assurgere a gioco linguistico e una moltiplicazione delle regole del linguaggio, ecco che determina un «arrest of disorder», ossia una sospensione del disordine, come si rinviene nelle affermazioni del grande poeta americano Robert Frost, in un’intervista con John Ciardi (1959). Altrove, in un altro passaggio, Frost si rivolge al legame che nasce tra autore-poeta e poesia, che prende forma durante il processo figurativo:

Se è una melodia selvatica, allora è poesia. Il nostro problema quindi, come moderni astrattisti, è di raggiungere la selvaticità pura; essere selvaggi con nulla, essere selvaggi verso qualcosa. Ci solleviamo come aberrazionisti, cedendo ad associazioni indirette e facendoci scalciare in ogni direzione dalla possibilità di un’associazione all’altra, come una cavalletta in un caldo pomeriggio. È solo il tema che può mantenerci fermi. Così come il primo dei misteri è il modo in cui una poesia può avere una melodia dentro la piattezza della metrica, così il secondo è come una poesia può essere selvatica e, al tempo stesso, avere un soggetto da soddisfare. Sarà il piacere che ci dà una poesia a dirci come questo sia possibile. La figura che una poesia crea.

E ancora:

Comincia in gioia, si inclina verso l’impulso, con il primo verso assume direzione, percorre un tragitto di eventi fortunati e finisce in una chiarificazione della vita – non necessariamente una grande chiarificazione, come se ne trovano nelle sette e nei culti, ma in un momentaneo riparo dalla confusione. […] È solo una poesia truccata, una poesia che non è tale, se la parte migliore è stata pensata prima e serbata per la fine. (Frost, 1939, p. 440)[2].

È l’indizio di una sospensione del disordine, non un’illuminazione che tutto chiarifica e che tutto rende ampio.  I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano le relazioni tra cervello e linguaggio, considerano la poesia uno degli eventi del cervello, che, per così dire, costruisce la realtà in cui viviamo. Hans Magnus Ezensberger, in Omaggio a Gödel, , scrive:

«Teorema di Münchhausen, cavallo, palude codino/ è una delizia, ma non dimenticare: / Münchhausen era un bugiardo. / Il teorema di Gödel a prima vista appare / poco appariscente, ma rifletti: Gödel ha ragione. / «In ogni sistema sufficientemente complesso si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili, / a meno che il sistema/ non sia di per sé inconsistente». / Puoi descrivere la tua lingua/ nella tua propria lingua: ma non del tutto./ Puoi analizzare il tuo cervello/ col tuo stesso cervello: ma non del tutto. Ecc. / Per giustificarsi / ogni sistema pensabile / deve trascendersi, / ossia distruggersi. / «Sufficientemente complesso» o no: / la libertà di contraddire / è un fenomeno di carenza / o una contraddizione. (Certezza = inconsistenza). / Ogni pensabile uomo a cavallo, / quindi anche Münchhausen, / quindi anche tu, è un sub sistema / di una palude piuttosto ricca di sostanze. / E un sottosistema di questo sottosistema / è il proprio codino, / questa specie di leva / per riformisti e bugiardi. / In ogni sistema piuttosto ricco di sostanze / quindi anche in questa palude, / si possono formulare frasi / che all’interno del sistema / non sono né dimostrabili né confutabili. / Prendile in mano, queste frasi, / e tira!»[3].

Nella loro attività la poesia e la letteratura condividono la funzione terapeutica del linguaggio, la sua forza, il suo orientamento, la sospensione del disordine, appunto, per cui, come scriverà Paul Celan, nel suo «cristallo di respiro», luogo cercato, forma racchiusa di una testimonianza mai rinnegata e irrefutabile: «In fondo / al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile / testimonianza»[4].

La poesia nasce in un segno fragile e solenne e nella perfezione del cristallo dà forma al silenzio, toglie fiato e parola, ma, allo stesso tempo, offre il suo itinerario umano, la sua tensione. Avere un ritmo nella lingua, che ostinatamente, si muove alla ricerca del punto fermo del mondo, sollecita maggiormente l’interesse e l’impulso del clinico, per il contatto con i sogni, la memoria, i ricordi e la conoscenza, in quel che James Hillman chiamava la «base poetica della mente»[5].

Nello spettacolo del reale, per accedere al simbolico, il poeta deve saper trasformare, separando con la sua attitudine povera e ricca allo stesso tempo, il reale dal fantastico. È nel preconscio che avviene questo lavoro di commutazione.

La parola diviene la traccia di un’apertura, che attraverso la scrittura, transita nel confine tra dicibile e non detto, rivelazione e ignoto. Perché il poeta, con le sue ossa spezzate in segreto, prima di rivelarsi in pubblico (Baudelaire), è, per usare le parole di Josif Brodskij «qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».

Per indagare il mondo e i suoi oggetti, e salvare il «volto comune di ciascuno individuo», egli usa il linguaggio, le sue vaste campiture e le sue potenzialità. La parola rappresenta uno degli spazi di salvezza del bene della individualità e della personalità.

Nel frammento noto come Il primo programma sistematico dell’Idealismo tedesco, del 1795-96, Hölderlin, Hegel e Schelling attribuiscono alla poesia la missione di preparare il regno della libertà, con i suoi dispiegamenti individuali, i destini che trasformano e incarnano la loro precipua singolarità, i loro demoni. Parlano di religione del sensibile, caratterizzata da ciò che Giorgio Antonelli chiama «monoteismo della ragione e del cuore e politeismo dell’immaginazione dell’arte».[6]

Il farsi della poesia e dell’analisi conduce l’epifania degli dei a manifestarsi, a rivelare la loro intima natura, in ciò che Coleridge chiama co-adunaton, come l’immaginazione che si presentifica, offrendo la sua sponda silente. La teo-epifania di Rilke, Yeats, Pound è esibizione materica di una lunga e inevitabile arsi interiore.

Scrive Angelo Maria Ripellino nella sua nota a Sulla Poesia di Osip Mandel’ŝtam

Come il Pasternak del Salvacondotto, anche Mandel’ŝtam punta tutto sulla metafora, accostando in misture inattese opposti campi semantici, rendendo tangibili con virtuosistici intarsi di abbaglianti similitudini e suoni, gli odori, le «meraviglie» dei versi altrui, dei paesaggi, di eventi lontani e dell’ambiente giudaico della sua infanzia. Per cogliere l’identità delle cose distanti, egli tende la vista «come un guanto di pelle di daino» (e riesce così a percepire e ad immettere nella densissima sigla d’una metafora tutto quello che sta fuori campo, attorno al punto focale, il contiguo), quasi il suo sguardo, asimmetrico come gli occhi di certi pesci, potesse simultaneamente imbricare differenti assi ottici.[7]

Gli fa eco il grande poeta francese Yves Bonnefoy, citato da Armando Massarenti, in un interessante articolo de “Il sole24 ore” del 16 luglio 2011:

A ogni istante due vie s’aprono nel cuore della parola; e la poesia si decide a questo bivio: essa deve lasciare la grande biblioteca, andare sino allo sprone che s’inoltra tra cielo e terra, e continuare ancora, più lontano, declinando verso appuntamenti dello sguardo ove s’accoglie ancora il calore appena mitigato della notte d’estate.[8]

L’intensità della parola poetica costruisce i circuiti neuronali più solidi, sostanziali e profondi, e  ci parla del carattere sempiterno dell’espressione poetica, che, nella sua concretezza e ricchezza, come testimoniato anche da un recente saggio in tedesco del neuropsicologo Arthur Jacobs e del poeta Raoul Schrott[9], può offrire un valido strumento di analisi e indagine nelle strutture interne del paziente. La lettura di sostantivi, verbi e aggettivi (guerra, nazismo, torturare, distruggere, morto) e positivi (amore, libertà, ridere, baciare, grandioso) provocano la modificazione opposta delle pupille, della frequenza del polso e del colorito della pelle, mentre parole ad alto tasso emotivo possono rallentare la lettura.

Leggere e ascoltare permette di trasmettere ai centri cerebrali, segnali visivi e acustici che arrivano alla coscienza con un significato, un ritmo, un senso, un’immagine. Una poesia può esprimere l’intensità di ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, un romanzo o una novella e persino un racconto (si pensi allo sguardo sulla nevrosi americana di John Cheever) possono entrare nel magma vitale più di qualunque testimonianza. L’intensità dei centri dell’affettività sollecitati ne è fervida conferma. Scrive il poeta americano Mark Strand in un suo elzeviro:                                                                             

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. (…) Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.[10]

La letteratura, esperienza di lingua accesa, spesso ai margini della formazione e della professione psicologica, crea uno spazio di incontro in cui le individualità si sentono e in cui si sperimentano le gradazioni affettive dell’uomo, esplorate precipuamente da Dostoevskij ad esempio, nelle cui opere emerge il mistero insondabile dell’uomo, il suo essere una creatura in perenne confine tra bene e male, paradiso e inferno.[11]

Ne Il Sosia egli, ad esempio, descrive l’inizio di una psicosi, il senso di una alienazione, mai altrimenti visibile, afferrato da un nuovo sistema sconosciuto e ignoto.

Dostoevskijj parla dell’uomo all’uomo, affascina e reca timore e tremore, poichè raggiunge, anche nel buio e nelle tenebre, la positività ultima del reale, il suo disegno umano e divino e la sua grazia potente.[12]

L’esperienza poetica consente il ristabilimento di un rapporto con la realtà. Tale attività risulta, pertanto, decisiva, come  scrive T.S.Eliot, a portare in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi al visibile e toccabile, verso un’alterità, misteriosa e infinita, che esprime il punto di fuga della nostra esperienza avventurosa.

L’esperienza della poesia si dà innanzitutto come incontro. Qualcosa di nuovo, di sconosciuto e forse di insolito entra a contatto con la nostra vita. Anzi qualcuno, una persona nel momento in cui esprime una sua urgenza. Può tratatrsi di qualcuno che non conosco affatto, o solo per nome (come certi autori ‘famosi’), o di cui ho già letto qualcosa. Potrebbe essere addirittura un vecchio amico, che, però, fermandomi in quel modo lungo il corso, di fatto chiede di essere reincontrato di nuovo. Ogni incontro, ogni testo letto per la prima o la millesima volta è, di fatto, un avvenimento nuovo nell’ambito di ciò che ha costituito fino a quel momento il retroterra e l’orizzonte della mia conoscenza e della mia esperienza.[13]

L’esperienza della poesia è legata allo stupore di fronte alla presenza dell’esistenza, uno stupore che si attesta sul riconoscimento di qualcosa d’altro che, per così dire, compie il reale, fino al suo punto infinitesimo che è l’io. Leopardi in un appunto dello Zibaldone dell’agosto 1823, descrive la coscienza di un’attitudine poetica autentica

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’é minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sí piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere[14]

Ecco il movimento della poesia, come segno di non contraddizione, come gesto ineliminabile dell’uomo, nel riconoscersi «quasi nulla» prediletto dall’essere, che gli ha dato la possibilità di abbracciare tutto con stupore vero.

Il suo avvenimento aiuta a giudicare in modo più umano la vita, riconoscendo l’adeguatezza del suo rilievo. L’incontro con questa materia viva permette una com-prensione, salva la possibilità di un’esperienza adeguata del mondo, introduce a un altro avvenimento e permette, infine, il giudizio che la realtà esprime su di sé.

A poco più di vent’anni nel 1938, Mario Luzi e poco prima T.S.Eliot,  notavano come il presupposto della poesia moderna fosse una sorta di disincanto deluso verso l’esperienza del visibile. Far emergere in superficie le reazioni della nostra personalità dinanzi a ciò che è visibile e toccabile è il suo dono, il suo crinale più vero.

Lo scopo della poesia e della letteratura, in senso lato, è esprimere la realtà della vita e suggerirne la conoscenza in modo non pregiudicato. Una tensione che spinge a trovare il legame di forme e parole più adeguate alla realtà che si intende comunicare, per mettere a fuoco il mistero della verità che ci tocca e ci rende vivi, suscitando, da un lato una risonanza personale, dall’altro una rievocazione intertestuale. La memoria viene sollecitata, come una sorta di esperienza primordiale, come scrive J.S. Bruner, secondo il quale i generi letterari «sono espressioni convenzionali di rappresentare le vicende umane, ma sono anche modi di raccontare che ci predispongono a usare la nostra mente e la nostra sensibilità in un senso particolare»[15]

L’intuizione di Vygotskij (1930 circa – 1978) sulla natura culturale e sociale delle «funzioni psicologiche superiori» e del carattere “mediatore” di strumenti e segni, per cui le funzioni cognitive “superiori” tendono a svilupparsi attraverso attività compiute come il linguaggio, la scrittura, ad esempio, divengono strumenti cognitivi che forniscono un meccanismo formale, per padroneggiare i processi psicologici, ha trovato eco nelle rielaborazioni di Bruner (1965) sugli strumenti intesi come “amplificatori culturali” o al modello dell’intelligenza adattiva di Olson (1976), fino a Michael Cole.

Cole (1994, 1995, 1996), riprende la configurazione triangolare tra individuo e ambiente di Vygotskij, per applicarla al processo di lettura, ridefinendone la relazione  fra mente e cultura e il carattere intersoggettivo e contestuale della cognizione, poiché

«gli esseri umani si distinguano dalle altre creature per il fatto che essi vivono in un ambiente trasformato dai prodotti (artefacts) delle generazioni precedenti, sin dagli inizi della specie […], la cui funzione fondamentale è quella di coordinare gli esseri umani con l’ambiente e fra di loro».[16]

In uno studio del 1994 di R.W.Gibbs[17] è emerso che la mente umana è modellata non solo da processi poetici o figurati, ma le stesse figure retoriche, scheletro di ogni componimento,  costituiscono gli schemi attraverso cui gli uomini concettualizzano la loro esperienza quotidiana e “il mondo esterno”. L’amore, ad esempio, come scrive in un interessantissimo articolo Laura Messina[18]

sembra che nella cultura occidentale sia concettualizzato attraverso un limitato numero di metafore, tra cui, più frequenti, “amore è una forza naturale”, “amore è un’unità”, “amore è una risorsa preziosa”, “amore è insania”, “amore è calore” Da queste metafore può derivare un numero pressoché infinito di espressioni che è possibile rendere in modi più o meno creativi. Ciò che solitamente viene inteso come un’espressione creativa di una certa idea in una poesia, (…) è spesso solo una sorprendente instanziazione di specifiche strutture metaforiche, che derivano da un limitato set di metafore concettuali condivise da molti individui all’interno di una cultura. Alcune di queste instanziazioni sono il prodotto di un pensiero altamente divergente, flessibile, ma la loro esistenza è determinata da “soggiacenti schemi di pensiero che limitano, o addirittura definiscono, i modi in cui pensiamo, ragioniamo, immaginiamo”.

Il gesto poetico, non solo contribuisce a una accensione a una tensione infinite, ma sono l’indizio di una esperienza e di un nome alle cose e alla pienezza del reale.

Eugenio Montale descrive il rapporto di associazione  di vita-arte-vita  come un  «pellegrinaggio attraverso la coscienza e la memoria degli uomini, il suo totale riflusso alla vita donde l’arte stessa ha tratto il suo primo alimento»[19]

La creazione delle immagini, che portano scritto «più in là», rappresentano la traiettoria di una domanda e di una visione dei propri desideri costitutivi, l’intuizione dei modi con cui si educa a vedere la realtà come segno. Pur in ogni variabilità individuale, guardare la realtà come segno, ci porta a sostare, riflettere, trattare le persone con prospettiva umana e a non smettere mai di indagare, con cura e stima, il «misterio eterno dell’esser nostro».

L’arte risulta allora una lente particolare in grado non solo di osservare  la realtà, ma di analizzarla e di elaborarla, definendone le prerogative e i limiti e realizzando una vera e propria Weltanschauung.

L’opera d’arte  rappresenta, quindi, l’esito di un processo inconscio che acquista senso plastico e bellezza nelle immagini e nei simboli, e scaturendo da profondità, diversamente, insondabili.

Sklovskij, infatti, afferma che l’arte esiste «per risuscitare la nostra percezione dell’esistenza, per rendere sensibili le cose, per fare della pietra una pietra. Il fine dell’arte è di darci la sensazione delle cose così come esse vengono percepite, non così come vengono conosciute. La tecnica dell’arte consiste nel rendere gli oggetti strani, complicare le forme, accrescere la difficoltà e la durata della percezione, perché il processo della percezione ha un fine estetico in sé e per sé e deve essere protratto (1917)»[20].

Analogamente, la riflessione di Jung[21] penetra sì la personalità creativa dell’artista, portatore di un disagio e di una peculiarità non comune,  ma lo riconosce capace di attingere dalle risorse primordiali e originarie dell’umanità e di offrire la possibilità di un superamento della dimensione della sofferenza psichica.

La forza delle immagini primordiali, si pensi a tal proposito alle delicate e vitali immagini della fanciullezza leopardiana, germinano l’opera d’arte, come una sorta di “complesso autonomo” che esprime la sua forza di espressione, imponendosi alla coscienza.

Nell’introduzione del suo saggio, qui preso in esame, Jung assegna alla psicologia i compiti di chiarire «la struttura psicologica dell’opera d’arte» e le «condizioni psicologiche che creano un’artista».

L’intuizione poetica permette di cogliere la strada verso l’ignoto, le lande occulte, il notturno dei voli e dei volti, risale alle figure mitologiche, la primigenìa di un enigma e la pienezza delle sue visioni: «In opere d’arte di questo tipo (che non si debbono mai confondere con la persona dell’artista) è indubbio che la visione è un’autentica esperienza primordiale, checché ne pensino i razionalisti. Non è cosa derivata, secondaria, sintomatica, ma simbolo vero, cioè espressione di un’essenza sconosciuta».[22]
Secondo Jung è possibile rintracciare tali visioni in un nutrito elenco di opere, tra cui Hoffman, Dante, Blake, Goethe. Tutte culminano in un confine quasi epocale, in quanto espressioni larghe del genio profetico e del suo disvelamento:

Perciò il Faust tocca una corda presente nell’anima di ogni tedesco […], perciò la gloria di Dante è immortale e il Pastore di Erma è diventato quasi un libro canonico. Ogni epoca ha le sue unilateralità, i suoi pregiudizi e il suo malessere psichico. Un’epoca è come la psiche del singolo, ha la sua limitata specifica situazione cosciente e ha perciò bisogno di una compensazione; questa le è fornita dall’inconscio collettivo; di modo che un poeta o un veggente esprime l’inesprimibile della sua epoca e dà vita, nell’immagine o nell’azione, a ciò che tutti attendevano, nel bene o nel male, per la salvezza di quell’epoca o per la sua rovina[23].

La formazione intellettuale di Jung inizia con la lettura della Bibbia di Lutero; poi continua con i testi di teologia, ma trova nel Faust di Goethe, un orizzonte possibile di richiamo e di domanda

La sua lettura fu per la mia anima come un balsamo miracoloso “Ecco finalmente” pensai “qualcuno che prende sul serio il diavolo, e conclude persino un patto di sangue con lui – con l’avversario che ha il potere di frustare il proposito di Dio di fare un mondo perfetto” […] Finalmente avevo trovato conferma che vi erano, o vi erano stati, uomini che vedevano il male e il suo potere universale, e – cosa più importante – il compito misterioso che esso ha nel liberare l’uomo dalla sofferenza e dalle tenebre. Pertanto Goethe diventò, ai miei occhi, un profeta.[24]

 

«In qualche luogo c’era una volta un Fiore, una Pietra, un Cristallo, una Regina, un Re, un Palazzo, un Amante e la sua Amata, e questo accadeva molto tempo fa, in un’isola nell’oceano cinque mila anni fa… Questo è l’Amore, il Fiore Mistico dell’Anima. Questo è il Centro, Il Sé…”.

Jung parlava come se fosse in trance.

“nessuno comprende ciò che voglio dire; soltanto un poeta potrebbe iniziare a comprendere…”.

“Lei è un poeta”, dissi, spinto da quello che avevo udito»[25]

Lo studio della psichiatria rappresenta, pertanto, il trait d’union fra la scienze naturali e quelle umanistiche. Si pone l’obiettivo di conoscere l’uomo e le sue relazioni, deviazioni[26] e tensioni.

Una psicologia che non si riduca a psicofisiologia deve attenersi a «ciò che significa esser uomo»[27], alla sua presenza nell’originario essere-nel-mondo.

Anche l’aspetto psicoanalitico che ha interessato le caratteristiche precipue della psicologia della letteratura[28], da Petrarca, a Borges, fino al teatro quale psicodramma e al «ruolo modulare dell’immaginazione», sta piano piano facendo emergere una sintesi attenta di alcune dinamiche di studio, che qui brevemente abbiamo enunciato.

Gli artisti sembrano precedere gli psicologi nei territori profondi della psiche. In alcune pagine di uno dei romanzi più intensi, sebbene incompiuto, di Hugo von Hoffmansthal Andrea o i ricongiunti[29], nel quale si sviluppa una sorta di immaginario che si spinge fino a frequentare il linguaggio dell’invisibile e nell’ignoto che appare, o  ne I quaderni di Malte Laurids Brigge[30], come nelle rabdomantiche e oscure Elegie Duinesi[31] di R.M.Rilke, è possibile rintracciare dense strutture di significato, altrimenti difficilmente distinguibili dalle esperienze psicotiche in senso stretto.

Karl Jaspers in un suo famoso saggio Psicopatologia generale[32] ha affermato che non esistono né psicologie né psichiatrie degne di questo nome, che non cerchino confronti e correlazioni in modo permanente con analisi, ricerche, letteratura, narrativa, poesia e creazioni, che abbiano la capacità di rendere meno drammatico il solco interrotto e, per così dire, bruciato, che separi l’anima, la conoscenza della vita affettiva e la disperazione degli altri.

L’esperienza letteraria, come si evince dagli ultimi acutissimi studi di Eugenio Borgna[33], può permettere l’uscita dalle separazioni delle discipline e una prova di indagine incisiva e profonda tra noi e coloro che ci chiedono aiuto.

I testi letterari riescono a farci comprendere come gli enigmi dell’esistenza possano trovare un varco segreto e un trasloco, attraverso la frequentazione assidua e piena di soste della coltre poetica.

L’apertura umanistica nei confronti del paziente, della sua “mitologia” personale e del suo romanzo autobiografico, trova negli strumenti letterari e poetici il riflesso, non solo di grandi stati d’animo e di grandi angosce, ma soprattutto di altezze estreme, anche perchè, come scriveva la grande scrittrice americana Flannery O’Connor: «Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso».

La ribellione e la fiamma contro ogni cosificazione di studio e prassi, permette a tutti coloro che si accingono a rapportarsi all’altro, di sostenerne la fragilità, la debolezza radente e coglierne i particolari singolari.

Occorre, infatti, ciò che Simone Weil chiamava l’ «educazione all’intuizione», affinchè ogni terapia possa permearsi di una conoscenza profonda e maggiormente incisiva.

Il rapporto con il testo non tende a una “psicoanalisi” dell’autore, non cerca di sollevarsi dal perimetro ampio e vasto della sua narratività, ma grazie al solco vivido di una lingua accesa, consente un ulteriore contributo, talvolta decisivo, alla comprensione del paziente, alla sua peculiare esperienza esistenziale e comportamentale e alle sue istanze originarie. L’incontro costituisce l’inizio di tutto:

L’avventura incomincia quando la persona è destata dall’incontro […]. E l’avventura è lo sviluppo drammatico del rapporto tra la persona risvegliata e la realtà intera da cui essa è circondata e in cui vive[34]

perché

Quanto più uno ama la perfezione nella realtà delle cose, quanto più ama le persone per cui fa le cose, quanto più ama la società per cui fa la sua impresa, di qualunque genere, tanto più è per lui desiderabile essere perfezionato dalla correzione. È questa la povertà del nostro possedere le cose, che in ogni lavoro, in ogni impresa rende l’uomo attore, artefice, protagonista.  Ma libertà vuol dire anche, oltre che coscienza del proprio limite, impeto creatore. Se è rapporto con l’Infinito, essa mutua dall’Infinito questa inesausta volontà di creare. […] Tutto è correggibile e tutto deve essere creabile. Questo istinto creatore è ciò che qualifica la libertà in un modo più positivo e sperimentalmente affascinante.[35]

L’immagine poetica, nella sua funzione prima espressiva (ossia le immagini mentali e le forme del pensiero e del linguaggio) e poi elaborativa (ossia il generare immagini impresse), esprime il valore conoscitivo del logos, che non si situa nell’astratto, ma vive della concretezza del reale, recuperata grazie al mondo delle «belle apparenze»[36].

Tolstoj, nella sua splendida epopea russa che è Guerra e Pace, coglie con semplicità estrema la divaricazione tra essere e apparire, tra comprensione d’abisso ed esperienza di angoscia:

Oggi mi hanno portato al consiglio di governatorato per farmi esaminare, e i pareri sono stati discordi, hanno discusso e hanno deciso che non sono pazzo, ma lo hanno deciso solo perché durante l’esame mi sono trattenuto dall’esprimere ciò che penso, e non ho espresso ciò che penso perché ho paura del manicomio, ho paura che lì mi impedirebbero di compiere il mio pazzo compito. Hanno dichiarato che sono predisposto all’emotività o qualcos’altro del genere, ma sano di mente. Questo è quello che hanno dichiarato, ma io so che sono pazzo, il dottore mi ha prescritto una cura assicurandomi che se seguirò scrupolosamente le prescrizioni allora tutto ciò che mi agita passerà, cosa non darei perché passasse. È un tormento troppo grande. (…) Tutto il giorno avevo lottato contro la mia angoscia e l’avevo vinta, ma nell’anima c’era una terribile sensazione come se mi fosse successa una qualche disgrazia e io potessi dimenticarla solo temporaneamente, ma era essa lì nel fondo dell’anima e mi dominava[37].

A tal proposito lo studio dell’opera di Elsa Morante si riconnette in modo preciso alle incursioni nel romanzo dell’inconscio, che nella comunicatività e raffinatezza del suo  linguaggio, si spingono verso una densa attività onirica, collegata in maniera tumultuosa e angosciosa con la veglia notturna e le crisi nervose. Ida è il personaggio del romanzo La storia, molto vicino alla scrittrice, solita prendere appunti dei suoi sogni.

Era un mondo ricco, contorto e intriso di angoscia, rivissuto attraverso una vivida tensione[38].

Forse, fu anche l’interruzione della cura a provocare una simultanea trasformazione della chimica del suo sonno. Difatti, è incominciata da allora la crescita rigogliosa dei suoi sogni notturni, che doveva accoppiarsi alla sua vita diurna, fra interruzioni e riprese, fino alla fine, attorcigliandosi alle sue giornate più da parassita o da sbirra che da compagna[39].

«Amare la verità che giace al fondo», pertanto, come scriveva Umberto Saba, è un richiamo a sorprendere quell’azione dell’aria, a notarla, a farne memoria e lasciarsi stupire, come spalancamento più largo possibile ai fattori del reale e dell’esistenza.

Diceva Hannah Arendt che purtroppo l’uomo moderno ha sostituito lo stupore che gli antichi ponevano alla base di ogni conoscenza con la dubitosità (e George Steiner aggiungerebbe: con lo scetticismo nemico dell’arte). L’uomo dubitoso e scettico mette in crisi ogni rapporto perché non crede ai suoi occhi, mette in dubbio la forma e quindi vive l’arte come una illusione, e non come quella «magia vera» di cui parlava Giuseppe Verdi. Non ha più visione, ma una sensibilità labirintica, come richiamava Flannery O’Connor. Invece nella poesia che amo tutto procede dallo stupore verso l’alterità presente, misteriosa e infinita, che costituisce il punto di fuga nella nostra avventurosa esperienza. Così che tra percezione elementare e visione non c’è più differenza.[40]

Bibliografia:

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[1] Saba U., Poesia, filosofia, psicoanalisi, in Tutte le prose, a cura di Arrigo Stara, Meridiani Mondadori, Milano 2001.

[2] Bromberg P.M., L’ombra dello tsunami. La crescita della mente relazionale., edizione italiana a cura di  Vittorio Lingiardi e Francesco de Bei, Raffaello Cortina editore, Milano 1998, pp. 5-6.

[3] Ezensberger H M., Gli elisir della scienza. Sguardi trasversali in poesia e in prosa, Einaudi, Torino 2004.

[4] Celan P., Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp.551.

[5] Hillman J., Scritti sull’Umanesimo, a cura di Paola Donfrancesco, Moretti & Vitali, Bergamo 2001, p.29.

[6] Antonelli G., Origini del fare analisi, Napoli, Liguori 2003.

[7] Mandel’ŝtam O., Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino e una nota di Fausto Malcovati, Bompiani, Milano 2003, p.8.

[8]  Massarenti A., Bonnefoy, «A Silvia» e le neuroscienze, “Il Sole24 ore”, 16 luglio 2011.

[9] schrott R.- jacobs a., Gehirn und Gedicht Wie wir unsere Wirklichkeit konstruieren (Cervello e poesia. Come costruiamo la nostra realtà), Hanser Verlag, Monaco di Baviera 2011.

[10] Strand M., Ritrovarsi sull’isola dei poeti, “Il Sole24 ore”, 3 luglio 2011.

[11] Kasatkina T., Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in Dostoevskij, a cura di Elena Mazzola, Itaca, Castel Bolognese 2012.

[12] Id., Dostoevskij. Il sacro nel profano, Bur Rizzoli, Milano 2012.

[13] Rondoni D., La parola accesa, una mappa di letture, Bari, Edizioni di Pagina, 2006, p.7.

[14] Leopardi G., Zibaldone, 12. VIII 1823

[15]Bruner J. S., La costruzione narrativa della “realtà”, in Ammaniti e Stern (1991), p.31.

[16]Cole M., Culture and cognitive development: From cross-cultural research to creating systems of cultural mediation, Culture & Psychology, 1, 1995, pp.25-54.

[17]Gibbs R.W., The poetics of mind: Figurative thought, language, and understanding, Cambridge University Press, Cambridge 1994.

[18] Messina L., Psicologia della letteratura: alcuni aspetti educativi, Università virtuale – Spazio editoriale: i quaderni della SSIS – Università Ca’ Foscari di Venezia, pp.1-22.

[19] Montale E., Auto da fè, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 135.

[20] Sklovskij V., Una teoria della prosa. L’arte come artificio. La costruzione del racconto e del romanzo, De Donato, Bari 1966.

[21] Jung C.G., Psicologia e poesia, in Opere vol. 10-I, Civiltà in transizione: Il periodo fra le due guerre, Bollati e Boringhieri, Torino 1985.

[22] Id., cit., p.367.

[23] ivi, p.371.

[24] Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Raccolti ed editi da Aniela Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, Rizzoli, Milano 1978, pp. 90-91.

[25] Serrano M., Il cerchio ermetico. Carl Gustav Jung e Hermann Hesse, Astrolabio, Roma, 1976, p.60.

[26] Borgna E., Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli, Milano 2012.

[27] Binswanger L.,  Sogno ed esistenza in Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1984, p.67.

[28] Tomassoni R., Psicologia e letteratura alle soglie del terzo millennio, Edizioni Franco Angeli, Roma 1998.

[29] Hoffmannsthal Von H, Andrea o i ricongiunti, a cura di Giovanna Bemporad, Adelphi, Milano1970.

[30] Rilke R.M., I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002.

[31] Id, Elegie duinesi, a cura di M. Ranchetti, Feltrinelli, Milano 2006.

[32] Jaspers K., Psicopatologia generale, Il Pensiero scientifico, Roma 2000.

[33]borgna E., L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005. Id., Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano 2007. id.,  La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano 2011.

[34] Giussani L., L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, pp.206-207.

[35] Id.,  L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, p. 117.

[36] Zambrano M., Filosofia e poesia, a cura di P. De Luca, Pendragon, Bologna 2002.

[37] tolstoj L., Guerra e Pace, Garzanti, Milano 2007.

[38] Bernabò G., La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012, pp. 212-215.

[39] Morante E., La storia, Einaudi, Torino 2005, p. 291.

[40] Rondoni D., Non una vita soltanto Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti,Genova 2002, pp.19-20.

La capacità a delinquere e la capacità criminale. I-II parte

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Prima Parte

di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

25 giugno 2014

Al fine di valutare se un soggetto ha capacità criminale deve prendersi in riferimento normativo l’articolo 133 del codice penale, secondo cui, ” nell’esercizio del potere discrezionale il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta: 1. dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione; 2. dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3. dalla intensità del dolo o dal grado della colpa. Il giudice deve tener conto, altresì, della capacità a delinquere del colpevole, desunta: 1. dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2. dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3. dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4. dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.”

Questa norma ha lo scopo di indirizzare il giudice nella disitinzione tra gravità di reato e capacità di un soggetto a delinquere.

LA DEFINIZIONE DI CAPACITA’ A DELINQUERE.

La capacità a delinquere in dottrina indica l’idoneità a porre in essere azioni criminose.

Alcuni autori, definiscono la capacità a delinquere come “ l’attitudine, l’idoneità o potenza psicologica ad essere o divenire autori del reato[1] e sul punto la dottrina è discordante ritenendo che la capacità a delinquere non riguarda il futuro del reo bensì solo il passato.

Da un’analisi attenta dell’articolo 133 del codice penale, si deve prendere atto che la suddetta dottrina non può essere seguita, infatti la norma precisa in modo chiaro che il giudice deve tener conto ”  altresì, della capacità a delinquere del colpevole“, dunque non si devono prendere in considerazione i precedenti del soggetto che ha commesso il reato.

C’è inoltre chi ritiene che la capacità a delinquere non sia altro che la malvagità insita nel soggetto[2], ma anche questa è una tesi debole, perchè siginificherebbe accertare ogni volta la diversa personalità che il soggetto può assumere.

Nonostante ciò, la Giurisprudenza ritiene che, per la determinazione della pena, il giudice nella sua discrezionalità, nel valutare la capacità a delinquere, deve tener presente non solo il passato del soggetto, da non confondere con la pericolosità sociale, ma, deve tener presente anche la recidiva, ai fini della migliore determinazione della pena.[3]

In senso contrario la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che devono considerarsi, ai fini del della determinazione della pena, non solo i precedenti penali, ma anche i ” precedenti giudiziari” poichè concorrono a configurare la personalità del reo.[4]

La recentissima Giurisprudenza ritiene di doversi tener conto anche della ” funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena.”[5]

LA CAPACITA’ CRIMINALE.

L’articolo 133 del codice penale è analitico nell’individuare gli elementi da cui poter desumere la capacità criminale, che, per il momento elenchiamo e di cui parleremo, al fine di un’analisi dettagliata e completa, in seguito.

Gli elementi sono:

1 il reato commesso;

2 i moventi dell’azione criminosa compiuta;

3 i precedenti del reo;

4 il comportamento contemporaneo e successivo al reato.

La capacità criminale, esprime la probabilità di un soggetto di poter divenire reo.

Concetto, questo, espresso da sempre dalla dottrina e accolto dal legislatore, il quale, all’articolo 203 del codice penale prevede che “ agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile [c.p. 85] o non punibile [c.p. 45, 46, 49, 50, 51, 54], la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati [c.p. 164, n. 2]. La qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’articolo 133.”

Il concetto di capacità criminale è sicuramente un concetto ampio, ma è più completo rispetto al concetto di capacità a delinquere, poichè rientrano in esso tutte le fattispecie di reato e non solo i delitti. Altro non è che ” la disposizione o inclinazione  dell’individuo a commettere fatti in contrasto con la legge penale.”[6]

L’analisi di un caso concreto.

Analizziamo, al fine di tener presente un caso concreto, la sentenza della Corte di Cassazione Penale, Sezione V, del 4 marzo 2014, numero 10264, con la quale viene accolto uno dei quattro motivi di ricoreso proposti, quello cioè, basato sulla Sentenza della Corte Costituzionale numero 68/2012, che dichiara la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede che la pena venga diminuita nei casi di lieve entità.

L’articolo richiamato, si occupa del sequestro di persona a scopo di estorsione.

Infatti il caso di specie riguarda un soggetto che introddottosi inabitazione privata, di notte, picchiando e minacciando, secondo l’accusa, la persona offesa, legandola al letto e richiedendogli incenti somme di denaro pre la liberazione.

La Cortre di Appello di Roma, interessata dell’impugnazione della sentenza di primo grado, ritenne di non doversi applicare l’articolo 630, codice penale, comma 4, secondo cui ” al concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo che il soggetto passivo riacquisti la libertà, senza che tale risultato sia conseguenza del prezzo della liberazione, si applicano le pene previste dall’articolo 605. Se tuttavia il soggetto passivo muore, in conseguenza del sequestro, dopo la liberazione, la pena è della reclusione da sei a quindici anni“, in quanto “ l’azione si era prolungata per molte ore, dato inconciliabile con un ipotetico stato d’ira; – non poteva dirsi ricorrere l’attenuante prevista dall’art. 630, comma quarto, del codice penale” e che nessuno ” aveva posto in essere alcuna dissociazione da condotte altrui, né dato corso a desistenze di sorta.”[7]

 


[1]    A. Rocco, ” Lezioni di diritto penale“,1933, p. 321

[2]    Nuvolone, ” La capacità a delinquere  nella teoria del reato e della pericolosità.”

[3]    Ex plurimis, C.Cass. Pen., Sez. II, n. 1580/1982; C. Cass. Pen., Sez. II, n. 6756/1978.

[4]    C. Cass. Pen., Sez. I, 15/11/1983, in Giust. Pen.,1984, III,634.

[5]    Ex plurimis, C. Cass. Pen., Sez. III, 10/01/2013, n. 10095; Cass. pen., sez. II, 26 giugno 2009 n. 36245, Cass. pen., sez. VI, 12 giugno 2008 n. 35346, Cass. pen., sez. III, 29 maggio 2007 n. 33773, Cass. pen. n. 43596 del 2003, Cass. pen. n. 8156 del 1996

[6]    F. Antolisei, ” Manuale di diritto penale, parte generale“, Giuffrè, 1989, p. 563.

[7]    C. Cass. Pen., Sez. V, 4 marzo 2014, n. 10284.

Seconda Parte

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

9 luglio 2014

Nella prima parte di questa pubblicazione, abbiamo esposto la distinzione tra la capacità a delinquere e la capacità criminale.

Abbiamo elencato quelli che, ai sensi dell’articolo 133 del codice penale sono gli elementi della capacità criminale.

Vediamo il primo di questi: il reato commesso.

Il Libro Primo del codice penale, rubricato dei reati in generale, al Titolo III, Capo I, definisce il reato in generale e differenzia il reato consumato dal reato tentato.

L’articolo 40 del codice penale stabilisce che “ nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.”

Conseguenza dell’azione od omissione.

Nessuno può essere punito per un’azione od omissione  preveduta dalla legge come reato se non l’ha commesso con coscienza e volontà” è quanto dispone l’articolo 42, comma 1 del codice penale, dalla cui interpretazione ne consegue che la condotta può essere positiva, in tal caso parliamo di azione, o negativa e parliamo di omissione.

Si ha l’azione ogni qualvolta si ha un susseguirsi di movimenti, intesi n dottrina come veri e propri movimenti corporei, che vi siano cioè “ atti estremamente visibili e manifestati.”[1]

In modo univoco la dottrina ritiene che il susseguirsi degli atti e dei movimenti devono essere contestuali, requisito questo spesso sostituito con “ l’idoneità dei diversi atti tipici ad offendere lo stesso interesse protetto.”[2]

Un esempio di reato d’azione è la rapina.

L’omissione invece è definita come “ il mancato compimento dell’azione  che da una persona ci si attendeva.[3]

Un esempio di reato di omissione è l’omissione di atti d’ufficio.

La coscienza e volontà.

Come previsto dall’articolo 42, comma 1, del codice penale, la coscienza e volontà è un requisito necessario per poter parlare di condotta.

In dottrina si parla di “ suitas”, cioè quell’atteggiamento voluto dal soggetto, che non è la capacità di intendere e di volere del soggetto.

La coscienza e volontà è esclusa dalla dottrina in caso di malori imprevisti, in caso di forza maggiore, di costringimento.

 

 


[1] Ex plurimis, Pannain, Antolisei, Manzini, Fiandaca – Musco.

[2] Mantovani.

Mark Strand. L’assenza e l’ombra

di Andrea Galgano             18 giugno 2014*

mark-strand-timothy-greenfield-sandersAver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena — la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere.

Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible (2012), ora in Italia con il titolo Quasi invisibile (2014) e con la traduzione di Damiano Abeni.

Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essen–zialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione:

«Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com’è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante» (Nasconditi la faccia tra le mani).

Il minimale barbaglio della sua concretezza dilata contorni, si appropria del tempo viaggiante e labile del ricordo e del sogno, diventa disparità di luogo e contorno:

Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza (Una lettera da Tegucigalpa).

Oppure nel Notturno del poeta che amava la luna, la sostanziale affermazione della poesia si ferma come una ferita che sollecita il tempo, affabile e consunta, che tende alla «congiunzione luminosa di niente e tutto»:

Mi sono stancato della luna, stancato di quell’aria attonita, del ghiaccio azzurro del suo sguardo, dei suoi arrivi e delle sue partenze, del modo in cui avviluppa amanti e solitari sotto le sue ali invisibili, senza saperli distinguere. Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato. Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è nemmeno un tavolo.

Pertanto, Mark Strand, come si legge nella nota di copertina del testo: «agisce con ironia spesso anche beffarda, esprime una sorta di insoddisfazione quieta eppure dominante, pervasiva, che coinvolge un’ampia serie di personaggi: un banchiere, un ministro della Cultura, un viaggiatore, il padrone di una grande villa e tanti altri, tutti collocati in situazioni ambientali particolari, come fossero elementi dei più disparati luoghi e paesaggi».

È la sospensione della storia, impastata di effimero ed eterno a colpire il suo occhio vigile, come accade ne Gli studiosi dell’ineffabile: «[…] Avevo affittato una casa sul mare. Ogni sera sedevo in veranda e mi auguravo di provare un’ondata di sentimento, un flusso di suono infuocato che mi portasse lontano da tutto ciò che avessi mai conosciuto. Ma una sera salii la collina alle spalle della casa e dall’alto contemplai una stradina serrata dove fui sorpreso di vedere lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza», la loro opera, infatti, «ha a che fare con il sè».

Nonostante la polvere del loro cammino veli il cielo, uno di questi “camminatori” risponde all’obiezione del poeta: «siamo solo di passaggio, le stelle torneranno».

L’ansia di Strand non si attesta, quindi, solo sul valore ineffabile della poesia, sulla sua permeabilità quasi invisibile, ma sul valore prettamente conoscitivo ed esperienziale che egli chiama «firelit stream of sound» che porta in grembo la ruvidezza dell’inquietudine e del mistero, come una sorta di infinitesima resistenza che tiene.

È un suono profanato che compie la sua ferita nelle cicatrici e indossa l’estate fuggevole, per fermarlo, assisterlo, improntarlo. In Il desiderio del ministro della Cultura  viene esaudito, il suo burocrate «rientra a casa dopo una giornata estenuante in ufficio. Si sdraia sul letto e cerca di non pensare a niente, ma non accade niente o, per essere più precisi, il niente non accade».

Ma in questa propagazione di tenebra e chiarezza futile, egli è paziente, «e pian piano le cose scivolano via – le pareti di casa, il parco al di là della strada, gli amici nella città vicina» e la permanenza del buio, del vuoto e del nulla si affermano in una sorta di amaro divertissement, di ironia sagace e di piacevole contraddizione.

L’incompiutezza è l’abbozzo di una sospensione che attende, protesa, l’ineffabilità di un pronunciamento, il suggerimento di una porta aperta sull’inconoscibile. Il lettore, pertanto, diventa il protagonista di questa sospensione, prossima a dissolversi, ma in tempo per centrare l’andatura dell’essere, come un tramonto spossato o una storia assurda.

In un articolo su “Il Manifesto”del 15 giugno 2014, dal titolo Mark Strand: aspetta, silenzio, Caterina Ricciardi scrive:

Rispetto alle ultime rac­colte (dia­lo­gate per lo più con il per­so­nag­gio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand con­ti­nua in tale dire­zione ma in ter­mini sem­pre più bril­lanti nell’impiego vir­tuo­si­stico di un wit, un’arguzia, agghiac­ciante. Di fronte alla com­me­dia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che corag­gio­sa­mente discende nei sot­to­suoli dell’anima e del reale, non è affatto ras­se­gnato a farsi fer­mare da un silen­zio bec­ket­tiano. L’intento è quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce. L’accostamento non è azzar­dato: le bufere infer­nali fla­gel­lano anche i suoi ‘dan­nati’.

Strand mette in scena il suggello di un’epica sparita e sparsa, abitata dalla moltitudine delle identità e dalla sottigliezza dell’invisibile che instaura un lungo processo meditativo irrisolto che indaga la condizione umana e cerca la salvezza fissata, il punto denso, l’istante che si sporge sul vuoto e, come annota ancora la Ricciardi, mira

alla scan­sione in gal­le­ria di una suc­ces­sione di tableaux vivant, riqua­dri (anche tipo­gra­fici) ani­mati da una consorteria di per­so­naggi, per lo più appar­te­nenti a un’estenuata classe bor­ghese (un ban­chiere, un mini­stro della cul­tura, un gior­na­li­sta, un io qua­lun­que), per­so­naggi appa­ren­te­mente nor­mali e tut­ta­via ritratti alle prese con situa­zioni biz­zarre in nudi interni (una camera da letto, un bor­dello, un castello, un bou­doir matri­mo­niale) o, più spesso, in pae­saggi esterni ino­spi­tali, algidi spec­chi alla Magritte, iper­rea­li­stici e al con­tempo inson­da­bili e miste­riosi. In que­sti cro­no­to­poi del nulla il sog­getto osserva il pro­prio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia tra­sci­nare da un incontrolla­bile impulso verso un viag­gio non si sa mai da quale e in quale dire­zione, un viag­gio nell’ignoto che non sem­bra pre­ve­dere arrivi.

Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di presagio e luce (omens of the end), laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti:

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine, / guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà / quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine, / o cosa spererà una volta capito che non tornerà più. / Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto, / quando il tramonto che incendia il prato e la luna piena che lo gela / non compariranno più, non ogni uomo sa cosa invece scoprirà (The End).

Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali che dissolvono i nastri temporali e le dislocazioni di identità e di memoria: «Il sole che cala. I prati in fiamme. / Il giorno perso, la luce persa. / Perché amo quel che svanisce?» (The Guardian).

La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio e Ovidio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.

È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione, una evanescenza vibrante, come scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina, in cui si fondono la malinconia irreversibile delle cose perdute, l’ironia e la narrazione comico–surreale: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».

Ecco l’esito di una via vera e reale, lo spiraglio del cielo aperto. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano del lutto battente e di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, come «i colori che svaporano» e attendono il breve solco della slabbratura della grazia: «In un campo / io sono l’assenza / del campo. / È / sempre così».

L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura: «l’amore che arriva, / la luce che viene. / Ti svegli e le candele entrano a fiotti nel cuscino, / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del tempo splendono / e la polvere del domani s’incendia in respiro».

La tonalità di ombra con cui il malessere e il dolore si schierano, trova solo in una fissità di sponda derisa e mutata, la sua figura agganciata e prossima che «data l’impalpabilità e la sostanza cinerea di fatti e oggetti e desideri lasciati puntualmente fluire, non gli è possibile nascondere un sorriso (ora amato ora distaccato) quando accade che una qualsiasi “situazione compiuta” presuma di stagliarsi e di durare». (Marco Giovenale, in «Poesia», marzo 2005)

Scrive Rosanna Warren:

il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa.

La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io, che sta «diventando orizzonte» e invoca an island in the dark, solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti e di “sereniani” vuoti radiosi: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo, come il tramonto, ora della doppia luce e ingresso calmo e lento al buio inevitabile e dissolto: «l’oscurità si fa desiderio, / quando non v’è nulla che non aneli nascere; / i giorni in cui il destino del presente è pienezza di brezza».

L’evocazione è vigoria di respiro e eco quasi kafkiano, arroventato e perduto; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta, in un tragitto metafisico, nello spazio quintessenziato:

Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove / stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso, / come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?.

La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizione di senso e dell’avamposto delle parole strenui, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi / condannato e futile».

Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa e abdicata: «la storia della fine, dell’ultima parola / della fine, quando narrata, è storia senza fine».

In un’intervista di Luigia Sorrentino, Strand sostiene non solo l’indefinibilità della sua poesia ma anche il singolare pronunciamento, persino comico, dell’opera nel suo compiersi:

Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]

Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita, in un vocabolario di brume e venti notturni, nell’estrema visione mistica delle luci lunari disilluse: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».

In una intervista rilasciata a Laura Lilli su “la Repubblica” del 12 luglio 2007, Strand riferendosi a quel «luogo di perpetuo inizio che in sé contiene / ciò che mai occhio ha visto, mai orecchio ha udito, mano / mai ha toccato, ciò che mai è nato in cuore d’uomo», afferma la sostanziale potenza della poesia in un luogo terrestre non soggetto a giurisdizione, a cui il poeta si inchina, consacrandolo, nella sua caducità frammentata.

Altrove su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, egli scrive:

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]

Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.

La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo disilluso e mortale davanti al buio.

leggi in word Mark Strand. L’assenza e l’ombra

*versione ampliata di Mark Strand. L’assenza e l’ombra in GALGANO A., Mosaico, Aracne, Roma 2013, pp. 453-58.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini