Miguel Hernández: l’assenza verticale

di Andrea Galgano 1 luglio 2016

leggi in pdf Miguel Hernández. L’assenza verticale

Miguel Hernández: l’assenza verticale

La poesia di Miguel Hernández[1] (1910-1942) rastrema il fondo della naturalezza più insolita, si appropria, attraverso un linguaggio annunciato e tellurico[2], del fondale raffermo dell’essere, cadenzando in un battito luminoso, la frequenza di una spezzatura ferita e di un gemito indomito. Affermare la potenza e l’abbandono di questa lucentezza in disparte, contadina e popolare, significa siglare un quaderno di guerriglia e superficie che ritorna all’origine incantata di un’appartenenza.

Se, dapprima, la centralità lessicale si dirige attraverso un ripristino agreste e materico di gioventù e ardore frammentato, successivamente il gesto poetico finisce per levitare «a favore di una riflessione che assume i caratteri soffusi di un accadimento interiore, dove s’impongono le presenze familiari della moglie e del figlio, uniche note positive di conforto e speranza. Il richiamo ossessivo di Josefina, come pure l’evocazione gioiosa del figlio, uniche note positive di conforto e speranza[3]».

La dilatazione dell’esistenza si afferma in una dizione autobiografica affamata ed intensa che attraverso la fatica, la desperanza, il lavoro e il sudore, pedinano lo scranno del futuro, del sangue destinato e della vita in attesa.

Giovanni Darconza, infatti, scrive:

Due le battaglie combattute da Hernández nel corso della sua vita. La prima contro le truppe franchiste e, più tardi, contro la prima fase della dittatura. In questa prima battaglia Hernández soldato è stato sconfitto e imprigionato. Ma anche rinchiuso fra solide sbarre troverà il coraggio di ripetere incessantemente: «Ata duro a ese hombre: no le atarás el alma». Sconfitto nel corpo ma mai nell’anima, nonostante le disgrazie e le sofferenze patite, lo spirito eroico del poeta di Orihuela conserverà fino all’ultimo la speranza di un futuro migliore se non per lui, almeno per il figlio nato all’inizio della contesa, e che Hernández riuscirà a vedere solo in poche occasioni. La seconda battaglia combattuta da Hernández fu molto più dura e insidiosa. Una battaglia più universale, che richiama alle armi tutti gli uomini di ogni nazione e fazione, e non è ristretta unicamente ad un preciso ambito geografico (la Spagna) né ad un determinato contesto storico (la guerra civile). Una battaglia combattuta contro nemici molto più infidi e pericolosi di Franco: il tempo e l’oblio. In questa seconda guerra Hernández è uscito alla fine vincitore[4].

La declinazione dell’assenza, celebrata nell’autobiografia intima[5] e quotidiana di Cancionero y romancero de ausencias[6], vive in un doppio eccesso: vita nella morte e morte[7], come limite e dolore ascensionale, nella vita, sviluppando l’estremità lessicale attraverso una ellittica e occulta trasposizione semantica che muove l’individualità nella storia collettiva[8] del mondo.

La singolarità è l’accesso dell’umano all’universale. L’animata traslazione lessicale, che tocca ogni spostamento metrico ed espressivo, nutre la sua poesia dionisiaca che spinge alla conversione della forza cosmica in passione “installata” nella punta del destino, come sostiene José Antonio Serrano Segura[9].

La verticalità dell’assenza, pertanto, coinvolge anche la cromatura sensuale della creaturalità femminile, vissuta attraverso lo spostamento metaforico dell’impossibile e dell’ inconcepibile[10]. È la ripetizione di una stanza che ricorda lo struggimento e la distanza degli occhi, della voce, del fiato, del corpo, della bocca e del raggio fragile e fatale che non termina, come qualcosa che tutto assomma e ingloba nel suo bene perduto e nel suo tatto in esilio[11].

Esiste un lungo posto di respiri scheggiati dalla mancanza ripetuta e della violenta rigenerazione: «Assenza ovunque vedo: / i tuoi occhi la riflettono / Assenza ovunque ascolto: / la tua voce suona a tempo. / Assenza ovunque aspiro: / il tuo fiato odora d’erba. / Assenza ovunque tocco: / il tuo corpo si svuota. / Assenza ovunque provo: / la tua bocca mi esilia. / Assenza ovunque sento: / assenza, assenza, assenza».

Laddove la fumosa condensazione del presente e del futuro eleva ogni minaccia funerea, Hernández ripone la sorgente del cuore dell’altro nel ventre[12], riconducendo, come afferma Gabriele Morelli, «il sesso alla sua centralità, secondo una concezione sacra e primitiva appresa dalla natura durante la sua esperienza di pastore[13]».

La musica sensoriale si concreta in una gravitazione percezione soffusa, nel porto confortato del presente, contro ogni lontana e indistinta confusione di fugacità, contro ogni oscurità che affiora dalle profondità rare e vane, per attestarsi nella salvazione amorosa e nello svelamento erotico: «Meno il tuo ventre, / tutto è confuso. / Meno il tuo ventre, / tutto è futuro, / vano, passato / sterile, oscuro. / Meno il tuo ventre, / tutto è insicuro, / tutto è ultimo, / polvere e nulla. / Meno il tuo ventre / tutto è oscuro. / Meno il tuo ventre / chiaro e profondo».

La densa costellazione gravida della distanza fa raccogliere all’universo la promanata storia di dense risonanze e gravitazioni, come commenta María Ortega Máñez:

Le parole si affilano come per cogliere la lacerazione del sentimento: da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da un’altra parte l’amore, che muove sempre in Hernández da una realtà concreta, quella fisica. Le liriche amorose posteriori a El rayo que no cesa, ispirate quasi tutte dalla moglie Josefina Manresa[14], esprimono la gioia dell’unione con la disperazione della lontananza. Presente o assente, il corpo c’è, emanando una sensualità naturale, predicando l’essenziale materialità di ogni cosa […] Il corpo è infatti talmente integrato nell’amore e nella vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una dimensione mistica. In Io non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il corpo della donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e trascendenza fanno un tutto senza fessure, cosmico[15].

Il troncamento del tempo ha lampi nel petto che percorrono la nera prospettiva del viaggio, la mutilazione scura  e spezzata che entra addosso nella vita recisa in guerra e nella sospensione infranta: «Ogni volta più presente. / Come se un lampo veloce / ti portasse nel mio petto. / Come un lento, lento / lampo. / Ogni volta più assente. / Come se un treno lontano / percorresse il mio corpo. / Come se una nave nera, / nera».

Scrive Giuseppe Conte:

Miguel Hernández compose versi che sono abitati dal senso dell’assenza ma anche da amore, grazia, innocenza, e da immagini che saldano la condizione privata del poeta a quella delle forze della natura e del cosmo. Se la storia è il regno dell’orrore, il poeta, anche quando compie scelte militanti, vive in un regno antagonista, dove hanno voce il canto di un popolo e il canto del mondo, le visioni, i sogni, il balenare delle immagini più ardite[16].

Spesso la mutilazione si esprime attraverso una disorganica posizione di dettagli che uniscono grido e ferita, morte e ferita, strada e cuore cinereo. L’isotopia del poeta di Alicante è una gradazione di terra riarsa e desertica, come se fosse un urlo di bocca in disparte.

Nel territorio straniero che appartiene ai cani, il cuore resiste ancora in tutta la sua fertile lucentezza e dolcezza, come fulmine fecondo. È l’esito di una astralità sofferta che si espone e, allo stesso tempo, ritrae un mondo dialettico e complesso: «Bocche di rabbia. / Occhi in agguato. / Cani ululanti. / Cani e poi cani. / Tutto deserto. / Tutto riarso. / I corpi e i campi, / i corpi e i corpi. / Che brutta strada, / che cinereo / il tuo cuore, / fertile e dolce!».

La forma dell’assenza diviene suono ferito e specchio disabitato. Come se la voce fosse cinta da un grido speciale di camere solitarie e di foto aride nel vento, ancora una volta, cinereo: «Un vento cinereo / grida nella stanza / dove lei gridava / cingendo la mia voce. / Camera solitaria, / con il suono ferito / del vento cinereo / che grida tutt’intorno. / Specchio disabitato / Intimorita panca / contro l’arida foto, / letto senza calore».

La tragedia che compone il dramma delle terra è una appartenenza e una condanna, al tempo stesso. Concepire la segregata e irrigata Alicante, il lavoro contadino, il combattimento ultimo significa proporre la gemma di un dissotterramento che si espone alla luce, destinare l’inesorabilità alla maternità del principio e della fine alla soglia partoriente, così come alla penetrazione materiale che genera e rigenera il suo eterno ritorno e il suo sangue remoto[17].

Hernández avverte in modo inesauribile e preponderante il dolore della ferita sconvolta. In questo destino di dramma, di fame e di mancanza, la paternità e la dinamica affettiva esprimono una gioia tragica, come scrive ancora María Ortega Máñez:

Il sangue figura questa volontà di vita, è animo per chi combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o per la malattia. […] Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si associa al germogliare dei fiori, alla primavera[18].

La disperata vitalità, espressa nei versi in cella, in cui egli legge la lettera della moglie che gli racconta di mangiare pane e cipolla e che il figlioletto inizia a mostrare i primi denti, determina la lacerazione disperata e splendente di una tensione luminosa. Un gorgo di parallele escoriazioni e veglie amorose. La cipolla è la fame, «il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento[19]»:

Nella culla della fame / il mio bimbo stava. / Con sangue di cipolla / lui si allattava. / Ma il tuo sangue, / brina di zucchero, / cipolla e fame. / Una donna bruna, / dissolta in luna, / si versa filo a filo / sopra la culla. / Ridi, bambino, / che ti porterò la luna / quando ne avrai bisogno. / Allodola della casa, / ridi molto. / Il riso nei tuoi occhi / è la luce del mondo. / Ridi tanto, / che la mia anima udendoti / vinca lo spazio. / Il tuo riso mi libera, / mi mette le ali. / Solitudine mi toglie, / carcere mi strappa. / Bocca che vola, / cuore che sulle tue labbra / manda scintille. / Il tuo riso è la spada / più vittoriosa. / Vincitore dei fiori e delle allodole. / Rivale del sole, / futuro delle mie ossa / e del mio amore[20].

O come l’immagine della guerra che tronca e uccide il campo dell’esistere, il grido-tremore delle madri, sollevando la fiamma dell’odio, chiudendo le porte all’amore, nelle bocche giunte come pugni, negli occhi spumati nel nero, per scomparire nell’ansia dilatata di un inganno di frontiere: «Il sangue percorre il mondo, / imprigionato, deluso. / I fiori si dissolvono / divorati dall’erba. / Ansia d’uccidere invade / la profondità dei gigli. / Ogni corpo desidera / di congiungersi ai metalli, / accoppiarsi, possedersi / in un modo terribile. / Scomparire: regna l’ansia / generale, dilatata. / Un fantasma di stendardi, / una chimerica bandiera, / un mito di patrie: un grave, / inganno di frontiere».

Lo strenuo combattimento con il cielo disanimato, l’aiuto contro il vuoto, il corpo ferito e insanguinato divengono la terra di corpi, soli e aurore da desiderare, un frammento d’ombra, un soffio sulla fronte spessa, un ventre di archi, dove ricercare il canzoniere del ventre remoto che possa offrire alla rarefatta, trasparente ed immediata coltre umana l’accensione dell’inciampo tra le nubi e la remota consistenza delle soglie.

In un germoglio abraso che cerca di rinvigorire, attraverso il suo appello, l’anima costernata delle disgrazie e delle passioni, l’incanto del corpo è luce sopravvivente, il pozzo, la palma ascendono ogni sradicamento e ogni congedo[21].

«Il pozzo e l’alta palma / affondano nel tuo corpo / abitato da ascendenze», scrive nel suo lungo romanzo di sperdute folate e ferite, rischiando la materialità per farsi primitivo vortice e anima affacciata sul corpo: «Non affacciarti / alla finestra, / che non c’è nulla in questa casa. / Affacciati alla mia anima. / Non affacciarti / al cimitero, / che non c’è nulla tra queste ossa. / Affacciati al mio corpo».

Lo sguardo della contemplazione unisce poli opposti, condensando il bacio in un angolo di corone e terra da inseguire fino allo zenit di ogni sguardo calato e vissuto. In essa si compie il silenzio delle distanze, l’accensione del ricordo, l’ombra solare, il silenzio delle fiamme e il freddo vestito dove arde il sangue e l’immagine rotta: «Di quell’amore mio, / che resta nell’aria? / Solo un freddo vestito / dove arse il sangue».

La primordialità tragica di Hernández trabocca in tutta il suo luminoso offuscamento, in tutta la sua lacerazione e smania fisica. Torna a baciare l’oggetto amato come uno schianto di precipizi ed eredità sprofondate, vissute in solitudine[22]: «Io tornerò a baciarti, / tornerò, cado, sprofondo, / mentre scendono i secoli / nei precipizi profondi / come ardente nevicata / di baci e innamorati. / Bocca che hai dissotterrato / con la tua lingua il mattino / più lucente. Tre parole, / tre fuochi hai ereditato: / vita, morte, amore. Sono là / sulle tue labbra impressi».

È l’esagerata e provvida sfrontatezza amorosa che spazza l’abisso e lo abita, gemendo nella materia controluce. La sfiorata trasparenza perfetta dell’alba del corpo che annuncia la vetta e il ponente dei fantasmi, sulla fronte, sulla bocca dell’elegia disperata e trasognata e, allo stesso tempo, feconda di lontananze dorate e neri sorsi di erbe scure: «Corpo chiaro, bruno di colore fecondante. / Erba nera l’origine; / erba nera le tempie. / Nero sorso sono gli occhi, lo sguardo lontano. / Giorno azzurro. Notte chiara. Ombra chiara che giungi. / Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, / là dove germogliano anelli di un’erba scura. / Nel mio sangue, dal tuo corpo fedelmente acceso, / per sempre è la notte: per sempre è il giorno».

La rivelazione inedita del mondo sfiora e concentra la sostanza essenziale dell’essere e adunano, come afferma María Ortega Máñez:

questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria. […] La lingua di Hernández è tessuta con questo rude amore per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per le cose[23].

Ecco cosa avviene in Il pesce più vecchio del fiume:

Il pesce più vecchio del fiume, / avendo egli accumulato / tanta saggezza, viveva / brillantemente oscuro. / E l’acqua gli sorrideva. / E tanto oscuro diventò / (per nulla l’acqua lo svaga) / che, dopo tanto pensare, / prese la strada del mare, / che poi è quella della morte. / Tu hai riso presso il fiume, / bimbo solare. E quel giorno, / il pesce più vecchio del fiume / si tolse il cupo sembiante. / E l’acqua ti sorrideva[24].

Lo sperpero di amore e disamore scandaglia presenze e assenze in una interruzione spasmodica[25]. La smisuratezza del dolore e del taglio umano, la demarcazione compagna dell’anima, il sentiero tacito delle viscere sdoppiano gli ampi gesti della vita e della morte, delle parti scure e fiammeggianti, del sorriso arrogante di fronte la pena e, infine, di tutto il ciglio della vita trascorsa.

Il vissuto è una riemersione di albe e tinte compiute che rappresentano l’inesausta ripetizione, la sofferta antitesi e la pronuncia chiusa di ciò che sbalestra l’intimo («Naufragi percorsero, / più profondi ogni volta / nei corpi, nelle braccia. / Inseguiti, sommersi / da un’enorme distesa / di ricordi e di lune, / di novembre e di marzo, / sbattuti si videro / come polvere lieve: / sbattuti si videro, / però sempre abbracciati») o come l’aia, conforto che accoglie il bacio dopo lo sparo sul monte.

In Figlio della luce e dell’ombra, l’intreccio primordiale dell’amore ha acme trascendente e visionarietà primitiva. L’immagine della donna amata trasfigura la forgiata ombra del potere lunare e femminile, e nella notte che getta la sua ansia avida di potere ed incanto, ella appare in tutto il chiarore notturno, nella vetta dei mattini e dei tramonti.

È il sordo incendio di scontri che abitano le palpitazioni dell’ombra, l’anima vagante, il nido chiuso che spinge verso la luce nascente, l’abbraccio e i baci-lampi, le bocche addosso e il letargo della terra commossa, fino al figlio che nasce dalle oscurità lucenti come semina di astri. Tutto culmina nella nascita dello zenit siderale, un abbraccio nuziale dentro il tempo che accomuna dolore e rigenerazione per tenere la vita in un abbandono di tenerezza, «vita, che grazie alla forza dell’amore, si eleva a trascendenza della carne liberata dal peso e dall’involucro di origine animale. In questa intensa rappresentazione della nascita, di concezione panica e lucreziana, è riflessa l’esperienza giovanile di Hernández vissuta nella conduzione del gregge familiare[26]»:

Vuole che ci gettiamo tu ed io sulle lenzuola, / tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita. / Vuole che noi bruciamo fondendo nella gola, / con tutto il firmamento, la terra commossa. / Il figlio è nell’ombra che accumula stelle, / amore e midollo, luna e lucenti oscurità. / Germoglia dalle sue indolenze e dalle sue cavità, / e dalle solitarie e spente città. / Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è sorto, / e al suo nascere infondono gli astri una semina, / un succo latteo, un flusso di caldi battiti, / che spingerà le sue ossa al sogno e alla donna. / L’ombra sta muovendo le sue forze siderali, /  distende l’ombra le sue tenebre stellate, / e investe le coppie e le rende nuziali. / Tu sei la notte, sposa. Io sono il mezzogiorno[27].

La donna poi si avvolge nell’albore di un mattino cosmico. L’alba e il sole pronti a incontrarsi in una penombra socchiusa. Il corpo, ancora una volta, è il territorio dell’anima vibrata al centro della luce, la notte sembra addensarsi e scomparire in questa ora solenne, dove esplodono gli orologi e dove il ventre sta per annunciare la vita nel suo trono luminoso di panni e ombre.

Il cuore affiora nel respiro della nascita imminente, tacendo l’amore nel fiato di ciò che è addormentato e desto: «Non t’amo in te sola: t’amo nella tua gente / e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani. / Poiché l’umana specie ho avuto in retaggio, / la famiglia del figlio sarà la specie umana. / Con l’amore sopra, addormentati e desti, / continueremo a baciarci nel figlio profondo. / e nel nostro bacio si baciano i nostri morti, / si baciano i più antichi abitanti del mondo».

La sposa e il figlio rappresentano la gemmazione vibrata di un tempo cosmico che rigenera e ridesta il tessuto sottile del mondo. Il miracolo dell’esistere e del vivente aggiungono la fragilità dolce della tenerezza alla epifania corporea e femminile della donna e all’impeto umbratile e ricolmo della venuta del figlio.

Tutto il tempo poetico concorre a un inseguimento di concretezza e nascita, per cui il tempo del rigoglio diventa alveare di latte e spuma, dolcezza di sangue, fecondità femminile in cui “seppellirsi” e diventare frammento indissolubile[28].

Afferma Gabriele Morelli:

Hernández canta ed esalta il corpo della donna che ha generato, descrive i seni materni come sorgenti che «lottano e si incalzano con bianche effusioni»; sente correre nelle sue vene «un rumore di latte, di piena, di nozze accanto a te, percorsa da flutti sonori». Teso sul suo corpo, ausculta il mistero della vita che nasce, ne descrive le profonde e riposte manifestazioni. I versi, ricchi di simboli e aromi della natura mediterranea, celebrano la sposa ed ancor più il corpo della madre che, dopo l’impeto d’amore, si apre al figlio[29].

Nelle prigioni, nei trasferimenti, nell’occlusione del mondo, nella malattia drammatica che lo conduce alla morte come un’ombra precipitata, il poeta avverte il potere della luce sepolta e di un’ombra senza fine: non esiste cielo o stelle, nemmeno stelle o corpi tangibili, l’aria non ha volo, ma solo la sommità di un lungo lutto di segni violacei e denti assetati di colore.

Tutto è mancante e soffocato nelle dense tenebre, senza trovare l’orma del giorno nei pugni serrati e nella lotta oscura di battiti sordi. È la lacerata promessa di un grido irradiato fino alla fine, come accade in Eterna Ombra (Eterna sombra):

Solo il fulgore dei pugni serrati, / lo splendore dei denti che scrutano. / I denti ed i pugni da tutti i lati. / Più delle mani, i monti si abbracciano. / Oscura è la lotta senza sete di domani. / E che distanza di battiti sordi! / Io sono un carcere con una finestra / su un immenso deserto di ruggiti. / Sono un’aperta finestra che ascolta, / dove vedo tenebrosa la vita. / Ma c’è un raggio di sole nella lotta / che lascia per sempre l’ombra sconfitta[30].

L’estrema lotta che si radica nella stanza interiore di Hernández si muove attraverso una duplicità di fronti, la capacità di soffrire, il presente della morte da un lato («Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo[31]»), e la carnale dilatazione della dismisura[32] dell’amore dall’altro, spaesando la memoria selvatica e segnando una feritoia di speranza che si spalanca verso una puntualità, sostiene Vicente Aleixandre,

[…] che potremmo definire del cuore: chi ne avesse avuto bisogno nel momento della sofferenza o della tristezza, lo avrebbe trovato al momento giusto. Silenziosamente, offriva la sua gentilezza e compagnia, e la sua parola veritiera, a volte una sola, creava un clima fraterno, l’atmosfera dell’intesa,  su cui la mente che soffre poteva riposare, respirare. Lui, nonostante i tratti duri, aveva la delicatezza infinita di chi non è soltanto veggente, ma ha un’anima grande. La sua pianta sulla terra non era l’albero che dà ombra e frescura. Per le sue qualità umane avrebbe potuto più di tutti i suoi simili, così affascinante nella sua naturalezza[33] (traduzione inedita di Irene Battaglini).

 

Bibliografia

Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962.

  • Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Aguilar, Madrid 1979.
  • Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.
  • Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

 

AaVv, Miguel Hernández 50 años después, T. II, Alicante 1992.

Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández,  Embajada de España Quito Ecuador, Ecuador 1993.

Aleixandre V., Los encuentros, Espasa-Calpe, Madrid 1985.

Balcells J. M., Miguel Hernández, corazón desmesurado, Dirosa, Barcelona 1975.

Cano Ballesta J., La poesía de Miguel Hernández, Gredos, Madrid 1971.

Conte G., La luce dei versi nel buio della prigione, in “Il Giornale”, 18 febbraio 2015.

Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 47-58.

Díez de Revenga, Miguel Hernández en la Estética del las Vanguardias y el 27, Universidad de Murcia, (http://www.miguelhernandezvirtual.es/new/files/07fcojav.pdf).

González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.

MÁñez M. O., Miguel Hernández. La circostanza e il tragico, in «L’ospite ingrato» (http://www.ospiteingrato.unisi.it/miguel-hernandez-la-circostanza-e-il-tragico/), 30 dicembre 2009.

Manresa J., Recuerdos de la viuda de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie:  Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.

Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998.

Pérez Nereida L., Vivencia, emoción y mito en la poesía de Miguel Hernández, Universidad de Nueva York, Nueva York 1985.

Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976.

  • Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000.

Serrano Segura A., La obra poética de Miguel Hernández (http://jaserrano.nom.es/mhdez/).

Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.

Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955.

[1] Cfr. Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962; Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Madrid, Aguilar 1979; Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

[2] Cfr. Díez de Revenga, Miguel Hernández en la Estética del las Vanguardias y el 27, Universidad de Murcia, (http://www.miguelhernandezvirtual.es/new/files/07fcojav.pdf).

[3] Morelli G., Miguel Hernández: La vita, l’amore e la morte, in HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014, p.7.

[4] Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 57-58.

[5] Cfr.Pérez Bazo J., Síntesis ética y estética de Miguel Hernández: Cancionero y romancero de ausencias, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp.623-633.

[6] Hernández M., Cancionero y romancero de ausencias, edición de Josè Carlos Rovira, Lumen, Barcelona 1978, Alicante 1985;  Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.

[7] Pazos Barrera J., La poesía de Cancionero y romancero de ausencias, in Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández,  Embajada de España, Quito Ecuador, Ecuador 1993, p. 168.

[8] Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976, p. 27.

[9] Cfr. Serrano Segura A., La obra poética de Miguel Hernández (http://jaserrano.nom.es/mhdez/).

[10] Rovira J. C., Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000, p.133.

[11] Cfr. González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.

[12] Nel suo memoriale Pablo Neruda scrive: «[Miguel] mi narrava quanto fosse impressionante poggiare il suo orecchio sul ventre delle capre addormentate. Così ascoltava  il rumore del latte che giungeva alle mammelle, il rumore segreto che nessuno tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare», in Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998, p.151.

[13] Morelli G., cit., p.18.

[14] Manresa J., Recuerdos de la vida de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie:  Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.

[15] MÁñez M. O., Miguel Hernández. La circostanza e il tragico, in «L’ospite ingrato» (http://www.ospiteingrato.unisi.it/miguel-hernandez-la-circostanza-e-il-tragico/), 30 dicembre 2009, p.10.

[16] Conte G., La luce dei versi nel buio della prigione, in “Il Giornale”, 18 febbraio 2015.

[17] Cfr. Cano Ballesta J., La poesía de Miguel Hernández, Gredos, Madrid 1971.

[18] MÁñez M. O., cit., p.8.

[19] Id., cit., p.8.

[20] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.147.

[21] Cfr. Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.

[22] Cfr. Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955, p. 76.

[23] MÁñez M. O., cit., p.6.

[24] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.187.

[25] Cfr. Pérez Nereida L., Vivencia, emoción y mito en la poesía de Miguel Hernández, Universidad de Nueva York, Nueva York 1985.

[26] Morelli G., cit., p. 15.

[27] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.101.

[28] Cfr. Recio Mir A., La última estación poética de Miguel Hernández: símbolos y sentidos, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp. 647-653.

[29] Morelli G., cit., p.17.

[30] Hernández M.,

[31] Id., Dedica del suo libro Viento del pueblo a Vicente Aleixandre.

[32] Balcells J. M., Miguel Hernández, corazón desmesurado, Dirosa, Barcelona 1975, p.202.

[33] Aleixandre V., Los encuentros, Espasa-Calpe, Madrid 1985, p. 194.

Psicologia della transizione: il luogo scenico della performance e la semantica del corpo

di Silverio Zanobetti 29 giugno 2016

leggi in pdf Psicologia della transizione: il luogo scenico della performance e la semantica del corpo

6.CORPO-SUDARIO1copertinaE non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera, si è capolavoro[1]

Dal testo al gesto, dalla parola all’atto, dall’oggetto d’arte alla “produzione di sensibilità” come nuovo oggetto dell’arte. L’eterogeneità interdisciplinare degli ambiti di riflessione di Irene Battaglini (antropologia, filosofia, filosofia dell’arte, neuroscienze, poesia, letteratura) le permette di cogliere nel modello performativo dell’arte alcune prospettive feconde per una psicologia dinamica che sfidi le regressioni narcisistiche dell’arte contemporanea: apprendere dall’esperienza è possibile laddove sia presente la consapevolezza che il nostro corpo s’apprende di esteriorità. L’io deve farsi soglia, l’uomo farsi ponte o transizione: «l’uomo in transizione è un ponte che collega verso uno scopo che non è l’uomo stesso ma il superuomo. L’uomo ha il compito di trasformare se stesso»[2].

Non si cerca più la sporca verità inconfessabile dentro il buco nero del profondo nascosto, in cui tutto cade preso nella morsa degli stretti codici psicoanalitici, non è più l’interiore che giustifica il rito, ma quest’ultimo che produce un certo tipo di sensibilità. Il rito è legato alle forze inconsce sociali: la performance trasformativa dell’arte contemporanea, grazie alla sua componente rituale, è inscindibile dalle transizioni sociali che consente.

Ma una re-censione come questa non può diventare gesto, si limita a vivacchiare sui gesti compiuti dalla performer che nella combinazione necessaria di gesto e pensiero ripercorre strade antiche. Quel che rimane delle misteriori performance sperimentali dell’autrice sono queste pagine, quelle gesta hanno lasciato queste statiche tracce: la performance è ormai avvenuta insieme al rituale di passaggio che la accompagna e alla trasformazione che ne consegue. Non rimane che leggere quel che resta della vita irrappresentabile della pittrice, le ceneri di quelle vertiginose e infuocate esperienze collettive in cui la performance trasforma se stessa.

Nelle orge rituali dei ludi scaenici dell’antica Roma, i corpi delle dame romane si facevano impossessare da un Dio ogni volta diverso: le dame si facevano simulacri viventi, soggetti e oggetti di un’esperienza estetica emozionale collettiva. Il loro corpo diventava luogo scenico e non più simbolico. Lo scopo di questi rituali era la produzione di una certa risanante sensibilità, accompagnata dalla consapevolezza che persuasione e seduzione facessero parte integrante della politica e che ci può essere creatività solo laddove si è ancora capaci di servirsi delle nostre funzioni pre-consce nel modo più libero possibile. Nei ludi scaenici il corpo delle matrone è un simulacro involucro di carne e viene considerato come una spoglia: la matrona abita il corpo altrui come se fosse il suo e allo stesso modo attribuisce il proprio ad altri.

Irene ritrova queste dinamiche nell’arte contemporanea che, nelle sue versioni più sadomasochistiche, assorbe la lezione dello “spirito della musica” nietzschiano, opera fondamentale per capire come l’arte sia sopravvissuta alla sua morte, nonostante i numerosi requiem a lei dedicati durante il Novecento:

La performance muove potenti istanze sadomasochistiche, e si svolge come ai margini di un mondo sospeso: Marina Abramović, l’artista-sacerdotessa, restò in piedi, vestita, di fianco a un tavolo piuttosto guarnito di oggetti d’offesa davanti agli spettatori, che sono stati invitati dalla performer a fare qualsiasi cosa del suo corpo utilizzando tali oggetti. Una scritta a parte recitava: “Sul tavolo vi sono settantadue oggetti che potete usare su di me come preferite. Io sono un oggetto”[3].

Attraverso Hillman Irene Battaglini mostra come il demone che si impossessa delle matrone dell’antica Roma e dell’artista contemporaneo, eroe della transizione, non sia quello tramandato dal cristianesimo che lo considerava entità spirituale malvagia, ma intermediario tra gli déi e gli uomini. Il diabolico non è altro che una certa distribuzione delle cose nell’univocità dell’essere: “la particolarità dei demoni è di operare negli intervalli tra i campi d’azione degli déi, come di saltare oltre le barriere e i recinti, recando confusione nelle proprietà”.[4] Il pensiero unico autoreferenziale di molta arte narcisista contemporanea, pur nell’apparente volontà di rottura (assetata soltanto di scandalo), è ancora pensiero-gesto dell’indirizzo. Non più un pensiero dell’indirizzo, è necessario piuttosto far emergere un pensiero dell’orizzonte in cui il mio corpo sia annoverabile tra le cose,  preso nel tessuto del mondo, come scriveva Merleau-Ponty, opportunamente citato da Irene.

Se mi si chiede come definire la sinistra, essere di sinistra, direi due cose.  Ci sono due modi, E anche qui…è innanzitutto una questione di percezione.  C’è una questione di percezione: cosa vuol dire non essere di sinistra? È un po’ come un indirizzo postale. Partire da sé, la via dove ci si trova, la città, lo Stato, gli altri Stati e sempre più lontano.  Si comincia da sé nella misura in cui si è privilegiati, vivendo in paesi ricchi, ci si chiede: come fare perché la situazione tenga? Essere di sinistra è il contrario. È percepire…si dice che i giapponesi percepiscano così. Non percepiscono come noi, ma percepiscono prima di tutto la circonferenza. Dunque direbbero: il mondo, il continente, mettiamo l’Europa, la Francia,  la rue Bizerte…io. È un fenomeno di percezione. Si percepisce innanzi tutto l’orizzonte, si percepisce all’orizzonte[5].

L’arte contemporanea ci apre ad una nuova semiotica del corpo in cui il pensiero cosciente è il risultato di un gioco e di una lotta tra impulsi e prospettive cosmiche (come le chiamerebbe Hillman), appartenenti al mondo del “corpo-spazio”, più che al mondo intrapsichico e interpersonale. L’evento psicologico diventa un fatto spaziale in quanto non è più l’artista che esprime qualcosa che ha “dentro”, bensì il suo stesso corpo è un paesaggio la cui morfologia varia continuamente. Il corpo dell’artista si fa scena, non si limita a ideare, realizzare, controllare ogni sua creazione. Irene coglie nel corpo-sudario una buona immagine per spiegare questo concetto. Il testo è stato per me ricco di stimoli e rimandi alle mie ricerche e un’altra immagine altrettanto efficace mi è venuta alla mente: il klossowskiano “principe delle modificazioni” riproposto nel teatro di Carmelo Bene in cui l’attore è parco lampade, strumentazione fonica dal vivo e registrata, scena e costumi insieme[6].

Irene si prende il tempo che serve, non disdegna lunghe citazioni che non opprimono la lettura ma imprimono un ritmo lento e espansivo che rende giustizia, tra l’altro, di particolari essenziali di alcune performance contemporanee. Come quelle dell’artista francese Gina Pane che continua il percorso iniziato da Manzoni nel trasformare il pubblico in opera d’arte, lavorando inconsapevolmente sulla traccia antica che faceva coincidere bellezza e valore morale. Gina si fletteva davanti agli spettatori a dimostrazione della sua sottomissione, stimolando la manifestazione dell’aggressività dello spettatore rivelando di quest’ultima la gratuità e insensatezza: «Mi voltai verso il pubblico e avvicinai la lametta alla faccia. La tensione era palpabile ed esplose quando mi tagliai entrambe le guance. Tutti gridavano: “No. No, la faccia no!”. Avevo toccato un nervo scoperto: l’estetica delle persone. La faccia è tabù, è il cuore dell’estetica umana, l’unico luogo che mantiene un potere narcisistico»[7]. Non è un caso che Gilles Deleuze invitasse a perdere il volto, a superare o perforare la parete. Se Cristo aveva inventato il volto come passare la parete, evitando di rimbalzare contro di essa, all’indietro, o di essere schiacciati? Deleuze invitava a disfare il viso in modo che i tratti stessi di viseità si sottraessero all’organizzazione del viso, al potere materno che passa per il viso, al potere passionale che passa per il viso dell’amato. Non è il viso che genera il potere, bensì una certa semiotica che organizza il viso e che costringe il viso come organo a non far più parte del corpo[8]. Il linguaggio da solo non potrebbe veicolare alcun messaggio, la lingua rinvia sempre ai volti che ne annunciano gli enunciati. Citando Henri Miller: «Non guardo più negli occhi della donna che tengo fra le braccia, ma ci nuoto dentro, testa, braccia e gambe, e vedo che dietro le occhiaie c’è una regione inesplorata, il mondo del futuro, e qui non c’è logica affatto […] quest’occhio senz’io non rivela né illumina. Viaggia lungo la linea dell’orizzonte, viaggiatore incessante e disinformato. Ho infranto il muro creato dalla nascita, e la linea del viaggio è rotonda e ininterrotta. Il mio corpo intero deve diventare un costante raggio di luce. Perciò chiudo le orecchie, gli occhi, la bocca. Prima di ridiventare uomo forse esisterò come parco»[9]. Chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca per “dire” qualche cosa che diversamente sarebbe indicibile, come accade nel capitolo dedicato alla ferita sul vuoto di Lucio Fontana.

Questo lavoro mi incoraggia verso così tante approfondimenti che sarebbe vano tentare di seguire tutti i percorsi tematici aperti dall’autrice; mi limito a citarne uno, quello del femminile ingabbiato dal Logos, a me molto caro, che spero di riaffrontare in altra occasione.

«Superficie è l’anima della donna, una spuma mobile e tempestosa in un’acqua poco profonda»[10].

[1] C. Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Bompiani, 2004, p.XXXVII.

[2] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, Opere. Vol. VI, Tomo I, cit., pp. 8-9.

[3] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, Preludio di A. Galgano, Prefazione di G. Panella, Aracne, 2016, p. 335.

[4] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, 1997, p. 54.

[5] G. Deleuze, Abecedario, DeriveApprodi.

[6] C. Bene, La voce di Narciso in C. Bene, Opere. Con l’autografia d’un ritratto, cit. p. 991.

[7] I. Battaglini, Il corpo-sudario. Psicologia della transizione. Dalla tela alla performance nell’arte contemporanea, cit, p. 171.

[8] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani, Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2010, pp. 264-265.

[9] Ivi, pp. 226-235.

[10] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit.

È l’amore uno strano uccello…(un oiseau rebelle)

A proposito di Vera Slepoj, La psicologia dell’amore, Milano, Mondadori, 2015

di Giuseppe Panella 15 giugno 2016

leggi in pdf Giuseppe Panella – è l’amore uno strano uccello… (on oiseau rebelle)

2962915Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona. // […] Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore. //  Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. // Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. // Per più fïate li occhi ci sospinse /
quella lettura, e scolorocci il viso; /  ma solo un punto fu quel che ci vinse. //  Quando leggemmo il disïato riso /  esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, // la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: /quel giorno più non vi leggemmo avante
– sono forse i versi più celebri dell’Inferno dantesco (pari soltanto per risonanzae potenza a quelli del canto di Ulisse)… Quella di Dante è una fenomenologia del desiderio amoroso e contemporaneamente la sua analisi (psicologica) più fine perché individua in un terzo elemento (il libro che racconta la vicenda tragica di Lancialotto e Ginevra e del loro amore impossibile) la dimensione più profonda del suo emergere: il desiderio amoroso, infatti, come spiega splendidamente René Girard nel suo Menzogna romantica e verità romanzesca, è triangolare e prevede un riferimento ad un Altro che costituisce il suo punto di riferimento. Come accade, ad esempio, nella Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau dove alla vicenda di Julie d’Étanges e Saint-Preux, precettore dei suoi figli, si sovrappone il ricordo e l’imitazione “virtuosa” delle celebri vicende di Eloisa e Pietro Abelardo, la storia d’amore per eccellenza della cultura francese.

Dunque, l’amore è un percorso nella storia dell’umanità che ogni coppia di qualsiasi tendenza sia in realtà ricapitola nel corso della propria evoluzione emotiva e culturale.

Il testo letterario che forse è riuscito a ricapitolare in poche pagine la storia dei sentimenti amorosi in terra d’Europa è stato quel libro bellissimo (quanto sfortunato all’epoca sua) che è il De l’amour di Stendhal, vera e propria epitome delle modalità in cui l’innamoramento nasce, si rafforza e diventa amore come rapporto pro-duttivo e costitutivo della vita di una coppia (ovviamente, il saggio di Stendhal va molto al di là della pura e semplice psicologia dell’innamoramento come dimostreranno le sue “applicazioni” ai romanzi successivi del grande scrittore di Grenoble, Il rosso e il nero e La Certosa di Parma). Allo stesso modo, nel suo saggio più riuscito di sociologia dell’amore, Amore come passione del 1987, il mio vecchio maestro Niklas Luhmann è stato capace di riannodare le fila del discorso amoroso in chiave sistemica e ritrovare in determinati autori fondamentali al riguardo (primo tra tutti Rousseau) lo snodo fodamentale, il momento di svolta nella costruzione di un progetto di soggettività primario legato alla vicenda amorosa nella Modernità. Analogo obiettivo è quello di La psicologia dell’amore.

Il libro di Vera Slepoj parte, infatti, come una sorta di ricapitolazione della vicenda dell’Amore in Occidente (il celebre libro del 1939 di Denis de Rougemont) e attraversa prima la cultura greca con la sua celebre tripartizione tra eros (l’amore sensuale come attrazione reciproca), filía (come affetto e appartenenza reciproca tra membri della stessa famiglia o soprattutto tra amici) e agape (la condivisione del banchetto come forma di aiuto tra simili, un concetto poi ripreso dalla culltura cristiana per il tramite di San Paolo di Tarso), poi quella cristiana con la santificazione dell’accoppiamento tramite il sacramento del matrimonio e infine l’amor cortese e la tradizione troubadorica. Nel corso di una trattazione sintetica ma esauriente, la psicanalista milanese esamina con attenzione i diversi snodi storici della concezione dell’amore – dall’amour-passion dei Romantici (esemplari le pagine su Enrichetta Di Lorenzo, la compagna dell’eroe risorgimentale Carlo Pisacane e i rapidi accenni a colonne portanti della letteratura amorosa come I Dolori del giovane Werther di Goethe o Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo) all’evoluzione della concezione di questo sentimento dalla sua “sacralizzazione” all’attuale verifica delle sue potenzialità conoscitive-ermeneutiche nel percorso della psicoanalisi da Freud a Donald W.Winnicott e  Melanie Klein passando attraverso Jung e la sua teoria della libido fino ai suoi ultimi sviluppi sistematici.

Soprattutto su Winnicott la Slepoj ha intuizioni particolarmente rilevanti, in particolare riguardo al rapporto tra solitudine come costruzione di angoscia e l’”essere solo” come condizione di maturità esistenziale:

«La capacità di essere solo, che si basa su cure materne sufficientemente buone, è “uno dei segni più importanti di maturità nello sviluppo emotivo”. Questa capacità di essere soli è l’elemento fondante che, in una situazione di relazione amorosa, permette una valida strutturazione della relazione stessa, una relazione, cioè, in cui il legame d’amore non sia costituito dalla necessità di una ricerca angosciante (e spesso inconsapevole) di felicità e protezione da parte del partner. Spesso, onde evitare un’insostenibile solitudine, vengono fatte scelte azzqardate di partner distruttivi, o si costruiscono situazioni illusorie da “Mulino Bianco”, o, ancora, si trasforma la propria vita in una costante azione frenetica al fine di evitare “il silenzio della solitudine” o la paura di restare soli» (p. 125).

Questa paura della solitudine come pure il timore di non avere un rapporto fisso e stabile che sia rassicurante per se stessi, incide in misura assai rilevante nello svolgimento di un rapporto amoroso compiutamente gratificante. Questa stessa paura accade nelle storie d’amore che nascono su Internet e i suoi social network dove la virtualità dell’esperienza facilita i rapporti ma, nello stesso tempo, potrebbe renderne più difficile la realizzazione più felice e concreta: il “fantasma nella macchina” colpisce anche in questo caso rendendo più facile i contatti ma contemporaneamente più incerto il risultato duraturo di essi.

Opera volutamente complessiva e intesa alla sintesi, il libro di Vera Slepoj individua nell’amore la cerniera passionale e sentimentale dei rapporti umani e cerca di concretizzarne storia e sviluppi in maniera tale da evitare la tentazione accademica (molto forte in questi casi!) e giungere ad analisi di vicende esemplari (anche se non estreme o destabilizzanti).

Un libro, dunque, intenso – come deve e può essere solo una grande passione d’amore…

 

 

 

 

2

Hilde Domin: Il taglio del ricordo in esilio

di Andrea Galgano 1 giugno 2016

leggi in pdf HILDE DOMIN. IL TAGLIO DEL RICORDO IN ESILIO

domin2aIl progetto di pubblicare l’intero corpus poetico di Hilde Domin (1909-2006) trova in Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, terzo capitolo edito da Del Vecchio, una traccia, per così dire, attesa e pronunciata che raccoglie una parte delle poesie, dal 1951 al 1985, che ella stessa aveva scelto per l’intensa raccolta Gesammelte Gedichte (Poesie in raccolta) del 1987, così come le liriche di Der Baum blüht trotzdem (Eppure l’albero fiorisce) del 1999, alcuni testi sparsi e le Poesie dal lascito.

L’intensa nervatura poetica si accompagna ai saggi e alle interviste (Libertà nella scrittura), unendo l’impronta autobiografica (Vita come Odissea linguistica) alla fervorosa concentrazione di indagine e di lettura del reale (Fermare tempo e scopo – Le fasi della poesia tedesca del dopoguerra viste dal Paese e da chi vi ritornò).

Lo sguardo aperto sulle contraddizioni temporali e la ricostruzione della propria vicenda autobiografica, immersa nelle peregrinazioni e negli esili forzati, come il soggiorno in Italia, a Londra e nella Repubblica Dominicana, contraddistinguono la cifra della sua odissea e della sua Resistenza, dove presentare «la fuga permanente come permanente sfida linguistica» e permeare la sua scrittura nella salvazione: «Vengo riconosciuta come un essere della Resistenza, come qualcuno che nuota controcorrente, che si butta avanti ai treni in corsa, come se li potesse fermare, e che trova davvero difficile non sedersi in punta di sedia», o ancora tratteggiando la sua genesi scritturale scrive:

«Quando, dopo la morte di mia madre, di cui qui non parlerò, giunsi al limite, ecco che all’improvviso avevo la lingua che per tanto tempo mi era servita. Sapevo cosa fosse una parola. Mi liberai tramite la lingua. Se non mi fossi liberata, non sarei sopravvissuta. scrivevo poesie. Scrivevo in tedesco, ovviamente. Ma le poesie avevano appena visto la luce che le traducevo in spagnolo per vedere come reggevano in quanto testi. Per guadagnare distanza. Pubblicare, all’epoca, non era in questione. Scrivere era salvarsi».

Nella dimensione di salvazione dall’abisso e di affioramento la parola di Hilde Domin cerca la sua dimora, il nome di ciò che ospita l’identità, dove la semplicità odora di essere umano e ritorna alla lingua, e l’esilio, come afferma Anna Ruchat, «non è vissuto da Hilde Domin come un ripiegamento, bensì come una scelta che continuamente si rinnova e la riconferma come persona il cui radicamento è nella lingua, la sola cosa «permanente» nel continuo cambiamento».

Il lavoro interpretativo sulla parola è l’inizio indiziario di un approdo che sollecita la materia poetica in cui l’autrice muove i suoi passi e in cui il rapporto dialettico tra autore, testo e lettore dimostra che, come sostiene Paola Del Zoppo, «la lettura interpretativa sia di fatto in sé generatrice e non solo relatrice di verità poetica, e come il valore di una poesia non sia limitato alla comprensione dell’intenzione originaria dell’autore».

L’attimo di libertà permesso concede la sua connessione verbale e sociale. Hilde Domin scova il gesto vivente di un approdo nella lettura del tempo e delle sue connessioni sociali, nella consonanza poetica e biografica, e nella disossata verbalità espone la sua stretta ribellione e il suo vorticoso esilio, come condizione e migrazione, innanzitutto, ma soprattutto come genesi edenica espulsa che si attesta sulla lingua originaria e sul plurilinguismo acquisito.

Scrive Roberto Galaverni:

«Diversamente  da altri scrittori esuli, che hanno approfondito il rapporto con la propria lingua soltanto attraverso la sua perdita, sembra che per lei il contatto più stretto, la consanguineità tra parola e cosa, tra lingua e mondo, e dunque l’esultanza per il riconoscimento della loro reciproca appartenenza, costituiscano la condizione stessa della poesia. Anche da questo punto di vista il suo percorso appare piuttosto singolare. «La gioia di poter dire liberamente quello che voglio, come voglio», afferma la Domin, «di respirare liberamente e di sentire la cadenza della lingua in concordanza con il proprio respiro, questa è una delle gioie più grandi dell’essere di nuovo a casa, per uno scrittore». La lettura dei suoi versi risulta così un’esperienza alquanto contraddittoria. Da un lato questa poesia – quanto mai lirica, non c’è che dire – colpisce per  freschezza, immediatezza, evidenza, dall’altro tante volte sorprende per la semplicità, la prevedibilità delle soluzioni, scorrendo via facile facile, troppo facile».

L’immediatezza non sconfina nell’ingenuità, anzi sorprende come la sua parola debba essere pura, scolpita nella essenzialità dilagata, come misura e libertà. La scrittura diventa, quindi, il momento di verità, perché scommette, continua Galaverni, «sulla riconquista di un’alleanza tra la forma e la vita, tra l’uomo e la sua lingua».

Tale centralità, pertanto, ritorna e riconsegna la poesia al suo spazio assottigliato, «non per tornare a chiuderla in una irraggiungibile torre, ma per restituirla al lettore. […] Il lettore e il poeta, accomunati dal pericolo costante di etero direzione, di spersonalizzazione e in ultima istanza di una disumanizzazione, rischiano di ridursi a essere solo esseri umani menomati dall’immagine che se ne crea funzionalmente» (Paola Del Zoppo).

Nominare direttamente l’avvenimento della realtà significa, per Hilde Domin, ritornare all’elementare porzione delle cose, del creato, di ciò che amiamo, e significa, altresì, arrestarsi sull’attrazione umana basica davanti alla datità dell’essere e alla fraternità del Tu, alla ricostruzione di una speranza menomata e franta che diventa necessaria e imminente nella sua pausa attiva: «Meno della speranza di lui / questo è l’uomo / un solo braccio / sempre / Solo colui che è crocifisso / le braccia / spalancate / dell’Io-sono qui» (Ecce Homo).

Commenta Paola del Zoppo:

«Nel primo gruppo di versi Hilde Domin fa i conti con la realtà della natura umana nella sua realizzazione contemporanea. L’essere umano, che si rivela manchevole in due direzioni, è meno di ciò che si credeva di lui, e meno di ciò che Hilde Domin crede possa o dovrebbe essere, perché è un uomo con un solo braccio, unidimensionale. A questa rappresentazione umana fa da specchio ancor più che da contrasto, l’uomo con le braccia spalancate sulla croce, il “crocifisso”, laddove gekreuzigt è qui un aggettivo: l’intenzione di Hilde Domin non è quella di esortare all’obbedienza (richiamando la presentazione di Mosè sul Sinai), né al sacrificio di sé come speranza dell’umanità (il sacrificio di Cristo), né tantomeno, però, con l’inevitabile richiamo al testo nietzschiano, di annullare nel nichilismo una possibilità di esistenza metafisicamente orientata. L’impostazione scettica di Hilde Domin viene qui – e solo poeticamente – formulata e negata in favore di una speranza di segno maggiore. Appiattirsi su un ideale di sacrificio, sia esso anche di grande portata religiosa o antropologica quanto la rappresentazione biblica o evangelica dell’umanità, è comunque pericoloso perché comporta la riduzione della vera possibilità di umanità: «solo l’Io può essere fratello del tu». Il crocifisso è garante di questa possibilità, perché iconograficamente mostra due braccia, e dunque la facoltà di abbracciare, subordinata però alla rinuncia alla condizione di “crocifisso”, all’uscita dalla definizione di sé data dal simbolo».

La poesia lirica e la sua crisi ridestano l’attenzione della poetessa verso una capacità di connessione alla germinazione dell’Io e all’apertura verso l’Altro in tutta la sua peculiare differenziazione, volgendosi alla tensione trascendentale come intima testimonianza che vuole distogliersi dall’annullamento, e al valore della scrittura come difesa che non si piega all’istantanea di consumo per farsi impegno e lotta, rifugio e confessione come «allenamento per la vita», per usare un’espressione cara a Hans Magnus Enzensberger:

«Quando ci si sente molto oppressi, si può trovare rifugio nella lirica. La lirica permette di sfogarsi di più rispetto alla prosa. La lirica si accende come una lampadina. La lirica è costituita più da sofferenza che da gioia. L’essere umano può liberarsi attraverso la scrittura poetica. Sebbene sia ovviamente qualcosa di diverso, l’unico paragone possibile è con la confessione o con una chiacchierata con lo psicoterapeuta. Si ha la possibilità di esprimere ciò che si sta vivendo. Con la lirica si può fare ancora meglio. Io dico che è una benedizione se si può diventare creativi».

È la sua semina, il singolare barbaglio di luce che diventa oggetto fisico e nuove palpebre: «Nell’aiuola / dei miei fianchi / voglio seminare i tuoi occhi / prima che le foglie dorate / cadano e ci ricoprano. / Perché in primavera / con i narcisi e i giacinti / si schiudano le nuove palpebre».

La realtà fratturata segue la sua fascinazione perlacea, giungendo da lontano, si presentifica in una lingua di cieli e carezze scintillanti,, mietendo il cuore con il coltello che ricorda gioie ferite e stelle fidate (Un luccichio, che non si arresta, una lama / a creare un ampio arco, / falce di sole. / Lì giaccio come il prato / e sento il tuo coltello, / mietitore, / Inarrestabile e gelido, / che sutura):

«Il mare, solcato placidamente di perle / e color argento come le ali di una colomba, / giunge da lontano / fino a me e mi lecca / con minuscole onde / ancora e ancora / e non si placa / come fossi il suo cucciolo. La sua lingua morbida / sui miei occhi, / senza sosta / di fronte al cielo bianco, / mi ipnotizza / dal vetro della terrazza / con questi scintillanti carezze / finchè mi lega / con le braccia a penzoloni / alla mia sedia / e di fronte a me / resta sola / la mia macchina da scrivere».

Il focus oggettuale ed esistenziale di Domin si lega alla sua valenza prodromica che attua dinamiche basilari e nodali. L’avvenimento della parola segue all’accadere della realtà e la lirica, portata sul valore esperienziale, compone i suoi scettri emigranti ed esiliati, radicandosi in una scelta lessicale immediata, come immediato è il pronunciamento, in successione, della sostanza vivente e della caccia muta e luminosa, nella genesi depredata della morte e dell’aria assottigliata: «Già alla porta / sollevasti lo sguardo. / Ci guardammo. / Un grande fiore sbocciò / pallido e raggiante / dal mio cuore» (Già alla porta).

Paola Del Zoppo sostiene che: «Proprio tramite la messa a fuoco dei suoi contorni, la parola poetica può liberarsi e restare oggetto universale, e quindi presentarsi al lettore come slegata: è contemporaneamente oggetto pre e a-razionale, ed espressione lucida di una visione del mondo. La lirica più potente è quindi, secondo Domin, una lirica che può rivelarsi quotidiana e innalzarsi a un livello di essenzialità significativa che rende possibile la sua collocazione anche in altri e molteplici contesti».

La fusione con l’esistente, in Hilde Domin, non si risolve nell’annullamento ma rivela e disvela la superficie delle cose, la materia ricoperta dai filamenti dorati, dischiude lo splendore fradicio della sua mineralità dispersa, visitata nella festa o nell’urlo di gelsomino come luce sui seni: «Ah, vorrei uscire / e sdraiarmi sul prato / con le vene aperte / e la pioggia potente / come un treno / deve scorrermi addosso / e farmi bianca / come il letto vuoto di un fiume / o gli anemoni / sulla tomba di mia madre».

La celebrazione della realtà scopre il suo istante corposo attraverso la fuga in uno specifico equilibrio librato di macchie umide e oli rovesciati, persino la stessa sovrabbondanza grida la sua solennità tormentata e frammentata, il miracolo soffice, la prominenza dell’umano come sbocco e vertigine di significato.

Sono i suoi segnali che, come i fiori bianchi, «succhiano una scorta di sole / per la notte», aprono le ferite dilatate e amate del cuore cardinale e sottovoce combattono il superfluo. Nella distanza vergine si scoprono rose e magie, come se la parola, riempiendo ogni fessura del tempo resistente, riuscisse a essere pietra vivente, oracolo luminoso, arazzo germogliato nelle radici, e polvere di sogni: «[…] e il cuore / diventa pesante di dolcezza / come un frutto pieno di zucchero. / Dopo viene trapiantato / come semi di grano dai fossati / al solco dolorante / e la ferita viene curata con la saliva / di baci leggeri. / E il grano / una felicità morta / mette radici e germoglia. / Tutte le vene ne hanno l’odore / finchè le punte delle mie dita / sono rosee / come quelle di un bambino».

L’esigenza esistenziale di comunicazione della parola ricerca l’anticipo delle fioriture, dove denudare segreti e partecipazioni all’intimità dell’essere, dove porgere la propria vociata lingua, calligrafare l’autentico, determinare la scelta esatta del volto di ciò che c’è, determinare il perimetro del territorio del linguaggio nell’attrazione indifesa e raccolta come immagini chiarificate per una seconda nascita («Chiedo alle parole di tornare da me / attiro tutte le parole / indifese / Raccolgo le immagini / i paesaggi vengono da me / gli alberi le persone / Nulla è lontano / tutti si riuniscono / c’è tanto chiarore»), e, infine, soggiogare le lacrime nello iato insanabile di gioia e mancanza, pelle e orlo: «Le parole sono melagrane mature, / cadono al suolo / e si aprono / Tutto l’interno si volta all’esterno / il frutto denuda il suo segreto / e mostra il suo seme, / un segreto nuovo».

L’esilio domestico si realizza in finestre piene di luce per trovarsi, dar respiro al cuore nelle case, svegliare la profonda nudità dell’essere che apre il mondo, facendo terminare l’estraneità delle stagioni che scuriscono e imbiancano e le corride dei frammenti: «Le teniamo strette / queste chiavi, / viaggiamo con esse, / noi esiliati, / anche noi. / Il cuore, la tua vecchia / casa, / ha finestre piene di luce, / i volti all’interno / sono estranei. / Solo nel sogno / potresti entrare / con queste chiavi / che da sveglio / pesano così tanto nelle tue mani» (Chiavi di casa), come le strade che accumulano bellezza: «Violette orlano la strada, / occhi di fiori di fragola, / mughetti. / Il cuculo m’accompagna / di richiamo in richiamo / lungo una strada / che non è la mia. / Bordata di fiori sì / ma non la mia. / Guardando gli altri / mai mi sono chiesta / se la strada sotto i loro piedi / fosse la loro», o  attraverso l’approdo proscritto che inventa la destinazione, per farsi promessa di nome eterno e “necessarietà” oltre la distruzione: «Mi sono data il nome / mi sono chiamata / con il nome di un’isola. / È il nome di una domenica / in un’isola sognata. / Colombo scoprì l’isola / una domenica di Natale. / Era una costa / a cui approdare / si può sbarcare / qui gli usignoli cantano a Natale. / Si dia il nome, disse qualcuno / quando sbarcai in Europa, / dalla sua isola» (Poter approdare).

La dinamica del nostos permea il tracciato della sua tensione attraverso riferimenti biblici, letterari e autobiografici, designando l’odissea cifrata dell’esistenza, come avviene in Nell’antro di Polifemo, in cui, «nella personalissima mitopoiesi di Domin», scrive Anna Maria Curci,

«Ulisse che fugge con i suoi compagni si affianca a Sisifo che si oppone alla coazione e ad Abele invitato a rialzarsi dopo essere stato ucciso da Caino. È la dimensione plurale della fuga che emerge chiaramente nelle tre quartine di Nell’antro di Polifemo,  precedute, a loro volta,  da un distico che fa invece preciso riferimento all’io lirico: «Der blinde Riese greift wieder nach mir», «Il gigante cieco torna a ghermirmi». Lo scenario torna a essere una Höhle, un antro, una caverna, una cavità – […]. Le immagini proposte attingono a quanto narrato nell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni sono aggrappati al vello dei capi del gregge del ciclope, che, oramai accecato, ne tasta il ventre man mano che questi, varcando l’ingresso, si recano al pascolo.  Il verbo «fortgehen», che ricorre, sempre nella grafia «fortgehn», per ben tre volte nella prima e nella seconda delle tre quartine, la prima volta all’infinito («Andarsene») e nelle due ricorrenze successive, in una anafora, alla terza persona plurale («se ne vanno»), lancia la fune allitterativa a «fliehen» («fuggono») e «Flucht» («fuga») della terza e conclusiva quartina. Il procedere per anafore che caratterizza tutto l’impianto ritorna anche nella conclusione della prima e della seconda delle quartine, «unter der zählenden Hand», «sotto la mano che conta». La condanna si ripete, la minaccia della coazione, come per Sisifo, incombe costantemente, la fuga è condizione permanente. Solo la coscienza di tale condizione, sembra suggerire Domin, è antidoto al soccombere, all’essere schiacciati proprio da quell’obbligo alla coazione contro il quale il “suo” Sisifo si era ribellato».

Il dolore confonde i contorni degli anni, nei giorni che gridano la loro pretesa e le loro gocce, dove solo l’ostinato ha bisogno di essere solo nell’attimo del tulipano morente, dove le porte chiuse e dischiuse accendono luci, e gli stessi occhi toccano l’attimo smisurato e rimpicciolito del cuore in viaggio su lontananze distese e germogli di silenzio, tesi all’estremo: «Eppure l’albero fiorisce / Sempre gli alberi sono fioriti / anche per l’esecuzione capitale / Fiori di ciliegio e / farfalle / il vento li trasporta / anche nel letto del / condannato / Proseguono / portatori di fioritura / senza voltare il capo / con i filari luminosi / Più d’uno ti dice una parola / oppure sei tu a credere che parli / passando / Perché c’è così tanto silenzio» (Eppure l’albero fiorisce).

È la scelta che celebra le cose, le ricorda, le inscena, traccia il solco amoroso degli orli smussati piantati nel fondo e delle perdite come chiare ombre, si abbandona alla caduta e alla forza dello splendore vagante delle quotidianità azzurre, per essere in fuga, e dissolti, da ogni vento, e dove «le voci dure / e colme dei resistenza / quando il giorno finisce / e tu dolcemente / rinunzi allo splendore».

Nella raccolta La pelle del pianeta, Hilde Domin precisa lo scorrimento lento e poroso della sua striscia di carta, come un urlo che dà forma all’umano, pretendendo l’ “impossibile” coraggio civile, conoscendo la familiarità del «con- dolore» che annulla ogni perspicace distacco, e come afferma Paola Del Zoppo,

«ci conduce attraverso tutto il suo mondo poetico strappando la pelle del pianeta che ci contiene, in una successione di fasi di riappropriazione ed esaltazione della propria umanità. […] Attraversando la Storia sul Tokaido Express, Hilde Domin rielabora poeticamente e ripiega il tempo e lo spazio per trovare una sincera relazione con se stessi nella doppia “casa” dei poeti, il cui «paese si fa sempre più grande» e accogliente. La superficie terrestre si contrae i confini si ritraggono per far sì che si va via e si rimane, perché si vive nella parola «persino in parole di diverse lingue», o per scelta ci si impegna con fatica per avere residenza nella «parola tedesca». Ma se questo ritorno diventa una chiusura, l’acquisizione di un punto di vista univoco, perde il proprio valore di apertura all’altro. L’uomo tornato al presente è parte della storia e del dolore del luogo in cui si trova, e vi deve imprimere attivamente la propria umanità, «aprendo le braccia», per abbattere un lungo di muri che inevitabilmente hanno radici nel bisogno degli esseri umani di costruire la propria identità tramite somiglianze e differenze e non nella consapevolezza profonda della propria forza individuale».

La spodestata libertà smerigliata da riempire con schegge di vetro, la chiarità della scrittura che trascina detriti e macerie ma segnando «il sempre e il comunque di ogni lettera», la nostalgia che fa scorrere la terra tra le dita e delimita il nomadismo del tempo buio raccolgono la sopravvivenza di un’orma instancabile che tiene stretta i lembi delle ferite, rammenda e strappa il fiato mai stanco della luce posteriore della storia, per abitare la parola e aggrapparvisi.

Nella sillabazione della classificazione delle mura (Classificando mura), dai disegni sui tessuti, alla muraglia cinese di porcellana, fino alle mura di Avila e quelle senza porte di Ettore e di chi è senza documenti, Hilde Domin «traccia in pochissime sillabe una linea attraverso la storia della narrazione del mito e delle religioni connotando tragicamente la figura di chi è scacciato o non accolto, per associare a essi un muro che assume i contorni dell’assurdità, il muro di Berlino, un muro tra fratelli, «ognuno dalla sua parte». La dolorosa realtà viene scarnamente presentata superando ogni possibile giustificazione simbolica o narrativa: i muri più ripidi, resistenti e lunghi sono gli invisibili muri dell’indifferenza umana muri di schiene, veri e propri Mauern aus Menschenfleisch («muri di carne umana»)» (Paola Del Zoppo).

La scarnificazione della superficie e del superfluo serve alla poetessa per entrare nel mistero del reale, proferendo il suo discorso elementare, la sua tensione inesorabile non inerte che attraversa il tempo e lo spazio per riempirli di verità e senso, la sua altalena che si alza sui fuochi che bruciano, per cadenzare la lingua in un fiato che riporta a casa.

domin_il_coltello_che_ricordaDOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio editore, Bracciano (Rm) 2016, pp.461, Euro 19.

 

DOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2016.

CURCI A. M., Più scettica di Brecht, più fiduciosa di Benn: Hilde Domin (http://www.senzazuccheroblog.it/maggio-di-poesia-1-anna-maria-curci/), 5 maggio 2016.

DE MARTIN M. P., Hilde Domin: viaggio verso la parola, in «Miscellanea 3» (1996), pp. 225-230.

GALAVERNI R., La «seconda vita» di Hilde Domin, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2016.

RUCHAT A., Hilde Domin, «Il coltello». Una odissea linguistica, compagna dell’esilio, in “Alias Domenica, supplemento de Il Manifesto”, 14 febbraio 2016.

 

The Violent narcissistic identification: a psychodynamic process

di  Federico Tagliatti 16 maggio 2016

leggi in pdf The violent narcissistic identification

TagliattiI would like you to picture what the psychodynamic paths of violence explains within the narcissistic personality disorder. Starting by comparing the concepts of violence and aggression, then carrying out the functions of violence within the relational world of the narcissist and how these are used by means of projective identification and the role he play in the consulting room.
In order to clarify the water, the use I’m doing of the “violence” term, is strictly psychological and not referred to any fiscal behavior.

The aggressive type is a person controlling his impulses and acts only when forced and therefore becomes, for internal or external necessity, violent. Aggression is a natural tendency that has more to do with the instinctive apparatus without necessarily becoming violence. In fact, when an aggressiveness creates determination and creativity, we are dealing with a person’s adaptive function, something that allows the individual to maintain physical and mental stability.
Violence, however, is an interpersonal expressive form resulting from aggressiveness. As the main feature, the violence has the goal of physical or emotional injury of other people, which is why it may be a very interesting element for dynamic Understanding of narcissistic personality disorders.
We know that the forms of violence can be extremely varied but, the one I would like to analyze now, is the one that develops in narcissistic people and, in particular, the forms that can be seen within the analytic space. (I am not speaking of physical violence?)
Projective identification is a valuable interpersonal psychological process for seeing the dynamics of aggressive material within the subject, especially if the person is suffering from narcissistic
personality disorder. Path Ogden was one of the last interpreters and researchers who have examined the subject of projective identification. According to him, this is primarily a defense, but at the same time a way of communication, a primitive form of object relation, as well as a route to psychological change. We also know that the content of projective identification relates very closely to transference / countertransference dynamics (although there would be important distinctions to make) which are significantly important for the conducting of any analysis, in other words, projective identification is a mechanism that can allow us, probably, more than any other, to access and to understand narcissistic aggressive currents.
The aggressiveness that I intend to analyze is expressed by three different main channels. Each of these allows the subject to compensate for internal tension; therefore the aggressiveness is nothing more than a way that is unconsciously “selected” and its purpose is to bring the internal tension to a sustainable level for the subject, in order to avoid an unpleasant condition (Freud).
This view derives from classical theory; it reminds us that the object, in this perspective, is considered useful to play the role of “target” or for “giving expression to internal energies”.

According to H.Kohut (1971) the etiology of narcissistic disorder is a traumatic failure of the empathetic function of the mother and the negative effect of the development of the idealization processes; of course these traumatic failures cause an evolutionary arrest, and an endless search for an idealized self-object. The NPD, according to Kohut, could be a psychoanalytic diagnostic category based the transference, which reflects the patient’s effort to maintain self-cohesion. He called it the first “mirror” by relating it to the efforts made by the patient to capture any signal of admiration in the maternal gaze, and now transferred to the analyst. The other form of narcissistic transference Kohut describes is “idealizing” and consists in giving to the analyst such exaggerated values as to border on perfection.

From a structural point of view, according to Kernberg, the main differences between a narcissistic personality and other forms of character disorders, are the differences in operation of the ego ideal. Normally, the idealized images of the parental figures are condensed into a structure called the “ego ideal” along with idealized parts of themselves.
This process is then edited by the integration of a more realistic understanding of parental demands. However, in the narcissistic personality, this early fusion of the self with the ego ideal, with the subsequent devaluation of external objects and self image objects acts to protect the Self from primitive conflicts of an oral character and frustration (O.Kernberg , 1975).

In other words, the ego acquires a kind of omnipotence that should have been rightfully frustrated. To better these intolerable sensations, the narcissist, basically organizes his life as a network of
“satellites of nourishment” from which he draws the material he needs.
This network, which will represent an object to brag about like a collection of precious toys, will be powered by his denigrating and demeaning character behaviors and thoughts that in any case will
head to a common denominator: aggression. Violence in the sense of his devaluation of the other will be the glue between the narcissist and these same people from whom he is nourished in the sense that they admire him.
The devaluation of others and the emptying of the internal world of object representations, are among the causes that contribute to the lack of a normal self-esteem and that determine a strong inability to empathize with other people. It follows that the need to control others, while looking in every way to squeeze as much admiration from others as possible, is essential to compensate for the sense of inner vacuum.
In the relational world, the narcissist is constantly developing relationships of dependence on himself, and this operation’s main work is violence itself in the sense that I have been discussing it. Without this, such relationships never would form. The narcissist is an infallible hound tracking down admiring others. The narcissist is able to choose the right people who will drive him along his (emotional) and professional life.

wounds

I introduce now a metaphorical not original representation to express the image of an important psychological mechanism that helps us to deepen some passages of this argument. I will use the term “wound” to indicate a malfunction in the structure of the analyst’s self.
The analysis of an analyst also has the aim to dissolve the “particles” of life which have not been absorbed in the course of individual development. Of course, the result of the analysis itself, may achieve different outcomes and what we certainly
all hope, is that these knots are positively reshaped offering to the analyst important equipment that he cannot ignore when dealing with certain personality disorders. In the case of the narcissistic disorder, expecting a total transformation of these undigested parts is a utopian perspective, even in the best case. What we really have to aspire to, is that the particles are sufficiently absorbed to become scar tissue rather than wounds, that means, brittle structural parts
through which the link with the patient can become infected. What suggests the entrance of aggressive material through the analyst’s “wounds”?
The image of a wound, only serves to give us an idea of how pathogens that may come into contact with the body are not only of a bacterial or viral order, but also in the form of unconscious communication, so even the aggressive material, coming into contact with wounds, causes the body to mount a defense. The consequent defenses of the therapist would be interpreted by the patient as a rejection and fear; eventually these feelings would come back to the patient dangerously reshuffled with its originally projected material.

In the consulting room

What happens in the consulting room is often an amplification of wounds. The narcissistic patient will feel the highly unbalanced relationship since Its structure allows him to mount a relational attack. If in this case the analyst is sufficiently free of “wounds”, a “constructive metabolic process” of “aggressive fragments” projected by the patient can occur.
As we know, one of the dynamics underlying the narcissistic disorder is precisely the need to acquire, via other people, a kind of admiration that could be described as “higher quality” or unconditional. An admiration that performs the function of real nourishment.
It is also important that this admiration has a definite quality to the narcissist, he will be able to choose it on the basis of his taste and his own personal experience comparing people who have qualities to offer him. Moreover, this admiration should be able to match the fantastic expectations developed by the narcissist. Then it will be considered more valuable and therefore sought carefully.
The specific relational qualities sought by the narcissist in the other, if obtained in the consulting room, would lead to an extremely disappointing outcome for the results of an analysis.
In fact, even within a therapeutic relationship, the narcissist will go testing the waters in search of what interests him more. I will try to show how he can get it.
In the consulting room, the patient is able to establish a relationship through projective identification.
The self representations and devaluing the object are split and projected. In this case we therefore expect a kind of transfer of primitive object relations and then defensive actions characteristics of the stages preceding object constancy.
This function can be conducted in the right direction, but depends largely on the ability to “feel” of the analyst.
Projective identification always keeps its main function of defense, that is a process through which the subject can exclude parts of the self that are frightening or irreconcilable. The therapeutic relationship can go back to being a primitive form of object relationship allowing the patient to relate to a separate part object.
In this case it is very important that the analyst has largely solved these aggressive cores closely linked to its internal objects (or parts thereof), otherwise, these “blind spots” of the analytical process will progressively widen to compromise the entire operation of the analytical process.
Through what we call reinternalisation (considered by Ogden the third and final phase through which projective identification develops), we can create structural change within the individual self
through active modification of the Self links with objects, thus favoring a decrease in libido investment in the ego ideal.
This is done through work of feelings and emotions against which the person is struggling. Part of the projection means that these feelings are grafted into a host who can process them and return them in an entirely different way. None of this happens through a person actually seen as separate, but through the self projected into another, and by maintaining contacts with him as though he were someone else (Steiner,1993). The patient’s omnipotent defenses are constantly used to secure his confidence and his needs. In this way, the analyst finds himself continually threatened by devaluing aggressions of his worthlessness and the patient’s lack of sense of the whole process.
We now take a step in a different direction and try to understand what are the normal flows of expressive violence, because what we are trying to do is to have a clearer perspective on the pattern of narcissistic violence. We have seen that aggression is a principle instinctively present in all people. This can take different forms of expression, including violence, but the violence of which we speak, fundamentally, can move in directions that convey it either inside or outside the individual.
In case of aggression directed at themselves, the target of aggressive attacks are those internal objects that are not integrated with the rest of the self and have thus remained detached, completely incomprehensible and inappropriate for the functioning of the rest of the structure of personality.
To obtain displacement instead of violence, the involvement of projective identification is important.
In all its forms, violence implies the presence of a victim, and then of a target on which the “aggressive fragments” are to be projected. As I said, these fragments may be driven out only under certain structural conditions: the personality is one of the consequences of the development of the self that provides a vector to vent aggression. Unconscious management of the metabolic pathways of aggressive fragments may take different forms.
The combinations of psychological factors behind aggressive behavior are potentially infinite, but one can, from my point of view, recognize three channels of aggressiveness that I will describe.

The aggression management channels

1 The aggression management through the first channel, takes place within the individual by means of fantasized aggression against those objects experienced as irreconcilable and dangerous. This is a management that could be called healthy because the individual is automous in the management of the static produced by the environment in which he lives. Thus, he does not need to borrow that skill from others, as does the narcissist.

Aggression may be fantasized and managed in this way only through a computer-like system that is part of human cognition (?) in ways entirely self-sufficient.
Just as in childhood developmental stages described by Klein, the adult maintains the ability to attack his own thinking through aggressive Fantasy.
This implies the presence of a pre-existing structure of the self sufficiently able to handle this type of material, a metabolic apparatus capable of tension reduction through imagination. In this way, the aggressive material is in a sense “attacked” by the imaginative function to obtain the reduction of the strong internal tension that this would continue to exert otherwise.
For example, observing the work of M. Klein, we know how the baby plays is a function necessary for the understanding of many elements of the reality that surrounds him. The acquisition of the “as
if” structure takes shape in the years in which play takes the place of actually providing the child a real artificial experimental laboratory where the endless internal realities are merged with the various ingredients of the external reality. The alloys that will come out as a result of the early years of play, and then interaction with the surrounding environment. This will be the same material with which the child plays, literally building structure. Play is one of the child’s ways to project out of more or less animated objects, a whole series of aggressive hypotheses that must be tested before using on human subjects.
During growth, the individual works with aspects of aggression that can be, through fantasy, deposited in another person, so that he does not notice that he had lost the connection both with himself and with the other person (T .Ogden p22).
The acquisition of this information allows the child to integrate new information with previous information obtained “in his laboratory” -. This experiential aspect is developed in every individual, either through experience from the environment, which through fantasy, freely attacks the objects that make up his inner world. What, for structural causes of the Self, cannot be processed internally, automatically reaches the level of inner sublimation or external action.

2 In the second channel, the aggressiveness is not able to find a way so that the drives can be processed in an appropriate manner, because the structures that should be developed within the Self do not exist, or are not sufficiently developed to allow reduction of tension.
In this case, both the real experiences and those imagined contribute in creating a state of tension that cannot be relieved due to the lack of mental structures that enable sublimation, which in turn, brings comfort.

It is important to remember that violence is almost always the basis of the trauma, and one of the consequences of the trauma is a deficiency in the formation of the Self structures able to manage an attack, so that’s why childhoods spent in violent environments, in our case we use the term “denigrating violence”, are the reason some individuals are incapable of creating interpersonal relationships based on love and affection.

3 In the third channel violence is ousted projective identification. This mental function is developed by the individual to get rid of emotions that do not fit in the object relations of the person’s system, they are expelled as “aggressive splinters” to settle in a host organism through his wounds. At this point it is important for the narcissist to play all the cards at his disposal so that he can establish a lasting relationship with the person hosting his projections. In this way, the experience can translate into unconditional admiration. Ogden identifies this step in projective identification with the term “interpersonal pressure”.
Managing the transference aspects of a therapeutic relationship linked to narcissistic dynamics is perhaps one of the most complex realities that we face in the space of a psychoanalysis.
Freud, based on the economic model that emphasized the importance of mental energy and instinctual investments, had come to the conclusion that patients suffering from narcissistic disorder were not analyzable because they could not develop the typical features of the transference neurosis. Many narcissistic patients appear in fact not involved for a long time with the analyst, contrary to what happens in neurotic patients. Only recently have clinicians understood that the apparent lack of transference of these patients is the characteristic transference itself. (Brenner, 1982)
This professional challenge is made even more complex if there are unresolved narcissistic nuclei in the analyst.
The analyst’s useful role in the consulting room may be at risk if he was not previously able to address and resolve sufficiently his own narcissistic issues.
The importance of solving the narcissistic aspects present in the analyst is the basis of his future ability to feel empathically, and empathy is one of those tools undeniably recognized as fundamental, so that we could call it essential for the smooth conduct of therapy. For the narcissist
it is extremely difficult, almost impossible, to relate to others with a positive empathy. However, he badly needs the positive empathy of the analyst. I do not think it is correct to say that the narcissistic patient is free of empathic tools. It is more appropriate to emphasize that empathy is one of the narcissist’s abilities, enabling him to experience the emotional state of those who come into contact with him, but the use that he makes of this information is solely and entirely in his favor.
So, it is quite normal to expect aggressive behavior of the devaluing type at first, in a session as well as in any relationship of his extra-analytic life.
Devaluations are certainly the behaviors which the narcissist knows best and benefits from. Devaluations that protect his satisfaction and survival, are nothing more than projections from aggressive splinters of which I spoke earlier.
The “patient request” in the narcissistic analytical framework is to have a certification of his grandeur, you are to restore cracked tools that allowed him to create and maintain the network of nourishment.
The screened material can enter the therapist through two roads:
1. Through the access route he has developed through clinical experience.
What the analyst needs to do is to handle the projected material via his own skills, to produce constructive change.
2. Through the “wounds” I mentioned above, genetically previous to his own analysis but that the analysis has not been able to suture in an adequate manner.

conclusions

The analyst’s ability to “feel” what can be a role or a thought that does not belong to him, and having developed the functional capacity for empathy in his analytical role is the basis for the recognition of the aggressive material projected by the narcissistic patient. Through the ability of this analytical sensing, we can more clearly trace the movements of aggression in both the intrapsychic dynamics of the person, and the interpersonal.
In the interpersonal reality of people with NPD, aggression has a well-defined communicative function, so it is necessary for therapists to recognize, intensity, nature and origin to untie themselves from the usual defensive reactions that would be raised. We also need to ask ourselves how we can get intimately in touch with this flow of important information, how to use it, and what tools we need to be able to investigate them and especially how to sharpen them.
We have seen that encouraging the development of the empathic ability of the analyst may be a condition that can make the difference between a success or a failure of the treatment, and perhaps this aspect needs to be deepened and made more and more receptive. you can accomplish this only in the analyt’s personal analysis time.
This may allow the analyst to isolate the expressive paths of violence within the consulting room maintaining a restraining-processing position of the projected material meaning that the analyst does not force to own the projected material. It is useless to get rid of a hot potato that we can not handle.

References

• Ogden, T.H. (1979). On Projective Identification. Int. J. Psycho-Anal., 60:357-373.Bion, W.R. (1962). The Psycho-Analytic Study of Thinking. Int. J. Psycho-Anal., 43:306-310.
• Bion, W.R. (1963). Elements of Psycho-Analysis. London: Heinemann.
• Bion, W.R. (2013). Attacks on Linking. Psychoanal Q., 82:285-300.
• Talamo, P.B. (1997). Bion: A Freudian Innovator. Brit. J. Psychother., 14:47-59.
• Egan, J., Kernberg, P.F. (1984). Pathological Narcissism in Childhood. J. Amer. Psychoanal. Assn., 32:39-62.
• Kernberg, O.F. (2008). The Destruction of Time in Pathological
Narcissism. Int. J. Psycho-Anal., 89:299-312.
• Freud, S. (1914). On Narcissism: An Introduction. The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, Volume XIV (1914-1916): On the History of the Psycho-Analytic Movement, Papers on Metapsychology and Other Works, 67-102.
• (1960). The Psychoanalytic Study of the Child (An Annual), 13, 1958:
Christine Olden (New York). ‘Notes on the Development of Empathy.’ Pp. 505–518.. Int. J. Psycho-Anal., 41:655.
• (1961). Journal of the American Psychoanalytic Association. VII, 1959: Introspection, Empathy, and Psychoanalysis: An Examination of the Relationship Between Mode of Observation and Theory. Heinz Kohut. Pp. 459-483.. Psychoanal Q., 30:138-139.
• (1962). International Journal of Psychoanalysis. XLI, 1960: Empathy and Its Vicissitudes. Ralph Greenson. Pp. 418-424.. Psychoanal Q., 31:119.
• (1979). The Annual of Psychoanalysis. IV, 1976: Empathy and Metaphoric Correspondences. Stanley L. Olinick. Pp. 93-100.. Psychoanal Q., 48:667-667.
• Abend, S.M. (1986). Countertransference, Empathy, and the Analytic Ideal: The Impact of Life Stresses on Analytic Capability. Psychoanal Q., 55:563-575.
• Anshin, R.N. (1995). Intersubjectivitiy, Creative Uncertainty, and Systems Theory: An Approach to the Clinical Use of Empathy. J. Amer. Acad. Psychoanal., 23:369-378.
• Bolognini, S. (1997). Empathy And ‘Empathism’. Int. J. Psycho-Anal.,
78:279-293.

La pericolosità del malato di mente

di  Volfango Lusetti 11 maggio 2016

leggi in pdf La pericolosità del malato di mente

*articolo apparso anche su “Etica & Politica” diretto dal filosofo Pier Marrone, Trieste

008Geri_HR_kleptoAl concetto di pericolosità del malato di mente non si fa più cenno, nella legislazione psichiatrica italiana, e più in generale nelle leggi sanitarie del nostro paese, a partire dalla legge n. 180 del 1978, poi recepita dalla legge 833 dello stesso anno: ovvero, da quella legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale e che è tuttora in vigore.

Occorre a tale proposito sottolineare un fatto curioso: neppure la recente legge 9 del 2012 (la cosiddetta “legge Marino”) e la susseguente legge attuativa (Decreto Legge 52 del 2014, convertito in legge il 24 4 2014), che pure ambivano a completare la riforma psichiatrica del 1978 (proponendosi il fine ultimo di superare gli unici Ospedali psichiatrici ancora rimasti in attività, ovvero gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e di investire così in pieno il tema del trattamento dei malati di mente pericolosi), hanno osato toccare la pericolosità del malato di mente in quanto “nodo concettuale”, o tanto meno abolire il principio della pericolosità sociale in sé: questi provvedimenti hanno semplicemente stabilito che non potrà più esservi cura del malato di mente autore di reati in strutture che non siano “sanitarizzate” e nelle quali la sorveglianza della forza pubblica non sia al massimo “peri-muraria”, confermando così la pluri-decennale vocazione di tutti i riformatori della Psichiatria italiana a concentrarsi sui “luoghi” anziché sui problemi (il primo dei quali è, per quanto riguarda la pericolosità dei pazienti degli O. P. G., la sua più puntuale definizione, e soprattutto il frequente prolungarsi della degenza dei pazienti pericolosi oltre i limiti stabiliti dalle sentenze, a causa del reiterarsi d’una “valutazione di pericolosità” che può nei fatti fare durare la degenza stessa all’infinito).

Ancora una volta dopo il 1978, dunque, sembra che i Manicomi, agli occhi di molti, siano dei luoghi magici popolati da una sorta di “genius loci” della violenza e dell’arbitrio: un “genius loci” il quale, in caso d’una loro chiusura, si rifiuterebbe di abbandonarli, per cui il “chiudere i Manicomi”, pur senza minimamente preoccuparsi di preparare questo evento con forme di sperimentazione alternativa, e/o del modo in cui i loro ex degenti verranno trattati altrove (giuridicamente o dal punto di vista sanitario), equivarrebbe in ogni caso ad “avviare il problema a soluzione”.

La “pericolosità del malato di mente”, dunque, continua a tutt’oggi, a dispetto della cosiddetta “riforma Marino” e della successiva legge del 2014, ad essere menzionata solo nel diritto penale. Essa del resto, almeno fino a pochi anni fa, era trattata pochissimo anche nell’ambito della Psichiatria clinica, con l’ovvia eccezione della Psichiatria Forense.

In definitiva il tema della “pericolosità del malato di mente”, in parte a causa del suo carattere scottante sul piano dei principi, ed anche in ragione dell’enorme complessità delle problematiche pratiche che solleva, dopo ben trentacinque anni dalla legge 180, pur rimanendo ancora intatto davanti a noi, lo è alla stregua d’una montagna semi-sommersa ed in buona parte invisibile: una sorta di “iceberg” il quale, come appunto avviene con queste montagne di ghiaccio galleggianti, presenta una parte minima “emersa” (che poi corrisponde alla pericolosità del malato di mente autore di reati ed alla sua valutazione, ancora oggi possibile), e la parte maggiore sommersa (che corrisponde al problema della valutabilità della pericolosità del malato di mente non autore di reati, tuttora, trentotto anni dopo la promulgazione della legge 180, del tutto impossibile).

1

La rimozione della pericolosità del malato di mente

In base a quanto sopra, possiamo senz’altro dire che la questione della valutazione psichiatrica della pericolosità del malato di mente è stata per almeno trentacinque anni, e continua ad essere anche oggi, il grande rimosso della Psichiatria italiana.

Come tutti gli altri rimossi, però, essa tende a comportarsi come un “perturbante”, e ed a farlo precisamente nel senso freudiano del termine; infatti la pericolosità è un concetto del quale, in Psichiatria, nessuno parla nella sfera della teoria, ma a cui tutti pensano costantemente nella propria pratica professionale quotidiana, per lo più in maniera inconscia e comunque sempre inconfessata. Ciò avviene ovviamente con importanti conseguenze negative, che ciascuno può facilmente immaginare.

Ma perché mai si è creata, proprio in Italia, questa situazione?

La rimozione della violenza collegata alla malattia mentale avvenuta soprattutto nel nostro paese, è dovuta ad un duplice ordine di fattori.

  • Un primo ordine di fattori è di tipo ideologico, e consiste nella forte manipolazione, per l’appunto di natura ideologica, che sul tema della violenza del malato di mente è stata esercitata (in particolare ad opera del pensiero positivistico italiano) per circa un secolo: questa manipolazione è iniziata all’incirca nella seconda metà dell’Ottocento ed è durata, in varie forme, fino agli ultimi anni del Novecento, giungendo praticamente fino a noi.

Essa si è realizzata in due forme contrapposte, articolatesi in due distinti momenti: un primo momento è stato caratterizzato da un’enfatizzazione estrema del nesso esistente fra malattia mentale e violenza. Bisogna qui chiarire che ove si intenda correttamente la “violenza del malato di mente” nel suo duplice risvolto, ossia da un lato come auto-diretta e dall’altro rivolta verso gli altri, proprio a quest’ultima, benché  nella realtà clinica essa sia di gran lunga la meno frequente, è stato dato maggior risalto dai “mass media” e dagli intellettuali, di fronte ad un’opinione pubblica per lo più incerta e smarrita; all’inverso, alla violenza auto-diretta, molto più frequente e quasi “tipica” di certi disturbi psichici, è stato dato molto minor spazio agli occhi dei non addetti ai lavori, lasciandola, rispetto alla prima, quasi in ombra. Una tale enfatizzazione della violenza etero-diretta collegata alla malattia mentale, è poi sfociata nell’abuso più sfacciato (operato non solo a livello popolare, ma anche scientifico) dello stereotipo del malato di mente violento; il malato di mente è stato infatti visto come un soggetto, prima ancora che aggressivo, sempre e comunque carente d’ogni capacità di controllo sui propri impulsi d’ogni genere, quindi per definizione “pericoloso a sé ed agli altri”, e ciò in palese contraddizione con la realtà clinica.

In un secondo momento, in particolare a partire dagli anni Settanta del Novecento si è poi passati, come già accennato, ad uno stereotipo opposto: quello di dare per scontata l’assoluta equivalenza fra malati di mente e popolazione generale quanto a frequenza di comportamenti violenti.

Quest’ultimo stereotipo, anch’esso di matrice ideologica, si è alla fine tradotto, al contrario del primo, in una vera e propria negazione del problema della violenza nei malati psichiatrici (un problema che purtroppo talora esiste).

Quest’insieme di manipolazioni ideologiche di segno opposto sul tema della violenza del malato di mente, ha comunque gettato per lungo tempo discredito sull’argomento; si è allora ingenerato in relazione ad esso, almeno negli addetti ai lavori più sensibili all’esigenza d’un approccio scientifico alla malattia mentale, un forte senso di saturazione e di fastidio, ed un sentore di “stile giornalistico”, ovvero di “non serietà”, in relazione all’intera materia.

Tutto questo non ha certo facilitato l’approfondimento del problema, ed ha probabilmente favorito, fra molti degli operatori psichiatrici, una più o meno consapevole volontà di accantonarlo e non occuparsene più.

  • Il secondo ordine di fattori di rimozione del tema della violenza nel malato psichiatrico è per l’appunto di tipo psicologico: esso risiede anzitutto nelle fortissime risonanze emotive che l’argomento-violenza genera, da sempre, negli operatori della Psichiatria. Tuttavia, l’influenza di tali risonanze sugli psichiatri, nel nostro paese è stata potenziata, come accennato nel primo punto, dalla perdita graduale (dovuta alle suddette ragioni storico-ideologiche) d’ogni dimestichezza e motivazione a ragionare in termini di pericolosità.

Queste risonanze emotive hanno poi facilitato l’adozione della difesa più facile ed a buon mercato: quella costituita, per l’appunto, dalla rimozione.

Ma qual è, di preciso, la sostanza psicologica del problema?

Agli psichiatri, agli psicoterapeuti ed agli “addetti alla Salute Mentale” in genere:

  1. a) non piace l’idea di essere in qualche modo corresponsabili delle eventuali violenze che i propri pazienti potrebbero commettere, sia su sé stessi che su altri, in ragione delle ovvie conseguenze giuridiche che potrebbero ricaderne in capo agli psichiatri medesimi.
  2. b) non piace neppure, per molte ed intuibili ragioni, l’idea di potere essere con relativa facilità fatti oggetto essi stessi di violenza da parte dei propri pazienti.

Essi fanno molta fatica ad accettare, per comprensibili ragioni, sia l’una che l’altra idea, e perciò le rimuovono; ma ciò avviene, per lo meno in Italia, in misura assai maggiore di quanto sarebbe logico aspettarsi in uomini di scienza, ed in forme talora sconcertanti, nonché spesso a dispetto dell’evidenza.

Infatti:

  1. a) In primo luogo il riconoscimento della potenziale pericolosità del malato di mente implica una grave ferita ai vissuti d’onnipotenza degli operatori psichiatrici, al loro narcisismo, alla loro sicurezza in sé stessi (sentimenti, questi, che sono cospicuamente presenti in tali operatori, e talora paradossalmente lo sono, in misura assai più rilevante che in altre categorie professionali, proprio in quelli a più alto tasso di specializzazione). Gli psichiatri e gli psicoterapeuti, molto più d’ogni altro operatore sanitario, si sentono infatti assai spesso investiti d’un compito e d’una “saggezza” particolari, e di conseguenza ritengono, per lo più a torto, di essere latori di un qualche “messaggio di verità” nei confronti della società nel suo insieme.
  1. b) In aggiunta a ciò, la violenza mette in luce impietosamente problemi personali irrisolti, paure profonde, psico-dinamiche interiori di tipo patologico e insicurezze di vario tipo, aggressività latente e quant’altro, che appartengono alla dimensione soggettiva di tutti gli individui, ma che negli operatori psichiatrici sono spesso, sfortunatamente, assai più rappresentati che nella popolazione media. In ragione di ciò, la facile identificazione degli psichiatri con i loro pazienti, o al contrario con le loro potenziali vittime, innesca un gioco di proiezioni reciproche che ostacola gravemente il rapporto terapeutico, e la rimozione appare spesso un “facile rimedio” a tutto questo.
  1. c) Infine, ultimo ma non ultimo elemento, la violenza del paziente psichiatrico, in particolare se esercitata proprio su quelle figure professionali che dovrebbero “curarlo”, sembra fatta apposta per insinuare in esse un forte sospetto circa l’utilità stessa del loro agire terapeutico.

Per queste ragioni la violenza del paziente psichiatrico costituisce l’oggetto ideale per ogni possibile “rimozione”.

La violenza del malato di mente, in buona sostanza, ripropone nei fatti, a tutti i professionisti operanti nel settore della Psichiatria, siano essi di impostazione psico-terapeutica oppure psico-farmacologica, una certa visione custodialistica dei rapporti terapeutici (in sé avvilente sul piano personale, snaturante e dequalificante sul piano professionale, nonché inquietante sul piano culturale ed antropologico) che la maggioranza di loro sperava fosse stata da tempo superata dai progressi della Psichiatria (sia farmacologica che riabilitativa).

Non bisogna dimenticare infatti che, oltre ai progressi della Psichiatria scientifica che lo ha loro permesso, una delle principali motivazioni che hanno portato gli psichiatri ad operare attivamente per il superamento del Manicomio, è provenuta proprio dal vissuto psicologico di frustrazione e d’impotenza terapeutica, nonché di dequalificazione professionale, che l’idea custodialistica e violenta della Psichiatria aveva da gran tempo generato in loro.

Una conferma indiretta di ciò si è avuta nella legislatura 2001-2006, quando la Società Italiana di Psichiatria (S.I.P.) è scesa in campo, in tutte le sue componenti e tendenze tecnico-scientifiche (tra le quali sono cospicuamente rappresentate la Psichiatria Biologica e la Psico-Farmacologia), contro le proposte di modifica in senso regressivo e custodialistico della legge 180 avanzate da alcuni parlamentari dell’allora maggioranza di centro-destra.

Queste modifiche andavano per l’appunto nel senso del ripristino dell’idea d’una “pericolosità” perennemente connaturata al paziente psichiatrico, insieme con quella, ad essa necessariamente conseguente, della necessità d’una custodia coattiva per tempi medio-lunghi del malato di mente, preso in quanto tale ed a prescindere dai suoi comportamenti violenti e/o dalla commissione di reati, in strutture per cronici ad alto o altissimo indice di protezione.

Tuttavia, malgrado un tale complesso sistema di distorsioni, di negazioni e di rimozioni che nel corso del tempo è stato eretto e dispiegato attorno al tema della violenza del paziente psichiatrico, ultimamente esso è sembrato riemergere dal contesto strettamente penale nel quale la legge 180 lo aveva confinato.

La potenziale violenza del malato di mente, dunque, è finalmente tornata ad essere, anche in Italia, un argomento di riflessione clinica su cui si può ragionare con un minimo d’oggettività, restando almeno parzialmente al di fuori del clima d’esasperata emotività conferito a questo argomento dai due opposti schieramenti politico-ideologici che hanno monopolizzato il dibattito su di esso nel recente passato.

Ciò è stato facilitato anche dal fatto che un po’ in tutto il mondo, da gran tempo e già a partire dagli anni Settanta, è in svolgimento un grandioso processo di superamento del Manicomio nonché delle sue basi scientifiche e concettuali, le quali si basavano proprio sul concetto della “pericolosità sociale presunta” del malato di mente.

2

Le ragioni storiche del ridimensionamento in Occidente del concetto della pericolosità del malato di mente

Circa il ridimensionamento da un lato delle prassi inerenti la psichiatria custodialistica e dall’altro dell’apparato ideologico riguardante il concetto della pericolosità sociale presunta del malato di mente (due ambiti strettamente interconnessi), occorre però fare una distinzione fra l’Italia e ciò che è avvenuto nel resto del mondo, poiché si tratta di due ordini di fenomeni non del tutto coincidenti.

In questo paragrafo prenderemo in esame le tendenze internazionali in materia, nel prossimo ciò che di più peculiare è avvenuto in Italia.

Le ragioni di fondo per le quali dagli anni Settanta fino ad oggi, un po’ in tutto il mondo occidentale (ed anche oltre, come ad esempio in paesi emergenti quali il Brasile), si è andati verso un ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente, ed anche verso il superamento della psichiatria custodialistica (e con essa, dell’Istituzione Manicomiale), sono di quadruplice ordine:

  • si tratta in primo luogo di ragioni economiche: Ronald Reagan, negli anni Settanta Governatore dello Stato della California, chiuse rapidamente gli Ospedali Psichiatrici essenzialmente per ragioni di risparmio sul pubblico erario, e le conseguenze sui malati d’una tale motivazione (la quale a sua volta determinò delle linee di condotta abbastanza avventuristiche) furono spesso tragiche. Ma ciò che accadde in California alcuni decenni fa rappresenta solo l’estremizzazione d’una tendenza di fondo che da allora in poi pervase un numero sempre maggiore di paesi di tutto il mondo, e che non fu estranea neppure alle ragioni, ben più nobili ed articolate, che portarono alla promulgazione della “180” in Italia o alla promozione, in Francia, della cosiddetta “Politica di Settore”, imperniata sulla proiezione dei reparti dell’Ospedale Psichiatrico su “fette di territorio”. Nel corso delle esperienze italiane volte al superamento del Manicomio prima della legge 180, ad esempio, uno degli argomenti più ricorrenti che venivano usati allo scopo di dividere il “fronte conservatore”, era proprio quello che un’assistenza psichiatrica imperniata sul territorio, oltre che più “umana” ed “efficace”, sarebbe stata immancabilmente più “efficiente”, consentendo di risparmiare denaro. In realtà ciò non è stato mai dimostrato, anche a causa della difficoltà di comparare costi relativamente centralizzati e facilmente calcolabili quali quelli inerenti la gestione degli Ospedali Psichiatrici (sia pubblici che privati), con le infinite voci di costo che riguardano la Salute Mentale riformata, comprese le attività “indotte” private ma sovvenzionate dallo Stato (Cliniche private convenzionate, Comunità Alloggio, Case Famiglia, Comunità Terapeutiche, Centri Diurni, Ambulatori, sussidi e pensioni a carico degli Enti Locali e dello Stato, ecc. ecc.). Però è significativo che l’argomento sia stato uno dei “cavalli di battaglia” del fronte riformatore, in Italia, per lungo tempo.
  • In secondo luogo, si tratta di ragioni giuridiche: lo stabilire che dei cittadini di uno stato di diritto, in virtù di loro presunte e più o meno permanenti caratteristiche biologiche e senza che abbiano commesso dei reati, siano affetti da una condizione cronica che li rende sempre e comunque “socialmente pericolosi”, ed il rinchiuderli a tempo indefinito, per puri fini di prevenzione sociale, in una struttura di custodia a carattere permanente sotto la risibile parvenza della “cura psichiatrica”, è apparso a molti osservatori, secondo noi pienamente a ragione, una gravissima lesione del principio, ormai invalso in tutto il mondo civile, dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge a prescindere dal loro sesso, razza, religione, lingua, credo politico e stato di salute, ed anche una gravissima violazione del principio dell’inviolabilità dei diritti della persona.
  • In terzo luogo, si tratta di ragioni terapeutiche, legate alla sempre maggiore efficacia degli psico-farmaci sul controllo del comportamento alterato ed anche violento dei malati di mente, efficacia che, non si può negarlo, ha avuto un peso determinante per il superamento dei Manicomi. Un’efficacia pari alla Psico-farmacologia, poi, hanno dimostrato fin dai tempi di Conolly le Terapie Riabilitative e Comunitarie basate su metodi non coercitivi e non violenti.
  • In quarto luogo, si tratta di ragioni scientifiche e di natura teorica, ed in particolare, della serrata critica che dell’idea di “pericolosità del malato di mente” si è iniziato a fare, sin dagli anni Settanta, in tutto l’Occidente. Già a quell’epoca, infatti, gli studi di Hafner e Boker avevano fatto presente l’incidenza nei malati di mente violenti degli stessi fattori di rischio generico (età giovanile, sesso maschile, bassa scolarità, assunzione di sostanze stupefacenti e d’alcool, appartenenza a famiglie di bassa estrazione sociale) che giocavano un ruolo nel comportamento violento dei soggetti normali, sfatando il mito d’una “fatale” correlazione fra malattia di mente e violenza.

Gli studi sulla violenza nei malati di mente cominciarono ad essere effettuati, come accennato, negli anni Settanta; questi studi, però, detti anche “di prima generazione”, erano abbastanza rozzi ed imprecisi sul piano scientifico, ed infatti sono stati molto criticati, sul piano del metodo, per motivi più che validi.

Un primo motivo era rappresentato dal fatto che prendevano in esame solo campioni pre-selezionati di popolazione, spesso con una spiccata preferenza per popolazioni istituzionalizzate quali quelle carcerarie (di per sé, presumibilmente, molto più violente della popolazione generale, ed anche di quella psichiatrica).

Un secondo motivo è che questi studi, nell’insieme, fornivano risultati molto contraddittori: alcuni di essi andavano nel senso di una sostanziale equivalenza, quanto a comportamenti violenti, fra malati di mente e popolazione generale; altri andavano invece nel senso opposto, ossia rilevavano un’attitudine al comportamento violento nel malato di mente superiore a quella della popolazione generale. Queste discrepanze, peraltro, li rendevano nel loro insieme molto dubbi.

Gli studi cosiddetti di seconda generazione, ed in particolare quelli di J. W. Swanson, di B. Link e di A. Stueve, risalenti agli anni Novanta e Duemila, sono stati invece condotti con maggiore rigore metodologico, poiché hanno iniziato a prendere in esame popolazioni naturali e non campioni pre-selezionati, anche se nel loro complesso hanno continuato a manifestare forti discrepanze gli uni con gli altri.

Occorre dire, peraltro, che tutti gli studi sulla “pericolosità dei malati di mente rapportata a quella della popolazione generale” sono difficilissimi da condurre (quindi in genere poco attendibili), in ragione di due elementi:

  1. La mancanza in moltissimi paesi, anche per ragioni inerenti la “privacy”, di banche dati sufficienti a raccogliere e confrontare i dati epidemiolologici psichiatrici con quelli provenienti dalla polizia, dalle carceri e dai Ministeri della Giustizia (la Svezia è una delle poche eccezioni a questa regola).
  2. Il fatto, in sé ovvio ma spesso dimenticato, che la maggior parte degli ammalati di mente, dai primi anni 50 del Novecento in poi, a causa dell’introduzione del trattamento psico-farmacologico, non è più “drug free”, né può essere ricondotta a tale condizione a scopo di studio per ovvie ragioni etiche; perciò quello che in questi studi si esamina (la “pericolosità” d’un campione di malati di mente che si tenta di confrontare con quella d’un campione omogeneo di popolazione generale), non corrisponde più da moltissimo tempo all’effettiva condizione di pericolosità del malato di mente. I riferimenti più attendibili a quest’ultima condizione, dunque, provengono ormai quasi esclusivamente da dati aneddotici (alcuni dei quali in verità impressionanti, anche se potenzialmente attribuibili alla condizione di coercizione cronica) estrapolati dalle cartelle cliniche manicomiali d’epoca pre-psicofarmacologica. D’altra parte, qualora si adottasse un’altra strategia di ricerca e si focalizzasse l’attenzione proprio su quegli ammalati di mente che sfuggono al trattamento farmacologico, si andrebbe incontro ad un altro, non meno potente, fattore di distorsione: la possibile maggiore “pericolosità primaria” propria di quei malati che già in partenza rifiutano il trattamento o lo sfuggono. D’altra parte, che il problema dell’artefatto proveniente dal trattamento psico-farmacologico sia reale è dimostrato dal dato clinico che la maggior parte degli “incidenti” derivanti dalla pericolosità del malato di mente, si verificano in occasione del mancato rispetto delle prescrizioni terapeutiche e/o del mutamento o della sospensione della terapia.

Fatte salve tutte queste cautele, anche gli studi di “seconda generazione” in tema di pericolosità hanno finora fornito dei dati alquanto contraddittori: alcuni non rilevano differenze significative fra malati di mente e popolazione generale, altri invece le rilevano, suggerendo una sensibile maggior pericolosità dei “malati di mente”.

Però si è anche visto che anche in quest’ultimo caso il dato della “maggior pericolosità”, pur apparendo statisticamente significativo, cessa d’esser tale ove disaggregato in base alle differenze di diagnosi: per tali motivi, alla maggior parte dei ricercatori esso, comprensibilmente, non è sembrato in grado di giustificare l’adozione di misure preventive circa una presunta e generalizzata pericolosità sociale dei “malati di mente” (misure che fra l’altro hanno quasi sempre una conseguenza devastante sui principi giuridici liberali che sono propri d’uno Stato di Diritto).

Insomma, la “maggior pericolosità” dei malati di mente rilevabile secondo alcuni studi, riguarda un dato inerente l’insieme dei “malati di mente” che preso in sé non solo non significa nulla, ma conduce ad una visione fortemente distorta del problema.

Andando ancor più in particolare, si è visto che la pericolosità è sensibilmente più alta nei “disturbi antisociali di personalità” e “paranoidei”, oppure in alcune forme di psicosi schizofrenica paranoide o bipolare, che non in altre categorie diagnostiche.

Questa esperienza, insieme ad un maggior rigore metodologico degli studi più recenti, ha portato ad una conseguenza pratica rilevante: oggi, a livello di letteratura scientifica e di orientamenti giuridici internazionali, viene messa fortemente in dubbio la possibilità di trarre, dai dati di epidemiologia psichiatrica oggi disponibili, conseguenze d’ordine organizzativo e gestionale in ordine alla pericolosità.

In sintesi, contrariamente a quanto un tempo affermato dalla tradizione positivistica italiana (e particolarmente lombrosiana), oggi, a livello di letteratura internazionale, vengono messe fortemente in dubbio:

  1. a) la possibilità di prevedere scientificamente la pericolosità sociale d’un malato di mente, nel “lungo periodo” e semplicemente in quanto malato di mente.
  1. b) la possibilità di prevedere la pericolosità d’un malato in quanto esponente d’una categoria diagnostica psichiatrica particolare, quindi a prescindere dalla sua anamnesi individuale e dalle sue personali caratteristiche cliniche.

A questo proposito, è stato fatto autorevolmente osservare che gli autori di comportamenti violenti costituiscono un gruppo quanto mai eterogeneo (K. Tardiff), e che il comportamento violento costituisce per sua natura, più che il risultato d’un singolo fattore, un evento multi-fattoriale; in esso dunque il numero delle variabili (sia d’ordine clinico e psichiatrico, sia d’ordine relazionale, sia d’ordine ambientale) è elevatissimo, e comunque molto più elevato che in qualunque altro settore della Psichiatria. Perciò il confronto fra macro-popolazioni di “malati” e la popolazione generale può essere falsato da fattori di distorsione talmente numerosi da risultare, alla fine, scarsamente attendibile.

In definitiva, sull’interesse a confrontare statisticamente, con quelli della popolazione generale, i comportamenti violenti dei malati psichiatrici presi nel loro insieme (ossia in quanto generica ed onnicomprensiva categoria biologica dei “malati di mente”), o anche quelli di particolari categorie diagnostiche, specie al fine di trarne conclusioni rispetto ad una possibile prevenzione della violenza nel lungo periodo, oggi prevale un altro tipo d’interesse: quello ad effettuare una ricerca polarizzata sullo studio analitico della dinamica dell’atto violento preso in sé stesso, e sull’individuazione di fattori predittivi di pericolosità immediata che siano operativi nel singolo individuo, quindi anche nel singolo malato di mente, caso per caso.

Sulla base di queste considerazioni ormai si ricerca, più che l’evidenza scientifica di una generica “maggiore pericolosità media” del malato di mente rispetto alla popolazione generale, l’elaborazione di indicatori che permettano di effettuare, sul caso singolo, una previsione di pericolosità nel breve periodo; quest’ultima infatti è la più utile sul piano pratico e la più eticamente accettabile, ed inoltre presenta, sul piano dell’analisi dei dati, un numero di variabili molto più ridotto.

Questa impostazione di tipo completamente nuovo ha perciò conferito una rinnovata dignità scientifica da un lato alla pato-biografia, ossia allo studio approfondito del singolo caso clinico (una disciplina che, significativamente, in Italia, ancora oggi viene coltivata soprattutto dagli psichiatri forensi), dall’altro ad una Psicopatologia “basata sulla narrazione”, la quale affianchi ed integri quella “basata sulle evidenze” (cfr. ad es. A. Carlino, 2013). Essa infine ha conferito importanza allo studio dei fattori predittivi di pericolosità, la cui problematica individuazione nel lungo periodo aveva gettato discredito un po’ su tutto l’argomento (J. Monahan).

Tale orientamento si è riflesso, come vedremo in seguito, anche sulla legislazione americana concernente il ricovero coatto.

3

La situazione in Italia

Quanto ai motivi più particolari che hanno portato al ridimensionamento del concetto di pericolosità del malato di mente in Italia, occorre fare un passo indietro di trentacinque anni e riportarci per un attimo alla situazione della Psichiatria Italiana al momento della promulgazione della legge 180.

In Italia, negli anni precedenti il 1978 (anno del varo della riforma), non erano certo mancate, “a latere” d’un sistema manicomiale fra i più arretrati e repressivi d’Europa, esperienze avanzate di trasformazione/superamento del Manicomio, condotte sia all’interno dello stesso Manicomio (che ci si sforzava di trasformare in una cosiddetta “Comunità Terapeutica”), sia sul territorio, attraverso la creazione di Servizi di Salute Mentale fortemente innovativi e concorrenziali con l’istituzione manicomiale stessa: in particolare, furono significative le esperienze di Franco Basaglia (Gorizia e Trieste), di Giovanni Jervis (Reggio Emilia), di Carlo Manuali (Perugia), di Agostino Pirella (Arezzo), di Sergio Piro (Napoli), di Antonio Slavich (Ferrara), e diverse altre.

Queste esperienze furono però fortemente avversate, all’inizio, dal feroce spirito conservatore (o addirittura retrivo) che pervadeva in quell’epoca il resto della Psichiatria italiana; inoltre suscitarono, anche in virtù d’un certo radicalismo elitario ed iper-politicizzato che pervadeva alcune di esse e le rendeva relativamente isolate, dei seri interrogativi sulla loro reale capacità di fare “breccia” nel sistema, nonché di fungere davvero da “traino” per l’insieme dell’assistenza psichiatrica.

In questa situazione, profondamente contraddittoria ed in lentissima e faticosa evoluzione, sopravvenne tuttavia all’improvviso un evento il quale spinse tutti i suoi protagonisti in avanti e li costrinse a scelte drastiche, ma soprattutto rapidissime: la promozione da parte del Partito Radicale d’un referendum abrogativo della legge 36 del 1904 (la cosiddetta “legge manicomiale” d’ispirazione lombrosiana).

Il motivo ispiratore dell’iniziativa radicale, occorre chiarirlo in via preliminare, era assolutamente sacrosanto: occorreva sanare il gravissimo “vulnus” che la legge 36 del 1904 infliggeva al principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel suo distinguere dagli altri cittadini quelli che, in virtù di loro supposte caratteristiche biologiche (la malattia di mente) che li rendevano presuntivamente “pericolosi per sé e per gli altri”, oppure “di pubblico scandalo”, dovevano essere reclusi in luoghi di detenzione travestiti da luoghi di cura (i Manicomi), e deprivati praticamente per sempre d’ogni diritto civile e politico, peraltro senza aver mai commesso alcun reato.

Ebbene, proprio il combinarsi delle due componenti rappresentate a) dal già citato radicalismo delle esperienze di lotta al Manicomio, in particolare di quelle di Trieste ed Arezzo (un radicalismo promosso soprattutto dalla fortissima personalità di Franco Basaglia, il quale tendeva a “mettere tra parentesi” la malattia mentale e la sua cura “medica” per dedicarsi invece, in via prioritaria, alle tematiche sociali e politiche della lotta all’esclusione) e, b) dalla minaccia dell’iniziativa referendaria (in caso di abrogazione della legge del 1904 si sarebbe avuta una “vacatio legis” che andava assolutamente prevenuta), fu ciò che produsse la legge n. 180 del 1978, poi impropriamente denominata “legge Basaglia” (Basaglia, in realtà, ne fu al massimo l’ispiratore ed il consulente, non l’autore materiale).

Insomma, questa legge nacque non già nel segno d’un meditato intento di profonda ed organica riforma della Psichiatria italiana (o tanto meno, sulla scorta della progressiva sperimentazione di soluzioni alternative al Manicomio, come stava già avvenendo nel resto del mondo civile ed in parte anche in Italia), bensì come rimedio urgente ad una situazione d’emergenza, preso anzitutto con criteri politici: un “rimedio” che, nella mente di alcuni dei parlamentari suoi autori, avrebbe potuto e dovuto essere successivamente completato da una riforma più organica e complessiva (cosa che come si sa non avvenne, o avvenne in misura assolutamente insufficiente).

In ragione di ciò, le norme attuative della legge n. 180 del 1978 (in particolare, quelle che dovevano istituire e finanziare le strutture terapeutico-riabilitative ambulatoriali e residenziali alternative al Manicomio), non furono varate contestualmente alla legge medesima, bensì rimandate a futuri Piani Sanitari Regionali che avrebbero dovuto definirle nel dettaglio, e che promanavano dalla più generale legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (anch’essa del 1978 ed allora in stato d’avanzata preparazione).

In base a tutto ciò, i due elementi del “problema psichiatrico” che gli estensori della legge 180 si trovarono di fronte nell’immediato, furono  i seguenti:

  • Occorreva creare quanto prima, affinché la nuova assistenza non ricalcasse le caratteristiche negative (di tipo custodialistico e liberticida) che i promotori del referendum contestavano, un modello d’assistenza non manicomiale, ossia basato non già su grandi strutture residenziali coattive e “di lungo periodo” (il Manicomio appunto), bensì su piccole ed agili strutture di ricovero (coatto e non) le quali fossero finalizzate al breve periodo e limitate all’urgenza (i S. P. D. C., o “Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura”), nonché su un modello di lavoro territoriale imperniato sull’assistenza domiciliare: un lavoro, quest’ultimo, che per i motivi sopra indicati andava svolto essenzialmente a partire dalle strutture già esistenti (i cosiddetti “Centri di Igiene Mentale”, o C. I. M., istituiti già nel 1968 dalla “legge Mariotti”, poi denominati “Centri di Salute Mentale” o C. S. M.).
  • Occorreva poi garantire gli psichiatri, stante l’improvvisa forte carenza di strutture di ricovero e di cura coattiva determinata dalla chiusura delle accettazioni degli Ospedali Psichiatrici, rispetto ad una minaccia molto concreta che avrebbe potuto presto abbattersi su di loro a causa dell’impossibilità, che questa situazione aveva creato, di dar luogo ad una “custodia di lungo periodo” della pericolosità: ora, questa “garanzia” venne dall’avere la legge n. 180 abolito ogni precedente riferimento al tema, appunto, della “pericolosità del malato di mente”, sostituendolo con quello, assai più sfumato, ambiguo e nella sostanza inafferrabile, ad una “comprovata necessità ed urgenza delle cure”, accompagnata dal “rifiuto” delle stesse da parte del malato e dall’”impossibilità di effettuarle in sede extra-ospedaliera”.

A proposito di quanto sopra, chi ha vissuto quegli anni dall’interno delle prassi psichiatriche all’epoca vigenti, in specie se, come lo scrivente, lo ha fatto in giovane età e da posizioni innovative, ricorda certamente un fatto prodigioso ed abbastanza sorprendente: le pervicaci e talora feroci resistenze ad ogni ipotesi d’assistenza psichiatrica non manicomiale, le quali provenivano dalla stragrande maggioranza della Psichiatria Italiana (accademica e non), sparirono quasi d’incanto con la promulgazione della legge n. 180: all’improvviso, si vide un gran numero psichiatri ultra-conservatori o addirittura reazionari divenire fervidi fautori della nuova legge, o quanto meno rinunciare ad ogni aperto ostracismo contro di essa e chiudersi in un benevolo silenzio e/o in una fattiva collaborazione.

Il motivo di ciò, oggi è del tutto chiaro, e secondo noi va ben oltre il ben noto trasformismo e “codismo” degli intellettuali italiani: la caduta della presunzione di pericolosità del malato di mente non solo sembrava proteggere gli psichiatri italiani da ogni possibile negativa conseguenza giuridica dell’affermarsi d’una psichiatria non manicomiale, ma appariva porli addirittura in una posizione professionalmente più comoda di quella dell’era manicomiale; infatti faceva cadere a priori (o almeno, così ci si illuse che fosse!) ogni possibilità di attribuire loro una colpa professionale grave, o addirittura un’omissione di atti di ufficio, qualora non avessero tempestivamente provveduto al ricovero d’un paziente, dal momento che la nuova normativa prevedeva che le competenze dello psichiatra, lungi dal dovere valutare la “pericolosità del malato” (un compito in cui era facilissimo inchiodarlo alle sue presunte inadempienze), si limitassero ormai ad una semplice “valutazione tecnico-professionale sulla necessità ed improrogabilità d’un ricovero”, elemento quest’ultimo difficilissimo da contro-valutare dal punto di vista legale, specie in assenza della pericolosità (le malattie mentali, a differenza di quelle mediche, non mettono a repentaglio la salute fisica e/o la vita se non in caso di suicidio, ed il suicidio non rientrava più neppur esso, già all’epoca del varo della legge 180, nella dizione di “pericolosità”, per cui ormai non era per niente facile contestare allo psichiatra il mancato adempimento ai suoi obblighi di valutazione tecnico-professionale sulla necessità d’un ricovero, ed il suo giudizio diveniva di fatto insindacabile).

Vedremo nei successivi paragrafi come l’altalena delle sentenze “per colpa professionale” a carico degli psichiatri, negli ultimi anni, abbia in gran parte vanificato queste illusioni: tuttavia l’aspettativa di essere maggiormente protetti dalla legge che non in passato, era sul momento in gran parte fondata: la nuova normativa, effettivamente, almeno per alcuni decenni rispose bene al suo scopo.

Come vedremo e come in parte abbiamo già anticipato, tuttavia, gli anni più recenti hanno ormai rivelato come il “paracadute giuridico” dell’abolizione della valutazione di pericolosità abbia cominciato a non aprirsi più con la tempestività e la sicurezza del passato: ciò al punto da insinuare in alcuni il dubbio se per caso, anche da un semplice punto di vista opportunistico, non sarebbe più saggio che gli psichiatri italiani cominciassero a rivedere l’intera questione, e ad esaminare la possibilità di riappropriarsi (come avviene nel resto del mondo!) della valutazione di pericolosità in quanto loro imprescindibile competenza tecnico-professionale.

4

La “pericolosità sociale presunta” propria della vecchia normativa, ed il “rifiuto delle cure” proprio della nuova

Il codice penale Rocco del 1930 contiene al proprio interno alcuni principi di chiara derivazione positivista e lombrosiana: infatti è, fra i principali codici europei, uno di quelli che introducono in forma più netta il principio giuridico lombrosiano della “pericolosità sociale presuntadi soggetti autori di reati.

Questo codice, peraltro, è a tutt’oggi quasi integralmente in vigore, anche se la sua parte psichiatrica è stata in gran parte stralciata dal codice stesso ed eliminata ad opera della legge 180 del 1978, impropriamente detta “legge Basaglia”.

Al “Codice Rocco” peraltro, il quale ha regolamentato essenzialmente la pericolosità del malato di mente autore di reati e giudicato “non imputabile”, come sappiamo si era a lungo affiancata, fino al 1978, una “legge psichiatrica”, la legge manicomiale n. 36 del 1904, anch’essa d’ispirazione lombrosiana, la quale concerneva la “pericolosità sociale presunta” e di lungo periodo dei malati di mente non autori di reato: essa era dunque antecedente al codice Rocco, ma ancora più di quest’ultimo era ispirata alle idee di Lombroso.

In quest’ultima legge, sulla base del principio della “responsabilità collettiva”,  veniva prevista una precisa forma di prevenzione della “pericolosità sociale presunta” dei malati di mente in quanto tali, ossia a prescindere dall’avere essi commesso o no dei reati (pericolosità che derivava dalla supposta predisposizione biologica del folle a quella “violenza atavica” che era stata postulata proprio da Lombroso): a tali soggetti dunque, considerati atavici e “degenerati” solo perché definiti, sulla base d’un certificato medico, come “pericolosi a sé ed agli altri” oppure “di pubblico scandalo”, veniva comminato, con semplice provvedimento di polizia, l’internamento coatto (che previo assenso del Direttore, dopo un periodo d’osservazione di 30 gg diveniva il più delle volte definitivo) in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

Come già accennato all’inizio, malgrado due leggi di riforma psichiatrica, la legge 180 del 1978 che aboliva gli Ospedali Psichiatrici Provinciali e la legge n. 9 del 2012 che ha sancito l’inizio del superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dal 1930 (anno dell’introduzione del codice Rocco) fino ad oggi, ben poco è cambiato per quella parte del diritto penale che riguarda la pericolosità del malato di mente autore di reati: sono tuttora in vigore le concezioni lombrosiane sulla pericolosità sociale dei malati autori di reato, poi integralmente recepite nel codice Rocco, le quali riguardano essenzialmente il tema della pericolosità sociale psichiatrica (pericolosità riferita agli autori di reato riconosciuti come “non imputabili” in quanto malati di mente).

L’unica cosa che è cambiata (ma ben prima della legge n. 9 del 2012 e per merito esclusivo della Corte Costituzionale!) è la caduta del carattere “presunto” della pericolosità dei malati di mente autori di reato, in quanto “l’accertamento della pericolosità” deve ora avvenire in sede peritale prima dell’avviamento del soggetto alle misure di sicurezza (sentenze della Corte Costituzionale del 27 Luglio 1982, n. 139, e del 28 Luglio 1983, n. 249, poi codificate in legge con la 663 del 10/10/1986).

Invece, come sappiamo, quasi tutto è cambiato nell’ordinamento legislativo psichiatrico ordinario: ciò in particolare dal 1978, anno della “legge 180”, in poi.

Nella legislazione psichiatrica riguardante i malati di mente non autori di reati, infatti, l’idea lombrosiana della necessità di prevenire un’ipotetica “pericolosità sociale presunta” del malato di mente in quanto tale, internandolo coattivamente in Ospedale Psichiatrico, è stata completamente superata dalla legge n. 180 la quale, come già accennato, non fa più alcun cenno al tema della pericolosità come motivo di ricovero psichiatrico: non vi fa cenno né come “pericolosità sociale presunta di lungo periodo”, né come valutazione psichiatrica della “pericolosità clinica attuale”.

Questa clamorosa discrepanza fra legislazione penale e legislazione psichiatrica ha poi portato ad alcune, non meno clamorose, incongruenze: in particolare, quella fra la perdurante presenza nel codice penale dell’idea della pericolosità sociale del malato di mente (in particolare, riguardo ai malati di mente autori di reato), e la scomparsa di tale concetto dalla legislazione psichiatrica ordinaria riguardante gli ammalati di mente non autori di reato, per cui uno stesso soggetto psichiatrico, un minuto prima di aver commesso un fatto delittuoso non è valutabile quanto alla sua pericolosità futura, ed un minuto dopo lo è.

Ora, è ovvio che se la pericolosità del malato di mente esiste in ambito giuridico come “pericolosità sociale”, deve esistere anche su quel piano clinico che sarebbe alla base del suo comportamento criminale; viceversa, se non esiste in ambito clinico, non dovrebbe a rigore esistere neppure in ambito giuridico (il presupporre una propensione “patologica” a commettere nuovamente crimini nel malato di mente che li ha già commessi, non può non basarsi su dei dati clinici precisi, altrimenti non dovrebbe esistere per lui alcuna “pericolosità sociale” appositamente regolamentata).

Ora, il motivo d’una tale discrepanza fra pericolosità clinica e pericolosità sociale, che non esisteva affatto prima dell’approvazione della legge 180 del 1978, è molto semplice: la “legge manicomiale” del 1904 ed il Codice Penale Rocco del 1930 formavano, a prescindere dal loro discutibile contenuto, un insieme relativamente razionale e coerente, e questa coerenza si è spezzata proprio con la legge 180.

La legge manicomiale n. 36 del 14/2/1904 ed il relativo regolamento d’attuazione n. 615 del 16/8/1909, conferivano infatti la caratteristica d’una “pericolosità sociale presunta” (e imponevano il ricovero in O.P.), a tutti i malati di mente connotati come:

  • “pericolosi a sé ed agli altri”
  • “di pubblico scandalo”.

La sussistenza anche di una sola di queste due condizioni giustificava e rendeva d’obbligo il ricovero coatto in un Ospedale Psichiatrico Provinciale.

L’espressione, riferita al folle, di soggetto “pericoloso a sé ed agli altri”, anche se è rimasta fortemente impressa nell’immaginario collettivo (fino a venire erroneamente usata, ancora oggi, persino da alcuni Medici ed Assistenti Sociali), fu abolita con la riforma psichiatrica del 1978, unitamente all’abolizione degli Ospedali Psichiatrici.

Con la legge 180, come motivo per un ricovero coatto si è sostituito, al concetto della “pericolosità”, quello del “rifiuto delle cure”, cure però delle quali esista una “comprovata necessità ed urgenza”.

Ora, al fine di comprovare la necessità ed urgenza delle cure, occorre attualmente la proposta d’un medico (non necessariamente d’uno Psichiatra), convalidata da quella d’un altro medico (questo, però, appartenente almeno ad una struttura pubblica).

Il provvedimento, della durata d’una settimana e rinnovabile anche più d’una volta (però sempre per periodi di soli 7 giorni), è emanato dal Sindaco e notificato al Giudice Tutelare, e viene attuato nei SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura).

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) in regime di degenza ospedaliera deve comunque essere motivato, oltre che dalla “necessità ed urgenza delle cure” e dal “rifiuto dell’interessato”, anche dall’”impossibilità ad effettuare le cure in regime di trattamento extra-ospedaliero” (una condizione, quest’ultima, alquanto ambigua nel suo significato e la cui sussistenza effettiva non viene quasi mai verificata, ma che serve a meglio giustificare quei mancati ricoveri nei quali “il paz. accetti le cure”).

Come è noto, anche la legge 833 del 1978 attualmente in vigore, che ha integralmente recepito la 180 e che disciplina il TSO in regime di degenza ospedaliera, subordina la sua effettuazione esattamente a queste stesse tre condizioni:

  • la necessità improrogabile di cura
  • il rifiuto delle cure da parte del soggetto
  • l’impossibilità ad effettuare il trattamento in condizioni di degenza extra-ospedaliera.

Queste condizioni poi, è da notare, devono essere presenti tutte e tre per dar luogo alla possibilità legale di procedere al ricovero coatto (ovvero in TSO) del paziente.

E’ evidente che la “pericolosità”, la quale non appare fra queste nessuna di queste tre condizioni, non può e non deve in alcun modo rappresentare un motivo di ricovero obbligatorio.

La differenza concettuale tra la vecchia e la nuova normativa per il ricovero, come si vede, è davvero notevole.

In primo luogo, la “pericolosità” cui faceva riferimento la legge del 1904, essendo intesa lombrosianamente come una condizione avente una base medica e biologica ed antropologica, s’intendeva essere connaturata alla malattia, ed in quanto tale, essere “persistente” almeno per un po’ nel tempo.

Invece il “rifiuto delle cure” di cui parla la legge 180 non è indissolubilmente connesso alla “natura della malattia”, quindi almeno in teoria può anche recedere immediatamente a seguito di un’opera di convincimento, o d’un semplice cambiamento d’idea da parte del paziente.

In secondo luogo, la pericolosità (almeno se intesa come pericolosità verso gli altri) non è una condizione che scaturisca dal rifiuto delle cure, né vi è implicita; essa, nell’attuale legge psichiatrica italiana, non viene considerata in alcun modo, neppure come eventualità clinica collegata al rifiuto stesso.

Lo psichiatra dunque, nel valutare un quadro clinico, deve “mettere tra parentesi” la potenziale pericolosità insita in esso, anzi non deve neppure nominarla; oppure, se decide di prenderla in considerazione, deve considerarla surrettiziamente, ovvero mascherarla dietro la sottolineatura esclusiva della “necessità” e della “improrogabilità” delle cure, nonché del “rifiuto” persistente del paziente alle cure stesse e dell’impossibilità, nella situazione data, di mettere in atto provvedimenti di d’idonea risposta terapeutica in regime di trattamento extraospedaliero.

Nel compiere tale operazione, tuttavia, egli deve guardarsi da due opposti errori, sanzionati entrambi con estrema severità dal codice penale attuale:

  • L’errore per eccesso d’intervento, che può portarlo, in caso di TSO indebito o non sufficientemente motivato in base a quanto sopra, a soggiacere all’accusa di sequestro di persona (art. 650 del C.P., che prevede una pena da uno a dieci anni per il pubblico ufficiale il quale nell’esercizio delle sue funzioni compia tale reato mediante abuso delle proprie prerogative).
  • L’errore per difetto d’intervento, il quale può configurare sia la colpa professionale (che è sanzionata in dettaglio, sia sul piano civile che penale, nelle figure dell’”imperizia”, della “negligenza” e dell’”imprudenza”), sia il reato penale d’omissione di soccorso e quello d’abbandono d’incapace (l’art. 691 del C.P. definisce “abbandono d’incapace” qualunque azione o omissione che contrasti con l’obbligo della cura e della custodia, ove sussista uno stato di potenziale pericolo per l’incolumità della persona incapace)

5

Le responsabilità dello psichiatra

Il tema della responsabilità giuridica dello psichiatra per i comportamenti auto ed etero-aggressivi dei propri pazienti, nel contesto della legislazione attuale, ruota oggi, in definitiva, attorno a tre aspetti:

  • l’esistenza o meno d’una posizione di garanzia in capo al medico psichiatra, la quale fondi una sua responsabilità in relazione all’ex art. 40 del C.P. Esso recita che “il non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
  • La configurabilità d’una colpa professionale posta in essere da un eventuale comportamento omissivo dello psichiatra.
  • La prevedibilità e l’evitabilità, ai fini della valutazione dei due primi aspetti, dell’evento dannoso posto in essere dall’infermo di mente.

A questo proposito, un precedente giudiziario significativo è quello costituito dal procedimento a carico d’uno psichiatra aretino il cui paziente, da lui non ricoverato malgrado la ripetuta richiesta d’aiuto dei genitori, accoltellò a morte la madre.

Nei tre gradi di processo svoltisi dal 1983 al 1987, lo psichiatra fu dapprima assolto in Primo Grado, poi condannato in Appello, ed infine definitivamente assolto in Cassazione.

La motivazione dell’assoluzione finale fu la seguente:

  1. lo psichiatra non era venuto meno ad un obbligo specifico di ricovero (incorrendo in un’”omissione di soccorso”, o in un “abbandono d’incapace”), in quanto non esisteva alcuna norma di legge che lo obbligasse a ricoverare chicchessia per una sua “presunta pericolosità”, ma solo una norma di legge che gli conferiva la piena discrezionalità tecnico-professionale nella decisione circa la “necessità” e “l’improrogabilità” di cure “in regime di degenza ospedaliera”.
  2. Lo psichiatra non era neppure incorso in una “colpa professionale”, ossia in una qualche forma d’“imperizia”, “imprudenza” o “negligenza” circa la necessità di cure, poiché l’evento verificatosi non era prevedibile con sufficiente approssimazione, né evitabile “ex ante”.

E’ però doveroso segnalare che una sentenza molto più recente della Cassazione (riguardante il cosiddetto “caso Pozzi”) emessa nel 2007, ha condannato in via definitiva uno Psichiatra di Comunità dell’Emilia Romagna il cui paziente psicotico (assegnato alla Comunità stessa dal Tribunale di Sorveglianza, e proveniente dall’ O.P.G. per gravi reati contro la persona) uccise un operatore con il quale aveva contrasti da gran tempo: egli lo fece in un momento immediatamente successivo alla sospensione della terapia “long acting”, ordinata dal professionista in ragione dei suoi gravi effetti collaterali sul paziente; la terapia, peraltro, era stata quasi subito ripresa, ma a dire della sentenza, con colposo ritardo. Allo psichiatra, però, al di là dei numerosi elementi di “malpractice” che si è ritenuto di riscontrare nel suo operato sia da parte dei Periti che dal Giudice, è stata soprattutto contestata la mancata effettuazione del TSO, con la motivazione che, benché il malato avesse accettato le terapie (e quindi sembrasse non soddisfare la seconda delle tre condizioni necessarie per effettuare un TSO, quella del rifiuto delle “cure”, e neppure la terza, visto che risiedeva già in una struttura psichiatrica), non c’era alcun motivo che impedisse allo psichiatra, data la grave situazione clinica complessiva e l’anamnesi inquietante, di proporgli comunque il ricovero; egli, insomma, avrebbe dovuto intendere lo stesso ricovero come “cura”, ovvero come “adeguata terapia”, e se del caso, avrebbe dovuto decidere d’imporlo al paziente a prescindere dalla sua accettazione delle cure farmacologiche (effettuando, occorre dire, una notevole forzatura dello spirito e della lettera della legge 180, ed in particolare sia della seconda condizione, ossia dell’”assenso del paziente alle cure”, sia della terza, che prevede la “verifica se le cure non possano essere effettuate anche in regime di degenza extra-ospedaliera”).

La motivazione di questa sentenza perciò, pur facendo riferimento ad una “colpa professionale”, chiama di nuovo in causa, nella sostanza, quella “posizione di garanzia” rispetto alla pericolosità che la sentenza precedente sembrava escludere; essa poi lo fa, segnatamente, con una sorta d’escamotage, ossia interpretando in maniera assai estensiva il concetto di “cura”.

5

Legislazioni a confronto

E’ interessante a questo punto, a proposito della pericolosità, un breve confronto con la legislazione americana: questa infatti, al contrario di quella italiana, ai fini della motivazione d’un Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico, privilegia esplicitamente proprio la “pericolosità sociale” rispetto alla “necessità della cura”.

Essa inoltre (cosa molto significativa perché in linea con le più recenti acquisizioni del pensiero scientifico) fa leva sulla specifica competenza e responsabilità tecnico-professionale dello psichiatra nel prevedere il rischio di eventi violenti auto o etero-lesivi, ma lo fa solo nel breve periodo e non nel lungo (come invece, fino a pochi decenni fa, faceva la cultura giuridica italiana di stampo lombrosiano).

Il Civil Commitment americano, dunque, lega la possibilità d’un ricovero obbligatorio di 72 ore (estensibile solo con decisione giudiziale) a tre elementi, il cui accertamento è specificamente legato alla responsabilità professionale e tecnica dello psichiatra:

  • Presenza di pericolosità per gli altri.
  • Presenza di pericolosità per sé stessi.
  • Presenza d’uno stato di grave disabilità e mancanza d’autosufficienza (elemento, questo, considerato dagli stessi giuristi americani come una ridondanza degli altri due, ed in particolare del secondo).

L’accertamento della “presenza della pericolosità” cui fa riferimento la legge americana, come si vede, è una valutazione tecnico-scientifica specifica e polarizzata sulla situazione clinica concreta, rilevabile tramite una visita specialistica accurata ed accertamenti sanitari “mirati”, e soprattutto centrata sul breve periodo. E’ infatti da sottolineare, lo ripetiamo, come tutti gli studi più recenti ed accreditati sottolineino la difficoltà  di prevedere sul lungo periodo qualcosa di complesso e multi-fattoriale come il comportamento violento, e l’ovvia maggior facilità di farlo sul periodo breve, ossia in relazione a specifici e contingenti fattori ambientali e/o di stress.

Insomma, dagli studi americani riceviamo indicazioni che sono l’esatto contrario di quella “pericolosità presunta per sé e per gli altri” a tempo indeterminato, prevista come condizione “cronica” connaturata alla malattia, ed anche come motivo di ricovero, dalla vecchia legge manicomiale italiana n. 36 del 1904 (per di più solo sulla base d’un generico “certificato medico” e non di un’accurata valutazione clinica specialistica!): un’idea che nuove proposte di legge italiane sono tornate a riproporre.

Sappiamo già, però, che la limitatissima “valutazione tecnica” già richiesta dalla legge italiana del 1904, proveniva da una matrice eredo-costituzionalista di tipo lombrosiano, la quale faceva riferimento ad una presunta “tendenza criminale innata” dei malati di mente (una condizione, secondo le idee di Lombroso, perfettamente visibile a chiunque, oltre che sulla base del loro comportamento “scandaloso” e/o pericoloso, anche sulla base di semplici “stigmate” fisiche e fisiognomiche). Per tali ragioni e solo per esse, la legge prevedeva l’attribuzione, ai malati di mente già vagliati almeno una volta da un medico e da lui ritenuti portatori delle suddette caratteristiche fisiche e comportamentali, d’una “pericolosità presunta di lungo periodo” la quale preludeva, implicitamente, all’internamento più o meno definitivo in un Ospedale Psichiatrico. Ora, è a questo punto superfluo ribadire come tali presupposti “scientifici” siano stati del tutto superati dalla scienza contemporanea, ed anche come essi fossero assolutamente empirici, mai seriamente comprovati nonché basati, per la maggior parte, su un grossolano pregiudizio ideologico-culturale.

E’ poi interessante il fatto che, viceversa, la legislazione americana, 1) oltre a richiedere una valutazione specialistica accurata della pericolosità, 2) e richiederla come “presenza” attuale, ovvero esclusivamente sul breve periodo, 3) ha scartato ogni motivazione clinico-terapeutica al ricovero coatto (corrispondente alla cosiddetta “necessità urgente di cura” di cui parla la nostra legislazione); insomma, essa ha espunto, dalle possibili motivazioni di ricovero coatto, ogni riferimento para-lombrosiano a fattori “bio-antropologici di pericolosità” ed anche a ragioni puramente “sanitarie”, concentrandosi invece sull’aspetto pratico rappresentato, in caso di pericolosità, da una priorità assoluta accordata all’interesse sociale e collettivo su quello individuale. Insomma ha introdotto, al posto d’una pericolosità sociale cronica e/o di lungo periodo derivante da “ragioni sanitarie”, una previsione di pericolosità nel breve periodo la quale necessita solo dell’uso di indicatori di pericolosità riferiti all’individuo, più ancora che al malato mentale, “qui ed ora”, quindi tarati sulle circostanze concrete che di volta in volta si presentano.

In questa prospettiva, la “necessità di cura” (che nella legislazione italiana successiva al 1978 è divenuta una motivazione d’importanza capitale per il ricovero coatto) è stata giudicata dai giuristi americani come troppo paternalistica, perché di natura tale da violare il diritto del cittadino a rifiutare liberamente quelle cure con le quali non concordi (cfr P. S. Appelbaum ed R. M. Hamm, 1982).

Come si vede la legge italiana e quella americana, pur muovendosi apparentemente entro le stesse coordinate di tipo garantista, hanno imboccato due vie opposte:

1) la legge italiana infatti è partita dal principio lombrosiano, risalente alla legge del 1904, d’una pericolosità presunta e di lungo periodo del malato di mente, per poi abbandonare, nel 1970, ogni valutazione di pericolosità ed approdare al principio (in sé anch’esso assolutamente illiberale, tranne che nelle situazioni di igiene pubblica o di preminente interesse collettivo) della “necessità della cura” (legge 180).

2) la legge americana invece, pur prendendo teoricamente in considerazione il principio della “necessità della cura”, lo ha consapevolmente scartato in ragione, da un lato, del rispetto del diritto individuale alla libertà di cura (Appelbaum ed Hamm), e dall’altro della necessaria conciliazione dei diritti individuali con quelli inerenti la necessità di sicurezza collettiva e di prevenzione sociale.

Il principio della “libertà di cura”, insomma, per il diritto americano, ove preso in sé stesso, rappresenta un caposaldo giuridico assolutamente chiaro, sacrosanto ed inoppugnabile; tuttavia, in presenza di pericolosità sociale, la giurisprudenza statunitense afferma con altrettanta chiarezza che sul diritto individuale al rifiuto delle cure debbono prevalere le “considerazioni collettive e di pubblico interesse”.

Ora occorre osservare che, almeno in questo caso, è proprio una tale estrema chiarezza nel difendere le ragioni collettive, l’elemento che consente di salvaguardare nella maniera più netta anche il diritto individuale della persona alla libertà di cura: la legge americana, infatti, non solo circoscrive ad ambiti limitati e verificabili il diritto della persona al rifiuto delle cure, ma sancisce, in maniera altrettanto circoscritta, i casi in cui su quest’ultimo deve prevalere il principio dell’interesse collettivo, riuscendo in tal modo a contemperare (fondendoli in un mirabile equilibrio) il principio classico del diritto “soggettivo” e dell’interesse individuale, con quello, d’origine barbarico-tribale, del diritto “oggettivo” e dell’interesse collettivo e sociale.

Al contrario il mascherare, come fa la legislazione italiana, sotto le presunte finalità “umanitarie” proprie della “necessità ed improrogabilità della cura”, l’ineludibile necessità di far prevalere, almeno in taluni casi, l’interesse collettivo sulla libertà individuale a curarsi o meno, rappresenta forse la modalità più insidiosa per oscurare e mettere a repentaglio proprio il principio liberale della “libertà della cura”: infatti lo pone in balìa, senza fissare degli argini chiari, di esigenze collettive che con esso sono del tutto inconciliabili (ad esempio, quelle “sanitarie”), e che in condizioni di forte pressione dell’opinione pubblica sono fatalmente destinate a prevalere.

A controprova dell’incongruenza, su questo punto, della legge 180, basta considerare l’assoluta impossibilità, nella nostra legislazione, di sottoporre contro la sua esplicita volontà un paziente psichiatrico, a meno che non sia in stato di perdita di coscienza (e neppure se si trova in TSO!), a terapie quali, ad esempio, un intervento chirurgico d’urgenza, oppure un’alimentazione forzata in corso di anoressia (patologia per la quale di solito non si ricorre neppure al TSO!): infatti il TSO psichiatrico consente esclusivamente la somministrazione coercitiva di “terapie psichiatriche” miranti a correggere un’alterazione dello stato psichico che necessiti di intervento sanitario urgente, ed in nessun caso la somministrazione di terapie “mediche” le quali, pur anch’esse urgenti, mirino ad uno scopo diverso.

Ora, se si analizza dal punto di vista giuridico questa strana eccezione, rappresentata dalle “terapie psichiatriche”, al principio del “libero assenso alla terapia”, ci si accorge, a ben vedere, di avere ancora una volta a che fare con la priorità dell’interesse collettivo su quello individuale, ed in definitiva, con la pericolosità sociale: questa è l’unica possibile giustificazione per l’”eccezione psichiatrica”, poiché altrimenti non si capirebbe quale possa essere, nel caso delle cure psichiatriche (dalle quali può dipendere l’incolumità altrui!), quell’elemento specifico capace di inficiare una libera scelta individuale che lo stesso soggetto, nel caso debba invece decidere circa un intervento diagnostico o chirurgico su di sé (e che può incidere solo sul suo personale stato di salute), può invece esercitare!

L’elemento differenziale che riguarda le cure psichiatriche, ovviamente, non è altro che quella stessa pericolosità sociale che a parole viene esclusa, ma che surrettiziamente, fra le righe del testo, è presente nella stessa legge 180.

Insomma, l’elemento che fa la differenza fra le cure psichiatriche e quelle non psichiatriche prestate ad uno stesso soggetto che si trova in condizioni identiche (un malato di mente che non si rende conto delle conseguenze dei propri atti), non può essere altro che quello derivante, nel caso delle cure psichiatriche, da un interesse collettivo a che il soggetto “si curi la mente”, il quale s’identifica semplicemente con la sua pericolosità sociale, quindi con la possibilità che procuri del danno ad altri.

In conclusione, la nostra legislazione, in maniera abbastanza ipocrita, nel mentre che salvaguarda giustamente il diritto del paziente psichiatrico (come d’ogni altro!) a rifiutare quelle cure mediche con cui non concordi, postula poi, in modo del tutto contraddittorio, una ”necessità urgente” (ma che si pretende non sia inerente alla pericolosità!) alle cure psichiatriche, ossia ad essere curato sul piano psichico anche contro la sua volontà: si proclama insomma d’operare nel suo esclusivo “interesse”, però poi ci si rapporta con lui come se la sua “malattia” fosse contagiosa alla stregua d’una meningite (a parte le malattie mentali, solo alcune malattie infettive possono dar luogo a Trattamenti Sanitari Obbligatori!).

Con ciò, però, non ci si limita a nascondere l’idea della “pericolosità” dietro quella della “necessità ed urgenza” della cura, ma si fa una cosa ben più grave e pericolosa: in luogo di tenere rigidamente separati, in linea di principio, l’ambito dell’interesse collettivo e sociale e quello delle libertà dell’individuo al fine di mantenerli integri e di salvaguardarli entrambi (salvo il far prevalere esplicitamente, in casi circoscritti, l’uno sull’altro), si introduce di soppiatto, e senza giustificarla in alcun modo, una rischiosa e discutibile eccezione al “principio della libertà della cura” in sé, ovvero quella rappresentata, non si sa bene perché, dalla “cura psichiatrica”, con il risultato di rendere tale principio una sorta di “diritto di serie B”.

6

I problemi dell’abolizione della pericolosità e le possibili soluzioni

In conclusione, esistono più che valide ragioni per ritenere che la reintroduzione, nel nostro ordinamento giuridico, d’una valutazione psichiatrica della “presenza di pericolosità” nel malato di mente non ancora autore di reati, ove si basi non già sul concetto lombrosiano della “pericolosità sociale presunta” e “di lungo periodo” in quanto “connaturata alla malattia”, bensì sull’uso di indicatori di pericolosità sul breve periodo, nonché di più numerosi reparti per ricoveri psichiatrici coatti di breve durata come quelli attuali (gli SPDC), sia lo strumento più idoneo per prevenire due gravissimi pericoli che a nostro avviso minacciano, in prospettiva, la sopravvivenza d’una concezione liberale ed umanitaria della Psichiatria:

  • un primo pericolo è rappresentato dalle risorte (ma in realtà mai tramontate del tutto!) spinte illiberali e/o contro-riformatrici, le quali vanno in direzione sia della riapertura dei Manicomi (ovvero di “luoghi di ricoveri coattivi e di lunga durata”), sia del ripristino d’una “pericolosità sociale presunta e di lungo periodo” del malato di mente in quanto tale: si vedano le già citate proposte di contro-riforma presentate nella legislatura 2001-2006.
  • Un secondo pericolo è rappresentato dalla periodica riproposizione, in relazione ai malati che commettono reati e che a dire dell’opinione pubblica non hanno un’adeguata sanzione e/o trattamento/prevenzione, di proposte e spinte “radicali” di segno opposto sul piano dei principi, ma ai fini pratici del tutto equivalenti alle precedenti: queste proposte vanno infatti in direzione dell’abolizione dell’antichissimo ed umanitario principio della “non imputabilità” di minori e folli, per cui, paradossalmente, il rimedio ad una mancata valutazione preventiva della presenza di pericolosità nel malato di mente (considerata non si sa bene perché “illiberale”) sarebbe l’attendere che egli commetta dei reati ed il ripristinare a suo carico una sanzione penale ordinaria nel caso che malauguratamente li commetta!

D’altra parte, l’uso dei suddetti indicatori di pericolosità incentrati sul “breve periodo” sarebbe uno strumento utilissimo al fine di contemperare e salvaguardare alcuni importanti principi giuridici, non sempre del tutto coincidenti ma tutti quanti d’importanza capitale, in una società che voglia essere minimamente civile e giusta:

  1. il principio dell’uguaglianza dei cittadini, quanto ai diritti inviolabili della persona, a prescindere da loro caratteristiche biologiche e/o di salute più o meno permanenti, donde il rifiuto dell’idea d’una “pericolosità sociale presunta” che da tali permanenti caratteristiche possa automaticamente discendere, con tutte le sue conseguenze liberticide;
  2. il principio, conseguente al precedente, della libertà di ciascun individuo di rifiutare quelle cure, incluse le psichiatriche, con le quali non concordi, fatto però salvo il necessario prevalere sulla libertà individuale, almeno in alcuni casi circoscritti (segnatamente, l’accertata “presenza di pericolosità”), dell’interesse collettivo e sociale.
  3. Il principio, di antichissima e classica origine storico-giuridica, della “incapacità di intendere e di volere” del folle, e conseguentemente quello d’una sua “non imputabilità” in quei momenti nei quali sia in lui “presente” e dimostrata una qualche pericolosità.

In base a tutto ciò riteniamo, a proposito di quel certo discutibile “spirito riformatore” della Psichiatria italiana che ha sin qui preferito concentrarsi sui luoghi anziché sui problemi, che il ripetere ancora oggi ad oltranza il “mantra” secondo il quale “non c’è spazio per la cura all’interno d’una dimensione repressiva e/o custodialistica” (un “mantra” coniato all’epoca del ripudio d’ogni possibilità di lavoro terapeutico, anche provvisorio, all’interno dei Manicomi, il quale ha contribuito a produrre la frettolosità micidiale con cui sono state varate sia la legge 180 che la legge n. 9 del 2012, e che allo stato attuale sembra più che altro un luogo comune ideologico), oltre che sconfessare di fatto il lavoro terapeutico ancora oggi compiuto, ad esempio, nei SPDC (i quali ovviamente possiedono “anche” una dimensione custodialistica), sia la spia d’una mentalità difensiva, fatta di negazione dei problemi di fondo della Psichiatria, che è assolutamente necessario superare.

Occorre riconoscere che la richiesta che alla Psichiatria proviene dalla società, nel profondo è tuttora, anche e soprattutto, custodialistica e repressiva (e lo sarà, temiamo, per lunghissimo tempo!): il negare ciò come si faceva una volta, con fughe in avanti o con progetti di palingenesi sociale, oppure l’illudersi, come si fa oggi, di potere erigere dei muri più o meno invalicabili fra la dimensione terapeutica e quella repressiva e custodialistica (muri materiali, come l’abolizione “immediata”, eretta a feticcio, d’ogni possibile luogo fisico di cura a carattere anche solo parzialmente repressivo, oppure muri all’interno di sé stessi, ovvero interiori e mentali), ci sembra non sia nient’altro, per l’appunto, che un’ingenua e nefasta illusione.

Una tale illusione, infatti (è questa la cosa più grave!), non fa altro che distogliere ogni psichiatra dalla battaglia permanente che, ovunque egli operi, deve condurre in special modo all’interno di se stesso, affinché le spinte e le richieste repressive che costantemente gli provengono dal collettivo sociale (e dalle sue stesse strutture mentali più collegate con quest’ultimo), non prevalgano sulle sue motivazioni terapeutiche.

BIBLIOGRAFIA

Appelbaum P. M., “The right to refuse treatment with antipsychotic medications: retrospect and prospect”. Am J Psychiatry 145:413-419, 1988

Appelbaum P., Hamm R., “Decision to seek commitment: psychiatric decision making in a legal context”. Aech. Gen. Psychiatry 39: 447-451, 1982

Balestrieri A., “Psichiatria”, ed. “Il Pensiero Scientifico”, 1981

Basaglia, F.  “Che cos’è la Psichiatria”, Baldini Castoldi Dalai, 1997

        “           “L’Istituzione negata”, Baldini Castoldi Dalai, 1998

Basaglia F., Basaglia Ongaro F., “La maggioranza deviante”, ed. Einaudi, 1971

Bassi M., De Risio S., Di Giannantonio M., “La questione etica in Psichiatria”, Il Pensiero Scientifico Editore, 2000

Bini L., Bazzi T., “Trattato di Psichiatria”, Milano, 1974

Bleuler E., “Trattato di Psichiatria”, ed. Feltrinelli, 1967

Bollea G., “Compendio di psichiatria dell’età evolutiva”, Roma, 1980

Buglass R., Bowden P. “Principles and Practice of Forensic Psychiatry”. Edinburgh: Churchill Livingstone, 1990.

Cacciari M., “Sulla libertà”, da “Conversazione con Cacciari” di Ennio Galzenati, “Caffè Europa”, 11 11 1999

Callieri B., “Il rinnovamento della Psichiatria italiana”, in “il Veltro”, 1962, VI

Cassano G. B., “Psichiatria medica”, UTET, 1990

Cassano G. B., Cioni P., Perugi G., Poli E. (a cura di), “Manuale di Psichiatria”, UTET, 1997

Cassano G. B. e altri, “Trattato Italiano di Psichiatria”, tre vol., ed. Masson, 1992

Cazzullo, C. L., (a cura di), “Studi di Psichiatria”, Roma, 1970

            “                               “Psichiatria”, tre vol., ed. Micarelli, 1993

Clarkin J. F., Lenzenweger M. F., “I disturbi di personalità – Le cinque principali teorie”, Raffaello Cortina Editore, 1996

Cocurullo B., “I moventi a delinquere”, Edizioni de “La toga”, 1930

De Ajuriaguerra J., “Manuale di Psichiatria del bambino”, Masson, 1974

De Caro M., “Libero arbitrio – Una introduzione”, ed. Laterza, 2009

De Ferrari F., Altamura A. C., “Medicina Legale in Psichiatria”, Ravizza Mediserve, 2002

De Vincentiis G., Callieri B., Castellani A., “Trattato di psicopatologia e Psichiatria forense”, Roma, 1973

Di Petta G.,  “Il Manicomio dimenticato”, Edizioni Universitarie Romane, 1994

Di Tullio B., “Principi di criminologia generale e clinica e Psicopatologia sociale”, ed. Istituto Italiano di Medicina Sociale, Roma, 1971

Ey H., Bernard P., Brisset C., “Manuale di Psichiatria”, UTET Masson, 1972

Ferrara M., Germano G., Archi G., “Manuale della riabilitazione in psichiatria”, Il Pensiero Scientifico Editore, 1990

Farrington DP, West DJ (1981) The Cambridge Study in Delinquent Development. In Mednick SA, Baert A.E. (eds) “Prospective Longitudinal Research: An Empirical Basis for the Primary Prevention of Psychosocial Disorders”. Oxford: Oxford University Press pp. 137–145.

Fornari U., “Trattato di Psichiatria Forense”, UTET, 1997

Freedman A. M., Kaplan H. I., Sadock B. J., “Trattato di Psichiatria”; ed. Piccin, 1984

Frighi L., “Appunti di Igiene Mentale”, ed. Rizzoli, 1973

Gaston C. L:, “Psichiatria e Igiene Mentale”, Elsevier Masson, 1997

Giberti F., Rossi R., “Manuale di Psichiatria”, Piccin, 1983

Goffman E., “Asylums – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza”, ed. Einaudi, 1974

Gozzano M., “Compendio di Psichiatria”, Torino, 1975

Gulotta G. (a cura di), “Trattato di Psicologia Giudiziaria”, Giuffré Editore, 1987

Hafner, H. & Boker, W. (1982) “Crimes of Violence by Mentally Abnormal Offenders” (ed. F. H. Marshall). Cambridge, Cambridge University Press

Hall S. C., Lindzey G., “Teorie della personalità”, ed. Bollati Boringhieri, 1986

Harris S., “The Moral Landscape: How Science Can Determine Human Values”, Free Press, 2010

       “       “Il paesaggio morale. Come la scienza determina i valori umani, Einaudi, 2012

Hinsie L. E., Campbell R. J., “Dizionario di Psichiatria“, ed. Astrolabio,1979

Hume C., Pullen I., “La riabilitazione dei pazienti psichiatrici”, Raffaello Cortina Editore, 1994

Janiri L., Caroppo E., Pinto M., Pozzi G., “Impulsività e compulsività. Psicopatologia emergente”, ed. Franco Angeli, 2006

Jaspers K., “Psicopatologia generale”, ed. “Il Pensiero Scientifico”, 1965

Jervis G., “Manuale critico di Psichiatria”, Milano, 1977

Jones M., “Ideologia e pratica della Psichiatria Sociale”, ed. Etas Kompass, 1970

Kant I., “Saggio sulle malattie della mente”, 1764, Ibis, Como-Pavia, 1994

Kaplan I H., Sadock B. J., “Psichiatria  –  Manuale del comportamento e Psichiatria clinica”, ed. Centro Scientifico Internazionale, 1997

Kendell R. E., “Il ruolo della diagnosi in Psichiatria”, ed. “Il Pensiero Scientifico”, Roma, 1977

Kernberg O., “Disturbi gravi della personalità”, ed. Bollati Boringhieri, 1987

          “             “Teoria della relazione oggettuale e clinica psicoanalitica”, ed. Bollati Boringhieri, 1989

“               “Aggressività, disturbi della personalità e perversioni”, Raffaello Cortina Editore, 1992

Kline P., “La personalità – Misura e teoria”, Casa Editrice Astrolabio, 1984

Kraepelin E., “Trattato di Psichiatria”, ed. Vallardi, Milano, 1907

Kretschmer E., “Manuale teorico-pratico di psicologia medica”, Firenze, 1952

Leonhardt K., “Le psicosi endogene”, ed. Feltrinelli, 1968

Liberman R. P., “La riabilitazione psichiatrica”, Raffaello Cortina Editore, 1997

Link B, Stueve A. “Evidence bearing on mental illness as a possible cause of violent behavior”. Epidemiol Rev. 1995;17172- 180. 3

Lombroso C., “L’uomo delinquente”, Milano, Frat. Bocca, 1896, rist. Roma, Napoleone, 1971

        “            “Delitto genio follia, scritti scelti” ed Bollati Boringhieri, 1995

Lorettu L., “Le reazioni emotive al paziente violento: implicazioni diagnostiche e terapeutiche”, Centro Scientifico Editore, 2000

Lusetti V., “Pericolosità del malato di mente”, Edizioni Universitarie Romane, 2013

MacLean P., “Evoluzione del cervello e comportamento umano”, ed. Einaudi, 1984

Maffei C., “Il disturbo borderline di personalità”, ed. Bollati Boringhieri, 1993

Magnarapa G., Pappa D., “Teoria e pratica dell’omicidio seriale”, Armando editore, 2003

Malmquist C. P., “Omicidio”, Centro Scientifico Editore, 1999

Maslow A. H., “Motivazione e personalità”, Armando editore, 1990Masud Khan R., “Le figure della perversione”, ed. Bollati Boringhieri, 1991

Mc Cord W., Mc Cord J., “Lo psicopatico”, ed. Astrolabio Ubaldini, 1970

Mc Glashan T. H., Keats C. J., “Schizofrenia”, Raffaello Cortina Editore, 1993

Monahan J., “The Clinical Prediction of Violent Behavior” (National Institute of Mental Health, 1981). Reprinted as “Predicting Violent Behavior: An Assessment of Clinical Techniques” (Sage Publications, 1981). Excerpts reprinted in 1 “Violent Behavior” 125-150, 259-279 (Leonard J. Hertzberg et al., eds.) (PMA Publishing, 1990).

        “        “Coercion and Aggressive Community Treatment: A New Frontier in Mental Health Law (ed. with Deborah L. Dennis) (Plenum Press, 1996).

          “           “Violence and Mental Disorder: Developments in Risk Assessment (ed. with Henry J. Steadman) (U. of Chicago Press, 1994).

Niceforo A., “Criminologia – vecchie e nuove dottrine”, Fratelli Rocca Editore, Milano, 1941

Nivoli C. G., “Il perito e il consulente di parte in psichiatria forense”, Centro Scientifico Editore”, 2005

Palermo G. B., Mastronardi V., “Il profilo criminologico”, Giuffrè, 2005

Pancheri P., “Manuale di Psichiatria clinica”, Bulzoni Editore, 1977

Pancheri P., Reda G., “La diagnosi di schizofrenia”, Il Pensiero Scientifico Editore, 1987

Parrini A., (a cura di), “La norma infranta – pratica e teoria di una équipe psichiatrica tra ospedale e territorio”, ”, ed. Guaraldi, 1978

Pervin L. A., John P. O., “La scienza della personalità  –  Teorie, ricerche, applicazioni”, Raffaello Cortina Editore, 1997

Piccione R., “Manuale di Psichiatria”, Bulzoni Editore, 1995

Porter R., “Storia sociale della follia”; Garzanti, 1991

Rabkin J., “Criminal behavior of discharged mental patients: a critical appraisal of the research”. Psychological Bulletin 1979; 86:1–27.

Realdon A., “Fondamenti di Psichiatria”, ed. Sorbona Milano, 1994

Reda F., “Trattato di Psichiatria”, USES Edizioni Scientifiche Firenze, 1982

Rippon S., “An Epistemological Argument for Moral Response-Dependence”, Jan 1 2010

Roccatagliata G., Albano C., “Trattato della malattia maniaco-depressiva”, ed. Liguori, 1997

Rossini R., “Trattato di Psichiatria”, Cappelli Editore, 1969

Rudas N., Marongiu P., Pintor G., “La pratica psichiatrico-forense”, ed. Percorsi Editoriali, 1999

Sarteschi P., Maggini C., “Psichiatria”, Goliardica Editrice, Parma, 1982

                   “                 “Personalità e Psicopatologia”, ETS Editrice Pisa, 1990

Sartorius N., Maj M., “Schizofrenia”, CIC Edizioni internazionali, 2001

Scharfetter C., “Psicopatologia generale, un’introduzione”, Feltrinelli, 1992

Scapicchio P.,Trabucchi M. (a cura di), “Servizi psichiatrici nella sanità riformata”, Il Mulino, 1999

Scheff T. J., “Per infermità mentale – una teoria sociale della follia”, ed. Feltrinelli, 1974

Schneider K.,“Psicopatologia clinica”, ed. Fioriti, 2004

Searles H. F., “Il paziente borderline”, ed. Bollati Boringhieri, 1988

         “                  “Scritti sulla schizofrenia”, ed. Bollati Boringhieri, 1989

Selzer M. A., Sullivan T. B., Carsky M., Terkelsen G., “Il paziente schizofrenico”, Franco Angeli Editore, 1992

Sims A., “Introduzione alla Psicopatologia descrittiva”; Raffaello Cortina Editore, 1992

Siracusano A., Balestrieri M., Bellantuono C., Berardi D., Di Giannantonio M., Rigatelli M., Skodol A. E., “Psicopatologia e crimini violenti”, Centro scientifico Editore, 2000

Swanson J. W., Borum R., Swartz M. S., Monahan J., “Psychotic symptoms and disorders and the risk of violent behaviour in the community”, Article first published online: 10 MAR 2006, DOI: 10.1002/cbm.118

Tardiff K., “The Current State of Psychiatry in the Treatment of Violent Patients”, Arch Gen Psychiatry. 1992; 49(6):493-499. doi:10.1001/archpsyc.1992.01820060073013.

Tellenbach H., “Melancolia”, ed. “Il pensiero scientifico”, 1975

Vella G., Siracusano A., “                          “Il consenso informato in Psichiatria”, Il Pensiero Scientifico Editore, 1996

West D. J., “The clinical approach to criminology”, April 1980 as the nineteenth Sir Geoffrey Vickers Lecture, under the auspices of the Mental Health Foundation.

Zilboorg G., Henry G., “Storia della Psichiatria”, Feltrinelli, 1973

Zitrin A., “Crime and violence among mental patients”, Am J Psychiatry 1976;133:142-149.

Zoccali R. A., “Manuale di Psichiatria”, Il Pensiero Scientifico Editore, 2007

Rita Dove: The exact Grace

by Andrea Galgano, May 1 2016

read the pdf RITA DOVE: THE EXACT GRACE

Rita Dove: The exact Grace

The Rita Dove’s poem (1952) has the deep nature of experiences that sweep the depth of the past. In the radicalism of existence, her poetry marks, in a complementary way, the integrity and dimension of the possibility, as a category that establishes the existence, shapes it remaining in the affirmation of the human being, enriches it for the profoundness and plasticity of perception, «through the overlapping points of view: that of the “official” history and, indeed, the counterpoint of another story, more lateral. For Rita Dove the identity is the personal access to the experience, but an experience that is immediately halved between the need to know and outdo herself, towed along by a force recasting every social and cultural value, and in that discovery and free apprenticeship of the world of which carrier is the poem, “language at its most distilled and most powerful”, according to the definition of the poet», as claimed by Federico Mazzocchi.

Born in Akron, Ohio, the Pulitzer Prize for poetry in 1987, for a collection of poems Thomas and Beulah, in 1993 and until 1995 was named Poet Laureate of the United States by the Library of Congress, and was the first African American and Poet Laureate the second to receive the Pulitzer, with the addition, in 1999, the post of Special Consultant in Poetry to the bicentenary of the Library of Congress.

The poetry of Rita Dove, therefore, doesn’t confine itself only to the verticality of the original roots, but rather explores the world as a confrontation and openness, poetic habit and substance of redemption. The ineliminable evidence of the reality is the result of the keynote of human music which it transmits, perception, dream-like vision of the layout that sounds the everyday miracle through the accuracy of a union: between memory and imagination, unveiling of belonging and detail achieved by the proportion and rigor, between individual and collective destiny that join the wide range of historic element and private memory, negotiating, as claimed by Pat Righelato, «her artistic space with grace and determination».

Today it’s possible to learn about her magnetic and vertiginous poetry, with her personal choice, published by Passigli, entitled The discovery of desire. Personal Anthology, edited by Frederick Mazzocchi, that gives back to us her shiny minimum threshold and her intense journey chasing its imaginative filament to understand, reconstruct and discover the human tension to ultimateness, understood as meaning and sense of wonder.

Roberto Galaverni writes: «The nature of her commitment is indeed deep, never one-sided. The sacrosanct claims of ethnic equality, social, sexual, in her verses there are only because there is initially the reality, and not vice versa. She starts from the reality, not from the need for redemption; looks and recognizes the sanctity of life, for this she knows what are human rights and freedom».

Her debut collection, The Yellow House on the Corner (1980), draws the bow of the lived «more domestic and natural, indeed the “yellow house on the corner”; it’s in this minimum lab of emotions that the poet ripens her sense of identity. A debut book but already in the border: the house is on the corner, ready to temptation of the journey. They are, in fact, the years of the first stay in Germany (in Tubingen, from 1973 to 1975, for a scholarship) and the meeting with the German writer Fred Viebahn, whom she married in 1979 “(F.Mazzocchi).

The heart of her endeavour overlaps two alternate and juxtaposed universes, whose crevices of meeting mess the imaginative dispositions in a contemporary intimacy of roots and speculative itinerary, substantiated in the focused imagination of experience, and in which the intensity of the expressive forms discloses the curtains of childhood, adolescence and the present life through a symbolic expressive geometry.

The expanded dilation of reality hinges in color ellipse of destinations and dyes drifting up, proposes in an abstract and figurative transparency which frees the score of spirit.

«Nature and mind are in harmonious abstraction», Pat Righelato says, «even the scent of flowers would bea an encumbrance to this transparency, the clearing and expansion of space. The transcendence, the sense of open space, takes place within the space of the room: «jerked free, hinged into butterflies», transformed and expanded yet remain incisively angled»:

«I prove a theorem and the house expands: / the windows jerk free to hover near the ceiling, / the ceiling floats away with a sigh. / As the walls clear themselves of everything / but transparency, the scent of carnations / leaves with them. I am out in the open / and above the windows have hinged into butterflies, / sunlight glinting where they’ve intersected. / They are going to some point true and unproven».

The sorrowful memorial density that seeks the fullness of a refuge, the meeting-clash of cultures, the wound of urban geography as resilient spasm of unfortunate and afflicted sounds destine the living matter of rolled up memory in an hook of sky and agonal and detailed metaphor, as «split / pod of quartz and lemon», where there isn’t consolation but is found the weight of the re-harvested memory moving: «When morning is still a frozen / tear in the brain, they come / from the east, trunk to tail / clumsy ballerinas. / How to tell them all evening / I refused consolation? Five umbrellas, five / willows, five bridges and their shadows!/ They lift their trunks, hooking the sky / I would rush into, split / pod of quartz and lemon. I could say / cthey are five memories, but / that would be unfair. / Rathers pebbles seeking refuge in the heart. / They move past me. I turn and follow, / and for hours we meet no one else» (Five elephants).

The last poem of the book “Ö”, vocalic expression of awe and wonder, also becomes the word in Swedish means “island” and that «has changed the whole neighborhood», transforming and revealing the estrangement of ordinary in acute portion of elsewhere («When I look up, the yellow house on the corner / is galleon stranded in flowers. Around it / the wind. Even the high roar of a leaf-mulcher /  could be the horn-blast from a ship / a sit skirts to the misted shoals»), trespassing and adhering to the exact word that trembles in an extensive and precise pleasure («the present extends its glass forehead to sea / (backyard breezes, scattered cardinals)»).

At the height of precision, the measure gives form to boundless: it’s the artistic rigor to give vitality to the exploration, is the power of word to shape the language, such as outstanding flow which provides a new language to the things: «and if, one evening, the house on the corner / took off over the marshland, / neither I nor my neighbour /  would be amazed. Sometimes / a word is found so right it trembles / at the slightest explanation. / You start out with one thing, end / up with another, and nothing’s / like it used to be, not even the future».

Museum (1983) innervates all the facts of history in a sort of raised relief. Here, says Federico Mazzocchi, «Rita Dove seems to look beyond their own experience, but seemingly distant and remote events are still interrogated and in a sense “authenticated” by her own experience».
The history of the submerged smallest details provides the fiber of an emblem fixed in consciousness, individual and collective narration that makes up the silence of a museum recalling that, on the one hand, welds the event in a meticulous detail line, and on the other outlines figures (Catherine of Alexandria, Catherine of Siena, the greek subject, Shakespeare, Boccaccio and Fiammetta, Nestor, Christian Schad, the pianist Champion Jack Dupree) in confined conditions, in a figurative and old context as evidence of life, to enter, sympathetically, in a perfect game of dialogues and vitality.

Here too, the memory doesn’t cover with dust but returns, with care, the outcome of a regenerated time, the temporary projection of a consciousness bud and cramp shining. The memory of grape sherbet, that her father was preparing for Memorial Day, is the held reminiscence that transpires in his «gelled light» of losts, in the taste of lavender and in the grassed-over mounds, like the miracle of enjoyed existence that illuminate its presence and its clarity of gelatin and grace: «After the grill / Dad appears with his masterpiece – / swirled snow, gelled light. / We cheer. The recipe’s / a secret and he fights / a smile, his cap turned up / so the bib resembles a duck. / That morning we galopped / through the grassed-over mounds / and named each stone / for a lost milk tooth. Each dollop / of serbe, later,/ is a miracle, / like salt on a melon that makes it sweeter. […] We thought no one was lying / there under our feet, / we thought it / was a joke. I’ve been trying / to remember the taste, / but it doesn’t exist. / Now I see why / you bothered, / father».

Parsley commemorates the massacre of twenty thousand blacks, by order of the dictator of the Dominican Republic, Rafael Trujillo, because they cannot pronounce the letter “r” in perejil, the Spanish word for parsley. Rita Dove performs here a choral drama with image precision, alternating the perspectives and points of view: from the scurrilous pronunciation of the executioners, embodied in their disquieting abyss of compulsion and obsession, to the innocence of the victims in the rain that punches the cane fields: «For every drop of blood / there is a parrot imitating the spring. / Out of the swamp the cane appears».

The Rita Dove’s imaginative symbolism even reveals its uncensored opposite of  death sentence, as stated Therese Steffen, describing the abyss of colorless crumbs of a blackened language that contrasts with the outside landscape. The parrot and dismayed tear of the general for a dark memory like black light that kills the shattered human rim and sweets dusted with sugar on a bed of lace. So the language follows the image, takes possession of horror and drama in an original perception, as claimed by Helen Vendler, but turns at the point where the poem «widens the reality from within, finding its measure in this “sense more wide”, that is what animates it and with flatters it. That’s how Rita Dove shows us how the historical duration can be perfectly combined with the perception of individuality, and how the time can suddenly move to a plan that certainly doesn’t transcend, but that reveals the real hidden face» (Federico Mazzocchi).

The story of Thomas and Beulah (1986) is dramatized and reformulated, inlaid rebuilding the life of grandparents to trace «the essence of my grandparent’s existence and their survival, not necessarily the facts of their survival. […] One appropriates certain gestures from the factual life to reinforce a larger sense of truth that is not, strictly speaking, reality». (Conversation with Rita Dove, edited by Ingersoll E. G, University Press of Mississippi, 2003, p. 66).

The fusion of the lyrical moment with the broader narration comprises the stage of history, under different perspective angles which act as glue between the experiences. The depth and symbolic density connect the color scent of a universal point to interstitial of a story, in which «Thomas and Beulah are the warp of the cloth, while national and international events are the woof» (Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).

Dove joins in a chromatic consistency situations and actions. The act of an individual becomes the universal matrix and contrast of existence: the transparent objectivity, mandolin and straw hat, two Negroes leaning and silver falsetto, the mud and the moon, the yellow bananas and still the Thomas’ ruffled silver and his yellow scarf, the Beulah’s loving blanket and pearly, the brown chestnuts and green island gathered in a torrid night of thickening and gently shirred waters describe the fullness which is announced in the drama that finds the desire and it generates unfinished gestures, until then the halo of poetry enters modifying history, lightening it, and the note of pain could be brushed.

The epiphany of the promises of love beneath the airborne bouquet, «was a meadow of virgins / urging Be water, be light. / A deep breath, and she plunged / through sunbeams and kisses, / rice drumming / the both of them blind», the dusted everyday life, the morning saturated by beauty and dream of eyes, the death that huddles, stroke and recovery («She stands by the davenport, / obedient among her trinkets, / secret like birdsong in the air»), the engraved clearness of memory awaken the time of the lacks, figures and and the tragic distances and reveal the sudden and fragmented height of being.

The rapid and relational imagination of Grace Notes (1989), (the musical notes that embellish and adorn the main melodic line), underscores the warning of grace in the freedom of every detail and extensive collection of expectations, every embellishment underlying the hidden and secret rhythm of real that leads back to a live event: the singular stars and trees like horses in their ascent and bright lymph, the women of the islands that move through Paris and inventing their destinations, the evening of the bees fleed in a old folk’s home in Jerusalem, where in the minimum air “a needlepoint / with raw moon as signature. / In this desert the question’s not / Can you see? but How far off? / Valley settlements put on their lights / like armor; there’s finch chit and / my sandal’s, / inconsequential crunch. / Everyone waiting here was once in love».

The love that pervades and bedews Mother Love (1995), in which is transposed a modern version of the myth of Demeter and Persephone, involves and keeps the myth waiting hanging around for a symbolic and pervasive sense, places the autobiography (the relationship with her daughter Aviva) in a incited suggestion of protection, freedom and achieved destiny.

Counterpoint the memory of the Sonnets to Orpheus, the poet made his circumnavigation of salvation of vital fragments from disintegration and the violation: It’s the charm that protects days, the door that transforms the myth in a contemporary presence of breath and punctuation that aligns the images.

The parenthetical voice of the mother warns her daughter to go straight to school and not to talk to strangers but when Persephone picks up a narcissus, sees the earth opening up in its source of kidnapping and terrible abyss of light, «as a knife easing into / the humblest crevice».

The violence of the trauma («Who can tell / what penetrates?»), the shutdown of the dark, lost brilliance that becomes the phrase-abuse and terrified gloss of dark sheen («It was as if / I had been traveling all these years / without a body, / until his hands found me – / and then there was just/ the two of us forever: / one who wounded / and one who served»), change of points of view, Persephone’s estrangement, in her footfall that hovers pass the Demeter nuclear relationship crossed by a rich and inconsolable tension as dispersed harvest, «Nothing can console me. You may bring silk / to make skin sigh, dispense yellow roses / in the manner of ripened dignitaries. / You can tell me repeatedly / I am unbearable (and I know this): / still, nothing turns the gold to corn, / nothing is sweet to the tooth crushing in. / I’ll no task for the impossibile; / one learns to walk by walking. / In time I’ll forget this empty brimming, / I may laugh again at / a bird, perhaps, chucking the nest – / but it will not be happiness, / for I have known that» (Demeter mourning).

Often it happens that myth streghe out in the sunken story of daily epic, as becomes in On the Bus with Rosa Parks (1999), in which it’s faced «a cameo of characters and events» where, as stated Federico Mazzocchi, «Rita Dove points some joints of the battle for civil rights of black people, but to prevail are still the invention and drama; not a claim perspective, but rather a “meditation on the history and the individual”, an approach that well frames the phrase of Simon Schama that opens the eponymous section: “All history is a negotiation between familiarity and strangeness”. Rosa Parks is the woman that in 1955 she refused to give up her seat to a white man on the bus and therefore she was arrested, triggering the reaction of the Martin Luther King community. Yet the inspiration of the book seems to be of a different kind: “We are on the bus with Rosa Parks” is the phrase said for fun by the daughter of the poet during a move. No contradiction, because to investigate what is out of history also means for Rita Dove take an interest in the primordial and innocent look in which the nature is not yet the culture».

Her poetry seems to bring out, once again, two proportions and disproportions, as if the single time, the call of the past and return, the ghosts, the Rosa’s simple flame, the portrait of childhood at the time when «the earth was new / and heaven just a whisper, / back when the names of things / hadn’t had time to stick; / back when the smallest breezes / melted summer into autumn / when all the poplars quivereded / sweetly in rank and file …», can be revisiting the dawn of glorious shadows on the open blank page, as in a his sweet and profound poetry, for «If you don’t look back, / the future never happens. / How good to rise in sunlight, / in the prodigal smell of biscuits – / eggs and sausages on the grill. / The whole sky is yours / to write on, blown open / to a blank page».

It’s the everyday life calling, the cutting of landscape glimpsed from this bus of affection and history, with all its ellipses and expansions, which allows the minutiae of detail to discover the secret and universal side of reality, its motion hidden , its belonging and the intensive relationship between music and words: «I was pirouette and flourish, / I was filigree and flame. / How could I count my blessings / when I didn’t know their names? / Back when everything was still to come, / luck the leaked out everywhere. / I gave my promise to the world, / and the world followed me here».

The Edenic scene of the All Souls’, taken from American Smooth (2004), shows Adam and Eve held out to appoint the voices of animals and the time of paradise and, from that moment, Mazzocchi said, «the words break the “music” of silence, leaving man and woman in a kind of perennial nostalgic dance»: «Before them, a silence / larger than all their ignorance / yawned, and this key walked into / until it was all they knew. In time / they hunkered down to business, / filling the world with sighs – this anonymous, / pompous creatures, / heads tilted as if straining / to make out the words to a song / played long ago, in a foreign land».

The American Smooth is a form of ballroom dancing in which the partners are free to be released each other and allow improvisation and individual expression. Therefore, Rita Dove performs its dance of nostalgia and elevation, kneading and doing live the lyricism with a new rhythm, a new piece of history that is revealed, such as the Hattie McDaniel’s black moon crossed, the first African American actress to win an Oscar .

The thin line of verses moves through this polyphony of grace and form, independence, opposition and soft sinuosity of spells, which are absorbed by the dance, from the face and gestures. The gesture of the dance is proportional to the poetic gesture, following both the dance of things, which are modeled in the air of «achieved flight» and «that swift and serene / magnificence, / before the earth / remembered who we were / and brought us down».

The Sonata Mulattica (2009), centered about the figure of the mulatto violinist George Bridgetower, remembered for being the first performer and the initial dedicatee («the lunatic mulatto») of the Kreutzer Sonata by Beethoven, that he revoked and attributed the dedication to Rodolphe Kreutzer, presumably to a dispute concerning a woman.

The Rita Dove’s work chases omitted existence, plumbing the inner fold of the removed Other and his exotic childhood («I am the Dark Interior, / that Other, mysterious and lost; / Dread Destiny, riven with vine and tuber, / satiny prowler slithering up behind / his dorme and clueless prey»), the monologue and muster intimacy of the characters (as in Haydn leaves London: «I close my eyes / and I feel it, a bass string plucked at intervals / dragging our bilge out to the turgid sea – / a drone that thrums the blood, that agitates / for more and more…») and animated and living symbology of reality through the nature of public and private memory, such as cropping plush green and the squandered score in the fury of Beethoven’s Eroica, transcribed in the air and breathed in the cool of pure sound. Here too, the human gesture is the gesture of the book, as the Billy Waters’ crippled angle («Crippled as a crab sugary as sassafras») or the symbolic and living gesture of the Moor sculpture with emeralds.

Humanizing and dramatizing her material footprint, the author aligns unusual and rare pictures, blends, in five movements, the genres, touching the precariousness in the note that prevails, and creating another time in the time, she opens continuously rhythmic cracks to the forgotten sounds and finally, drawing the unspeakable in a collection of targeted grace and primitive syllables. Accurate.

Rita Dove - la scoperta del desiderioDOVE R., The discovery of desire. Personal anthology, edited by Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18.50.

 

 

 

 

DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.

The Underside of the Story: A Conversation with Rita Dove with Stan Sanvel Rubin and Judith Kitchen (1985), in Ingersoll E. G., Kitchen J., Rubin S.S., The Post-Confessionals: Conversations with American Poets in the Eighties, Fairleigh Dickinson Press Rutherford 1989.

Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in «Kentucky Philological Review» 14 (1999): 27-31.

Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003.

BOOTH A., Abduction and Other Severe Pleasures: Rita Dove’s “Mother Love”, «Callaloo», Vol. 19, No. 1, Winter, 1996, pp. 125-130.

CAREY L., Sonata mulattica, in “New Yorker”, 27 april 2009.

ERICKSON P., “Rita Dove’s Shakespeares.” Transforming Shakespeare, Marianne Novy, St. Martin’s, New York 1999.

GALAVERNI R., Così Dove porta al cuore del mondo, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 gennaio 2016.

GEORGOUDAKI E., Race, Gender and Class Perspectives in the Works of Maya Angelou, Gwendolyn Brooks, Rita Dove, Nikki Giovanni and Audre Lorde, Thessaloniki, University of Thessaloniki 1991.

HARRINGTON W., The Shape of Her Dreaming: Rita Dove Writes a Poem Intimate Journalism, Sage, Thousand Oaks 1997.

KELLER L., Sequences Testifying for “Nobodies”: Rita Dove’s Thomas and Beulah and Brenda Marie Osbey’s Desperate Circumstance, Dangerous Woman.” Forms of Expansion: Recent Long Poems by Women, University of Chicago Press, Chicago 1997.

LEE R. F., Poet’s Muse: A Footnote to Beethoven, “New York Times”, 2 aprile 2009.

LOFGREN L., Partial Horror: Fragmentation and Healing in Rita Dove’s Mother Love, «Callaloo», Vol. 19, No.1, Winter 1996, pp. 135-142.

MAZZOCCHI F., Rita Dove. L’imprevedibile esattezza della grazia, in «Poesia», 314, aprile 2016.

MCDOWELL R., The Assembling Vision of Rita Dove. Conversant Essays: Contemporary Poets on Poetry, James McCorkle, Wayne State University, Detroit 1990.

MEITNER E., On Rita Dove. Women Poets on Mentorship, Arielle Greenberg and Rachel Zucker, University of Iowa Press, Iowa City 2008.

PAGE WILLIAMS Y., Encyclopedia of African American Women Writers, i, Greenwood Press, Westport Connecticut-London 2007.

RIGHELATO P., Understanding Rita Dove, University of South Carolina Press, Columbia 2006.

SHOPTAW J., Segregated Lives: Rita Dove’s Thomas and Beulah. Reading Black, Reading Feminist. Ed. Henry Louis Gates, Jr. London: Penguin, 1990.

STEFFEN T., Crossing color. Transcultural space and place in Rita Dove’s poetry, fiction and drama, Oxford University Press, New York 2001.

VENDLER H., The Black Dove: Rita Dove, Poet Laureate. Soul Says: On Recent Poetry, Harvard University Press, Cambridge 1995.

Blackness and Beyond Blackness, in “Times Literary Supplement”, 18 February 1994, 11-13.

A Dissonant Triad: Henri Cole, Rita Dove, and August Kleinzahler, Soul Says: On Recent Poetry, Harvard University Press, Cambridge 1995.

Rita Dove: Identity Markers. The Given and the Made, Harvard University Press, Cambridge 1995; and Faber, London 1995.

WOODS L. P., “Sonata Mulattica: Poems” by Rita Dove, “Los Angeles Times”, 17 may 2009.

 

Rita Dove: La grazia esatta

di Andrea Galgano 1 maggio 2016

leggi in pdf RITA DOVE: LA GRAZIA ESATTA

Rita Dove: La grazia esatta

Il canto di Rita Dove (1952) possiede la natura profonda di esperienze che percorrono la vastità del vissuto. Nella radicalità dell’esistenza, la sua poesia segna, in modo complementare, l’integrità e la misura della possibilità, come categoria che fonda l’esistenza, la plasma permanendo nell’affermazione dell’umano, l’arricchisce per la profondità e la plasticità della percezione, «attraverso il sovrapporsi dei punti di vista: quello della storia “ufficiale” e, appunto, il controcanto di un’altra storia, più laterale. Per Rita Dove l’identità costituisce il personale accesso all’esperienza, un’esperienza che tuttavia si trova subito dimidiata tra l’esigenza di conoscersi e superarsi, al traino di una forza che rifonde ogni valore socio-culturale e in quella scoperta e libero apprendistato del mondo di cui è vettore la poesia, «il linguaggio al suo massimo di distillazione e potenza», secondo la definizione della poetessa», come sostiene Federico Mazzocchi.

Nata ad Akron, Ohio, premio Pulitzer per la poesia nel 1987, per la raccolta Thomas and Beulah, nel 1993 e fino al 1995 è stata nominata Poet Laureate of the United States dalla Biblioteca del Congresso, ed è stata il primo Poet Laureate afroamericano e il secondo a ricevere il Pulitzer, a cui si aggiunge, nel 1999, la carica di Special Consultant in Poetry per il bicentenario della Biblioteca del Congresso.

La poesia di Rita Dove, pertanto, non si confina solo nella verticalità delle radici originarie, bensì esplora il mondo come confronto e apertura, abitudine poetica e sostanza di riscatto. L’evidenza ineliminabile della realtà è l’esito della nota fondamentale della musica umana che essa trasmette, la percezione, la visione onirica del layout che scandaglia il prodigio della quotidianità attraverso l’esattezza di una unione: tra memoria e immaginazione, tra svelamento di appartenenza e dettaglio raggiunti dalla proporzione e dal rigore, tra destino singolo e collettivo che congiungono l’ampio raggio dell’elemento storico e la privata memoria, negoziando, come sostiene Pat Righelato, «il suo spazio artistico con la grazia e la determinazione».

Oggi è possibile conoscere la sua poesia magnetica e vertiginosa, con la sua scelta personale, edita da Passigli, dal titolo La scoperta del desiderio. Antologia Personale, curata da Federico Mazzocchi, che ci restituisce la sua baluginante soglia minima e il suo viaggio intenso che insegue il suo filamento immaginativo per comprendere, ricomporre e scoprire la tensione umana all’ultimità, intesa come significato e meraviglia di senso.

Scrive Roberto Galaverni: «La natura del suo impegno è infatti profonda, mai unilaterale. Le sacrosante rivendicazioni di eguaglianza etnica, sociale, sessuale, nei suoi versi ci sono solo perché esiste dapprima la realtà, e non viceversa. Parte dalla realtà, non dal bisogno di riscatto; guarda e riconosce la sacralità della vita, per questo sa cosa sono i diritti dell’uomo e la sua libertà».

La sua raccolta d’esordio, La casa gialla sull’angolo (1980), tende l’arco del vissuto «più domestico e naturale, appunto la “casa gialla sull’angolo”; è in questo laboratorio minimo di emozioni che la poetessa matura la propria percezione identitaria. Un libro d’esordio ma già di confine: la casa è sull’angolo, pronta alla tentazione del viaggio. Sono, infatti, gli anni del primo soggiorno in Germania (a Tubinga, dal 1973 al 1975, per una borsa di studio) e dell’incontro con lo scrittore tedesco Fred Viebahn, che sposerà nel 1979» (F.Mazzocchi).

Il cuore della sua impresa sovrappone due universi alternati e giustapposti, le cui fenditure d’incontro scompigliano le disposizioni immaginative in un contemporanea intimità di radici e di itinerario speculativo, sostanziato nella fantasia concentrata dell’esperienza, e dentro cui l’intensità delle forme espressive dischiude i sipari dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita presente attraverso una simbolica geometria espressiva.

La dilatazione espansa della datità della realtà si incardina in un’ellissi cromatica di mete e tinte fino alla deriva, si propone in una trasparenza astratta e figurativa che libera lo spartito dello spirito. «La natura e la mente sono in armoniosa astrazione», afferma Pat Righelato, «persino il profumo dei fiori sarebbe un ingombro a questa trasparenza, rimozione e espansione di spazio. La trascendenza, il senso dello spazio aperto prende posto dentro lo spazio della stanza: «si sono incardinate su farfalle», trasformate ed espanse rimangono ancora incisivamente angolate»:

«Dimostro un teorema e la casa si espande: / le finestre in un balzo si librano sino al soffitto, / il soffitto con un sospiro va alla deriva. / Appena le pareti si sono spogliate di tutto / ma non della trasparenza, l’odore dei garofani / se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto, / e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle, / dove si congiungono un raggio di sole riluce. / la loro meta è un punto vero e indimostrato».

La non consolata densità memoriale che ricerca la pienezza di un rifugio, l’incontro-scontro di culture, la ferita della geografia urbana come spasmo resiliente di suoni disgraziati e afflitti, destinano la materia vivente della memoria avvoltolata in un’arpionatura di cielo e in una metafora agonale e dettagliata, come «gusci scissi di quarzo e limone», dove non avviene consolazione bensì si rinviene il peso della rievocazione franta in movimento: «Quando il giorno è ancora una lacrima / congelata nel cervello, giungono / da est, code nelle proboscidi, / maldestre ballerine. / Come dir loro che per tutta sera / ho rifiutato ogni consolazione? Cinque / ombrelli, cinque salici, cinque ponti e la loro ombra! / Sollevano le proboscidi, arpionano il cielo / nel quale mi getterei, gusci / scissi di quarzo e limone. Potrei dire / che sono cinque ricordi ma / ciò non sarebbe giusto. / Piuttosto sassolini che cercano rifugio nel cuore. / Mi passano oltre. Io mi volto e li seguo, / e per ore non incontriamo nessun altro» (Cinque elefanti).

L’ultima poesia del volume “Ö”, espressione vocalica dell’esclamazione di stupore e meraviglia, diventa anche la parola che in svedese sta a significare “isola” e che ha «cambiato l’intero vicinato», trasformando e rivelando lo straniamento dell’ordinario in acuta porzione di altrove («Quando alzo lo sguardo, la casa gialla sull’angolo / è un galeone arenato sui fiori. Tutt’intorno / il vento. Persino l’acuto rombare di un trita foglie / potrebbe essere la sirena di una nave / che lambisce banchi di pesci nebulizzati»), sconfinando e aderendo alla parola esatta che freme in un piacere esteso e preciso («il presente porge la sua fronte di vetro al mare / (nel cortile brezze, sparpagliati cardinali rossi)»).

Nel momento più alto della precisione, la misura dà forma allo smisurato: è il rigore artistico a dare vitalità all’esplorazione, è il potere della parola a forgiare il linguaggio, come flusso sospeso che offre una nuova lingua alle cose: «e se, una sera, la casa sull’angolo / decollasse sopra alla palude / né io né il mio vicino / rimarremmo stupiti. A volte / si trova una parola talmente esatta che / freme alla minima spiegazione. / Cominci con una cosa, finisci / con un’altra, e nulla più / come era prima, nemmeno il futuro».

Museo (1983) innerva tutti i fatti della storia in una sorta di bassorilievo raccolto. Qui, sostiene Federico Mazzocchi, «Rita Dove sembra guardare oltre la propria esperienza, ma eventi apparentemente lontani e remoti sono ancora interrogati e in un certo senso “autenticati” dal proprio vissuto».

La storia sommersa dei dettagli minimi fornisce la fibra di un emblema fissato nella coscienza, la narrazione individuale e collettiva che compone il silenzio di una rievocazione museale che, da un lato, salda l’evento in una meticolosa linea di dettaglio, dall’altra delinea figure (Caterina d’Alessandria, Caterina da Siena, il soggetto greco, Shakespeare, Boccaccio e Fiammetta, Nestore, Christian Schad, il pianista Champion Jack Dupree) in condizioni circoscritte, in un ambito figurale ed antico come evidenza di vita, per entrare, simpateticamente, in un perfetto gioco di dialoghi e vitalità.

Anche qui la memoria non si impolvera ma restituisce, con scrupolo, l’esito di un tempo rigenerato, la proiezione temporanea di un germoglio di coscienza e crampo splendente. Il ricordo del sorbetto di uva, che il padre preparava per il Memorial Day, rappresenta la trattenuta reminiscenza che trapela nella sua «luce agglutinata» delle sperdutezze, nel sapore di lavanda e nei cumuli ricoperti d’erba, come il miracolo dell’esistenza gustata che illumina la sua presenza e il suo nitore di gelatina e grazia: «Dopo la grigliata / ecco Papà con il suo capolavoro – / neve vorticante, luce agglutinata. / Lo acclamiamo. La ricetta è / un segreto e lui reprime / un sorriso, col cappello all’insù / così che la falda sembri un’anatra. / Quel mattino galoppammo / tra cumuli ricoperti d’erba / e ad ogni lapide demmo il nome / d’un dente da latte perduto. Ogni cucchiaiata / di sorbetto, più tardi, / è un miracolo, / come sale su un melone che lo rende più dolce. […] Ci sembrò che là, sotto i nostri piedi, / non giacesse nessuno, / ci parve tutto / uno scherzo. Ho provato / a ricordare il sapore, / ma non esiste. / Ora capisco perché / ci tenevi tanto, / padre».

In Prezzemolo (Parsley), viene rievocata la strage di ventimila neri, per ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Trujillo, perché incapaci di pronunciare la lettera “r” in perejil, la parola spagnola che significa prezzemolo. Rita Dove compie qui un dramma corale con precisione di immagini, alternando le prospettive e i punti di vista: dalla scurrile pronuncia dei carnefici, calati nel loro inquietante abisso di compulsione e di ossessione, alla innocenza delle vittime nella pioggia che trivella i canneti: «Per ogni goccia di sangue / c’è un pappagallo che fa il verso alla primavera. / Fuori dalla palude spunta una canna».

Il simbolismo immaginativo di Rita Dove rivela persino il suo contrario non censurato di sentenza di morte, come afferma Therese Steffen, descrivendo l’abisso delle briciole incolori di una lingua annerita che contrasta con il paesaggio esterno. Il pappagallo e la lacrima sgomenta del generale per un ricordo scuro come luce nera che uccide l’orlo umano disastrato e i dolci spolverati di zucchero su uno strato di pizzo. Così la lingua segue l’immagine, si appropria di orrore e dramma in una percezione originaria, come sostiene Helen Vendler, ma si volta nel punto in cui la poesia «allarga la realtà dal suo interno, trovando la propria misura in questo “senso più largo”, che è ciò che la anima e assieme la lusinga. È così che Rita Dove ci mostra come la durata storica possa essere perfettamente congiunta alla percezione dell’individualità, e come il tempo possa d’improvviso spostarsi su un piano che di certo non lo trascende, ma che ne svela il volto più vero e nascosto» (Federico Mazzocchi).

La vicenda di Thomas e Beulah (1986) viene drammatizzata e riformulata, ricostruendo a intarsi la vita dei nonni materni per rintracciare «l’essenza dell’esistenza e della sopravvivenza dei [propri] nonni, non necessariamente i fatti della loro sopravvivenza. […] Ci si appropria di certi gesti della vita fattuale per rafforzare un senso più largo della verità che non è, strettamente parlando, realtà» (Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003, p. 66).

La fusione del momento lirico con la narrazione più ampia compone il palcoscenico della storia, sotto le diverse angolazioni prospettiche che svolgono il ruolo di collante tra le esperienze. La profondità e la densità simbolica connettono il profumo cromatico di un punto universale a quello interstiziale di una storia, in cui «i personaggi sono tessuto mentre eventi nazionali e internazionali sono la trama» (Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).

La Dove unisce in una consistenza cromatica situazioni e azioni. Il gesto di un singolo diventa matrice universale e contrasto di esistenza: l’oggettualità trasparente, il mandolino e il cappello di paglia, i Negri appoggiati e il falsetto argenteo, il fango e la luna, il giallo delle banane e ancora l’argento crespato di Thomas e la sua sciarpa gialla, la coltre amorosa e perlacea di Beulah, il marrone delle castagne e il verde dell’isola raccolti in una notte torrida di acque ingrossate e dolcemente increspate descrivono la pienezza che si annuncia, nel dramma che scopre il desiderio e genera gesti incompiuti, finchè poi l’alone della poesia entra nella storia modificandola, rischiarandola, e la nota di dolore possa essere lambita.

L’epifania delle promesse d’amore sotto il bouquet in volo, «una prateria di vergini / che intonano Sia l’acqua, sia la luce. / Un respiro profondo, per gettarsi / nel sole, in mezzo ai baci, / sotto uno scroscio di riso / che li acceca entrambi», la quotidianità spolverata, il mattino saturato di bellezza e sogno di occhi, la morte che rannicchia, l’infarto e la guarigione («Lei è in piedi davanti al divano, / docile tra i suoi ninnoli, / nell’aria i segreti come un canto d’uccelli»), la tersità incisa del ricordo destano il tempo delle mancanze, delle figure e delle distanze tragiche e palesano l’improvviso colmo frammentato dell’essere.

L’immaginazione rapida e relazionale di Abbellimenti (1989), in inglese grace notes (le note musicali che abbelliscono e ornano la linea melodica principale), sottolinea l’avvertimento della grazia nella libertà di ogni dettaglio capillare e collezione di attese, di ogni abbellimento sotteso al segreto ritmo nascosto del reale che riporta a una tensione di avvenimento: le stelle singolari e gli alberi come destrieri nella loro linfa ascesa e luminosa, le donne delle isole che planano, percorrendo Parigi e inventando le mete, la sera delle api volate via nella casa di riposo a Gerusalemme, dove nell’aria minima «un ricamo ad ago / con la firma tersa della luna. / Qui nel deserto la domanda non è / Lo vedi? Ma Quanto è lontano? / Gli insediamenti nella valle indossano le loro luci / come armature; c’è il parlottio dei fringuelli / e i miei sandali, / con il loro irrilevante scricchiolio. / Chiunque qui attende, un tempo fu innamorato».

L’amore che pervade e irrora Amore materno (1995), in cui viene trasposta una versione moderna del mito di Demetra e Persefone, coinvolge e fa sospirare il mito in una accezione simbolica e pervasiva, dispone l’autobiografia (la relazione con la figlia Aviva) in una suggestione sobillata di protezione, di libertà e di destino che si compie.

Contrappuntando la memoria rilkiana dei Sonetti a Orfeo, la poetessa realizza il suo periplo di salvazione dei frammenti vitali dalla disintegrazione e dalla violazione: è l’incanto che protegge i giorni, la porta che trasfigura il mito in una contemporanea presenza di fiato e la punteggiatura che allinea le immagini.

La voce parentetica della madre avverte la figlia di andare direttamente a scuola e di non parlare agli sconosciuti ma quando Persefone raccoglie un narciso, vede la terra aprirsi nella sua scaturigine di rapimento e terribile chiarore di abisso, «come un coltello che cala / nella più umile fenditura».

La violenza del trauma («chi può dire / che cosa penetra?»), lo spegnimento del buio, la brillantezza perduta che diventa sintagma sopruso e atterrito splendore di cupa lucentezza («Fu come se / in tutti quegli anni avessi viaggiato / senza un corpo, / finchè le sue mani non mi trovarono – / nulla sarebbe più esistito / all’infuori di noi due: / l’uno che feriva / e l’altra che serviva»), lo spostamento dei punti di vista, lo straniamento di Persefone, nel suo rumore di passi che aleggia varcano il rapporto nucleare di Demetra attraversata da una tensione ricca e inconsolabile, come messe dispersa: «Niente può consolarmi. Potete portare seta / per far sospirare la mia pelle, dispensare rose gialle / come fa qualche vecchio dignitario. / Potete continuare a ripetermi / che sono insostenibile (e questo lo so): / eppure, nulla tramuta l’oro in granoturco, / non vi è nulla di dolce per il dente che vi si frantuma. / Non chiederò l’impossibile; / a camminare si impara camminando. / Col tempo scorderò questo mio traboccare di vuoto, / potrò sorridere ancora a / un uccello, forse, che abbandona il nido – / ma non sarà felicità, / poiché quella, io, l’ho conosciuta» (Demetra in lutto).

Spesso accade che il mito si distenda nella storia sommersa dell’epica quotidiana, come succede in  Sull’autobus con Rosa Parks (1999), in cui viene affrontato «un cameo di personaggi ed eventi» dove, come afferma Federico Mazzocchi, «Rita Dove evidenzia alcuni snodi della battaglia per i diritti civili dei neri, ma a prevalere sono ancora l’invenzione e il dramma; non una prospettiva di rivendicazione, bensì una “meditazione sulla storia e l’individuo”, un approccio che ben inquadra la frase di Simon Schama che apre la sezione eponima: “Tutta la storia è una negoziazione tra familiarità ed estraneità”. Rosa Parks è la donna che nel 1955 rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus e perciò fu arrestata, scatenando la reazione della comunità di Martin Luther King. Eppure lo spunto del libro sembra essere di tutt’altro genere: “Siamo sull’autobus con Rosa Parks” è la frase detta per gioco dalla figlia della poetessa durante uno spostamento. Nessuna contraddizione, perché indagare ciò che è fuori dalla storia significa anche per Rita Dove interessarsi di quello sguardo primordiale e innocente in cui la natura non si è ancora fatta cultura».

La sua poesia sembra far affiorare, ancora una volta, due proporzioni e sproporzioni, come se il tempo singolo, la chiamata del passato e il ritorno, i fantasmi, la semplice fiamma di Rosa, il ritratto dell’infanzia al tempo in cui «la terra era nuova / e il paradiso solo un bisbiglio, / al tempo in cui era troppo presto / perché i nomi delle cose attecchissero; / al tempo in cui le più tenui brezze / scioglievano l’estate nell’autunno / quando tutti i pioppi stormivano / dolcemente nei loro ranghi e schieramenti…», possano far rivisitare l’alba di ombre gloriose sulla pagina bianca spalancata, come recita una sua poesia dolce e profonda, poiché «Se non ti guardi indietro, / il futuro non accadrà mai. / Quanto è bello svegliarsi con il sole, / in un prodigo odore di biscotti – / uova e salsicce sulla griglia. / L’intero cielo è tuo / per scriverci sopra, spalancato su una pagina bianca».

È la vita di ogni giorno a chiamare, il taglio del paesaggio intravisto da questo autobus di affetto e storia, con tutte le sue ellissi e dilatazioni, che permette alla minuzia del dettaglio di scoprire il lato segreto e universale della realtà, il suo moto nascosto, la sua appartenenza e il rapporto intensivo tra musica e parola: «Fui piroetta e ghirigoro, / fui filigrana e fiamma. / Come avrei potuto contare le mie benedizioni / quando nemmeno sapevo il loro nome? / Al tempo in cui tutto doveva ancora venire, / la fortuna trapelava da ogni luogo. / Feci la mia promessa al mondo, / e il mondo mi seguì sino a qui».

La scena edenica di Giorno dei morti, tratto da American Smooth (2004), mostra Adamo ed Eva protesi a nominare le voci degli animali e il tempo del paradiso e, da quel momento afferma Mazzocchi «le parole infrangono la “musica” del silenzio, lasciando uomo e donna in una sorta di perenne danza nostalgica»: «Dinanzi a loro, un silenzio / più vasto di tutta la loro ignoranza / si spalancò e in esso si addentrarono / finchè non fu tutto ciò che sapevano. Col tempo / si rintanarono negli affari, / riempiendo il mondo di sospiri – queste creature anonime, / boriose, / le teste inclinate quasi nello sforzo / di carpire le parole di una canzone / cantata tanto tempo fa, in una terra straniera».

L’American Smooth è una forma di ballo liscio, in cui i partner sono liberi di rilasciarsi a vicenda e permettere l’improvvisazione e l’espressione individuale. Pertanto, Rita Dove compie la sua danza di nostalgia e elevazione, impastando e facendo convivere il lirismo con un nuovo ritmo, con una nuova porzione di storia che si palesa, come la nera luna solcata di Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere un Oscar.

La sottile linea dei versi si muove attraverso questa polifonia di  grazia e forma, di indipendenza, di opposizione e di sinuosità morbida di incantesimi, che vengono assorbiti dalla danza, dal volto e dai gesti. Il gesto del ballo si proporziona al gesto poetico, seguendo entrambi la danza delle cose, che si modellano nell’aria del «compiuto volo» e della «repentina e placida / magnificenza / prima che la terra / ci ricordasse chi fossimo e ci riportasse giù».

La Sonata Mulattica (2009), incentrata sulla figura del violinista mulatto George Bridgetower, ricordato per essere il primo esecutore e l’iniziale dedicatario (“il mulatto lunatico”) della Sonata a Kreutzer di Beethoven, il quale revocò e attribuì la dedica a Rodolphe Kreutzer, presumibilmente per un litigio riguardante una donna.

Il lavoro di Rita Dove insegue un’esistenza omessa, scandagliando la piega interiore dell’Altro rimosso e della sua giovinezza esotica («Sono l’Interno Oscuro, / sono l’Altro, misterioso e perduto; / Destino Spaventoso, lacerato da vite e tubero, / predatore satinato che sguscia dietro / alla sua preda spacciata ed ignara»), l’intimità monologante e adunata dei personaggi (come in Haydn lascia Londra: «Chiudo gli occhi / e lo sento, una corda grave pizzicata a intervalli, / che trascina la nostra sentina verso il mare rigonfio – /  un basso continuo che martella il sangue, / che si agita e non è mai pago») e la simbologia animata e vivente del reale attraverso la natura della memoria pubblica e privata, come il ritaglio felpato di verde e la partitura sperperata nel furore dell’Eroica di Beethoven, trascritta nell’aria e inspirata nella brezza del suono puro. Anche qui il gesto umano è il gesto del libro, come l’angolo sbilenco di Billy Waters («sbilenco come un granchio / dolciastro come birra di radice») o il gesto simbolico e vivente della statua di Moro con smeraldi.

Umanizzando e drammatizzando la sua orma materica, l’autrice allinea immagini inconsuete e rarefatte, mescola, nei cinque movimenti, i generi, toccando la precarietà nella nota che predomina, e creando un altro tempo nel tempo apre di continuo crepe ritmiche ai suoni dimenticati e, infine, adesca l’indicibile in una collezione di grazia mirata di sillabe primitive. Esatte.

 

Rita Dove - la scoperta del desiderioDOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18,50.

 

 

 

 

DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.

The Underside of the Story: A Conversation with Rita Dove with Stan Sanvel Rubin and Judith Kitchen (1985), in Ingersoll E. G., Kitchen J., Rubin S.S., The Post-Confessionals: Conversations with American Poets in the Eighties, Fairleigh Dickinson Press Rutherford 1989.

Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in «Kentucky Philological Review» 14 (1999): 27-31.

Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003.

BOOTH A., Abduction and Other Severe Pleasures: Rita Dove’s “Mother Love”, «Callaloo», Vol. 19, No. 1, Winter, 1996, pp. 125-130.

CAREY L., Sonata mulattica, in “New Yorker”, 27 april 2009.

ERICKSON P., “Rita Dove’s Shakespeares.” Transforming Shakespeare, Marianne Novy, St. Martin’s, New York 1999.

GALAVERNI R., Così Dove porta al cuore del mondo, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 17 gennaio 2016.

GEORGOUDAKI E., Race, Gender and Class Perspectives in the Works of Maya Angelou, Gwendolyn Brooks, Rita Dove, Nikki Giovanni and Audre Lorde, Thessaloniki, University of Thessaloniki 1991.

HARRINGTON W., The Shape of Her Dreaming: Rita Dove Writes a Poem Intimate Journalism, Sage, Thousand Oaks 1997.

KELLER L., Sequences Testifying for “Nobodies”: Rita Dove’s Thomas and Beulah and Brenda Marie Osbey’s Desperate Circumstance, Dangerous Woman.” Forms of Expansion: Recent Long Poems by Women, University of Chicago Press, Chicago 1997.

LEE R. F., Poet’s Muse: A Footnote to Beethoven, “New York Times”, 2 aprile 2009.

LOFGREN L., Partial Horror: Fragmentation and Healing in Rita Dove’s Mother Love, «Callaloo», Vol. 19, No.1, Winter 1996, pp. 135-142.

MAZZOCCHI F., Rita Dove. L’imprevedibile esattezza della grazia, in «Poesia», 314, aprile 2016.

MCDOWELL R., The Assembling Vision of Rita Dove. Conversant Essays: Contemporary Poets on Poetry, James McCorkle, Wayne State University, Detroit 1990.

MEITNER E., On Rita Dove. Women Poets on Mentorship, Arielle Greenberg and Rachel Zucker, University of Iowa Press, Iowa City 2008.

PAGE WILLIAMS Y., Encyclopedia of African American Women Writers, i, Greenwood Press, Westport Connecticut-London 2007.

RIGHELATO P., Understanding Rita Dove, University of South Carolina Press, Columbia 2006.

SHOPTAW J., Segregated Lives: Rita Dove’s Thomas and Beulah. Reading Black, Reading Feminist. Ed. Henry Louis Gates, Jr. London: Penguin, 1990.

STEFFEN T., Crossing color. Transcultural space and place in Rita Dove’s poetry, fiction and drama, Oxford University Press, New York 2001.

VENDLER H., The Black Dove: Rita Dove, Poet Laureate. Soul Says: On Recent Poetry, Harvard University Press, Cambridge 1995.

Blackness and Beyond Blackness, in “Times Literary Supplement”, 18 February 1994, 11-13.

A Dissonant Triad: Henri Cole, Rita Dove, and August Kleinzahler, Soul Says: On Recent Poetry, Harvard University Press, Cambridge 1995.

Rita Dove: Identity Markers. The Given and the Made, Harvard University Press, Cambridge 1995; and Faber, London 1995.

WOODS L. P., “Sonata Mulattica: Poems” by Rita Dove, “Los Angeles Times”, 17 may 2009.

 

 

 

 

 

 

 

Downtown: 180 poems about American and Canadian cities

Downtown on www.aracneeditrice.it

Catalogo delle Biblioteche

8930 copertina-page-001“Downtown” is a detailed journey of poetry and art across the United States of America and Canada, in all their variety and charm. Geography of the large landscapes, great cities, the freedom of the places that host the sky, shape the existence and define the living space of the human condition. Andrea Galgano’s poetic trip, enhanced by Irene Battaglini’s pictorial osmosis, who, through her paintings, gives breath into the verses touching them, is the sign of a surprise and astonishment that fascinate.
The work consists of four “quadrants” in which pour two hundred poems, divided by twenty pictorial tables with informal and expressionist matrix. Polychromy and power of light, looking in every city brushed or crossed, give back sensitivity and penetrate with force and power of expression in the magma of the texts that intertwine perfectly, renewing it, the endless fascination of America, crossing of oxymoron and beauty.

IMG-20150805-WA0015
NYC Serenade, particolare
804730_10207793074094780_1027400388_n
Miami, sera
12178248_10207793200697945_765639592_n
Chicago’s storm, la nebbia della memoria
IMG_8333
Mississippi, New Orleans, 2005
12166865_10207792956371837_1939321074_n
La luce bandita, Los Angeles

 

Rassegna stampa

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

Recensione a Downtown di Maria Pia Di Blasio, Le Cronache Lucane, 17.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

Intervista di Virginia Cortese su Controsenso Basilicata, 20.02.2016

 

 

 

 

 

 

 

Intervista di Emanuele Pesarini, Dowtown: Il viaggio poetico di Andrea Galgano alla ri-scoperta del continente americano

Andrea Galgano su www.talentilucani.it

TG7 Basilicata

Recensione di Samuele Liscio su Retroguardia 2.0

Recensione di Samuele Liscio su La Poesia e lo Spirito

Recensione di Samuele Liscio su Paperblog

Articolo di Francesco Potenza su La Gazzetta del Mezzogiorno, 31 marzo 2016

12923208_10208989206517343_3154840136141601241_n
Articolo di Francesco Potenza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 31 marzo 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Downtown on La presenza di Erato

Notiziario CDP Pistoia, marzo-aprile 2016

recensione di Angelo Parisi  Downtown: l’urgenza della Verità e il giardino segreto svelato

Brooklyn Bridge, rubrica: Versi DiVersi a cura di Antonetta Carrabs su Ora, 20 gennaio 2017 (2 febbraio 2017) tiratura 100mila copie

Ambrosia e Poesia. Il blog di Antonetta Carrabs – VERSI DIVERSI rubrica di poesia di Antonetta Carrabs su ORA

brooklyn-bridge-rubrica-versi-diversi-a-cura-di-antonetta-carrabs-ora-20-gennaio-2017-2-febbraio-2017-page-001
Brooklyn Bridge, Rubrica Versi DiVersi, a cura di Antonetta Carrabs, Ora, (20 gennaio 2017), 2 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Motel California – Andrea Galgano

WTC – Andrea Galgano

Florida- Andrea Galgano

Presentazioni

Potenza, 6 febbraio 2016

Comune di Potenza

6.02.2016 DOWNTOWN POTENZA

 

Il Quotidiano della Basilicata, 3.02.2016-page-001

 

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano, 3.02.2016

20160204090530-page-001

 

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata, 4.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata, 5.02.2016

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

 

Il Quotidiano della Basilicata 6.02.2016

Controsenso Basilicata 6.02.2016

 

 

 

 

 

Controsenso Basilicata 6.02.2016

In Arte 9.02.2016

 

10321653_10208491714640357_5609278816079636627_o 12628575_10208491710080243_8931086544209158243_o 12640469_10208491709440227_1432762530078963874_o 12646754_10208491720080493_831601666312131597_o 12695053_10208491709720234_4221174145073227579_o 12697159_10208491710400251_5924079821785962617_o 12698244_10208491718520454_701594040621734031_o 12698716_10208491710720259_5664435487400960962_o

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prato, 18 febbraio 2016

Polo Psicodinamiche, poesie e colori Made In Usa

18.02.2016 DOWNTOWN PRATO-01

 

 

 

 

 

 

12705496_1710645212543881_1070949438829253950_n12705396_10207476131455211_4850877052526454468_n

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

12715308_1710645185877217_4855656176608629672_n

 

 

 

 

 

 

12715739_1710645269210542_482347431674558538_n

 

 

 

 

 

 

12717546_1710644739210595_1315094188670084588_n 12718358_1710645289210540_6000388335542641820_n 12728904_1710644965877239_7221920968043869700_n 12729040_1710645315877204_6445640923118577321_n 12729066_1710644769210592_1056559929751198909_n

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lettura “Versi Nudi- Concerto di Parole”, Potenza, Cibò, 8 novembre 2016

cibo-8-11-2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini