La tempesta di Zbigniew Herbert

di Andrea Galgano 26 gennaio 2017

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herbertLa pubblicazione, presso Adelphi, degli ultimi versi di Zbigniew Herbert (1924-1998), L’epilogo della tempesta, in un volume che raccoglie i testi poetici scritti tra il 1990 e il 1998, anno di morte dell’autore, con l’aggiunta di testi sparsi scritti tra il 1950 e gli ultimi anni, rende ragione a questo autore, attraverso «una poesia definita classica e intellettuale, ma permeata di quel romanticismo polacco che imponeva un modello di scrittore impegnato nella storia, poeta dell’oscura sofferenza esistenziale e bardo dell’opposizione nella Polonia di Solidarnosc […]» (Francesca Fornari, Postfazione, p. 173).

La poesia di Herbert non sa indugiare. Quando compone l’elegia del mondo, si serve della realtà per sfogliarla, provocarne la fibra, divulgando la sua pagina senza mediazioni e spingendo la speculazione filosofica alla catabasi stoica, permeata dal passaggio «dall’oggettivazione figurativa e culturale, dall’impersonalità e dal distacco delle schermature allegoriche, che costituiscono il tratto qualificante della sua fisionomia espressiva, a una pronuncia più personale e dolente, più esposta e coinvolta in prima persona» (Roberto Galaverni), e, infine, solcata dal transito solare:

«Chi sarei diventato se non avessi incontrato Te – Henryk Maestro mio / A cui per la prima volta mi rivolgo per nome / Con la riverenza il rispetto che si devono – alle Grandi Ombre / Sarei stato fino alla fine della mia vita un ragazzo buffo / Sempre alla ricerca / Affannato taciturno che si vergogna di esistere / Un ragazzo che non sa / Vivevamo in tempi che erano davvero il racconto di un idiota / Pieno di frastuono e delitti / La Tua severa mitezza la forza delicata / Mi insegnavano a stare nel mondo come pietra pensante / Paziente indifferente e sensibile al contempo» (A Henryk Elzenberg nel centenario della Sua nascita).

L’inclinazione della poetica herbertiana raccoglie la profondità della pietas, esponendola alla mitologia, allo scarto e all’avamposto di una umanità senza cesure, come dirà in un’intervista nel 1991: «Scrivevo poesie serie, tragiche, e adesso scrivo sul mio corpo, sulla malattia, sulla perdita del pudore»), che sperimenta la fine e il limite, il chiaroscuro-fervore dell’attuale, della testimonianza attonita e, infine, del tempio sacro del vivente che lotta ai margini attraverso le ombre chiare e le schiere inermi.

Afferma Valeria Rossella:

«[…] Herbert declina in una lingua scabra e precisa da tragedia antica, con allegorica figuratività, le sue parabole intrise di rigoroso ethos. Mai si abbandona al catastrofismo, al soggettivismo solipsistico, in questo incarnando la figura del poeta-testimone, tipica della poesia polacca, caratterizzata secondo Miłosz da un «costante connubio con la storia»: una poesia non ombelicale, lontana dal narcisismo e dal nichilismo di tanta lirica novecentesca. Fra i sontuosi visionari arazzi di Miłosz e il microcosmo metafisico della Szymborska, questo poeta che Adam Michnik ha definito un «guardiano delle tombe» per la sua profonda pietas stoica, ci parla di chi finì nella macina della storia come “I lupi” (i partigiani dell’Armja Krajowa) e di chiunque si oppone ostinatamente alla sua legge brutale e distratta. Questa pietas è la sua cifra, espressa tramite exempla, “parabole” come le definì acutamente Brodskij, tratte spesso dall’antichità greco-romana da cui era affascinato […]».

Elegia per l’addio, la settima raccolta di Herbert, uscita nel 1990, già presente in Rapporto dalla città assediata, antologia pubblicata da Adelphi nel 1993, a cura di Pietro Marchesani, rappresenta l’esito di una incendiata sovrapposizione di natura e storia, regno vegetale, umano e animale, attraverso una impronta che dispiega metafore di violenza nascosta e pervasiva, segnate da una ferita urgente e unite da folli cause perse.

Lo sguardo sull’uomo dimidiato e percosso (La famiglia Nepenthes) penetra nelle fibre scure del male radicato nelle fessure, laddove l’assenza di innocenza («e noi viviamo in armonia con la nepente / tra campi di concentramento e di sterminio poco ci importa / di sapere che nel mondo vegetale l’innocenza – è assente») banchetta alle irresistibili spire dei nettari vischiosi, come «polizia segreta di una certa superpotenza».

Il prugnolo, nonostante «le peggiori previsioni degli indovini del clima», fiorisce a dispetto del «gelo polare conficcato fino in fondo all’aria», esponendo la sua sopravvivenza e il suo concerto solista alle bufere accecanti e alle note sparpagliate, a «questo cespuglio ai bordi delle strade» che «spezza / la congiura dei prudenti», diventando franto dispendio di giovinezze perdute, «come gli insorti che malgrado gli orologi della storia / malgrado le peggiori previsioni / malgrado tutto iniziano».

La colpa e il perdono toccano assottigliano il giudizio della coscienza, quando «il proiettile che ho sparato / da un piccolo calibro / nonostante le leggi di gravitazione / ha fatto il giro del globo / e mi ha colpito alle spalle / come volesse dirmi / che niente a nessuno / sarà perdonato» o si è tentato di cancellare dalla memoria «con l’acqua della pietà / la fuliggine il sangue le offese» perché «la nobile bellezza / il fascino dell’esistenza / e forse persino il bene / dimorassero in me».

Non è un mondo perduto bensì un aguzzato recupero di ciò che è, innocentemente, perduto: ombre sporche, venti senza alberi e senza nuvole, luna conficcata nel cielo, poiché il poeta è, come scrive ancora Roberto Galaverni: «un uomo lasciato improvvisamente scoperto dal ritiro della spessa coltre della Storia, e, dall’altra parte, dal possibile tradimento della vita. Tutto il suo mondo, il suo stesso sistema poetico, solo poco tempo prima assolutamente convinto e agguerrito, sembrano a questo punto ritorcersi contro di lui».

Al suo alter ego, il Signor Cogito, lascia la sua disillusione amara e radiosa, il suo eroismo e la sua casa oscura e incerta, il numero delle figure che se ne vanno, l’agenda corrosa e nebulosa del proprio esistere, fino alla trasformazione artistica della sofferenza e della memoria concava, come un sigillo, poiché «per Zbigniew Herbert, le regole del mondo erano chiare, stare dalla parte dei deboli, ambire a un posto nella schiera dei grandi spiriti, stare dalla parte degli oppressi» (Jaroslaw Mikolajewski).

Come ad Hermes, invece, il rammarico del passo danzante della sua preghiera inesauribile o il colore della terra del commiato:

«[…] tutto si dispiega in fasce orizzontali – un fiume pigro / l’altra riva scoscesa che ripida digrada verso il basso / rivela infine quel che si doveva confessare / argilla sabbia rocce di calcare strati di terra nera / e il bosco gracile ora un bosco che piange / sono felice ovvero libero da illusioni / il sole appare poco ma in compenso offre / spettacoli di splendidi tramonti quasi alla Nerone / sono calmo dobbiamo prendere commiato / i nostri corpi hanno assunto il colore della terra».

La disposizione di Herbert, quindi, pur abitando e patendo la schiera nefasta delle ombre novecentesche e la pura cognizione della sofferenza, non genera mai «l’abdicazione» della dignità (Jaroslaw Mikolajewsky), vivendo il ciglio e il dolore dell’orizzonte ultimo, sperperando i sigilli increspati di ciò che ascende e della domanda intagliata nel sangue, aggrappato al sapore dell’ostia e del lenzuolo bianco, alla parola nuda che tace ed affiora («a lungo si dovrà lavorare / per riportarle fuori / si dovrà accelerare / il ritmo del cuore / o rallentarlo / e forse ancora una volta / qualcuno le scriverà su un muro / nelle catacombe della notte / sul vetro latteo dei mattini»), preparando il rilascio di ogni possibilità detenuta, come accade a Barabba, terrorista, vasaio, mulattiere, usuraio, proprietario di navi o spia al soldo dei romani, che «pulisce le mani macchiate di delitto / nell’argilla della creazione»: «Lui Imperatore delle proprie mani e della testa / Lui Governatore del proprio respiro», mentre «il Nazareno / è rimasto solo / senza alternativa / con il ripido / sentiero / di sangue».

Antonella Anedda, infatti, sostiene:

«È vero, questo tardo Herbert che scrive sul ciglio della morte dice più spesso «io» rispetto al passato, ma lo fa mantenendo una distanza di sicurezza; scrivendo poesie che reggono, dalla struttura perfetta, dove ogni aggettivo è calibrato e ogni dettaglio ha un senso. Nessun ammiccamento al lettore, nessuna civetteria o lusinga. Non solo chi scrive, ma anche chi legge deve assumersi le proprie responsabilità. La reticenza – quella che ha dato vita alle tante poesie sul Signor Cogito, ironica considerazione anti-cartesiana – resiste intatta in una confidenza non ostentata ma piena di pudore, anche nell’osservazione del proprio corpo invecchiato, malato: strumento di conoscenza, che ritrova – attraverso la memoria del professore di medicina legale, chino sul torace dei suicidi – la pietà di Antigone».

Rovigo (1992) rappresenta, per Herbert, lo strato di un passaggio e di una iniziazione, in cui la prospettica sospensione tra passato e presente si accompagna alla crocifissione del luogo e dello spazio, e dove non esiste sacrificio vano. La grande cultura italiana è il segno del suo sguardo, attraverso di essa, anche ciò che è minimale, diventa centro, perché

«in Herbert è il dato concreto, il dettaglio il punto di partenza per una riflessione che però va sempre verso una generalizzazione che valga per tutti. […] Nell’opera poetica di Herbert i grandi temi tralucono dalle piccole cose, da dettagli apparentemente inessenziali. Il fuoco della lente di ingrandimento è sempre sui particolari, sui dettagli delle situazioni rappresentate; ogni esistenza è singolare, precaria, drammatica e irripetibile» (Giorgio Linguaglossa).

Scrive Josif Brodskij:

«Herbert è un poeta molto italiano, poiché la sua estetica risente moltissimo dell’arte italiana, della pittura in particolare […]. La figura del Rinascimento che viene in mente quando si legge Herbert è, senza dubbio, Piero della Francesca, perché le poesie di Herbert si interessano, per così dire, più della geometria del fondale del dramma che dei suoi personaggi centrali. Sì, geometria è la parola giusta: più che a qualsiasi altra cosa le sue poesie assomigliano a teoremi o, se vuoi, a parabole: per via della loro reticenza e del loro rigore» (Lettera al lettore italiano, Rapporto della città assediata, p.17).

L’orlo della confessione intima, la pietas irrinunciabile come avvertimento dell’umano, l’incanto della parola avversa alla refrattarietà del tempo e la demarcazione trascritta e inesausta della domanda a Dio (sconosciuto),  diventano «un sudario di terra calato con premura / sugli occhi». È il pudore, rarefatto di azzurro, della sua humanitas.

Sulla classicità oraziana di Herbert, Francesca Fornari, così scrive:

«Le figure mitologiche e i personaggi della storia classica sono apparizioni via via più sporadiche nei testi di Herbert, che nel raccontare il duello tra Achille e Pentesilea coglie l’eroe in un momento di pietà e commozione davanti alla bellezza dell’amazzone uccisa (Achille e Pentesilea). Il Dioniso di Herbert è incarnazione del motivo del viaggio, naviga verso l’ignoto in una spedizione senza meta che è anche il viaggio della vita stessa, dove l’unica certezza è la consapevolezza della nostra ignoranza (Opera a figure nere di Eksekia). Nell’ultima fase della sua scrittura Herbert compone testamenti spirituali, affida al lettore le confessioni intime di un io che abita «sull’orlo del nulla»: finito il tempo dell’emergenza storica, per la prima volta infrange la propria regola poetica dell’oggettività, che imponeva il riserbo nell’esprimere emozioni, e dice semplicemente: «la mia anima è triste»» (p.174).

Il fondale di Herbert, allora, non è un epicedio dell’umano bensì la resistenza di ciò che è umano contro la depressione, la malattia, il limite, l’amarezza, la decadenza di ciò che ci circonda. È l’arte che è specchio «che passeggia per la strada maestra», riflettendo «i miraggi / l’aurora boreale / l’estasi dei posseduti / i banchetti degli dèi / gli abissi / lotta anche con la storia / con alterni successi / tenta di addomesticarla / di darle un senso umano».

Persistono le rovine ma sono punto focale di ciò che, a dispetto di tutto, resiste all’assedio del tempo, non soltanto come tregua ma come resurrezione scandita. In questa forza risiede il suo canto strenuo, la sua parola non sbiadita e il suo tentativo di ripristino della realtà «collosa» che unisce tragedia, sacrificio e riscatto di incontri sicuri («Solo i bottoni inflessibili / sono scampati alla morte testimoni del crimine / salgono dalle profondità in superficie / unico monumento sulla loro tomba / sono testimoni che Dio farà la conta / e avrà pietà di loro / ma come potranno risorgere col corpo / se sono parte collosa della terra») (I bottoni, dedicata a suo zio Edward Herbert, ucciso dai Russi a Katyn): «Con la legge dei lupi hanno vissuto / per questo la storia ne ha taciuto / di loro nella neve molle è rimasta / urina giallastra e quell’orma di lupo / più rapida di uno sparo a tradimento nella schiena / li colpì al cuore la disperata sete di vendetta / mangiavano miseria bevevano acquavite / cercavano così di resistere alla sorte» (I lupi).

Il suo passaggio affronta nubi, quelle di Ferrara, ad esempio, vissute attraverso il precipuo scorrimento di natura e creazione dipinta (il Ghirlandaio), che «scorrono / molto lentamente / sono quasi immobili» e rivelano il destino mancato di chi non ha potuto scegliere «niente nella vita / secondo il mio volere» e che ha sempre cercato, non trovandolo, il rifugio nella storia o la sua sosta. Perché è in loro la destinazione umana, le estensioni di tempo, di dimenticanza e di durata, la persistenza paziente e l’osservazione sofferta, le palingenetiche ginocchia dell’infanzia (quelle della nonna che gli faranno scoprire «la ruvida / superficie e il fondo / della parola»), la precisione del male.

La prospettiva che spinge verso l’infinitesimale presenza delle cose trova in Rovigo, il paesaggio grigio e la città di pietra e carne, e come afferma Francesco M. Cataluccio, essa diviene «per lui il simbolo della normalità e delle occasioni perdute, di qualcosa che non riusciamo, forse non vogliamo del tutto, afferrare: una città di passaggio, come la nostra vita»:

«STAZIONE DI ROVIGO. Associazioni incerte. Un dramma di Goethe / o qualcosa di Byron. Sono passato per Rovigo / n volte e per l’ennesima volta ho compreso / che nella mia geografia intima è un luogo / particolare anche se non cede di sicuro il passo /
a Firenze. Non vi ho mai messo piede / e Rovigo si avvicinava o fuggiva all’indietro / Vivevo allora d’amore per l’Altichiero / dell’Oratorio di San Giorgio a Padova e per Ferrara / che amavo poiché ricordava la / saccheggiata città dei miei padri. Vivevo sospeso / tra il passato e l’attimo presente / crocifisso più volte dal luogo e dal tempo / E tuttavia felice fermamente fiducioso / che il sacrificio non sarebbe stato vano / Rovigo non si distingueva per niente di particolare era / un capolavoro di mediocrità strade diritte  brutte case / solo prima o dopo la città (in base alla direzione del treno) / dalla pianura si alzava all’improvviso una montagna / – tagliata da una cava rossa simile a un prosciutto festivo ricoperto di un cavolo crespo / e oltre a ciò niente che divertisse intristisse attirasse lo sguardo / Eppure era un città in carne e pietra – come altre / una città dove qualcuno ieri qualcuno è morto qualcuno è impazzito / qualcuno per tutta la notte ha tossito disperatamente / IN COMPAGNIA DI QUALI CAMPANE APPARI ROVIGO / Ridotta a una stazione a una stazione una virgola una lettera cancellata / niente soltanto una stazione – arrivipartenze / e perché penso a te Rovigo Rovigo».

È ne L’epilogo della tempesta, che il suo accertamento del dolore impalato si fa più denso e infittito: «ogni palmo di terra è stato scavato e devastato / dall’attacco precedente spianato del tutto e allora perché / questa furia del dolore se questo è un segnale / e il dolore è un segnale inviato allo stato maggiore».

Il suo breviario è preghiera («Signore, / Ti rendo grazie per tutta questa cianfrusaglia della vita, in cui annego senza scampo da tempi immemorabili, mortalmente assorto nella continua ricerca di minuzie»), linea del respiro, «sospesa come i ponti, come l’arcobaleno, come l’alfa e l’omega dell’oceano», accordo lacerato e confessione di falde («Signore, / so che i miei giorni sono contati / ne rimangono pochi / bastano perché io possa raccogliere la sabbia / con cui mi copriranno il viso / non farò più in tempo / a riparare alle offese / né a chiedere perdono a tutti / coloro a cui ho fatto del male / per questo la mia anima è triste»).

L’intimità dell’io espone così le sue ultime battute nude: «perché / la mia vita / non è stata come i cerchi sull’acqua / un inizio che cresce / risvegliato dentro profondità infinite / si dispone in anelli falde gradini / per spirare sereno davanti / alle tue imperscrutabili ginocchia»).

Il dolore del corpo e il terrore notturno, gli oggetti silenti e appartati nella loro concretezza, ontologicamente descritti in tutta la miniata sofferenza quotidiana («Signore, Ti rendo grazie per le siringhe con l’ago spesso o fine come un capello, per le bende, per ogni tipo di cerotto, per l’umile impacco, grazie per la flebo, i sali minerali, le cannule, e soprattutto per le pasticche di sonnifero dai melodiosi nomi di ninfe romane, / che sono buone perché chiamano, ricordano, sostituiscono la morte»), la lingua non arresa di sogni e fiori salpati e distratti compongono la trasparenza dell’ultima parola («la mia vita / dovrebbe descrivere un cerchio / chiudersi come una sonata ben scritta / e adesso vedo chiaramente / un istante prima della coda / gli accordi lacerati / parole e colori assortiti male / strepito dissonanze / le lingue del caos») e la compassione verso un’attesa «scevra da qualunque ansia thanatofobica o anche thanatofilica, vissuta con l’animo sereno di chi vede la nave ormai prossima al porto e riflette su ciò che è stato, con tono pacato, ma non per questo privo di tragicità» (Andrea Ceccherelli).

Ancora una volta al Signor Cogito, egli consegna la sua privata allerta, l’ironia e le mani impazienti, il transito alla sua cara Leopoli «città che non esiste su alcuna mappa / del mondo», dove «c’è un pane che può nutrire / tutta la vita nero come la fede di rivedere / la pietra il pane l’acqua il permanere delle torri all’alba», l’appartenenza al tempo e allo spazio, l’impossibilità, la fedeltà iscritta e l’attesa, la memoria sopravvivente all’oblio, l’infinità e la coscienza, il corpo inappellabile, e la sua anima, nell’esilità del respiro doppio, così portata in spalla, sarà pronta al volo nella piena luce del giorno: «Dove passerai l’eternità? / Non lo so. Forse tra la sabbia delle nebulose» (Conversazione).

32fe833dce51df0052fea6b452e01645_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyHERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, pp. 180, Euro 20.

HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016.

  • A poet Who Misses Censors, in «Newsweek», 1991.
  • Rapporto dalla città assediata, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 1993.
  • Rovigo, a cura di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero, Il Ponte del Sale, Rovigo 2008.

ANEDDA A., Zbigniew Herbert, la pianura fredda tra le parole (https://www.alfabeta2.it/2016/11/20/zbigniew-herbert/), «Alfabeta2», 20 novembre 2016.

CATALUCCIO F.M., L’epilogo italiano di Herbert, in “Il Domenicale- Il sole 24ore”, 30 ottobre 2016.

CECCHERELLI A., Zbigniew Herbert, il morso del tempo sul corpo del dolore, in “Il Manifesto”, 4 settembre 2016.

CUCCHI M., Novecento in versi. Il secolo d’oro della Polonia, in “Avvenire”, 29 dicembre 2016.

GALAVERNI R., Il nemico non c’è più, il vate si congeda, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 25 settembre 2016.

LINGUAGLOSSA G., “Rovigo”. Una poesia di Zbigniew Herbert Traduzione di Andrea Ceccherelli e Alessandro Niero. Commento di Giorgio Linguaglossa, (http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica28).

ROSSELLA V., recensione di HERBERT Z., L’epilogo della tempesta. Poesie 1990-1998 e altri versi inediti, a cura di Francesca Fornari, Adelphi, Milano 2016, in «Poesia», dicembre 2016.

 

Bambini e tecnologia: quanto tempo davanti allo schermo?

di Paola Serio 7 gennaio 2017

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foto-paola-serioUna mamma si addormenta con accanto il suo iphone e la sua bambina, Ashlynd.

Ashlynd ne approfitta per fare da sé un’azione che ha visto compiere alla mamma decine di volte: va su Amazon e fa acquisti per un valore di 250 dollari; tredici giocattoli e gadget di Pokemon, i suoi preferiti.

NATIVI DIGITALI E GENITORI PRIMITIVI. Il mondo è cambiato radicalmente negli ultimi dieci anni. È più facile ammirare un cielo stellato attraverso uno schermo che vederlo alzando il naso in su. Possiamo trascorrere il tempo a disquisire di quanto questo sia fantastico o aberrante e di quanto abbia risolto o complicato la nostra vita da adulti; ma non possiamo esimerci dal prendere in considerazione quello che la scienza ci dice sull’argomento quando siamo genitori.
Un bambino nasce in un mondo che gli adulti hanno costruito e pensato non certo a sua misura e può solo cercare di adattarsi ad esso per sopravvivere. Quando qualche giorno fa sui social si è diffusa la notizia di Ashlynd che a 6 anni ha ben pensato di fare spese online con il dito della madre, qualcuno avrà riso sotto i baffi confermando la sua scelta di non voler per nessuna ragione al mondo procreare. Forse qualcuno ha pensato che ai suoi tempi queste cose non succedevano e qualcun altro ancora avrà addirittura rimpianto i giganteschi telefoni fissi, oggi molto vintage, tenuti ancora come arredamento negli appartamenti. Quelli che, per comporre il numero, dovevi infilare il dito in un miniscolo buchino e girare!
Sicuramente, però, qualche genitore, a cui proprio non importa stabilire in quale epoca sarebbe stato il caso nascesse suo figlio, si sarà semplicemente chiesto: ma quanto tempo è bene che i bambini trascorrano davanti ad uno schermo? Domanda top one dei genitori dei bambini 2000.

RACCOMANDAZIONI PER GENITORI. Nel 2011, l’American Academy of Pediatrics (AAP) raccomandava che i bambini di età inferiore a 2 non dovessero guardare qualsiasi televisione. I ragazzi un po’ più grandi avrebbero dovuto limitare al massimo a 2 ore al giorno il tempo sullo schermo.

Dall’Ottobre del 2016, di fronte alla ormai massiccia diffusione di iphone e ipad queste direttive sono cambiate: un cambiamento che probabilmente riflette la realtà che gli schermi sono diventati parte della vita quotidiana anche dei nostri figli.

Tra le raccomandazioni AAP troviamo:

  • Per i bambini di età inferiore ai 18 mesi, evitare l’uso dei mezzi di comunicazione con schermo diverso rispetto alle video-chat (con i nonni, zii o genitori lontani).
  • I genitori di bambini dai 18 ai 24 mesi di età che vogliono introdurre i media digitali dovrebbe scegliere una programmazione di qualità, e guardare con i loro figli i programmi per aiutarli a capire quello che stanno vedendo.
  • Per bambini dai 2 ai 5 anni è bene limitare l’uso dello schermo a 1 ora al giorno di programmi di alta qualità. Anche in questo caso i genitori dovrebbero guardare con i bambini programmi o giochi per aiutarli a capire ciò che stanno vedendo e applicarlo al mondo che li circonda.
  • Per bambini dai 6 anni in su, porre limiti coerenti circa il tempo trascorso con i media e assicurarsi che il supporto non prenda il posto di sonno adeguato, l’attività fisica e altri comportamenti essenziali per la salute.

Inoltre è bene ricordare che:

  • I bambini, per loro natura, spesso fanno chiasso, sporcano, litigano, vogliono attenzioni. Se non possono fare almeno parte di questo cercheranno di trovare un’alternativa e spesso aumentano significativamente lo screen time.
  • Spesso la televisione è un suono in sottofondo della casa, una sorta di “compagnia”. Questo però può distrarre i bambini da loro attività come giocare con i giocattoli o parlare con i genitori. Così, se il bambino non è specificamente seduto a guardare qualcosa, è meglio lasciare il televisore spento.
  • Internet o lo schermo non potrà mai insegnare ai nostri figli più di quanto potremmo fare noi. Inoltre non è detto che, nonostante la buona qualità di un contenuto, un bambino sia in grado di comprenderlo e gestirlo emotivamente. Quindi non smettiamo mai di sederci, parlare, spiegare e, soprattutto, essere d’esempio.
  • Interessiamoci sempre e nel particolare del contenuto. Data la presenza di innumerevoli spettacoli didattici e applicazioni per i bambini, non vi è alcun motivo per cui dovrebbero guardare la programmazione per adulti, in particolare la programmazione che contiene violenza.
  • Prendiamoci del tempo per capire le caratteristiche tecniche dello strumento e come i nostri figli lo utilizzano. Verifichiamo la politica che applicazioni e social hanno sulla privacy e la conservazione dei dati. Dobbiamo assolutamente sapere chi ha accesso al materiale audio video prodotto dai nostri figli ( solo i loro amichetti di scuola o tutto il popolo del web??). Talvolta inconsapevolmente potrebbero condividere informazioni sensibili come la loro posizione. La nostra età/ignoranza della tecnologia/mancanza di tempo non sono una scusa: siamo noi gli adulti e gli unici responsabili dell’incolumità dei nostri figli.
  • Ricordiamoci sempre che, come per tutto, tenderanno a seguire, più che le nostre parole, il nostro esempio: occhio innanzitutto a come noi gestiamo il nostro screen time.

Con queste piccole e semplici accortezze lo screen time smetterà di essere una preoccupazione ma solo un’altra cosa di cui parlare, certe volte da concordare e spesso da condividere.

 

I cieli celesti di Claudio Damiani

di Andrea Galgano 2 gennaio 2017

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presente nella Bibliografia critica su www.claudiodamiani.it

claudio-damianiLa nuova silloge di Claudio Damiani (1957), uno dei maggiori poeti italiani, Cieli celesti, edita da Fazi, è una popolata emersione di dettagli e incontri, visualità splendente e cromature di fondi.

Ma se l’eco dell’antica tradizione poetica, che si prolunga fino ad Orazio, passando per Leopardi, Pascoli e Caproni, non ama rinserrarsi in una racchiusa condensazione di voce, la poesia di Damiani è una domanda di incontro. Domanda tersa e piovuta come l’ambientazione azzurra, che pur prendendo l’accento dalla coltre intensa di Beppe Salvia, trasla il suo apice attraverso una profonda creaturalità e una estremità limpida che rafforzano la sua scaturigine nella pacatezza e nella origine.

La domanda elementare di Damiani, allora, si fonde in tutta la sua peculiare destinazione nella contemplazione del cielo vivo, nel segreto riflesso del tempo e nelle trame del vivente che lanciano il loro indefesso dialogo con il reale e la sua impossibile smarginatura:

«Riverso sul lettino in terrazzo / guardo il cielo azzurro, / azzurro di un azzurro fitto, / pieno, come più mani di azzurro. / Come siete lontani stelle e pianeti / dell’universo, quando potremo mai incontrarci, / come, creature vive e intelligenti, uomini / come noi, sparsi come siamo tutti / in uno spazio tanto grande? / Così adesso restiamo noi qui, pensando di essere soli / perché anche il tempo è tanto lungo, come lo spazio. / Vi pensiamo però, esserci cari, e ci sarà un tempo / in cui ci incontreremo».

Roberto Galaverni afferma:

«Damiani s’interroga sulle ragioni del suo idillio appena increspato da qualche nube e ombra lieve. Il che significa che sta riflettendo anche sulla necessità stessa della sua poesia o anche, almeno agli occhi di un critico di poca fede, sulla sua plausibilità. Il registro espressivo e i referenti in ogni caso restano sostanzialmente gli stessi elementi basici e situazioni elementari per un lessico altrettanto basico ed elementare. Ecco allora: creatura, vita, cuore, terra, aria, cielo, azzurro, prato, sole, luna, stelle, universo, amore, e poi gli animali, le rondini, i passerotti, il gatto. Damiani prova a rendere ragione della realtà di quello a cui sempre ha guardato: la nuda e semplice presenza della vita al di sotto o, che è lo stesso, al di là della storia, delle faccende quotidiane, dell’impegno per dirottare su chissà quali strade il nostro destino».

Lo sguardo, che celebra e contempla, congiunge e domanda, destina e si immerge, diventa l’orma basilare di un approdo di chiarità (il monte Soratte, ad esempio, fissato in tutta la sua cosmica apparizione di millenni e limiti umani come cicatrici) e di un respiro che ha bisogno del prosimetro della realtà per intensificare la lingua e il suo cuore luminoso: «L’aria tenera della tua bocca / la respiro a pieni polmoni, / ti respiro dentro nel corpo / fin dentro l’anima, cielo».

O ancora come un ascolto o un amore, la nitida limpidezza diviene presenza, natura pensante e universo, in cui la giuntura umana che è chiamata a scoprire la vita e la vivezza, l’esistenza e il suo germoglio, la sua angolazione e il suo mistero, persino la sua ironia:

«Stamattina il cielo era azzurro, con nuvole / ora è completamente grigio, coperto. / Il cielo coperto è meno bello / non tanto perché è buio / e dà una sensazione di freddo / ma perché copre, appunto, il cielo. / La sensazione è quella di una cappa, di un muro / che ti separa dal cielo. / Se solo pensassimo, se riflettessimo un attimo / che oltre quella cappa, oltre quel muro / il cielo azzurro risplende / con tutte le stelle e lo spazio / forse saremmo meno / meteoropatici».

Il mistero dell’esistente, quindi, è grazia di danza improvvisa. Il tocco delle cose, come la fisica di Luzi, restituisce il dono epifanico atteso, in cui la conversazione è il profumo del verso, la corsa del tempo, il mondo che si sporge. La dettagliata cifra dell’essere è sempre nominazione:

«C’era un prato verde verde / con cielo azzurro e sole, / aria fredda e erba verde e grassa, / primi di aprile, mattina, / vento di tramontana /  e un pastore con dietro / tutte le pecore, ferme / per attraversare. Passo con la macchina / e dietro di me attraversano le pecore. / Quando ritorno, dopo dieci minuti, / le pecore stavano riattraversando. / E tu, luna, stavi guardando, / tu che ti muovi con passo lento di danza, / grande sfera aerea innamorata della terra, / te che pure, un giorno, nascesti / partorita dalle stelle, / forse una costola della terra, / forse nascesti dall’unione / di tanti piccoli corpi, / crescesti come una bambina e diventasti / questa ballerina meravigliosa che si muove con grazia / ammirata da tutti, che balla tutta la notte».

Il territorio poetico di Damiani (e il suo paesaggio appenninico), non è una frazione idillica e nascosta, lambisce la realtà non solo con l’immediata riflessione luminosa ma è attraverso l’ apertura e l’incontro che l’inatteso avviene: «Sai quegli scienziati caparbi / che ripetono all’infinito l’esperimento / con una pazienza disumana? / E proprio quando stavano per desistere, / proprio quando stavano, sfiduciati, per lasciare perdere / quella pietra si illuminò di luce azzurra».

Solo così il dipinto del mondo si innerva nel processo segreto di epistemologia e stupore: «Sono in terrazzo, sdraiato / vedo il cielo azzurro, / a un tratto vedo alcune rondini, / sono arrivate, è primavera».

Lo stupore è la sua forma di conoscenza che si increspa e si concede in ogni invocazione e proposta che richiama il piccolo spazio di una porzione di sole o di una tenerezza d’aria che consegna baci celesti da prendere e voci lontane: «Prendo il sole come un albero / nel mio piccolo spazio, il mio terrazzo, / prendo la mia porzione di sole / piccola ma per me enorme, / non comparabile con nessuna cosa, / e col sole prendo quest’aria tenera / la respiro tutta / e non ne lascio niente. / Prendo i tuoi baci, cielo / e non ne rifiuto nessuno. / E le chiacchiere degli uccelli / mi sono care, e le voci, / lontane, degli umani».

O ancora, attraverso una vigile attesa che ricostituisce la genesi di ogni tempo da rincorrere come un respiro che, come in ogni densità d’istante, bacia l’aria: «Questo cielo, come sarebbe difficile / spennellarlo, voglio dire dipingerlo, / sarebbe un’opera difficilissima / e invece ecco, apri la finestra / e te lo ritrovi qui, bell’e fatto. / […] Ma tu tesoro mio puoi non credere in quello che vuoi / ma un universo e miliardi di anni / ti sembra poco?».

La poesia di Damiani  si nutre dell’accortezza generativa delle cose che si apre all’infinito, alla limpidezza, al «gorgogliare sommesso / dell’acqua». Sono le stesse cose a parlare a rivelarsi in un momento di naturalezza imprevedibile e generosa, che pur perdendosi, dà vita in una gioia fresca:

«Caro Sole, tu ogni giorno / non so quante tonnellate di materia perdi / e anch’io, ogni giorno, perdo qualcosa, / ogni giorno perdiamo un giorno / ma quando sarà finito il tuo tempo / si potrà dire di te: è stata una stella generosa, / per tutto il tempo ha illuminato e scaldato / i corpi intorno, senza fermarsi mai / dando tutto il possibile di sé, / sempre al massimo delle sue possibilità, / tutto quello che poteva fare l’ha fatto / e tutti sempre l’hanno ringraziato / e l’hanno adorato, l’hanno benedetto / e nella sua lunga vita lui ha sempre gioito / della riconoscenza di tutti».

Le sue epifanie, i suoi balzi avvolti e i suoi avamposti soli dove «il sole ci bacia e la brezza / ci vellica le guance, / il vento muove le nostre pagine / e i nostri giorni volano», le ombre celate e ritrovate che vivono nelle uniche sproporzioni («è notte, vedo il cielo nero / senza stelle, e così nero lo sento / e così grande, così grande / e penso a quando era piccolo / che avrei potuto tenerlo / in una mano, / e quasi mi viene da piangere / a pensare che poi sarebbe diventato così grande / e con tante terre e tanti soli / e infiniti animali e infiniti uomini / di infinite razze, che dopo tanto errare / si sarebbero sempre più avvicinati, / si sarebbero alla fine ritrovati»), e i suoi crinali splendenti e intensi («[…] ma ora, senti come è tenera l’aria / tiepida e fresca del cielo notturno / e viene un odore di fiori di acacia / e di biancospino. / E senti il cuore mio come batte / e senti il tuo, e c’è qualcuno / che chiede di entrare, anzi è entrato / e cammina dopo di noi»), i cambi d’aria e lo scioglimento degli elementi (aria, luce, acqua), nelle infinite variazioni della vita degli alberi, procedono in una metafisica dichiarativa e ragionativa che gemma nei semi sul tracciato.

Con l’infinitamente piccolo e le grandezze, egli evoca e rievoca la sua appartenenza («[…] siamo un numero molto grande / che può far paura, nel nostro numero è Dio / in qualche modo, e un valore molto piccolo / è ciò che è nostro e solo nostro di individui, / il valore individuale potremmo dire / che, in quanto piccolo, è però un valore / che nullifica ogni nichilismo, / che dà a te, amore mio, e a me / un’unicità che ci fa divini»), ed è da essa che si esprime, appieno, la libertà e il suo legame con la comunità e con tutto ciò che c’è, come un tenue miracolo di unione prossima:

«Dolce cielo celeste / dipinto di azzurro tenero / e voi verdi monti e voi / valli e boschi, nuvole / che là, verso l’orizzonte / navigate lente, e tu sole vicino / al tramonto che spandi questa luce / d’oro nell’aria, e ogni cosa fai tiepida / del tuo calore, e tu aria che muovi / i miei capelli e spiri sulle mie / guance e le pagine volti dispettosa / del quaderno ove scrivo… / state insieme, vi date come la mano / contenti di essere uniti, / di essere l’uno all’altro / indispensabili, di essere insieme / questo miracolo che vedo».

Roberto Galaverni afferma: «Le questioni sono ancora una volta le più elementari, spesso riprese non a caso dalla filosofia presocratica: fissità e mutamento, il senso (detto come direzione) della natura, il rapporto tra il singolo e la comunità, tra la vita individuale e le ere, il retaggio antropologico e soprattutto il tempo, che costituisce il filo conduttore del libro».

La trincea del vivente, le pause degli istanti e i semi di luce, i mondi abitati e inabitati dalla vita, le lontananze dipinti e i cieli notturni aprono crepe nelle evidenze del tempo e della realtà, negli spari insonni, nelle armature a difesa della propria nudità fonda (come in Svegliarsi in una notte del 2012…), dove l’amore annulla ogni paura e smarrimento sgranato.

Damiani cesella le sue immagini senza lentezza ma quasi per deposito granulare. Da una singola immagine che sembra annullarsi, compare un ulteriore dettaglio o una nuova esistenza che porge il suo singolare sussulto di sacertà, di forma, di oblio e di luce.

Silvio Perrella scrive:

 «Damiani è un asincrono; non ama stare al passo con i tempi; o piuttosto cerca nei tempi il Tempo, quell’atomo di vita che collega gli uni agli altri. e non solo in orizzontale, ma anche in verticale. ed ecco che vien fuori una verticale come questa, dove si sale e si scende sulle scale del tempo, e lo si fa in un attimo di dormiveglia, pensando a quel che pensano tutti, ma pensandolo dentro l’unicità del nostro corpo singolare, e sentendo il risveglio degli altri, il loro stesso girarsi tra le lenzuola del cosmo».

Attraverso l’ode, il pensiero sorgivo, la tenerezza dell’essere, la speculazione filosofica e l’ironia, Damiani compone la sua trama e il suo segno, annotando le vibrazioni piccolissime e le concitazioni dei ronzii. È la sua obbedienza alla realtà a rendere ragione alla poesia, che si nutre di ciò che vive e muore, che insegue il tempo passato e presente ed accade in silenzio come una luce bianca. La caducità è uno splendore lucente e la coltre di ogni limite possibile ma immenso, allo stesso tempo, dove il nostro schianto lucente e assaporato si compie:

«Siamo caduchi, siamo quelli che cadono / sul campo di battaglia della vita. / Ci falcia il tempo, che ci insegue in ogni momento / dopo averci partorito, / ci tiene il fiato sul collo / e non ci lascia respirare. / Se ci fermiamo un momento / lui passa e noi lo stiamo a guardare / come dalla spalletta di un ponte / ma ci divora dentro. / Che cosa succederà domani / tu non lo puoi sapere /  per questo sei nelle sue mani / e non ti puoi liberare. / Siamo caduchi, siamo quelli che cadono, / cadiamo come le mosche, / quando nasciamo ce l’abbiamo scritto in fronte / che cadiamo, / ma non ce ne vergogniamo / anzi camminiamo a fronte alta / con la nostra morte nel cuore. / Non siamo soli, siamo tanti, / siamo un esercito immenso, / marciamo insieme, spinti dal tempo / con questa croce sul cuore. (Canzone dei caduchi)

La pienezza vivente è uno sguardo e una carezza d’amore, come nostalgia di realtà e mortalità, canto pazzo che non si ferma, relazione di nascita e morte insieme, e vita che vince la morte in una moderna Arcadia:

 «E questo canto, amore mio, di cicale / sotto il sole di luglio, in una campagna italiana / cielo azzurro e poche nuvole, piccole, / odore forte di rosmarino e ginestre / e questo canto pazzo che non si ferma / nel’aria bianca bruciata / e noi, io e te, sotto questi pini / alziamo i calici e brindiamo, silenziosi, / tu vestita come una dea, con lunghe ciocche annodate / e perle tra i capelli, / là sulla collina il nostro capanno di legno / e giù lo scoglio dove passo tutte le notti / a piangere guardando il mare».

Le nostre lontananze, la tiepida aria di giugno, solitaria e fresca, quasi come un fiore strappato, richiamano l’attraversamento del tempo e la sua unione di tutti i tempi nel tempo, in una serie di passi e punti di osservazione investigati:

«Ma adesso questo cielo e questo fresco sulla pelle / quest’aria pulita e queste poche nuvole / e questo chiacchiericcio di uccelli / e uccellini nei nidi, come un brusio, / in questo tardo pomeriggio di giugno / dove tutto sembra finito, e all’inizio, / e questo rumore di camion lontani / tra le voci degli uccelli, / rumori di un tempo che è questo tempo preciso / e tutti i tempi, insieme, / come se quest’aria tiepida, mite / li attraversasse tutti i tempi, li unisse».

Il transito dei nostri passaggi lascia la musica che resta come essenza vibrata e come intima e congiunta proprietà dell’essere. È il nostro andirivieni, la nostra prima linea, i rumori delle cose lontane, che recano in grembo il senso dell’ultimità conciliata di un mistero disciolto nel suo scorrimento azzurro e nella sua trasparenza:

«Lascia che sia, lascia che sia / non lo contrastare, / alla fine è questo cielo della sera / quello che resta, i rumori delle cose lontane / e questo colore pallido e luminoso insieme / acceso e bruno nello stesso tempo. / Alla fine quello che resta sono i rumori / delle cose lontane, che fanno i dolci, che passano, / alla fine quello che resta è il nostro passare, / essere passati e dover ancora passare, / questo rumore di fondo come il mormorio di un ruscello / o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno».

cieli-celesti-light-1-671x1024-671x1024Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016, pp. 164, Euro 18.

 Damiani C., Cieli celesti, Fazi, Roma 2016.

  • La difficile facilità. Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana Editore, Roma 2016.

Galaverni R., Le buone cose di semplice gusto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 20 novembre 2016.

Langone C., Nel tempo del Natale profanato leggo le ultime poesie di Claudio Damiani, in “Il Foglio”, 21 dicembre 2016.

Gnerre A., Il laboratorio difficile e facile di Damiani, (https://www.rivistaclandestino.com/il-laboratorio-difficile-e-facile-di-damiani-di-a-gnerre/), 4 dicembre 2016.

Lombardi L., Tempo, Spazio, Terra. Damiani contempla, in “Il Tempo”, 19 dicembre 2016.

Perrella S., Svegliarsi in una notte del 2012…, in “Il Mattino”, 9 novembre 2016.

Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

di Andrea Galgano 6 dicembre 2016

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diego-baldassarre-sinopie-smarriteLa nuova raccolta di Diego Baldassare (1969), poeta romano trapiantato sulle colline pistoiesi, Sinopie smarrite, edita da Lietocolle, restituisce non già un mondo sommerso bensì la linea rarefatta e smarrita di un preludio vivente, di un’anima non arresa (e perciò vincente) e, infine, di una intensa dirittura.

Egli stesso, infatti, ci orienta sul titolo: «La sinopia è il disegno preparatorio di un affresco, disegnato sull’intonaco: quando viene realizzato l’affresco questo disegno si perde, si smarrisce. Eppure senza quel disegno l’opera finale non potrebbe essere realizzata. Se l’opera finale è l’Uomo, le sue sinopie sono le emozioni e le esperienze che l’hanno condotto ad essere quello che è».

Il portato fisico dell’opera di Baldassarre, pertanto, si intreccia con il limite e con l’incompletezza umana ma, altresì, riesce a compiere una poesia visitata da una acuta percezione del mondo. La ricchezza di questa visione interiore, le sezioni illuminate, le stanze accertate da improvvise coloriture avvengono in una prospettiva di discesa salutare, in cui il rapporto mistico tra la natura e l’artista è pervasivo, invasivo e costitutivo.

L’elemento naturale mescola varchi e scorci in un taglio di visione e volo, profonda riflessione e appunti che documentano lo smalto del vivente, la sua prolusione e la sua demarcazione di interludi e impronte, come ripasso di progetti:

«È nell’interludio tra l’ultimo battito / del volo della falena / e il raggio dell’alba sul sangue gelato / della farfalla / che l’uomo abita il suo silenzio / Si esiste solo per l’attimo che mozza / il respiro / per lo specchio scuro dell’otturatore / che riflette la retina / Per il dito cacciatore dei propri sogni / Ansima la pupilla eccitata dalle ore / insonni / La smania dell’attesa si combatte / ripassando progetti / L’esatta inquadratura è predisposta / per l’impronta di colore per l’inganno di se stessi» (Lo scatto).

La poesia di Baldassarre è visitata e abitata da una vertigine rivelativa che introduce l’agone di un’attitudine che lotta per vivere e respirare, e che testimonia, nel grido e nella domanda dell’io che preda, le parole e le raduna sulle orme ungulate, sugli scavi, sulle tracce d’acqua e sugli smottamenti d’animo: «Sono io / predatore di parole / l’unico abitante dei fogli» o ancora «Imperterrito sterro seguendo il silenzio di orme ungulate / per non sembrare dissimile / dal lupo che segue la preda».

La parola, dunque, è la sua preda vigile che insegue la verità dell’esistere e del vivere, cribrata dalle radici («Seguimi fino all’antico mulino / devo mostrarti olivi secolari / hanno radici profonde / e una pazienza senza sconfitta») e fessurata attraverso la tensione dello sguardo, oltre le linee di ogni orizzonte possibile e ogni vibrazione nel silenzio sulla terra nuda «ferita abrasa / purulenta di fango / A picco sul silenzio»: «La forma di pietra / levigata / attira la carezza / della mano destra / Rimangono impresse / nella salsedine ciottolosa / incerte linee / della vita / tre salti sull’acqua / azzurro deserto / l’esistenza si sottende / tra spuma di mare / e pioggia imminente».

In questa linea adoperata dall’autore esiste una gradazione di silenzio e palpebre che disegna il suo arriccio sgualcito e vivido, che delinea il suo abbozzo, che concreta le immagini, le compone e le riempie in una vigilanza e veglie dipinte, e tracciandole e comprimendole nelle proprie maree interiori, le fa risplendere nell’ «anima arenata sulle parole», fino ai sospinti ricordi controvento:

«All’improvviso incespico nella / radice affiorante dei sensi / Ricordi controvento sospingono / pensieri dentro una radura / laddove calpestio di formiche / traccia sentieri ortogonali / La memoria atavica della stirpe / pulsa alle tempie: vibrano / i capelli al suono delle parole / Il sussulto del tempo incute / rispetto per segnali irrilevanti / non cado ma duole la caviglia / che sosteneva il passo dei versi» (Ricordi controvento).

L’immagine tremante diviene dispendio di vita e vocazione di palpebre, che sogna l’indicibile e l’inscrivibile tensione di una trafittura e di una rivelazione di bellezza, trascritta e riemersa, come foglia sugli occhi.

La trama della vita corrente insegue trasparenze assolute e umbratili, pedina l’eterno gioco delle stagioni, lasciando emersioni vive di impronte e tracce che colorano il magma vivente attraverso una sognata e ubicata antichità, come il vento di pioggia che sciaborda tra i rami e la forra che sussurra parole d’acqua:

«Sulle mie colline adottive / sciaborda vento di pioggia tra i rami / Non scorgo il pettirosso del mattino / La forra sussurra parole d’acqua / Non è possibile muoversi oltre / il profilo del bosco / Pigramente attendo che l’arcobaleno sorga / sulle mie colline adottive / L’occhio spazia su fusti di castagno / sulle spine di giovani robinie / Ma non vola l’aquilone dei sogni / Sciaborda vento di pioggia tra i rami / Sbandano i minuti affacciati / alla finestra nascosta dal tetto / solo la poiana si libra altera / Non scorgo il pettirosso del mattino / L’anziana vicina – mani antiche / d’olivo – spezza rami avvizziti / Sul confine dell’esistenza immobile / la forra sussurra parole d’acqua» (Mani antiche d’olivo).

La trasparenza della sua poesia frequenta sponde e barriere, l’ombra incastonata sul muro, la luna che sussurra versi taglienti, dove memorie antiche curano l’apice oscuro e luminoso dell’arte e la sua veglia essenziale.

L’essenzialità è qui vertiginosa. Non solo per la concrezione elementare di immagini ed elementi come volti e condizioni ma soprattutto per l’epifania del dicibile e la sua solvente trasformazione, la comprensione del mondo e la minuta sacrale di tutti i passaggi.

Come avviene nella sezione degli Haiku, dove il bilanciamento linguistico rinserra la politura della sua espressione. Gli haiku posseggono la vorticosa fragilità di ciò che è primario ma, allo stesso tempo, anche fusione con il reale, con tutte le sue ferite e il concepimento di una domanda di amore: «Onda fragile / su scogli interiori: / spuma di vita» o «Le mie donne / corrono con il vento: / madre e figlia», «Ho abbattuto / l’ippocastano stanco: / piango sul vuoto», «Passa il vento / nevicano petali / mentre cammino».

Nelle Diafonie poi, scrive l’Autore, «si raccoglie tutto ciò che crea un disturbo (positivo o negativo) nell’esistenza: la poesia ed il suo ineffabile spirito; il lavoro o la sua mancanza; le guerre e le sue vittime; i ricordi con la loro malinconia; i viaggi; le amicizie. La vita di ogni giorno sospesa al filo sottile delle esperienze e dell’esasperazione».

Il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco poetico e restituito da una restaurata apertura percettiva, proclama brevi dilegui di respiro e nuovi dedali mentali, guerre e pleniluni di sogni che brillano «sulle tegole di carta velina», stazioni ripiegate e solitarie (Stazione ostiense), cesure dimenticate e erranti nella liturgia del vivere: «Circonfuso da pulviscolo di idee / errante a tastoni sul foglio / attendo paziente la fortunata / congiunzione neuronale di un verso / L’irreparabile cesura tra me / e il riflesso errante offerto agli altri / m’inghiotte e mi protegge».

La poesia diviene autentica quando comunica lo stupore e il taglio, collocando gli occhi nel dramma vivente senza censure e, infine, quando recupera ciò che la vita e la realtà rilasciano («Ogni giorno si cede / ai pavimenti al vento / alle lenzuola agli altri / brandelli di noi / Gocce di sudore capelli / frammenti di pelle / saliva sperma / Incuranti degli spiccioli / di vita caduti / nel tombino del tempo» (Vita in spiccioli), o nella pieve lucente, dove il silenzio dei secoli si dilata nelle parole, e le pagine sono incise come scalfitture: «Scarpe si trascinano calcando / pagine incise con lo scalpello / ognuno incede / evitando di leggere tra le scalfitture / l’esistenza calendarizzata / Il silenzio dei secoli dilata nelle parole / La voce dell’anziano poeta torna bambina / e ascolta la solitudine dei versi».

Gli incroci delle vite pendolari raccolti nei dettagli passano nella loro minima presenza, il volo-pensiero «smuove lo sfondo del paesaggio», come se il bozzolo di carta fosse anticipo esploso di volo, il telaio memoriale della polvere di fard come riflesso, lo zoo di cartone e la soglia della memoria che propone il suo bivio dove il tempo «spezza le ali all’anima» ed «è ambra ciò che era resina».

La poesia di Baldassarre non deposita i suoi detriti di viaggio sulla pagina, bensì anima l’accertamento di una presenza di cose e presenze, volti e affermazioni di carezze e di attese, poiché l’attesa «è donna silenzio vita» e ritrova «il vuoto prima / e dopo la parola / caduta».

Frequentare l’attesa significa tendere a un compimento impaziente, proteggere la sosta cara e il traffico dei ricordi affollati, i sogni che sporgono volando, il bagliore della fuga prima del sibilo che squarcia la notte, l’interno del condominio come filigrana onirica.

Ha scritto Giuseppe Panella:

«Come con la poesia, quindi, si è in presenza di una dimensione vitale che fa esistere chi la realizza concretamente in modo tale da assumersi la responsabilità di ciò che vede e di ciò che sente, di ciò che ama e di ciò che assorbe […] Il “telaio” che lavora all’interno dell’animo del poeta produce continuamente voci e suoni e significanti che bisognerà poi trasformare in senso e significato perché la poesia possa emergere e fiorire, luccicando nel primo sole dell’alba e riflettendo sul proprio volto il piacere di vivere».

I suoi retropassaggi, allora, diventano il soggetto di una sceneggiatura temporale proiettata in tutte le dimensioni del vivente e della bellezza che persiste in ogni ruga e in ogni faglia: dai brandelli penitenti di fioca luce diurna, alle soglie di casa «lì dove un segreto sogno / ti attende imprendibile / Non sei / glaciale riflesso del cielo / ma bianco grido di ricordi / che intacca nuvole spesse / che apre varchi e chiude porte», dalla nebbia arresa alle cattedrali di sabbia, dove ricostruire, a ritroso e nell’impossibilità, guglie sommerse, dalla parola scolpita nello sguardo, erosa di lacrime e striature, fino alle sfilacciature sulla sabbia d’acqua marina.

Tutto conclama alla pienezza non tanto (o meglio, non solo ed esclusivamente) concettuale quanto piuttosto vitale. La poesia si dice in un teatro di presenza e di pioggia, dove «l’acqua scava e ti scava / la mia calma è farina / il tuo silenzio lievito / col temporale saremo pane». La pienezza è frutto di una decisione per l’esistenza, tallonare il suo senso è un disegno di figlia:

«Mia figlia disegna pipistrelli colorati / per udire il mondo in altra dimensione / Si scatena in un tripudio di pennarelli / e sul foglio volteggia inseguendo fantasie / Anni di vita le insegneranno che volare / è cosa da poeti è vizio da sognatori / Ma qui stanotte / aleggiano sul foglio pipistrelli arcobaleno» (Pipistrelli arcobaleno).

Il tempo dell’amore diviene l’oblio dicibile, dove rimbalzano le ore e l’agguato della tenera docilità di ogni passaggio, che unisce amore e co-nascenza, rifugio e dono, come egli stesso scrive, «Tornare neonati / con il medesimo / limbico bisogno / di non sentirsi soli» (Nel seno):

«Le pupille di bambina non colgono le scorie crepuscolari / di un’epoca aggettata sul vuoto / Età troppo adulta / Ti nascondi dietro la porta impugnando / tutto il coraggio necessario alla finzione / e – simulando un agguato d’amore – / urli la vita a sorpresa dietro i passi / di genitori indaffarati dai pensieri / L’ingenua bellezza sorride stupita del suo successo / Un soprassalto di dolcezza ti osserva / con gratitudine».

Oppure il retrogusto di assenza ubriaca che rappresenta la quieta presenza e il segno nel destino e la precisa meta di un’attesa ricongiunta sui passi:

«L’ametista prigioniera dell’ombra lunare / meraviglia lo sguardo / riflesso nel mare del tuo sorriso / d’artista / È amaro il sapore color del rame / con cui disegni le parole sul foglio / Solo l’aroma dei baci / distrae il pensiero smarrito nell’arco / ocra disegnato da stelle cadenti / Non ha mai abbandonato i ricordi / che dal passato ti conducono a me / A noi / Probabilmente il vento dell’Appennino / ha mescolato le emozioni / con la sabbia sedimentata nella mente / Ha sapore di vino l’ubriaca tua assenza / e fragore d’acqua sugli scogli / la tua quieta presenza nel mio destino».

La sezione Esogenesi esprime una appartenenza più che una riappropriazione. Il solco degli autori incontrati permette riscritture insolite e percorsi sorgivi di tempo: Hofmo, Saba, Rosselli, Blok, Bukowski o Campana, per citarne alcuni, librano fonemi sospesi e incompresi che permettono di far luce sulla propria esperienza di poeta e di uomo, con gli occhi muti sul mondo, dove lo splendore «della parola impressa / cicatrizza / l’animo ferito dai giorni chiusi» e dove annaspare alla ricerca di unico battito di fulgore.

Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, pp. 124, Euro 13.

 Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

Panella G., Malinconia autunnale. Diego Baldassarre, “L’acqua sogna trasparenze”, (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/06/05/i-libri-degli-altri-n-83-malinconia-autunnale-diego-baldassarre-lacqua-sogna-trasparenze/), 5 giugno 2014.

 

“Ferita donna”. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

di Serena Baroncelli 2 dicembre 2016

leggi in pdf Ferita-donna. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

lucio-fontana-concetto-spaziale-attese-1968La nascita di una perla è un evento davvero miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dalla terra, le perle sono prodotte dalle ostriche che vivono nelle profondità marine. Le pietre preziose devono essere sottoposte al taglio e levigate per farne emergere la bellezza: le perle invece, non hanno bisogno di questo processo complementare. Nascono dalle ostriche con una naturale iridescenza brillante, una lucentezza ed una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.

Una delle ferite che la donna moderna è costretta a risanare è quella relativa al rapporto padre-figlia.

Le radici di questa ferita sono antiche e profonde: possiamo analizzarle chiaramente prendendo in considerazione l’Ifigenia in Aulide di Euripide, scritta nel 405 a.C.

Ifigenia è la figlia maggiore e prediletta del re Agamennone, eppure, nel dramma, è sacrificata, condannata a morte, proprio dal padre che la ama profondamente. Per la maggior gloria della Grecia, l’oracolo consiglia al re di sacrificare la sua primogenita. Disperato, alla fine Agamennone acconsente e manda a chiamare Ifigenia, dicendole di venire ad Aulide per sposare Achille. In seguito, il re capisce di aver commesso una pazzia, ma ormai è troppo tardi; si sente costretto a compiere tale sacrificio perché teme la rivolta delle masse inferocite e perché l’obbedienza al potere e alla gloria della Grecia prevalgono sulla sua capacità decisionale. Intanto litiga furiosamente con Menelao, il fratello sposo di Elena, accusandolo di essere uno sciocco che si lascia abbagliare dalla bellezza. Ifigenia e la madre Clitemnestra scoprono il complotto e, disperate a causa dell’orrenda verità, si scagliano contro Agamennone. Clitemnestra lo accusa di aver commesso altre infamie, cerca di farlo vergognare mentre Ifigenia lo implora di salvarle la vita. Dapprima maledice il padre assassino, Elena e gli avidi soldati diretti a Troia, ma alla fine si risolve a morire nobilmente per la Grecia, assolvendo suo padre e dicendo alla madre di non essere adirata e di non odiarlo.

In questo dramma tutte le donne sono viste come proprietà dell’uomo, di conseguenza il femminile non può manifestarsi a partire dal suo vero nucleo, ma è ridotto inevitabilmente a quelle forme compatibili con la visione del maschile. Il dramma del femminile parte allora da qui, dal predominio del maschile sul femminile, dal non riconoscimento del principio femminile, dalla negazione della possibilità di rivelarsi ed esprimersi nelle sue molteplici forme. Il femminile, quando è così svalutato e represso, si adira ed esige ciò che gli spetta in modo primitivo, come Clitemnestra che per vendetta uccide Agamennone.

Come si caratterizza dunque la ferita padre-figlia?

Menelao ed Agamennone portano nel dramma un’evidente scissione del maschile tra la cupidigia per la bellezza e l’avidità per il potere alle quali corrisponde un’analoga scissione del femminile tra la bellezza, incarnata da Elena e l’obbedienza, personificata da Clitemnestra. Il maschile diviso così in due opposti a sua volta riduce l’ideale femminile alla bellezza e all’obbedienza. Tutti e due i fratelli si servono delle donne, uno per il piacere, l’altro per il potere. Ifigenia rappresenta il potenziale femminile che, alla fine, si sottomette alla situazione e agli obiettivi del potere. Il mondo femminile è perciò svalutato, perché è ridotto al servizio dell’uomo sotto le due forme della bellezza e dell’obbedienza. La donna, quindi, non esiste in se stessa e per se stessa, poiché risulta in ogni momento l’oggetto della proiezione del desiderio maschile, ricavandone in questo modo la sua identità. Un’identità che però la pone in una posizione di Puella, cioè di dipendenza fanciullesca; inoltre l’obbedienza pedissequa la riduce al rango di serva di un padrone uomo.

La stessa situazione si perpetua ancora oggi nella cultura occidentale: il femminile è purtroppo ancora troppo spesso ridotto ai ruoli di moglie obbediente o bella amante e la reazione delle donne si conforma a queste aspettative: molte si trovano a vivere per gli uomini e non per loro stesse; altre, per liberarsi della dipendenza da Puella, imitano il modello maschile perpetuando così la svalutazione del femminile; altre invece si conformano al sistema ma, come Clitemnestra, esprimono di nascosto la loro ira, per esempio eliminando il sesso, bevendo troppo, indebitandosi con le carte di credito del marito o diventando malate…

In conclusione, il mito di Ifigenia ci fornisce un’immagine del rapporto uomo-donna quanto mai attuale. Un uomo che calpesta il femminile calpesta se stesso, perdendo così il proprio rapporto con il femminile stesso. Molti padri che credono di dover mantenere il controllo, l’autorità o perseguire potere e successo, si trovano spesso a vivere questa situazione con le loro figlie: essi hanno perso il potere delle lacrime e non riconoscono la propria ferita personale. D’altro canto, esistono molte Ifigenie moderne che hanno una visione ristretta del femminile, una visione ristretta che è nascosta nella cultura e anche nei padri e nelle madri personali.

Nella pratica psicoterapeutica è possibile trovarsi spesso di fronte donne ferite: donne che dietro la vernice del successo e della soddisfazione nascondono un sé ferito, lacerato, disperato, sanguinante. Sono donne minate nella fiducia di sé, nella capacità di costruire rapporti duraturi e, più in generale, nella capacità di operare nel mondo. Lo scopo della terapia è allora quello di affrontare questa ferita del femminile, di accettarla e risanarla, per dare voce e giustizia alla sofferenza patita.

Prendiamo una seduta tra paziente e terapeuta e consideriamo le lacrime che immancabilmente segnano il percorso di crescita e di cambiamento. Ecco, accade ora qualcosa di incredibilmente vero, puro ed autentico: le lacrime appartengono alla donna ferita. Perché le lacrime rappresentano la disillusione, simboleggiano l’abbattimento delle difese psichiche che fino a quel momento hanno permesso alla paziente di sopravvivere, comunicano che è giunto il momento di prendersi cura di se stessi e che non è più tempo di soffrire. Questi sentimenti devono essere portati alla luce ed elaborati in terapia, per far sì che quella antica ferita si rimargini. Si rimarginerà, ma non guarirà mai completamente, dal momento che la cicatrice dell’anima rimarrà visibile per sempre: tuttavia, non farà più male sbattendoci contro.

Le lacrime costellano in modo così specifico il percorso di guarigione che, in qualche modo, diventano parte essenziale di esso. Le lacrime aprono un varco nell’anima: possono dunque liberare una donna e partecipare alla sua guarigione e alla sua vita con la ferita. Le lacrime possono cadere come pioggia benefica che permette la rinascita e la crescita primaverili: precipitano nell’anima stanca e ferita così che, laddove c’era terra bruciata, arida e secca, adesso possono germogliare verdi ciuffi d’erba, possono sbocciare i semi delle proprie potenzialità, della propria essenza e donare colore, forma e musica alla vita. Anche l’ira può liberare la donna ferita, poiché la sua ferita ha un centro che duole, brucia e fa male. La rabbia è senza forma ed obiettivi, è esplosiva, fa paura. Alcune donne rimuovono il dolore e la rabbia che accompagnano la ferita: la rabbia si rivolge quindi all’interno sotto forma di sintomi fisici, pensieri depressivi, suicidi, ipocondriaci, che paralizzano la loro vita e la loro creatività. La rabbia porta però con sé anche energia, potenza che, se ben utilizzate, possono liberare le potenzialità in quanto donne e trasformare il femminile.

Il cammino verso la guarigione della donna ferita assomiglia a quel processo che rientra a pieno titolo tra i misteri più affascinanti della natura, quello che porta alla formazione della perla all’interno di un’ostrica, di cui la citazione iniziale. Una perla naturale comincia a nascere infatti quando un corpo estraneo (quasi sempre un parassita) accidentalmente penetra nel mantello soffice di un’ostrica, da dove non può essere espulso. Nel tentativo di alleviare l’irritazione, il corpo dell’ostrica assume un’azione difensiva secernendo una sostanza cristallina liscia e dura intorno all’oggetto estraneo, definita sostanza madreperlacea. Fino a quando il corpo estraneo resta nel mantello, l’ostrica continua a secernere intorno ad esso la sostanza madreperlacea, strato su strato. Dopo pochi anni, il corpo estraneo viene completamente coperto dal lucente rivestimento cristallino. Il risultato è quella bella e splendente gemma che chiamiamo perla.

L’infezione è la conditio sine qua non per la formazione della perla preziosa. Così, solo una ferita profonda, se elaborata e digerita, può condurre all’espressione piena del sé e del talento creativo di un individuo.

BIBLIOGRAFIA

Leonard, L.S (1985). La donna ferita. Modelli e archetipi nel rapporto padre-figlia. Astrolabio: Roma

 

 

Riccardo Gramantieri, Post 11 settembre. Letteratura e trauma, Bologna, Persiani Edizioni, 2016

di Giuseppe Panella 28 novembre 2016

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14163903_1098282886885744_1268067472_o-211x300L’11 settembre 2001 due aerei americani furono dirottati dal loro consueto percorso di viaggio e si schiantarono sulle pareti di vetro e cemento delle Twin Towers, le Torri Gemelle, orgoglio del centro commerciale di Manhattan. Il suolo aereo americano venica violato pubblicamente per la prima volta. L’impatto sull’immaginario mondiale (e non solo americano) è stato talmente imponente da mutarne radicalmente le coordinate e le implicazioni socio-soggettive. Si tratta di una pagina di psicologia storico-sociale ancora tutta da scrivere e da verificare sotto il profilo scientifico ma le sue conseguenze non potevano non influenzare prepotentemente le arti più popolari (e non soltanto quelle più esposte dal punto di vista mediatico). Se la letteratura ha una funzione di risarcimento o di cicatrizzazione dell’Io ferito – come sostiene la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra immaginario e processi di soggettivazione, dalla Melanie Klein a Heinz Kohut a Alain de Mijolla – è indubitabile la funzione riparatrice svolta dalla narrativa di anticipazione nel caso degli eventi dell’11 settembre. Questo ottimo libro di Gramantieri, di conseguenza, ha il merito di ricostruire i processi di funzionamento di tale processo risarcitorio e di verificarne l’attuazione a livello fantasmatico e narrativo. Nel caso dell’11 settembre, la letteratura anglosassone si è concentrata in una maniera che si potrebbe definire maniacale sui fatti avvenuti in quel giorno particolare e li ha trasformati in una data che facesse da turning point alla soggettività epocale della cultura del mondo occidentale. Non è un caso, infatti, che la maggior parte della produzione più popolare (e, come si diceva prima, non solo quella) abbia come quasi esclusivo oggetto dei propri plot narrativi e dei propri sviluppi fantapolitici gli eventi relativi al crollo delle Torri Gemelle. Tutto ciò è evidente negli esempi di letteratura portati come testimonianza  nel libro di Gramantieri:

«La scelta del mondo editoriale e della critica letteraria di denominare un genere letterario come “post-11 settembre” (o post 9/11), se da una parte potrebbe sembrare l’ennesimo esempio della pratica di etichettare un’opera e confinarla in un genere al fine di poterla classificare e disporla sugli scaffali delle biblioteche e delle librerie, dall’altra è indicativa della grandezza dell’evento storico. Dopo la caduta delle torri, Ground Zero non è più il luogo in cui scoppia la bomba atomica (già evento epocale di suo) ma il luogo in cui sorgeva il World Trade Center; dopo la caduta delle torri nasce un genere letterario che descrive l’attacco al centro nevralgico degli Stati Uniti (Banks, McInerney, DeLillo), i suoi antefatti (Updike) e le sue conseguenze (Aldiss, Steyn); ma anche tutte le suggestioni che una catastrofe comporta, e da qui le storie apocalittiche (McCarthy, Crace, Aldiss, MacLeod), ucroniche (Roth), sperimentali (Julavits, Foer) e quelle di fantasmi (Shepard, King, Bradford, Oates, Schwartz). Ognuna delle opere prodotte può servire da esemplificazione di un diverso tipo di meccanismo mentale di risposta all’evento, tutti comunque riconducibili al trauma. Più che una semplice descrizione dei fatti, questa letteratura è capace di rendere visibili  quei processi psichici che avvengono a seguito di un evento spaventoso e angosciante» (p. 131).

Gli autori citati da Gramantieri sono tutti nomi “pesanti” nel panorama culturale e letterario americano – autori mainstream importanti come Philip Roth, Updike e Cormac McCarthy hanno dato il loro contributo a illuminare di luce radente un panorama devastato come quello che appariva agli occhi di tutto il mondo dopo la tragedia del crollo delle Twin Towers. Ma come hanno fatto scrittori quali Joyce Carol Oates o Jonathan Safran Foer o Don DeLillo, allo stesso modo, autori meno culturalmente riconosciuti si sono cimentati nella descrizioe di ciò che restava della mente occidentale e dell’American way of life  dopo lo schianto degli aerei sulle strutture high-tech delle Torri di Manhattan. Soprattutto chi non ne ha scritto direttamente ma solo obliquamente o allusivamente, ha colto la natura catastrofica degli eventi di quel giorno –  ha individuato cioè la sua natura di punto di non-ritorno nell’ambito delle soggettività in gioco in questa partita apparentemente finale e definitiva. Qualcosa è cambiato, qualcosa si è spezzato e non sarà più possibile tornare al passato idilliaco di un’America intatta e incontaminata. La ferita è ormai permanente (come quella di Amfortas, il Re Pescatore). La “terra delle opportunità” è diventata una Terra Desolata di morte, di violenza e di impossibilità fino ad allora mai sperimentate.

Per risarcire questo quadro psicologicamente devastato, di questo momento traumatico assoluto, è necessario trovare un rimedio plausibile ed efficace nel ricorso al fantastico. Scrive, infatti, Gramantieri a proposito del trauma del “ritorno degli oggetti cattivi”:

«Il processo psicologico che Fairbarn chiama il ritorno degli “oggetti cattivi”, cioè la riproposizione nella memoria di ricordi del passato che richiamano immagini paurose e angoscianti che si vorrebbe dimenticare, è individuabile sotto forma di finzione narrativa in alcuni testi letterari, sia mainstream sia, soprattutto, di genere fantastico, il solo capace di rendere metaforicamente rappresentabili i fatti psichici. […] La letteratura fantastica è forse in grado di rendere più compiutamente del mainstream il meccanismo psichico del ritorno degli oggetti cattivi. Essa, nelle sue varie espressioni allegoriche, è risultata particolarmente efficace nell’esemplificare il ritorno del rimosso provato negli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Tralasciando le similitudini con le paranoie da Guerra Fredda o le storie di invasione, il sottogenere più capace di esprimere il perturbamento della borghesia americana di Manhattan, e contemporaneamente costituire sotto forma letteraria il processo dell’oggetto perduto e ritrovato, è quello del racconto di fantasmi. Diversamente dai romanzi, che per la loro ampia struttura permettono una visione più estesa della realtà che vogliono rappresentare, i racconti fantastici riescono a concentrarsi su singoli aspetti, e quello del ritorno del rimosso è particolarmente sentito da diversi autori di science fiction» (pp. 99-100).

Il “ritorno del rimosso” (in questo caso il trauma della distruzione di un habitat familiare e consolidato come il paesaggio urbano di Manhattan) permette alla scrittura di risarcire la perdita attraverso quel processo di “fantasticheria organizzata” che Freud ha ricostruito (brillantemente ma forse un po’ troppo cursoriamente) nel suo Il poeta e la fantasia del 1909. L’ipotesi di William R. D. Fairnbarn sul “ritorno degli oggetti cattivi” (costruita a partire dalle riflessioni precedenti di Melanie Klein sul tema delle relazioni oggettuali e sviluppata a livello generale) serve a Gramantieri per analizzare le conseguenze di un trauma collettivo che ha influenzato l’immaginario collettivo dell’intero pianeta, nel bene e nel male.

Merito del saggio, allora, non è soltanto quello di ricostruire proficuamente quindici anni di letteratura di genere nel mondo anglosassone (anni in cui sono stati prodotti capolavori come La strada di Cormac McCarthy o grandi romanzi ucronici come Il complotto contro l’America di Philip Roth che alludono alla catastrofe avvenuta l’11 settembre) quanto di avanzare delle ipotesi terapeutiche per la riparazione possibile del danno psicologico arrecato.

Un libro tra psicologia e letteratura, dunque, dove l’uso diretto della letteratura si coniuga con quello indiretto dell’analisi psicologica – un tentativo di frontiera, dunque, per utilizzare proficuamente uno strumento, quello estetico-letterario, che le pratiche paramedicali di tipo comportamentistico-gestaltico rischia di appannare e di declassare in nome di una sostenuta scientificità assoluta nello studio della psiche. Il caso del trauma post 11 settembre e della letteratura che ha sostenuto e che sorregge tuttora, invece, dimostra come scrutare nel buio della psiche sia compito comune di scrittori e psicoterapeuti (come avventurosamente già aveva sostenuto tante volte Sigmund Freud nei suoi scritti sull’argomento in questione).

 

Il ciclo Antoine Doinel. Disavventure di una autorealizzazione

di Giovanna Nicolò 25 novembre 2016

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  • Introduzione

Era il 2009. Frequentavo allora il corso di Laurea triennale in Psicologia dei processi relazionali e di sviluppo, le cui lezioni si tenevano in Aula Piovani – Facoltà di Lettere e Filosofia – via Porta di Massa, 1 – Napoli. Proprio in quella stessa aula si tenne la Giornata di Studio Internazionale “La famiglia nel cinema: un oggetto della psicoanalisi applicata”, alla quale partecipai. Fu in quell’occasione che ebbi modo di assistere alla proiezione del film “I quattrocenti colpi” di François Truffaut. Ricordo che ospitammo Anna Loncan[1], il cui intervento (Bambini trascurati: potenziamento dei legami tra distruttività e creatività. A proposito de “I 400 colpi” di François Truffaut) fu per me particolarmente interessante.

All’epoca, pur rimanendo profondamente colpita sia dal film che dalla storia e dalla lettura squisitamente psicoanalitica che era stata proposta, non mi appassionai a tal punto (e me ne meraviglio ancora!) da scoprire e voler conoscere l’intero ciclo Antoine Doinel, che consta di cinque film, quattro lungometraggi ed un cortometraggio. L’anno scorso mi capitò poi di rivedere, da sola, quel film visto per la prima volta in una aula universitaria allestita a sala cinematografica, ma stavolta volli seguire la storia “fino in fondo”, o meglio sino all’ultimo film del ciclo, “L’amour en fuite”, che io definirei un amabile punto di integrazione, sotto tanti aspetti, come si vedrà. Avendo suscitato in me nuove riflessioni, connessioni e considerazioni non slegate da tematiche che mi sono care sul piano formativo-professionale.

Ma facciamo un passo indietro …

 “Les Quatre Cents Coups”. Il primo lungometraggio di un giovane regista, François Truffaut, allora ventisettenne, diventò immediatamente celebre, inaugurando, nel 1959, la corrente cinematografica «La Nouvelle Vague», di cui costituisce l’emblema. La presentazione a Cannes, dove vinse la Palma d’Oro, sancì per il regista l’inizio di una carriera tutta in rapida ascesa, rappresentando per i giovani cineasti della corrente La Nouvelle Vague l’occasione di affermare, dinanzi al grande pubblico, la loro presenza a livello internazionale.

“Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato, che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori” o anche “fare il diavolo a quattro”. Del resto, non ci si riferisce semplicemente alle stupidaggini compiute da un adolescente, ma, più profondamente, si rinvia ai “duri colpi” che Antoine, nella sua breve ma complicata storia, ha subìto e continua ad attirare a sé, in un circolo vizioso.

I 400 colpi non vuole essere né saggio pedagogico né opera leggera, ma lo specchio di una verità intima e profonda, che fa incontrare ed integra amabilmente coppie antinomiche (nomotetico/idiografico; tragedia/commedia, ecc.), in un itinerario unitario ed unico.

Un film mitico, una novità, dal punto di vista concettuale, stilistico ed espressivo, capace di meravigliare critica e pubblico. Un capolavoro che inizia una impresa unica nel suo genere: sarà il primo film di un ciclo – quattro lungometraggi, un cortometraggio, distribuiti nell’arco di vent’anni (Les 400 coups, 1959; L’ amour à vingt ans, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970; L’ amour en fuite, 1979) – che vedrà lo stesso protagonista, interpretato dallo stesso attore (Jean-Pierre Léaud), crescere (da adolescenza a età adulta), lungo un percorso esistenziale di difficile auto-realizzazione.

L’asse narrativo è la figura in divenire di Antoine Doinel, sotto molti aspetti autobiografica, “alter ego” del regista Truffaut. In “Les 400 coups”, il dodicenne parigino Antoine è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: cresciuto dalla nonna durante la sua infanzia, vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, esito di un matrimonio riparatore, in una casa nella quale Antoine non ha diritto neppure a spazi fisici (dorme nell’ingresso).

Antoine esprime fame di attenzione e amore che gli adulti, autorità rigide, non sono disposti a concedergli; egli ricerca limiti e confini che possano placare, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto, mediante tendenze e comportamenti antisociali in adolescenza (bugie, furti, fughe), che si traducono, in età adulta, nella reiterazione di meccanismi di difesa fallimentari (si pensi all’incapacità di Antoine di tenersi un lavoro, alla frequentazione occasionale di bordelli, alle molteplici relazioni sentimentali ed extraconiugali).

In una delle prime sequenze di Domicile Coniugale, Antoine, parlando con un ex collega del suo matrimonio con la giovane violinista Christine, afferma: «Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo». Di Christine ama il suo essere dolce e pulita e la gentilezza della sua famiglia, elementi che gli consentono di sperimentare, almeno superficialmente, un senso di sicurezza e fiducia. Sarà proprio lei, Christine, la madre di suo figlio, che Antoine chiamerà Alphonse a dispetto del parere materno. Doinel tenderà a mentire e a tradire, continuamente, senza provare alcun senso di colpa e rimorso. Dopo un tradimento, dichiarerà a Christine: “sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, la quale gli risponderà: “avrei preferito essere la tua donna”. L’ultimo film della saga vede il divorzio da Christine, ma anche l’incontro con una figura “terapeutica”, che gli consentirà di prendere consapevolezza dell’irrisolto, di ri-conoscere sua madre, oramai morta, e di lasciarsi andare ad un amore incondizionato (quello per Sabine). Direbbe Erich Fromm alla “libertà di” … sperimentare l’unità prodotta da un attivo amore che trascende l’ego, supera le modalità dell’avere e sceglie l’autenticità dell’essere.

Con queste parole il regista Truffaut racconta chi è Antoine: “Antoine Doinel procede nella vita come un orfano e cerca famiglie sostitutive. Purtroppo quando le trova tende a scappare perché rimane un individuo incline alla fuga. Doinel non si oppone apertamente alla società, e in questo non è un rivoluzionario, ma fa la sua strada ai margini della società, diffidando di essa e cercando di farsi accettare da coloro che ama e che ammira perché la sua buona volontà è totale. Antoine Doinel non è quello che si potrebbe chiamare un personaggio esemplare, ha fascino e ne abusa, mente molto, chiede più amore di quanto non ne abbia da offrire lui stesso, non è l’uomo in generale è l’uomo in particolare. Antoine Doinel ama la vita, ma soprattutto gli piace di non essere più bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, qualcuno che si può lasciare da parte, dimenticare o rifiutare con crudeltà”[2].

Antoine è un uomo “terreno”, al quanto egocentrico, in alcune circostanze sembrerebbe poco empatico o addirittura egoista. Un essere umano “tragico”, alle prese con il perenne oscillare tra voglia bramosa di vivere e senso di alienazione; al contempo, assistiamo però al dispiegarsi del suo processo di autorealizzazione. D’altronde l’umanesimo di Truffaut, ereditato da Renoir, è da ritrovarsi in ogni suo personaggio.

Il pubblico ben accoglie questo protagonista, per il quale sente di nutrire un affetto insolito: lungi dall’incarnare il prototipo dell’eroe cinematografico, la sua insicurezza e il suo brancolare nella vita, tra gioie e dolori, conquiste ed errori, fortuna e disgrazia, lo rendono un anti-eroe automaticamente simpatico, in quanto vicino alla realtà ordinaria, tessuta di circostanze ed esperienze che non fanno che confermare la precarietà e le contraddizioni di una esistenza umana, alla ricerca di una felicità ideale ed impossibile, ma testimoniano anche l’apertura, nelle mani dell’uomo, di un ventaglio di infinite potenzialità.

  • Una anamnesi in celluloide

In “Les 400 coups” (- I 400 colpi) il dodicenne parigino Antoine, frutto di una relazione prematrimoniale, è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: affidato alla nonna materna (l’indebolimento fisico di quest’ultima deciderà l’accesso di Antoine al domicilio coniugale), vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, in una casa nella quale Antoine è tenuto in uno stato di abbandono affettivo e materiale dalla madre (basti pensare che non ha una camera da letto propria, dorme nell’ingresso, senza coperte, in un sacco a pelo).

La madre, Gilberte, donna bella e affascinante, salvata la faccia con un matrimonio riparatore, intreccia relazioni extraconiugali. Non presta attenzione ai bisogni di Antoine e non si prende cura di lui, pensa solo a se stessa; il padre adottivo, apparentemente bonario, strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, rinfacciando e facendo pesare il fatto di aver riconosciuto un figlio non suo. Antoine, una notte, ascolterà una conversazione tra i coniugi a tal proposito, scoprendo la sua condizione di “bastardo” nato da padre ignoto attraverso gli echi ovattati ma distinti di una “scena primaria” burrascosa, provenienti dalla camera dei genitori.

A scuola Antoine manifesta la sua irrequietezza. Per questa ragione, lo scarso rendimento e gli scherzi, diventa, in diverse occasioni, il capro espiatorio di marachelle di altri. Il solo conforto alla sua solitudine è la lettura e l’amicizia con il suo compagno di scuola René, migliore (ed unico) amico, compagno di disavventure, appoggio per l’evasione. È con lui che marina la scuola per andare al cinema, nei parchi parigini e al Luna Park, alla ricerca di esperienze e attrazioni eccitanti (molto toccante la scena della giostra in cui il ragazzo sembra vivere un momento di puro divertimento). Un giorno, marinata la scuola in compagnia di René, scopre per caso la relazione adulterina della madre, incrociandola per strada e assistendo al bacio tra Gilberte e l’amante; l’indomani a scuola giustifica la sua assenza con una eclatante quanto simbolicamente carica bugia: “mia madre è morta”. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. Accorrono a scuola la madre e il padre adottivo, il quale lo punisce dandogli un ceffone davanti a tutti i compagni di classe. Umiliato per la sua menzogna, Antoine fugge di casa e si rifugia nella stamperia dello zio di René, vagando poi di notte per le strade di Parigi. Rientrato a scuola, viene “perdonato” dalla madre, la quale, temendo che il figlio denunci la sua infedeltà coniugale, tenta di conquistarne la complicità, promettendogli una forte somma di denaro se migliora i voti in francese; così Antoine prende in prestito da Balzac uno stralcio che descrive la morte di un vecchio (riscrive una pagina letta dal romanzo La ricerca dell’assoluto) per scrivere un tema che riguarda la descrizione di “un fatto grave a cui avete assistito e che vi ha profondamente commosso” (parlerà della morte del nonno). Tornato a casa accende un cero a Balzac appiccando fuoco alle tende, ma non basta perché per quel compito il ragazzo verrà accusato di plagio dal maestro e punito.

Deluso e disperato, Antoine fugge ancora e va a vivere in casa di René. Escogita di rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del padre, per pagare, per sé e per l’amico, una gita al mare, che non ha mai visto. Una volta realizzato il furto, i due ragazzi cercano, senza successo, di venderla a un ricettatore, Antoine viene scoperto dal custode nell’atto di restituirla. Il padre lo denuncia, punendolo senza esercitare una reale funzione paterna. Il ragazzo passa, così, una notte in cella con un delinquente e alcune prostitute. La madre, per liberarsene, acconsente con durezza, “per dargli una lezione”, a che venga rinchiuso in un riformatorio lontano da Parigi, dove la disciplina è molto rigida, tanto che Antoine viene punito fisicamente con un sonoro ceffone per aver consumato anzitempo il suo pane. Viene poi interrogato da una psicologa sulla sua vita intima e sui difficili rapporti con i genitori, rispondendo alle domande con sconcertante franchezza: è in occasione di questo colloquio che viene fatta, dal diretto interessato, una sintesi più completa della propria storia infantile, fornendo elementi che prima non erano emersi del tutto. Antoine evoca anche una conversazione burrascosa udita tra la nonna e la madre, dichiarando “Mi ha voluto far abortire” (il doppiaggio in italiano non traduce il lapsus, A. dice della madre solo che “aveva voluto abortire”).

René va a trovarlo ma, per le regole dell’istituto, non può parlargli. La madre gli comunica in modo brusco la decisione di abbandonarlo a se stesso e che il padre non avrebbe più voluto incontrarlo, colpevolizzando del rigetto paterno e, meno esplicitamente, del proprio. Durante una partita di pallone Antoine approfitta della disattenzione dei sorveglianti e fugge, in una lunga corsa sino al mare. Si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua. La scena finale vede un fermo immagine, in cui viene inquadrato lo sguardo del giovane Antoine verso lo spettatore, uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà.

Nel cortometraggio “Antoine e Colette” (- Antoine e Colette, in L’amore a vent’anni) si assiste alla prima storia sentimentale di Antoine. Antoine, giovanissimo, lavora alla Philips e vive da solo. Innamorato di Colette, una studentessa che ha incontrato ad un concerto della Gioventù musicale, Antoine, romantico e sognatore, si sforza di avvicinarsi a lei e di conoscerla, ma Colette è sfuggente; non esita a traslocare per andare ad abitare di fronte a casa sua, diventando amico dei genitori della ragazza. “E questo, appunto, spiega l’insuccesso di Antoine in “L’amore a vent’anni”: Colette non sa che farsene di un ragazzo che ha sedotto i suoi genitori!” – dichiara il regista in “Il piacere degli occhi”.

In “Baisers volés” (- Baci rubati) ritroviamo 5 anni dopo Antoine Doinel che, partito volontario per il servizio militare (per dimenticare la delusione amorosa), è stato riformato dall’esercito per instabilità di carattere. Va in un bordello, dove la freddezza di una prostituta, giovane e bella, lo spinge fuori dalla camera, ma si imbatte in un’altra donna del mestiere, più grande e più materna, che preferisce alla prima. Si reca a casa della sua vecchia amica Christine Darbon, dove i genitori della ragazza lo accolgono volentieri mentre Christine lo tratta con distacco. Il padre di Christine gli procura un lavoro come portiere di notte dell’Hotel Alsina. Antoine è entusiasta in quanto ha la possibilità di leggere indisturbato, ogni tanto va a cena dai genitori di Christine; una sera, in cantina, ruba alla ragazza un bacio.

Antoine perde il posto perché lascia entrare un investigatore privato che sorprende una coppia clandestina in una stanza dell’albergo. Proprio l’investigatore, però, lo fa assumere nella sua agenzia, la Dubly. Antoine si dedica a maldestri pedinamenti; nel frattempo frequenta Christine, ma sembra essere lui ora quello distaccato, sfuggente. Gli viene affidato il caso del Signor Tabard, facoltoso proprietario di un negozio di calzature, che lo ingaggia come finto magazziniere per portare avanti indagini sul “perché è detestato da tutti” (questo l’interrogativo posto dall’uomo all’investigatore a capo dell’agenzia), ma si innamora della idealizzata Signora Tabard. Nel frattempo Christine si reca al negozio, per avere notizie di Antoine, il quale reagisce in malo modo a quelle che percepisce come pretese improvvise della ragazza: durante questo incontro Antoine, preso dalla rabbia, dice a Christine che non la stima e che non la stimava neppure quando credeva di amarla. La Signora Tabard, capito il debole di Antoine per lei, si reca a casa del giovane e lo seduce, trascorrendo qualche ora lieta con lui. “Io non sono un’apparizione … sono una donna” – afferma Fabienne Tabard, aggiungendo che tutti siamo unici ed insostituibili e che il padre sul letto di morte disse: “la gente è eccezionale”. Antoine viene licenziato per la storia con la Tabard, in quella circostanza un infarto stronca l’investigatore che aveva fatto assumere Antoine, il quale, dopo i funerali, alla ricerca di attenzione e consolazione, finisce con una prostituta.

Viene assunto poi dalla ditta SOS che ripara tv a domicilio. Christine viene a saperlo dal padre, che fa un incidente con il furgoncino della ditta, incontrando casualmente Antoine. La ragazza, approfittando dell’assenza dei genitori per il weekend, manomette la televisione e chiama il servizio di assistenza per rivedere Antoine. Quest’ultimo, inizialmente freddo e distaccato, infastidito dai modi gentili di Christine, si scioglierà poi fra le sue braccia. Scocca la scintilla tra i due, che si fidanzano. Il film termina con la scena che vede i due passeggiare in un parco mano nella mano e con la dichiarazione d’amore eterno che uno sconosciuto (che dall’inizio del film seguiva Christine) fa alla ragazza: “Io sono definitivo … voglio che lei rompa legami provvisori” … Quello sconosciuto viene forse a rappresentare lo stesso Doinel, che dichiara la sua intenzione di iniziare una storia seria, che sia per sempre, con Christine.

In “Domicile Coniugale” (italianizzato con il titolo “Non drammatizziamo … è solo questione di corna) Antoine e Christine sono due giovani coniugi che conducono una esistenza modesta ma tranquilla, sempre supportati dai genitori di lei. Christine, concertista, dà lezioni di violino, mentre Antoine prepara colorazioni artificiali di fiori destinati ad un negozio non lontano da casa. Il vicinato è amico, durante tutto il film presente come risorsa della coppia. In una delle prime sequenze, un vecchio compagno dell’officina di riparazioni ritrova Antoine mentre sta tingendo dei fiori nel cortile, viene a sapere che è sposato con una giovane violinista e gli dice: “In fondo, ti sono sempre piaciute le ragazzine beneducate, quelle borghesi, vero?” E Antoine gli risponde: “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”. In Domicile Coniugale per la prima volta Antoine si oppone apertamente, seppure in una sola occasione, al fare borghese della famiglia della moglie e alle buone maniere obbligate nei confronti delle persone influenti (la lettera al senatore che ha permesso loro di attivare tempestivamente la linea telefonica di casa), e in una discussione a tal proposito con Christine Antoine afferma che non ha tempo di annoiarsi  – lui – e che non vede l’ora di invecchiare per potersi dedicare a passioni che non ha tempo di coltivare adesso.

Non del tutto soddisfatto del proprio lavoro, si mette alla ricerca di qualcosa di nuovo e, scambiato per un altro uomo, raccomandato, viene assunto in un’industria idraulica, come addetto alla guida di un modellino di nave. Christine nel frattempo, rimasta incinta, dà alla luce un maschietto, che vorrebbe chiamare Ghislain ma che Antoine registra all’anagrafe con il nome di Alphonse. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Antoine dimostra a suo modo vicinanza alla moglie, ma pare più concentrato su se stesso; Christine si sente poco capita, gli dice che è stanca e nervosa e preferisce, per quella notte in clinica, stare da sola.

Antoine, trascurato da Christine, si lascia sorprendere dal fascino esotico di Kyoko, la moglie di un cliente dell’industria per cui lavora, della quale diviene l’amante. La donna invia dei fiori con all’interno dei messaggi d’amore indirizzati ad Antoine, quest’ultimo li getta, ma un bambino vicino di casa va a trovare il piccolo Alphonse e porta quei fiori trovati nella spazzatura a Christine. Qualche giorno dopo i fiori si aprono lasciando cadere i messaggi e facendo scoprire alla moglie il tradimento di Antoine. Christine attacca violentemente Antoine e, dopo una parentesi di finzione in cui ricevono a casa la visita dei nonni materni, costringe Antoine a trasferirsi in un hotel. Christine gli urla: “Non è stato un tradimento ma qualcosa di più grave … mi hai tolto la fiducia, mi hai distrutto la vita, non crederò più a niente”. Antoine si arrabbia, non tenta più di giustificarsi, se ne va. Ma gli incontri con Kyoko, tipica donna geisha, perdono il fascino iniziale ed annoiano Antoine. Christine, del resto, non ha smesso di amare il marito e glielo dice apertamente. Non approva, però, il progetto di Antoine di scrivere un romanzo, che secondo Christine «non può essere un regolamento di conti». Quando Antoine la bacia dolcemente e le confida: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”. Dopo un incontro con Christine, nel quale hanno espresso affetto e tenerezza reciprocamente, Antoine va in un bordello (qui confida alla prostituta Marie: “io odio tutto quello che finisce, che ha termine, che muore”). Successivamente ricerca nuovamente la sua dolce Christine e si riappacificano.

In “L’amour en fuite” (- L’amore fugge) Antoine ha superato la trentina e lavora come correttore di bozze. È innamorato di Sabine, commessa in un negozio di dischi, e sta per divorziare da Christine, dalla quale è separato da 5 anni. Circa due anni fa Antoine ha pubblicato il suo romanzo autobiografico (Les salades de l’amour – Le insalate dell’amore). Il giorno dell’udienza per il divorzio, Antoine e Christine, che hanno optato per il divorzio consensuale, si lasciano andare ai ricordi: non c’è rabbia, non mancano invece il bene reciproco ed il rispetto. Colette (la prima cotta di Antoine in “L’amore a vent’anni”), oggi avvocato, intravede e riconosce Antoine Doinel e va ad acquistare il suo romanzo.

Antoine e Colette si rincontrano alla stazione, dove Antoine ha accompagnato il figlio Alphonse (in partenza per il mare) mentre Colette è diretta ad Aix en Provence per seguire un caso in cui è chiamata a difendere il colpevole in un caso di infanticidio, il ché le risulta difficile e penoso (durante il film emergerà che Colette ha perso sua figlia, morta investita da una automobile quando aveva appena 3 anni; quel trauma ha determinato la separazione dal marito, 5 anni fa, mentre oggi Colette è innamorata del libraio Xavier, che si scoprirà essere il fratello di Sabine). Antoine non esita a salire sul treno, pur senza biglietto, per poter incontrare Colette e parlarle, ma i due finiscono per discutere in quanto la donna dichiara una volta per tutte di non aver mai amato Antoine e di essersi anzi sentita oppressa dalla sua insistenza.

Nel frattempo Sabine, stanca delle continue assenze di Antoine, lo lascia. Sarà Antoine a ritornare da lei, con una sicurezza mai provata ed espressa prima in campo sentimentale. Un passaggio importante e determinante per questa svolta è rappresentato dall’incontro casuale tra Antoine e Lucien, “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte, quel tale che da ragazzo Antoine aveva visto baciare la madre per strada: Antoine Doinel può in questa circostanza ri-conoscere la madre (descritta da Lucien come una donna “anarchica”, che soffriva l’ipocrisia della società, e al contempo un “pulcino” da difendere, che “voleva bene” ad Antoine) e, in un certo senso trovare quella figura reale e vera di riferimento che da tempo ricercava (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte, morta all’età di 47 anni). Con Lucien, Antoine si reca per la prima volta a trovare sua madre al cimitero di Montmartre. “Somigli a tua madre” – dice Lucien ad Antoine.

Antoine, con la benedizione di Christine e Colette, ritorna da Sabine per farle capire che è stata la prima donna che ha amato ciecamente e ha voluto conquistare davvero sin dall’inizio: le confida di essersi innamorato di lei trovando una sua foto strappata, e di essersi messo alla ricerca, fino a trovarla (il primo incontro proprio al negozio di dischi) e a “farla innamorare”. Antoine dice: “Ho finto di non provare nulla … ma il cuore mi batteva a cento all’ora …” e aggiunge: “La vita mi ha abituato a nascondere le emozioni, a non dire le cose in faccia”, Sabine allora afferma: “Perché non hai fiducia negli altri” e Antoine: “ma in te sì”. Si riconciliano con un bacio e con la passione che aveva fatto da apertura al film. Il loro affermare “Poi si vedrà” diventa un motto beneaugurante ed un inno all’età adulta, alla vita in tutte le sue sfumature e alla sua continuità.

  • Esperienze e relazioni familiari, affettive e sociali

Il materno. Antoine incarna probabilmente per Gilberte l’abbandono subìto dall’amante dell’epoca. Lo stile materno di attaccamento è distanziante, il rapporto che la lega al figlio è intriso di autoritarismo: lo rimprovera in maniera assillante e lo tratta da domestico più che da membro della famiglia, designandolo come “il ragazzo”. Quando si sfila le calze davanti a lui non tenta di sedurlo quanto di ignorarlo, non guardando alla sua sensibilità di adolescente. Quando Antoine scopre la sua infedeltà coniugale, Gilberte mostra una “preoccupazione materna primaria” fittizia e manipolatoria: nella scena del bagno, al ritorno dalla prima fuga notturna, la donna lava e asciuga Antoine, recitando il ruolo di una madre amorevole per comprare il suo silenzio, ma non è affatto convincente agli occhi del ragazzo, evidentemente imbarazzato per tanta regressiva ed inconsueta intimità. Antoine non si ribella mai apertamente alla madre, anzi adotta spesso un atteggiamento complice (quando il padre si rende conto che dorme senza coperte, sebbene abbia dato alla madre soldi per comprarne, Antoine va in soccorso della madre, affermando che gli va bene così, dormire nel sacco a pelo), ma la sua passività e la sua indifferenza dinanzi a negligenze ed aggressioni sono solo difensive, apparenti: il suo inconscio tiene in fresco l’odio per la madre con una rimozione possente, basti pensare alla scusa di Antoine, che si giustifica a scuola per la sua assenza rivelando al maestro che “la madre è morta”, esprimendo così in maniera forte ed eclatante i suoi sentimenti ostili, la sua rabbia, il suo rancore per il rifiuto materno. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. E lui risponderà: “la mamma innanzitutto, no?”.

Una madre distante e inaccessibile. Toccante la scena in cui Antoine prende il posto della madre davanti allo specchio della toilette, tocca i suoi oggetti intimi e si passa la sua spazzola tra i capelli: potrebbe sembrare il bisogno di un contatto, ma condensa in sé anche la ricerca di verità, di risposte a domande che nutrono le esitazioni identitarie dell’adolescente: Chi è mia madre? Cos’è una donna? Ed io chi sono? In cosa somiglio a mia madre? In un film successivo, Baci rubati, Antoine giovane adulto, di fronte allo specchio si troverà a rivivere un momento simile: guarda la sua immagine ripetendo ad alta voce il nome di Fabienne (la donna sposata, ricca e “superiore”), quello di Christine (la dolce e pura ragazza della porta accanto) e, infine, il proprio: pronunciare, in modo ecoico e differenziato, il nome delle due donne che egli crede di amare e poi il proprio rappresenta un tentativo di far chiarezza in se stesso.

La scena della visita in riformatorio, in cui Gilberte colpevolizza il figlio e lo abbandona definitivamente, è l’ultima volta in cui Antoine vedrà sua madre. Sarà l’incontro speciale con il compagno di vita della donna, oramai morta, a portare l’adulto Antoine a perdonarla e a porgerle un saluto al cimitero.

Il paterno. “Where is the father?” è la domanda del professore di inglese. Il padre di Antoine strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, ponendosi come benefattore che attende riconoscenza e punendo Antoine con la violenza e il tradimento pubblicamente inflitti (gli schiaffi che gli dà a scuola, dinanzi ai compagni e al maestro, per aver detto una bugia, corrispondente ad una verità inconscia – la morte della madre, e la denuncia per il furto della macchina da scrivere nell’ufficio paterno, il cui bersaglio inconscio era del resto proprio il narcisismo del genitore affettivamente indifferente). Quest’uomo non ha mai veramente riconosciuto Antoine come suo figlio, e non si sa nulla sulla sua stessa famiglia (non si allude minimamente ai nonni paterni).

La coppia genitoriale. Il legame di coppia si basa su un vero e proprio contratto che ha consentito a Gilberte di riconquistare la propria rispettabilità e a suo marito di “acquisire” una giovane e bella moglie. L’unica cosa che condividono è la mancanza di considerazione reciproca, rinforzata dall’aggressività della moglie e dal cinismo del marito.

Interazioni patologiche fra genitori e adolescente. Ladame (1978)[3] scrive: “Quello che abbiamo potuto osservare in forma ripetitiva nelle famiglie dei nostri adolescenti “con disturbi” è l’estrema importanza dell’identificazione proiettiva e la sua utilizzazione da parte dei genitori degli adolescenti. Fintantoché questo meccanismo resta all’opera in modo preponderante, e che i bisogni difensivi dei genitori sono particolarmente intensi, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate”. Queste identificazioni proiettive, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, rinforzano, in associazione con altri meccanismi di difesa arcaici, le credenze che alimentano il romanzo familiare. Un aspetto che ritroviamo nella storia di Antoine.

La parte degli avi. Dell’ambiente primario e dell’attaccamento primario di Antoine sappiamo ben poco, se non che la nonna materna ha salvato il nipote, impedendo alla figlia di abortire e si è occupata di lui sino a che ha potuto. Antoine è consapevole di questo, il rapporto con la nonna è fatto di tenerezza e amore nonostante il furto di cui il ragazzo si rende colpevole ai suoi occhi (“ero certo che non se ne accorgeva … e la prova è che non se n’è accorta” – con queste parole l’adolescente ci dice che non credeva di farle del male, o perlomeno che non era quella la sua intenzione). Nel tema scolastico prenderà poi a prestito anche un eroe balzacchiano per inventare e raccontare la morte del nonno, personaggio che in un certo senso sembrerebbe incarnare il rappresentante della stirpe sconosciuta e l’interdetto che pesa sulle sue origini.

L’amicizia libera. René, compagno di banco e di sventure, unico amico di Antoine, non è mai triste, almeno apparentemente; nonostante sia l’istigatore delle stupidaggini e dei comportamenti antisociali che mettono in atto, è portatore di una vitalità sana. A differenza di René, Antoine è più riservato, introverso, ma i due amici hanno molto in comune: sono entrambi figli unici, trascurati dai genitori, abbandonati a se stessi, adolescenti soli e solitari, che insieme alimentano la capacità di resistere alle avversità e il piacere della ricerca della libertà.

Christine, moglie e madre. “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”, racconta Antoine a proposito del suo matrimonio con Christine. Quest’ultima, con il suo essere dolce e rassicurante, è l’opposto di Gilberte, la madre di Antoine: è stata da lui scelta per il suo poter essere una brava moglie e madre. Gli darà un figlio, Alphonse. Antoine e Christine si separeranno poco dopo.

I rapporti sentimentali ed extraconiugali in cui prevale la componente del desiderio sessuale testimoniano l’accesso difettoso di Antoine all’ambivalenza. In questi incontri provvisori Antoine sente di potersi abbandonare completamente (ad esempio con la signora Fabienne). Christine, in quanto proiezione dell’oggetto buono, che Antoine ha designato come “definitivo”, perché sicuro, viene protetto dalla fusionalità e dall’aggressività che Antoine ha bisogno di esperire ed esprimere e che potrebbero, secondo lui, mettere in pericolo quel legame di attaccamento. Dopo un tradimento, in un incontro ambiguo e contraddittorio, in cui sembra volersi riavvicinare alla moglie, Antoine le dice: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”.

Paternità. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Lo chiamerà Alphonse, a dispetto del parere di Christine, che avrebbe voluto dargli un altro nome. Si tratta di una paternità narcisistica, in cui si fatica a riconoscere il figlio come altro da sé; del resto Antoine non ha avuto un padre. Dimostra una vicinanza quasi imbarazzata alla moglie, focalizzandosi sulla propria difficoltà nel provare e gestire emozioni nuove e tanto intense. Si sentirà anche trascurato da Christine, neomamma alle prese con il piccolo Alphonse. Dopo il divorzio da Christine, il figlio vivrà con la madre, pur continuando Antoine, forse meglio di prima, ad essere per lui un padre presente (seppur distratto).

Il vero amore, Sabine. Con lei Antoine vive l’amore maturo, incondizionato, trovato più che scelto, indipendentemente da fattori terzi. È vero amore in quanto contempla e integra buono e cattivo, bene e male, dando la possibilità a ciascuno di essere se stesso e di condividere con l’altro una vita autentica.

Il terapeutico Lucien. “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte: l’incontro con lui rappresenta per Antoine Doinel l’occasione di ri-conoscere la madre, descritta da Lucien come una donna “anarchica” e dolce, che amava suo figlio, e, in un certo senso, di trovare in questo signore, più o meno sconosciuto, tanto “normale”, una figura integrata, che incarna l’uomo capace di quell’amore libero ed incondizionato che può durare in eterno, o perlomeno una vita intera (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte).

Sfera sociale e lavorativa. La storia che i film raccontano vede il ragazzino scontroso e provocatorio lasciare il posto ad un giovane senza famiglia che, congedato dal militare, ben si adatta alla società: lavora e vive da solo, ha pochi (ma buoni) amici e sentimentalmente è alle prese con sperimentazioni se vogliamo “tipiche” della sua età, per quanto condizionate nel profondo da un modello di attaccamento insicuro. Quest’ultimo è alla base di quella insoddisfazione di fondo (tesa alla ricerca incessante del pezzo mancante!) che inciderà anche sulle scelte sentimentali future (matrimonio, rapporti e relazioni extraconiugali), e non meno in ambito lavorativo, con il continuo abbandono del vecchio lavoro in favore di uno nuovo.

Risorse

Va pur detto che il temperamento di Antoine, la sua brama di vita e la sua determinazione a riscattarsi costituiscono elementi che mettono il soggetto sulla retta via. È sorprendente come Antoine serbi in sé, nonostante le deprivazioni dell’infanzia, valori positivi di famiglia (le cui radici possono forse essere identificate nel legame di attaccamento con la nonna materna): lo vediamo prima alla ricerca di una famiglia sostitutiva (è determinante nel primo innamoramento e nella scelta di Christine come moglie), poi costruire una propria famigliola come tante altre (madre-padre-figlio), una normalità di cui non ha mai potuto fare esperienza in qualità di figlio.

La gioia di vivere che Antoine esprime in età adulta attesta la presenza di un’altra risorsa fondamentale nel suo faticato processo di auto-realizzazione, la speranza. Quest’ultima nutre l’apertura mentale e sociale di Antoine, alimentando esperienze e relazioni buone, salvifiche. Lo spettatore si meraviglierà, guardando gli ultimi film, delle interazioni e dei buoni rapporti di Antoine con vicinato, colleghi, amici: se ci fossimo fermati al primo film, Les 400 coups, non avremmo scommesso su queste competenze sociali.

  • La personalità in divenire di Antoine

L’Antoine che incontriamo per la prima volta è un dodicenne irrequieto. L’adolescenza, è risaputo, è una fase, estremamente delicata, di rinnovamento e cambiamento, portatrice di per sé di conflitti e problematiche. Se poi sei un ragazzo ‘difficile’ con un vissuto ‘difficile’ le cose si complicano ulteriormente. In “Les 400 coups”, con piccoli tocchi, lo svolgersi del film fornisce elementi della sua storia infantile, segnata da attaccamento e relazioni primarie claudicanti, la cui sintesi viene fatta, dallo stesso protagonista, durante il colloquio con la psicologa del centro di detenzione per minori.

L’Antoine che veniamo a conoscere in questo periodo della sua vita è apparentemente ‘mansueto’, obbediente e passivo in famiglia, ma ribelle e provocatorio fuori, dove rivendica attenzione, affetto, ma soprattutto identità e libertà. Frutto di una relazione prematrimoniale, è stato “riconosciuto”, formalmente, dal marito della madre, mentre per quest’ultima è solo “il ragazzo” (così lo chiama), figlio di padre ignoto, “colpevole” a sua insaputa e indegno persino di un nome proprio e di un proprio spazio vitale, tant’é che dorme nell’ingresso in un sacco a pelo. È un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa.

L’esame di realtà è conservato e le funzioni psichiche sono nel complesso buone, ma l’affettività di Antoine pare essere coartata, è ciò incide sulla sua impulsività: le sue azioni prevalgono sulla riflessione.

Alberga in lui un vissuto di abbandono e di ingiustizia che gli permette di non tenere conto della colpa e di nutrire il desiderio di vendetta. Pensiamo a quando il maestro lo priva della ricreazione dopo averlo sorpreso a far passare tra i banchi una rivista con in copertina una foto eccitante e Antoine scrive, in risposta, un poema sul muro della classe: “qui fu punito il povero Antoine Doinel per una pin up caduta dal cielo ma non è giusto e avrà la sua vendetta”; e alle spropositate minacce di Antoine (ben oltre la legge del taglione che esigerebbe un castigo commisurato al torto causato!) al compagno di classe, che ha fatto scoprire le sue iscrizioni murali (“carogna, traditore, hai i giorni contati, Morrissette!”).

Nei vagabondaggi con René, Antoine ricerca esperienze eccitanti (la scena del Luna Park). Egli condivide con l’amico la passione per il cinema, dove, marinata la scuola, vanno spesso, ma si rifugia anche nella lettura, essendo più riservato ed introverso di René.

Al quanto egocentrico, a volte sembrerebbe addirittura egoista, Antoine adulto è riservato, ed ha ancora qualche difficoltà ad esprimere e gestire le emozioni e a provare empatia; conserverà per molto tempo la tendenza a mentire e tradire. D’altra parte, però, controlla maggiormente la propria impulsività e mostra una maggiore tolleranza alla frustrazione. Il funzionamento globale della sua personalità può dirsi buono. Intelligente, brillante, a volte un po’ ingenuo ma comunque piuttosto realistico, Antoine è un treno in corsa, iperattivo e testardo; se la cava in tutte le occasioni, mostrando buone capacità di problem solving. Gioioso e ironico, apprezza l’ilarità e i momenti di svago e aggregazione (si pensi alla comicità dei momenti di scherzo con Christine o Sabine e delle interazioni con vicini e colleghi).

Insomma, Antoine appare ben adattato, non è radicalmente anticonformista e non disdegna i rapporti e le situazioni sociali, per quanto arrivi ad esprimere il sentirsi come “un pesce fuor d’acqua” rispetto alla borghesia di cui è entrato a far parte (attraverso il matrimonio con Christine), società alla quale muove per la prima volta un’aperta critica in Domicile coniugale, penultimo film del ciclo. Preferisce pur sempre i ritagli di intimità domestica in cui si dedica alle proprie passioni, lettura e scrittura.

Aspetti psicopatologici

In un contesto familiare e sociale che sovverte logiche, relazioni, ruoli e regole, destinatario di messaggi ambigui e anaffettivi, Antoine rivendica attenzione, ricerca disperatamente amore, uno sguardo che lo com-prenda, ma forse ancor di più va a caccia di senso e verità, che gli adulti non sono capaci e disposti a concedergli, mostrando essi una formalità rigida e coatta, che innalza un muro di indifferenza e insensibilità.

Come già detto, fintantoché prevalgono i bisogni difensivi dei genitori (della madre nella fattispecie), ed è preponderante la loro utilizzazione di identificazioni proiettive, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate. Queste identificazioni, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, si associano ad altri meccanismi di difesa arcaici, scissione e idealizzazione, con il rischio – rispettivamente – di una patologia borderline dominata dal manicheismo buono-cattivo e di una patologia narcisistica dominata da un Sé grandioso. In famiglie tanto fragili l’adolescente può considerare necessaria, per la risoluzione della crisi genitoriale, l’espulsione, “modalità di transazione patologica” che si può manifestare attraverso tentativi di suicidio, fuga o viaggio patologico (Marcelli, Braconnier, 1983).

Bugie, furti e fuga impulsiva sono tentativi di ribellarsi all’indifferenza e affermare se stesso, placando, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto.

Ciò che gli è assolutamente necessario è liberarsi dai legami deleteri, rispetto ai quali è rassegnato e indignato, primo fra tutti dal legame, che dovrebbe essere sacro, primario e vitale, con la madre. Gli è necessario trovare limiti e confini che gli consentano di identificarsi come soggetto intero, in relazione con soggetti interi, capaci di guardare, ascoltare e contenere anche il suo lato oscuro fatto di sentimenti ostili. Confini e limiti che gli diano possibilità di essere, di costruire un percorso libero definibile e narrabile, laddove le sue origini sono “marchiate” dall’ irriconoscibile ed indicibile.

L’agito, mettere in atto tendenze antisociali, costituisce per lui l’unica difesa, in questo caso egosintonica e adattiva, rappresentando la sola possibilità di salvaguardare sopravvivenza e affermazione di sé; al contempo le sue provocazioni sembrano voler comunicare ai genitori, agli adulti insensibili, al mondo intero, che non ha bisogno della loro sufficienza, della loro assenza presente (o finta presenza), che può fare a meno di loro, preferendo addirittura la “galera”.

Con l’amico di sventure René, l’adolescente Antoine ricerca esperienze attraverso cui sperimentare eccitazione, che confonde con quel senso di vitalità mai provato. Molto toccante la scena del Luna Park, nella giostra in cui il ragazzo vive un momento di pura adrenalina e ha la faccia di colui che è “senza pensieri”.

Antoine adulto, nei momenti più emozionanti, difficili o tristi, è ancora spinto a rispondere ad un bisogno impellente di scarica dell’eccitamento ingestibile, basti pensare, ad esempio, alla sua frequentazione di prostitute in due circostanze: congedato dal militare e dopo il funerale del collega investigatore privato.

L’accesso parziale all’ambivalenza genera in lui una doppia tendenza, da un lato a preservare quanto ha assunto come rassicurante “base sicura” (ideale assoluto da non contaminare!), dall’altro a ricercare in un altrove, nuovo e provvisorio, ciò che gli manca. Questa spinta condiziona profondamente tanto la vita sentimentale quanto quella lavorativa di Antoine, costellate da alti e bassi.

Il cinema in età adulta viene superato di gran lunga dalla passione per la lettura, che gli consente anche di attuare un meccanismo di intellettualizzazione, volto a mantenere lontani dalla coscienza pensieri, immagini ed emozioni potenzialmente pericolosi. In tale direzione si può spiegare la sua dichiarata avversione per la “noia”: il suo voler riempire le giornate di “fare”, il suo non fermarsi mai, sembra essere una strategia per non pensare troppo.

Attaccamento insicuro

Alla ricerca di una figura di riferimento, Antoine adolescente trova il suo personale dio (costruisce persino una sorta di altarino con tanto di santino!), maestro che in un certo senso lo accompagnerà per la vita, in Balzac, il quale in “Le père Goriot” scrive: «La società, il mondo vertono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri».

Le dinamiche della vita affettiva di Doinel, ancor prima che essere riferite all’assenza del padre e di una figura paterna, possono essere messe in relazione con lo stile materno di attaccamento, distanziante, che ha reso inaccessibile ad Antoine il mondo affettivo della madre, impedendogli di imparare a ri-conoscere e “digerire” le emozioni, proprie e altrui.

Rivendicando la sicurezza di cui è stato deprivato (ricordiamoci che deve la vita alla nonna materna, la quale ha rifiutato alla figlia il permesso di abortire e che ha avuto amorevolmente cura di lui finché ha potuto), Antoine difende come può la sua integrità precaria e l’amore di cui è capace, seppure con modalità inappropriate e disfunzionali: se in adolescenza ne sono espressione tendenze e comportamenti antisociali, nell’età adulta di Antoine troviamo ad esempio, costanti ed esemplificative, l’irresponsabilità nell’abbandonare sempre il lavoro vecchio per uno nuovo, la promiscuità sessuale (la frequentazione di prostitute), la tendenza a mentire e tradire (relazioni extraconiugali).

Queste modalità, che rimandano ad uno stile di attaccamento tipo A insicuro-evitante (Ainsworth et al., 1978), sono accomunate dallo schema di attaccamento dell’“evitamento angoscioso” (Bowlby, 1989)., in cui “l’individuo non possiede la fiducia che, quando ricercherà delle cure, gli si risponderà soccorrevolmente, ma, al contrario, si aspetta si essere rifiutato seccamente. Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960). Questo schema, in cui il conflitto è più nascosto, è il risultato di una madre che respingeva recisamente e costantemente il figlio” (Bowlby, 1989, p. 120).

Potremmo affermare che un tale modello di attaccamento insicuro, attraverso il consolidarsi di modelli operativi interni, può segnare l’orientamento caratteriale del soggetto in senso improduttivo (Fromm, 1947), ostacolando l’autentica espressione e realizzazione di sé. Ma va tenuto conto del fatto che l’esito psicopatologico non è l’unico possibile, così come non sono da escludere successive modificazioni e trasformazioni dei modelli disfunzionali. Più recenti studi sull’attaccamento, evidenziando aspetti quali la bidirezionalità e transgenerazionalità, sembrano porre il focus dell’attenzione su una dimensione interpersonale nella quale può giocarsi un “potenziale continuo di cambiamento” (Bowlby, 1989, p. 131), che Antoine saprà cogliere e dispiegare.

Orientamento produttivo

Nell’ultimo film del ciclo, L’amour en fuite, il cambiamento di Antoine, iniziato già nel precedente, Domicile coniugale, mostra anche la possibilità di una trasformazione caratteriale, laddove intervengano fattori (principalmente interpersonali) che favoriscono una presa di coscienza e un comportamento proattivo.

Il cambiamento di Antoine trova spinte forti sia nei nuovi legami di attaccamento (in primo luogo quello con la rassicurante, sicura, Christine, per lui “sorellina, figlia e madre”) sia nelle esperienze che contrassegnano l’età adulta di Antoine (come quella della paternità). Ma momento cruciale sarà l’incontro con Lucien, amante della madre, oramai morta, il quale fungerà da figura terapeutica, consentendogli di ri-conoscere e riscrivere la sua storia. Potrà allora essere e amare in modo autentico, nell’hic et nunc, sentire e relazionarsi in modo autentico, rispetto a se stesso e agli altri. La relazione con Sabine nasce e si sviluppa come risorsa fondamentale, spazio fecondo del cambiamento in atto, in quanto imperniata su un amore incondizionato, che implica il riconoscimento dei reciproci limiti e la condivisione di un progetto comune in cui le potenzialità di ciascuno trovano espressione e il coraggio di realizzarsi.

  • Bisogni di attaccamento, vita affettiva e realizzazione di sé

Attachment Theory e Psicoanalisi Umanistica Frommiana

Intendo proporre, in questa sede, una ipotesi di raffronto che coinvolge ed integra la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la psicoanalisi umanistica di Fromm.

Secondo me il punto essenziale di congiunzione, che mi accingo ad approfondire, risiede nei concetti di amore e sicurezza affettiva, di cambiamento e di autenticità che, seppur in maniera diversa, sono stati elaborati dai contributi a cui si fa riferimento.

Il contributo di John Bowlby è fondamentalmente legato alla nozione di attaccamento, approfondita nei tre volumi di Attaccamento e perdita (1969, 1970, 1980). Per Bowlby come per Freud la psicoanalisi ha profonde radici nella teoria di Darwin, ma quello di Bowlby è un darwinismo del XX secolo: per l’autore l’attaccamento è istintivo e primario, indipendente dalla mera soddisfazione dei bisogni fisici, il bambino è individuo attivo e biologicamente preadattato, che ricerca la maggiore prossimità alla madre mediante schemi di comportamento propri della specie volti allo stabilirsi di un “legame affettivo intimo e costante” tra madre e bambino; il sistema di attaccamento ha l’obiettivo esterno di garantire la vicinanza con il caregiver (per assolvere la funzione biologica che B. individua nella “protezione dai predatori”) e quello interno di motivare il bambino alla ricerca di una sicurezza interna. Due sono quindi le ipotesi centrali, ampiamente convalidate dalle ricerche empiriche, nella costruzione teorica di Bowlby: 1) lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa dipende strettamente dalla “qualità” delle cure materne ricevute; 2) lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri, quindi le future relazioni. Bowlby considera il comportamento di attaccamento come “caratteristico della natura umana in tutto il corso della vita – dalla culla alla bara”, e parla di un “potenziale continuo di cambiamento” (1989).

Nel concetto frommiano di situazione umana “possiamo vedere un intreccio di esistenzialismo e di evoluzionismo, anche se solo il secondo è dichiarato. Le posizioni evoluzionistiche diventano più esplicite nel corso delle opere di Fromm, anche con riferimenti a Bowlby” (Biancoli, 2000). Fromm, rivedendo la teoria freudiana della sessualità, sostiene che, pur esistendo una sessualità infantile, l’attaccamento del bambino alla madre non è di natura essenzialmente sessuale, piuttosto la dipendenza dalla figura materna esprime principalmente il desiderio di protezione e sicurezza, l’aspirazione ad una situazione paradisiaca di soddisfacimento e amore (Biancoli, 1986). L’autore, pur essendosi tanto occupato della società e della sua influenza sull’individuo, accentua, rispetto a Freud, l’importanza del dato costituzionale, il ché gli consente di dare un più solido fondamento teorico alla possibilità di trasformazioni caratteriali: Fromm sostiene che nella personalità entri la natura col temperamento e la società col carattere, quest’ultimo, pertanto, “può fare perno sul lato naturale delle potenzialità e assumere un orientamento diverso, relativo a un altro ambiente o anche, come dovrebbe accadere con una esperienza terapeutica, più autonomo da ogni ambiente, se la produttività che è propria della natura umana si libera e si esprime” (ibidem, p. 21).

Tutto ciò rinvia al concetto di “persistente potenziale di cambiamento” e al “modello dei percorsi di sviluppo” di Bowlby (1989): “Quei bambini che hanno dei genitori insensibili, lenti a rispondere, tendenti a trascurarli, o che li respingono, si svilupperanno con ogni probabilità seguendo un percorso deviante che è in certo grado incompatibile con la buona salute mentale e che li rende vulnerabili a un crollo, qualora si imbattessero in esperienze gravemente negative. Anche in tal caso, dato che il corso dello sviluppo successivo non è fissato, cambiamenti nel modo in cui un bambino viene trattato possono far deviare il suo percorso in una direzione più favorevole o in una più sfavorevole (…) in nessuna età della vita una persona è invulnerabile di fronte alle possibili avversità e anche (…) impermeabile a un’influenza favorevole” (ibidem, p. 131).

Difatti, pur essendo stato dimostrato come l’attaccamento insicuro sia associato significativamente a successivi problemi comportamentali, a problemi nel controllo degli impulsi, a scarsa autostima, a scarsa regolazione emozionale e a difficili relazioni con i pari (Sroufe, 1983; Turner, 1991; Zimmermann, Grossmann, 1994) , i modelli insicuri (evitante e ambivalente) non costituiscono di per sé un indice di patologia, rappresentando in alcuni casi strategie adattive impiegate in relazione a caratteristiche dell’accudimento non ottimali.

Lo stile di attaccamento insicuro-evitante viene comunque a configurare, in ogni caso, anche se in misura e qualità differenti, una situazione umana di inautenticità, determinata in primo luogo dalla messa in atto di un processo di esclusione difensiva dei propri bisogni affettivi e di protezione, che impedisce lo sviluppo di una adeguata consapevolezza ed intelligenza emotiva: “Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960)”, scrive Bowlby (1989).

Ciò richiama il concetto di “alienazione” elaborato in Escape from freedom (1941) da Fromm, il quale descrive il falso sé come struttura di carattere improduttiva (Bacciagaluppi, 2000), risultante da rapporti alienati che soffocano la coscienza umanistica, cioè “la voce del nostro vero Sé che ci richiama a noi stessi” (ibidem).

  • Una lettura interpersonale umanistica

La “fuga dalla libertà” del vero Sé

Secondo Fromm l’uomo moderno è alienato, estraniato da se stesso, in fuga dalla parte più autentica di sé. C’è infatti una bella differenza tra “libertà da” e “libertà di”: sono tanti coloro che si autodefiniscono liberi, ma in realtà non sono poi così tanti gli uomini che lo sono davvero, che scelgono la libertà di essere umani.

Sotto la pressione di una evoluzione culturale distorta la specie umana fugge dalla propria natura, fatta di infinite potenzialità, preferendo l’immagine ipertrofica di un falso sé che fa da altarino ad una nicchia di isolamento e impotenza. Non a caso Fromm parla, riferendosi ad autoritarismo, distruttività e conformismo da automi, di meccanismi “di fuga”, intesi come modi in cui i caratteri non produttivi si rapportano socialmente.

La fuga impulsiva, lo abbiamo visto, è la tendenza difensiva privilegiata da Antoine. Memorabile la scena finale di Les 400 coups, in cui l’adolescente corre verso il mare, si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua: lo sguardo di Doinel verso lo spettatore è uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà. Mi viene in mente a tal proposito anche un’altra scena dello stesso film, quella del Luna Park, nella quale appare evidente come il ragazzo ricerchi nelle esperienze eccitanti un senso di vitalità che non ha mai provato. E l’impulsività, come scarica dell’eccitamento, diviene per lui il modo per aggirare il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni.

Seguendo la storia attraverso i film, e quindi lo sviluppo del personaggio, possiamo però osservare il passaggio di Antoine dalla ribellione provocatoria e liberatoria dell’adolescenza ad un rassicurante conformismo, difensivo, che gradualmente si sgretola. Esso lascia posto ad una presa di coscienza e ad una scelta attiva che rendono possibili il cambiamento.

Ciò è stato possibile in quanto il temperamento di Antoine, la sua parte “naturale”, incontaminata nella sua essenza, ha incontrato relazioni buone nell’ambito delle quali fare esperienze correttive e trasformative. I valori e la gioia di vivere che Antoine esprime, nonostante tutto, in età adulta attestano la presenza di una risorsa fondamentale che egli riesce gradualmente e faticosamente ad attivare, la speranza. Secondo Fromm “Alberga nel carattere produttivo un’attiva speranza, che non si aliena nell’attesa del tempo futuro e non forza il presente ma lo vive come stato di gestazione” (Biancoli, 1986).

In Antoine, il passaggio dalla lettura alla scrittura autobiografica è emblematico, dando espressione a quel produttivo atteggiamento di apertura e attivazione che tende ad un cambiamento costruttivo, personale e al contempo socialmente condivisibile. L’uomo che egli diventa si dispiega nel progredire dalla compiacenza ad una sempre maggiore autenticità.

L’incontro con Lucien: “arte” della psicoanalisi e attivazione psicoterapeutica

La vita è fatta di paradossi nei quali, talvolta, si nasconde la verità. Chi l’avrebbe detto che proprio Lucien, che conosciamo per la prima volta in Les 400 coups come l’amante di Gilberte, sarebbe stato il volano del cambiamento di Antoine? Quest’ultimo lo definisce “L’amante numero 1” della madre, d’altronde quell’uomo aveva rappresentato proprio un nemico numero 1 per Doinel adolescente, bambino trascurato e arrabbiato, alle prese con il rifiuto materno e con l’assenza paterna.

In L’amour en fuite ritroviamo questo personaggio, Antoine lo ritrova, guarda a lui con nuovi occhi. Questo incontro interviene in un cambiamento già parzialmente in atto, segnando un momento cruciale, di svolta esistenziale per il nostro protagonista, in quanto gli consente di ri-conoscere sua madre (e di perdonarla), di ricucire ferite e ricomporre fratture che fino ad allora, avendo generato una copertura difensiva, lo avevano reso scisso e alienato, impedendo l’autentica espressione e realizzazione di sé. Da questo momento, Antoine può ri-conoscere se stesso, scoprirsi integro e integrato, nonostante una storia da riscrivere; guardare in se stesso, superando i limiti di un narcisismo difensivo e patologico, gli consente di accettare la propria fragile umanità, e di prendersi cura della propria vita autentica, del proprio essere. “Il narcisismo pone la persona nella modalità dell’avere e la rende facilmente vulnerabile, poiché ciò che si ha si può perdere, suscettibile ed esposta a sentimenti di rancore. L’odio nasce dal narcisismo ferito. (…) Al contrario l’essere io, che è esercizio di vitalità e generatività, sottrae dal rischio di perdere l’identità, che non è alienata in cose ma persistente nella sua stessa esperienza” (Biancoli, 1986).

L’incontro tra Lucien e Antoine è un “confronto vivente” (ibidem), che, nel rispetto dell’interezza dell’altro essere, consente di fare propria la prospettiva altrui. Lucien com-prende il bisogno e desiderio di verità di Antoine, e quest’ultimo ha modo, a sua volta, di com-prendere, la madre e quell’uomo più o meno sconosciuto (che ha amata sua madre sino alla fine dei suoi giorni), come anche se stesso. L’empatia di cui Antoine si mostra, forse per la prima volta, capace, è il risultato e, al contempo, la chiave del suo cambiamento.

Proprio come accade in psicoterapia. Una vera e propria arte, volta non all’adattamento sociale, quanto alla cura dell’anima. Atto creativo. Nell’hic et nunc di questo confronto non mancano resistenze, regressione e transfert, ma è la restituzione che chiama in causa il protagonista nel ruolo attivo di chi prende in mano le redini della sua vita, cosicché la presa di coscienza possa accompagnarsi al salto nell’azione, al cambiamento nel modo pratico di vita.

Lucien, analogamente alla figura del terapeuta, non si limita a fungere da specchio, bensì si mette a disposizione offrendo un rapporto stabile e ponendosi come presenza empaticamente partecipante, come reale e vera figura di riferimento, che sostiene ma non si sostituisce né si impone (ad esempio con interpretazioni selvagge). Egli è un essere umano capace di dedizione e di “prendersi cura” (rimane fino alla fine accanto alla sua Gilberte, morta all’età di 47 anni), esempio di chi sa amare produttivamente. “Il paziente può cogliere la propria interezza quando vede l’esempio dell’interezza del terapeuta. (…) Non le parole del terapeuta infondono coraggio ma il suo proprio coraggio” (ibidem).

Secondo Fromm la conoscenza sperimentata in analisi trascende quella puramente intellettuale, in quanto nel processo psicoterapeutico è possibile il rinvenire di quel volto originario, base dell’identità della persona: il paziente può riconoscere elementi della sua identità e distinguerli da quelli di pseudoidentità, insomma riconoscere il vero sé, scoprendo in esso la libertà di essere umano.

Il cambiamento di Antoine, che trova una spinta decisiva nell’incontro “terapeutico” con Lucien, è analogo a quello a cui tende la psicoterapia, che “può condurre a una triangolazione interiore dei rapporti col padre e colla madre, dove l’autoritarismo e la fissazione incestuosa lascino il posto all’intimo dibattito tra coscienza paterna e coscienza materna della persona, che è divenuta padre e madre di se stessa. La contraddizione rimane, ma non più fissata a vecchie controversie familiari, bensì come permanente tensione insita nella natura umana tra senso del dovere derivante dalla propria socialità e senso di amorevole accettazione di sé proveniente dalla vita stessa e permanente in essa anche se il dovere non venga adempiuto” (Biancoli, 1986)[4].

  • Conclusioni

Il ciclo Antoine Doinel ben viene a rappresentare la “situazione umana” (Fromm, 1947), costellata di dicotomie esistenziali e potenzialmente pro-tesa. Il protagonista non è l’uomo “colpevole” freudiano, lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti, bensì un uomo terreno, che soffre di alienazione e insoddisfazione cronica, ma, al contempo, si impegna in una ricerca attiva di senso e verità che sostanzia il suo percorso di autorealizzazione. Sceglie di superare il passato, pur senza aggirarlo (arriverà infatti a raccontarlo nel suo romanzo autobiografico), di ri-conoscere la propria storia per cambiarne il corso, Doinel, che vive l’hic et nunc gestativo (Fromm, 1976) come artefice del proprio destino.

Fromm scrive: “l’etica umanistica prende la posizione che se l’uomo è vivo, sa che cosa è permesso; ed essere vivi significa essere produttivi, non impiegare le proprie capacità per nessuna finalità che trascenda l’uomo, bensì per se stessi, dar senso alla propria esistenza, essere umani. Finché c’è chi ritiene che il suo ideale e la sua finalità sono posti al di fuori di lui, vale a dire al di sopra delle nuvole, nel passato o nel futuro, uscirà da se stesso e cercherà adempimento dove non lo potrà trovare. Cercherà soluzioni e risposte in qualsiasi punto salvo che dove potrebbe rinvenirle: in se stesso” (1947).

Alla fine scopriamo, con lo stesso Antoine, che quando troviamo noi stessi, riconoscendo e accettando la nostra parte più autentica, possiamo incontrare davvero gli altri: smettiamo allora di ricercare la chimera dell’assoluta felicità e possiamo ‘semplicemente’ essere, essere umani.

 

[1] All’epoca neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, membro della Société Française de Thérapie Familiale Psychanalytique, redattore capo della Rivista Le divan familial, segretario generale e tesoriere dell’Association Internationale de Psychanalyse de Couple et de Famille.

[2] Jean Narboni e Serge Toubiana (a cura di) (1988). Il piacere degli occhi / François Truffaut. (Trad. It. Melania Biancat). Marsilio, Venezia.

[3] Citato in Marcelli D., Braconnier A. (1983). Adolescenza e psicopatologia. Masson, Milano, 2006 (sesta edizione italiana).

[4] Cita Fromm E. (1955). Psicoanalisi della società contemporanea.

Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

di Andrea Galgano 20 novembre 2016

leggi in pdf Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

15146860_10211003661477458_50510230_oIl nuovo libro di Davide Rondoni (1964), La natura del bastardo, edito da Mondadori, scompone il frammento in chiarità sperata, mescola la luce buia in una traversata luminosa di «cuore sbranato e cuore niente» che raccoglie polvere e preghiera, domanda elementare e acqua, come ferita e incanto di viaggio sterminato e di fioritura aerea.

Lo sterminato viaggio cerca la profondità e l’esplosione deflagrata dell’essere in tutte le cose:

«rosa notturna che ho esplosa in testa / ferita dell’alba / cuore rovinosa festa / tremano le inferriate la cassetta di bottiglie i baci i mai / più / sterminato viaggio di cosa qui / passaggio dominatore / e tu / non sei più tu / uomo d’aeree fioriture / di rose / cerca la profondità, deflagrazione / dell’essere in tutte le cose».

In Rondoni convivono due anime: quella incontaminata affermazione della presenza dell’essere e la dismisura attonita dei dettagli di ombra e silenzio luminoso, come se ad accompagnare il tempo dell’io ci fossero due schegge di spavento e incanto, sospensione sbagliata e attraversamento d’infinito.

Scrive, infatti, Alessandro Zaccuri:

«Lo spavento e l’incanto rappresentano da sempre i poli più riconoscibili nella poesia di Davide Rondoni. Spavento come consapevolezza del rischio, però, non come rifiuto della realtà. E incanto come apertura alla vita, non come compiacimento di sé. […] In questo canzoniere recalcitrante – nel quale la ripresa a distanza di temi e lemmi ha la stessa funzione delle rime che si ritrovano ad emergere con quieta necessità – le cronache d’amore si mescolano di continuo con le vicende della contemporaneità, tra la provincia italiana e i sommovimenti laggiù in Siria o in qualche altra parte del mondo che d’ora in poi non sarà più lontana».

È l’esito di una chiamata delle cose, la sospensione dell’infinito come «una sbarra che ci traversa», l’imperversamento della Natura, il richiamo bisbigliato delle cose che mescola e imbastardisce, riflette il gemito della bellezza come un sigillo lavorato nelle oscillazioni dell’universo, nel vuoto e nella domanda ultima, aperta nella finitudine:

«Cane, o / bestia o infinito d’un infinito, cosa / sei un dio, un festone / dimenticato / appeso ai rami ai fari in discoteca / viso oscurato che pulsa / un niente / in questa notte l’universo / oscilla, in questa notte / l’universo esce a bere / cerca energia / in un altro big-bang, in un altro quartiere? / dopo festa / dopotutto ipermercato vuoto / come se avessero telefonato: ragazzi / l’alluvione, prendete / ogni cosa che potete – / o deserti scaffali della testa / vetro che perde / la scritta nel fiato / ti chiamano energia oscura del creato / mormorare di colpo: tutto amato tutto andato? –».

La natura bastarda ha la cifra dell’assoluto come segno, meta colta nel soffio del vivente e nella beatitudine estrema di ciò che compie, nell’aria persa dei «sedili di un’auto abbandonati sul pendio / schienale sudicio davanti al cielo, / la città strana scena, follie / e oblio / vedi l’alba? la notte come grande nave ci abbandona / ritira l’àncora di stelle, la sua catena / tra le costole mi suona…».

La poesia non celebra il reale, si intesse con la sua trama segreta e oscura e con la concrezione delle immagini, i lampi e i detriti, che sono nulla senza desiderio senza fine, senza il grido dell’alba, senza la luce folle della gloria: la prima occhiata aperta nell’aria allarmata, i ventagli infiniti e la resa delle stelle:

«Se non hai nella fessura da cui ti entra il porco mondo negli occhi almeno la piccola luce febbrile di un desiderio senza dine, e non guardi mai come grida l’alba anche su luride vetrate, non perdere tempo, non è questa roba intrattenimento – qui come in un sacco di poesie si dicono al vento cose dure e fantastiche, del tipo: / nessun albero / crea la luce folle della sua gloria, / dopo la notte di blu lampi e detriti / la prima occhiata aperta nell’aria allarmata / trova il perdono del rosa, i ventagli infiniti – / tira fuori una birra, il sorriso più antico che hai, ha forse fine il mistero del mondo? L’ultima stella a cosa si arrende quando l’alba dal giorno è divorata dolcemente? sei forse tu chi accende i primi neon nelle fabbriche gli occhi di tuo figlio, i fari dei treni sui binari ghiacciati? / nessun battito d’ala o di cuore / crea il luogo e il tempo / dove si arrischia e distende».

La fame dell’essenziale, la fame bastarda, il mormorare della natura e del destino è un’uscita verso il cielo tra le rovine di Roma e la linea A della metropolitana. L’amore, no, non è mai giusto, non penetra soltanto nelle fibre, compie uno scarto, una chiamata, una promessa che profuma di dismisure e verticale desiderio.

È viaggio, avventura, forza di abisso, non già per lo sconvolgimento quanto piuttosto per il suo sproposito di grido e fiamma che muove, perché fa nascere cose protese che non finiscono qui, come arde un velo oltre la giustizia e la giustezza:

«L’amore non è giusto / il ventaglio duro / splendido dei rami / si apre contro / il viola azzurro / mattini, sere / l’amore è un albero ma il fusto / s’inabissa, deve sparire / per nutrire / lo slanciato assenso che dà all’aria / e lei in un felice incendio lo incorona – / l’amore è un ragazzo che quando gli parli / fa un altro discorso / occhi lupo bianco, nubi / fa nascere cose che non finiscono qui / ma fuori dalla giustizia, in terra e in cielo / – e brucia sempre nell’aria il suo grido, / come arde un velo».

Il nascondimento, la sospensione delle cose, le esistenze delicate sono affermate dall’io che le guarda. La realtà (il suo sperdimento spaesato e la sua fioritura indocile) esprime la sua lontananza infinita di troni d’aria e inseguimenti.

Esiste una leggerezza indomita di tracce dimenticate e recuperate come collisioni dorate e immensità di universo. La muta sventura è un pianto salvato.

Il cuore decifra e insegue, nasconde le cicatrici dove «i mari invernali della mia mente cercano ancora / le tue dita d’aurora – anche dal vetro opaco / mi hai toccato le labbra – / ti cerco sempre nuova / vita, / impestato di te, gioia senza possibile cura».

Ma è ancora l’amore a opporsi alla fine, alla morte, al limite, a ciò che basta:

«bastami non bastarmi amore / fai giorno insinuando il tuo sguardo / sotto le palpebre / cucite / imbastardisci me / di te / nelle vie dove allunga le dita l’aurora, nei bar / dopo la chiusura / il tempo dell’ultimo attacco / sta venendo / in un’alba come sempre quando / la prima luce alla tenebra s’afferra / e da ogni parte si svuotano / parcheggi, muovono eserciti, stormi / s’alzano da terra e / iniziano a mormorare le maree — / toccami la mano, danzatore ferito / ritmo che mi batti / spezzato, infinito».

Il mormorare della realtà non è solo il dettaglio attraversato e trascritto che ricorre in tutte le sue sfumature, bensì è sospeso attraversamento (lei guarda la scrittura dei rampicanti), epifania guerriera e improvvisa come presentimento e sospiro sulle labbra.

Tutta la bellezza che compone il teatro della scena del mondo è fatto di segni e attraversamenti, stupori e transiti che incendiano l’orlo dei cieli e le luci notturne, grido delle stelle a miriadi e bagliori lontani, e ogni lemma dice ciò che accade, lo frastaglia, lo dispiega in tanti volti, varchi e passaggi che avvisano lo splendore:

«L’isola da lontano lanciava ancora bagliori, feriva / gli occhi, forse segnali millenari, sogni, / fiori bianchi a miriadi di notte sulle scogliere… / Palermo, sono dolci le sere / a camminare sperduti / dopo aver lavorato, sfiniti / e la mente non sa più che pensare / vuole solo sentire lui / il respiro del mare… / E tu che gesticoli al telefono e vai / ti discosti e mi lanci un’occhiata / ragazza maghrebina, / dolce, ferita, innamorata – / e mi ricorda ama, senza disperare / ama con dolore, / bastardo trovatore, ama / per non meno di questo avviso di splendore».

L’attraversamento del mondo strepita, allora, negli istanti, e nella strana gioia nel petto, come un appuntamento o una presenza, e persino la tentazione del vuoto. Ma nel termine più oscuro rifulge qualcosa di inaspettato che visita e promette.

L’unica forza smisurata è un gesto che riscopre il battito del mondo, nessun riparo nell’aria che risale. E poi ancora sconfinamenti, latrati perduti e l’ombra del grande strano splendore («Venne il bacio, uno solo e leggero sul fiume – / niente lo avrebbe motivato mai / nessun circuito o apprendimento neurale / solo quel grande strano splendore – / Poi tu o la tua ombra m’ha fissato serissima: / dimmi se lo sai, macchine non siamo, dimmi / non lo saremo mai, vero?»), in un Volto che si fa carne e ama da morire: «il Verbo, sorride, viene dal profondo / del cielo e della natura, stupisce i vivai di comete, le piogge bianche del sole / e si fa carne, ama da morire, ha un volto / un volto… imbastardisce pure lui…».

Nella poesia di Rondoni avviene sempre qualcosa di inatteso e di desiderato. L’amore delle mani giunte che ripercorre le linee fiato di Beatrice, il così sia senza fine e l’intuarsi come segno dell’impossibile. Farsi tu, essere tu come impazzito d’amore e la carezza dell’immiarsi, mondo risorto e suo segreto: «[…] – solo un impazzito / d’amore poteva senza potere più nulla, più nulla / inventare queste parole / Io mi intuo come tu ti immii / nella commedia umana e celeste / farla precipitare per le scale del suo dolore / qui tra i denti e i compostissimi furenti / baci, le tende rotte alle finestre / darti questa carezza è il segreto del mondo? / immiati, m’intuo e / spegni la luce che vediamo nella notte / sorgere la città».

La bellezza non è mai relegata in uno squarcio di affezione: è primaria, primordiale, solleva le trame del tempo, lo imbroglia, ne ferma il giogo. È il rifugio della casa sui crinali alla apertura degli occhi come un sussurro dinanzi alla tempesta, una domanda solo di amore alla musica sospesa del mondo: «L’alba sui crinali / dopo la pioggia / è indecisa / aperture del cielo / e tristezze dell’aria quasi color di perla – / un essere vola via dalla staccionata / percorro la strada deserta / odore fresco di gasolio e terra bagnata / da giorni / cerbiatti color cenere mi fissano dai campi / il verde nella foschia si prepara a splendere – / che occhi inquieti contemplare / per dire grazie serrando la giubba del vento / la musica ancora segreta del mondo».

In questo lunghissimo e profondo itinerario i figli rappresentano la domanda di un mosaico senza fine che chiede a Dio di tenerli: Clemente, il più piccolo «attaccato alle spalle» («non avrò ricchezze da lasciarti / ragazzino che porterai il mio nome e quello / di mio padre, ma quando / c’è una curva da fare e non sai / cosa ti può aspettare / prepara gli occhi, prepara il cuore»), Carlotta («Finché si gonfierà il sole, figlia mia, / il cielo riprenderà fiato / si gonfierà, sì, esploderà il sole / in un silenzio smisurato / l’attimo finale dell’universo guardato da niente, nessuno / o saremo tutti presenti – mi dirai: “babbo…” – / ci cercheremo la mano / tutti lì in un attimo felice, perso?»).

Oppure come il canto irrotto per la madre, stremato e immenso fondo:

«Quanto sono stato lontano da te / come se dovessi consumare con tutte le forze l’amore / che mi hai dato / e in tutti i viaggi / e baci e parole cercare stremato il fondo / di quel che mi hai donato / Non c’è posto del mondo, non c’è delirio / che non abbia il tuo sorriso, il tuo martirio, / ma non hai reso dominio la tua femminile vastità / Sei divenuta il silenzio alto della valle / mia madre, albero fiorito alle mie spalle».

La comunione delle parole è un profilo di grazia. Nella rastremata durezza veggente della guerra imminente, in un rosario-gesto impotente e glorioso, nel respiro farfalla tra le labbra che mette in fuga gli stormi della paura, il mare diventa impronta notturna di buio che consegna l’umano alla sua stupefatta mortalità, lungo la danza violenta delle stelle:

«Parla al buio il mare / riflessi d’oro, fanali sospesi / parla al buio il mare / parla al buio / riflessi / fanali, / l’oro dell’inverno, noi così stupidi / magnificamente mortali / all’uscita dall’hotel / l’ho sentito dalle rive gridare / cupa e azzurra forza, così solo / oltre la statale, sotto la non luna / le stelle rotte / le sue immense non parole / che sanno tutto, / come nasce l’onda / e si inabissa l’amore».

O come in una consegna gonfia della vastità, la vita si ascolta nel suo segreto esploso e ineffabile che rinasce inerme e senza ritorno:

«Non ridarmi più indietro / quel che mi hai rubato, la luce ultima, / la quiete, via / l’albero esploso della mente / non ridarmi più quel che mi hai / strappato / non ridarmi indietro niente, meglio / finire in te che morire me / in me solo / tieniti tutto, dimenticami – / perdimi / dentro di te, completamente».

La vera destinazione dell’umano si compie solo amando, è una fretta di assedio, è una lotta con l’indicibile nudo: uno strappo, un luogo fisico e ubriaco che non finisce mai, assetato di senso, ebbro di nodi, che si annida nelle nostre traversate, nella nostra esperienza, nel nostro giudizio come cammino di verità. Strappato in tutta la sua forza di abbandono, in tutto il suo fiato di movimento e danza, nella essenzialità tesa e astrale di un abisso che trema e ama «la prima eternità / chiamata lontananza» come vita salvata:

«Possiamo soltanto amare /  il resto non conta, non / funziona, / al mattino appaiono /  la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo / dell’alito mentre apri l’auto / nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare / più qui, alla riva degli occhi. E l’estate / c’era, c’è, nella calda bruna memoria / dei rami tagliati, / i visi diventano ricordi / le voci gridate stracci silenziosi, i denti conoscono il sapore / del niente e l’oblio che ha portici / e portici infiniti. Possiamo soltanto amare / strappandoci felicemente figli dalla carne / parlando d’amore continuamente / ubriachi feriti, vili / ma con gli occhi lucenti come laser / di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano. / Mormorare come dare baci nell’aria. / Il rametto profumato non si raddrizza / con i colpi della nostra ira, lo sguardo /  di tuo figlio non perde il velo di tristezza / se glielo togli mille volte / dal viso…
Possiamo soltanto amare / fino all’ultimo nascosto spasmo /  che nessuno vede / e diviene quella specie di sorriso / che si ha nell’abbraccio finalmente / di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti /  passati una volta accanto /  sulla gioia profonda delle ossa /  diranno: era fatto di allegria, amava, /  oppure diranno niente e poi niente / per sempre. Possiamo soltanto amare, / il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro».

Ogni lontananza, in Rondoni, è prossimità. La luminosità delle figure oblique si accompagna alle soglie del bello imperioso e indifeso del mondo, all’ultima parola che si consegna, all’ultimo respiro che recide il nome dal niente traversando le nascite.

Non c’è incertezza di altrove, esiste l’altrove richiamato e ferito ma rilucente in tutta la sua pienezza mai rassegnata, in tutta la sua nudità crepitante. I luoghi della poesia sono dettagli eterni di un dispendio perpetuo che schiude la verbalità ultima e oscura allo stupore “bandito” e all’amore. È il suo sì, l’estremo e stellare sigillo con le lacrime sulle ciglia: «l’ultima parola / baciando in bocca la tenebra sarà: / meraviglia».

14875085_10210821974415395_2051045130_nRondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016, pp. 144, Euro 18.

 

 

Rondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016.

Zaccuri A., Rondoni dà voce alla contaminazione che salva, “Avvenire”, 11 novembre 2016.

Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

di Nikos Makris, MD, PhD

Associate Professor of Psychiatry & Neurology, Harvard Medical School

15 novembre 2016

leggi in pdf Nikos Makris – Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

makris-nikos-140514Premessa Storica e Culturale

Nella traiettoria evolutiva che ha condotto alla definizione come un’ entita’ neuropsichiatrica, la sindrome da conversione (conversion syndrome) ha avuto varie denominazioni, dalla originale isteria (hysteria) della medicina ippocratica (Hurst LC: Freud and the great neurosis: discussion paper. J R Soc Med 1983; 76:57–61) e degli anni di Charcot (Charcot JM: Leçons du mardi á la Salpêtrière: policliniques, 1887–1888. Paris, Bureaux du Prográes Mâedical, 1887) e Janet (Janet P: The major symptoms of hysteria; fifteen lectures given in the Medical School of Harvard University. New York, Macmillan, 1907) a cavallo dei secoli 19 e 20, alla isteria da conversione (conversion hysteria) di Freud (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), fino all’ attuale termine di Functional Neurological Disorder (FND) (DSM 5.0 APA 2013) . Quest’ ultimo termine e’ tratto dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5) (Stone J, LaFrance WC Jr, Levenson JL, et al: Issues for DSM-5: Conversion disorder. Am J Psychiatry 2010; 167:626– 627). Bisogna precisare che FND e sindrome da conversione si usano come sinonimi nella letteratura neuropsichiatrica attuale. Nell’ ontologia propria del termine “isteria da conversione”, Freud rispecchiava principalmente la natura patogenetica della condizione patologica, vale a dire il concetto meccanistico che l’ idea affettiva si converte in un fenomeno fisico.

Perche’ lo studio di FND o sindrome da conversione e’ importante attualmente e perche’ merita una particolare attenzione la rielaborazione del caso di Anna O.?

FND e’ tuttora nel limite fra psichiatria e neurologia, in una zona poco definita delle neuroscienze. Anche se esiste una dibattito riguardo l’ incidenza e la prevalenza del FND, si e’ documentato che da 30 a 60% di nuovi pazienti in cliniche neurologiche presentano dei sintomi non interpretabili. Questa e’ una prevalenza alta (Carson AJ, Ringbauer B, Stone J, McKenzie L, Warlow C, Sharpe M (2000); J. Neurol. Neurosurg. Psychiatr. 68 (2): 207–10; Carson AJ, Best S, Postma K, et al: The outcome of neurology outpatients with medically unexplained symptoms: a prospective cohort study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2003; 74:897–900). Inoltre, si e’ documentato che negli Stati Uniti l’ incidenza di nuovi casi diagnosticati e’ 22 per 100.000 persone annualmente (Stefánsson JG, Messina JA, Meyerowitz S (1976). “Hysterical neurosis, conversion type: clinical and epidemiological considerations”. Acta Psychiatr Scand. 53 (2): 119–38) e si stima che nella popollazione generale siano tra 0.11% e 0.5% di soggetti con FDN (Tollison, C. David; Satterthwaite, John R.; Tollison, Joseph W. (2002-01-01); Lippincott Williams & Wilkins). L’ enorme sviluppo della tecnologia medica in generale e dei calcolatori in particolare, ha cambiato il nostro modo di percepire la natura ed a influenzato profondamente il modo con il quale pensiamo e ci comportiamo. In questo, relativamente recente cambio del paradigma scientifico e culturale (paradigm shift) e’ riapparsa concretamente la possibilta’ di investigare la psiche ed in particolare l’ inconscio applicando tecnologie nuove, specialmente la neuroimagine, e nello stesso tempo sviluppare ulteriormente delle tecnologie gia’ esistenti, come ad esempio la eletroencefalografia (EEG). Il caso di Anna O. come presentato da Joseph Breuer (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), e’ uno dei casi meglio descritti nella storia della neuropsichiatria seguendo una metodologia medica tradizionale che inizia dall’ analisi con una precisa e dettagliata desrizione della fenomenologia della paziente basata su anamnesi, esame neurologico ed valutazione psichiatrica, cercando di formulare una interpretazione patogenetica e, possibilmente, anche eziologica della condizione patologica. Una volta acquisita una chiara e comprensiva imagine clinica della paziente Breuer ha applicato il trattamento catartico sotto ipnosi ed a valutato e descritto in dettaglio le manifestazioni fenomenologiche della paziente come funzione del tempo. Dopo i due anni del decorso e risoluzione della sintomatologia della sua paziente, Breur a identificato dei fattori patogenetici della condizione patologica ed a concluso che il metodo terapeutico applicato, cioe’ il metodo catartico, e’ efficace. La ricchezza nei dettagli e la chiarezza della descrizione dei sintomi ed anche della loro evoluzione temporale, fa il caso di Anna O. un’ ottimo esempio per la interpretazione dei sintomi in un relazione alle ipotesi attuali che fanno riferimento ai neurocircuiti coinvolti. E’ intuitivo che casi di FND possono correntemente essere studiati usando metodi di neuroimagine (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

Presentazione del caso clinico di Anna O. dal Dr. Joseph Breuer (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004)

Anamnesi Il soggetto Anna O. era una persona completamente sana sia cognitivamente che emozionalmente prima della manifestazione dei primi sintomi. Aveva una leggera eredita’ di neuropatia ed alcuni casi di psicosi erano successi solo in relativi distanti. Una cosa importante e’ che Anna O. si trovava spesso in uno stato oniroide (day dreaming) durante la sua quotidianita’.

Sintomatologia Nei due anni trascorsi dall’ apparizione dei primi sintomi di Anna O. fino alla loro completa risoluzione (Giugno 1880 – Giugno 1882) sono state osservate le seguenti caratteristiche fenomenologiche cardinali:

L’esistenza di un secodo stato di coscienza era un elemento cardinale il quale inizialmente sembrava come una assenza passaggera o stato oniroide temporaneo, pero’ eventualmente si e’ strutturato come uno stato di doppia coscienza.

Specifici sintomi sono stati come segue, vale a dire disturbi della funzione del linguaggio a livello di produzione, con paraphasie e perdita della capacita’ di esprimersi nella lingua natia (cioe’ in Tedesco) che pero’ si e’ sostituita con la capacita’ di esprimersi in eccelente Inglese, paralisi del braccio destro con eventuale perdita della sensibilita’ somatosensoriale (anesthesia). Altri sintomi transitori sono apparsi come disturbi visivi e uditori, allucinazioni visive, delle contratture muscolari, tosse e disturbi della nutrizione.

Patogenesi Questa condizione sembra dovuta a due fattori principali, cioe’ al surplus di vivacita’ (energia vitale) del sogetto e la sua tendenza a trovarsi in uno stato oniroide (day dreaming) nella sua vita quotidiana.

Descrizione del metodo terapeutico applicato (“catarsi”) Durante ipnosi, I sintomi della condizione della paziente sono stai discussi tra il terapeuta e la paziente. Come risultato, I sintomi sono stati eliminati.

Fra arte e scienza

Anche se il metodo di Breuer, che e’ stato usato eventualmente anche da Freud nei suoi studi clinici, è efficace nel risolvere i sintomi isterici, la questione dei suoi fondamenti scientifici rimane aperta. E questo e’ principalmente perche’ non e’ stato chiarito il suo meccanismo d’ azione. Freud stesso ha affermato che I casi da lui illustrati sembrano come “delle novelle”, vale a dire tra arte e scienza riflettendo l’ essenza della natura della medicina (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004).

Il modello dei sistemi biologici e dei neurocircuiti come endofenotipi nelle neuroscienze del comportamento e la loro importanza nella Psichiatria contemporanea Nel paradigma delle neuroscienze del comportamento attuali, i sistemi biologici che nel cervello sono rappresentati dai neurocircuiti sono considerati come l’ endofenotipo, espressione intermedia tra il genoma ed il comportamento (Gottesman II, Gould TD: The endophenotype concept in psychiatry: etymology and strategic intentions. Am J Psychiatry 2003; 160:636–645)(Hyman SE, Nestler EJ: The Molecular Foundations of Psychiatry. Washinton, American Psychiatric Press, 1993)(Breiter HC, Gasic GP, Makris N: Imaging the neural systems for motivated behavior and their dysfunction in neuropsychiatric illness; in Deiboeck TS, Kersh JY (eds): Complex Systems Science in Biomedicine. Heidelberg, Springer, 2006)(Towards Conceptualizing a Neural Systems-Based Anatomy of Attention- Deficit/Hyperactivity Disorder; Nikos Makris, Joseph Biederman, Michael C. Monuteaux, Larry J. Seid man; Dev Neurosci 2009;31:36–49).

Le varie funzioni cognitive, come il linguaggio, l’ attenzione, la memoria, la funzione esecutiva, l’ abilita’ visuospaziale oppure affettive, come la paura o la gioia ed anche le funzioni autonomiche, come la termoregolazione o la regolazione della pressione sanguinea, vengono prodotte e processate da neurocircuiti specifici.

Questo concetto sta’ rivoluzionando la definizione di malattia mentale e di conseguenza la Psichiatria contemporanea. In effetti, stiamo affrontando le malattie mentali come malattie del cervello ed in particolare di neurocircuiti specifici per determinate funzioni. Questi circuiti cerebrali e funzioni o dominii comportamentali possono essere alterati in diversi disordini psichiatrici. Per esempio la funzione o dominio di attenzione e’ alterato nel disturbo depressivo maggiore, la schizophrenia ed il disturbo bipolare. In base a questi concetti si e’ formulato il modello RDoC (Research Domain Criteria) che rappresenta un nuovo paradigma nella psichiatria attuale. A scopo illustrativo segue un esempio del modello RDoC.

immagine1L’ introduzione di questi nuovi concetti hanno influenzato profondamente anche il campo psicoanalitico ed hanno contribuito nella fondazione della Neuropsichoanalisi (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012). In breve, la neuropsichoanalisi e’ nata negli anni 1990 per riconciliare la prospettiva psicoanalitica con quella neuroscientifica nello studio della mente. Si considera necessario di basarsi su circuiti neuronali i quali processano eventi mental soggettivi come intenzionalita’ o agentivita’ (self-agency) (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012).

Studi attuali in soggetti diagnosticati con FDN (sindrome da conversione) e uso di neuroimagine

Il caso di Anna O. pare un caso esemplare per tracciare un trait d’ union tra il pensamento psicoanalitico tradizionale e la visione moderna basata sul modello dei neurocircuiti. Possiamo illustrare questo indirizzo di indagine utilizzando lavori pubblicati recentemente che hanno investigato due gruppi di sintomi in soggetti diagnosticati con FDN (syndrome da conversione), specificamente la disturbi funzionali motori e somatosensoriali unilaterali.

Ho scelto due lavori rappresentativi del gruppo di David Perez come segue. Nel primo lavoro utilzzando risonanza magnetica funzionale (fMRI) Perez el al. hanno studiato la connettivita’ funzionale in pazienti con crisi convulsive psicogeniche non-epilletiche (psychogenic nonepileptic seizures (PNES)) o disturbi funzionali motori (functional movement disorders (FMD)) (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

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Riportano alterazioni funzionali in regioni importanti per processamento di emozioni, regulation, and awareness (perigenual anterior cingulate cortex/ventromedial prefrontal cortex [vmPFC], insula, amygdala [AMG]), controllo cognitivo (dorsolateral prefrontal cortex [dlPFC], dorsal anterior cingulate cortex, inferior frontal gyrus [IFG]), self-referential processing (temporoparietal junction [TPJ]/posterior cingulate cortex [PCC]/precuneus [Pr]), and motor planning (supplementary motor area [SMA]). Particolarmente importanti sembrano i neurocircuiti che coinvolgono il giro del cingolo anteriore, l’ insula, l’ amygdala e la corteccia dorsolaterale prefrontale.

Questi neurocircuiti vengono elaborati ulteriormente nel successivo lavoro come si vede nelle figure allegate (Motor and Somatosensory Conversion Disorder: A Functional Unawareness Syndrome? David L. Perez, M.D. Arthur J. Barsky, M.D.
Kirk Daffner, M.D.
David A. Silbersweig, M.D. J Neuropsychiatry Clin Neurosci 24:2, Spring 2012)

immagine3immagine4Dysfunction in the perigenual anterior cingulate cortex (pACC) and its subcortical connections (including reciprocal cingulate–amygdalar connections) results preferentially in impaired motivated behavior, motor control, and/or affect regulation. Dysfunction in posterior parietal cortex (PCC) and its subcortical connections results preferentially in impaired spatial and perceptual awareness, including aberrant forward modeling, motor intention awareness, and/or self-agency. Reciprocal cortico–cortical connections among the pACC, PCC, and the dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC) facilitate interactions between awareness and intentional, cognitive control circuits. VM: ventromedial; DL: dorsolateral; NA: nucleus accumbens; VA: ventral anterior; LP: lateral posterior; MD: mediodorsal; LDM: lateral dorsomedial; V: ventral; A: amygdala.

Reciprocal connections are outlined among the perigenual anterior cingulate cortex (pACC), subgenual ACC (sgACC), orbitofrontal cortex (OFC), dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC), insula, amygdala (A), and hypothalamus (H). Parallel ACC, dlPFC and OFC prefrontal-subcortical pathways (not shown) also require more exploration in the context of studies probing affective regulation in patients with functional neurological disorder (FND).

Conclusione

Il caso clinico di Anna O. in cui il metodo catartico fu applicato efficacemente nel trattamento delle sindromi da conversione, oltre al valore storico offre una descrizione fenomenologica di formidabile ricchezza e che puo’ servire come substratto per testare delle ipotesi di studi utilizzando metodi attuali di neuroimaging.

Una parte che ancora manca e’ la comprensione dei meccanismi neurobiologici che governano questo disturbo e rimane anche da chiarire il meccanismo d’ azione del trattamento psicoterapeutico.

Un’ approccio di ricerca come quello adottato in questo studio e che ha come scopo la identificazione dei neurocircuiti che stano alla base di sintomi specifici nei disturbi neurologici funzionali (FND) potrebbe condurre verso una più precisa definizione dell’ endofenotipo (biomarker) della sindrome da conversione e di conseguenza creare il ponte necessario tra il fenotipo comportamentale ed il genotipo di FND.

 

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Systems biology/neurocircuitry acts as an interface between the behavior/environment and genome/epigenome.

 

 

L’Aprile di Francesca Serragnoli

di Andrea Galgano 3 ottobre 2016

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sul sito di Lietocolle editore: Andrea Galgano su Francesca Serragnoli

1014458_10201533419246323_856356504_nLa nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta, apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro, tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Nel ricordo di Marina Sangiorgi, ora in braccia più salde di quelle terrene e ricordata nell’eterna linea leopardiana («amava l’aria dolce, la vanità del volare / e nidi piccoli, letti lunghi stretti / Bisogna ridere al barelliere che ti porta in fondo? / salutare con la mano / guardate solo il volto / il mondo è un attimo»), la poesia si raffronta al dolore, della mancanza e del cielo-fiato quando fiorisce un tremito e avviene l’inizio di un ricamo infinito:

«Spegneva Dio con due dita / il lumicino brevissimo. / La morte diventava arietta, / corsa di fiato / alito di vento sul volto / immobile della statua / inclinata sul fondale / che sente le braccia sgretolarsi / il muschio in bocca / sul capo ammucchiarsi le foglie. / Ti rivedrò un giorno? / Ti poseranno vicino / ricorderai d’avermi conosciuto / sull’orlo dell’acqua / fiorisce un tremito / l’inizio di un ricamo infinito. / L’eterno dondolare delle madri / muove le onde».

Il suo gesto poetico possiede sempre una profonda imprendibilità, ma è l’abissale profondità di chi smuove il fondale e l’abisso per rinascere sempre ad ogni istante, per proclamare la ricerca di una vita nella vita, per lasciare al sangue il clamore di un’occhiata, «i grani sciolti di un amore» e «il bianco lino nel volto trasparente / commuoverà solo il vento».

È sempre una forza nuda la dolenza della nostra sacralità, l’altare di pietra fredda dove sanguinano le ginocchia e il dolore sgretola ogni risata in un pugno di terra: «Questo dolore sgretola / ogni risata in un pugno di terra / la neve diventa gelo, trasparenza odiosa / gli abbracci sembravano radici d’uva / cadono come fili legati a un tronco morto / e quel pianto che ci lega le mani / schiena contro schiena / non è un’aquila crudele / che ha nidificato nei nostri sguardi».

Anche nel barlume buio, nella sfioritura non frenata, negli «istanti pietrificati» che «hanno in cima corone di neve» e dove tutto sembra sventrato, arriva un varco, una crepa, un buco in cui risplende la felice tessitura dell’essere: «Dentro questo vietnam girato a spalla / lascio all’abatjour indicare / un fioco pallore di luna / attendere bambina piegata sul prato / i grilli uscire dal buco del cuore».

Le altissime manifestazioni della realtà (il sorriso che ti morde le gambe, il tempo che è un cane perfetto, la primavera tagliata da ottobre «come il contadino il fieno») toccano il tempo della ferita, colorata e fiorita come una partenza: «lì c’è tua madre le avrei detto / scuce e ricuce la tua partenza / come un ferita colorata / ha messo del late / dentro un vecchio bicchiere / appoggiato alla finestra / la vedi agitare le mani / come facesse trecce alla pioggia». È in essa, nel limite buio arroccato che attraversa gli scuri che avvampa l’ultimo frammento di luce ridestata: «Laggiù la ferita è un fiore / le pareti fra noi cadono come petali / distratti da una manata di vento / il volto di cartone si piega come un vecchio amore / e ricomincia a stringere con i pugni l’aria».

Il suo posto delle fragole non è solo la sospensione ma anche il «lasciarsi leccare / un attimo dal mondo», nel viaggio breve contro il cielo, nella tersità della risata dove vivere, fino alla precisione blu dello splendore, alla faglia fra la madre e il buio, quando il canto profumato dell’aria è stretta negli anni. Essi sono brevi distanze, murati vivi, rimangono attorno alla prima casa e non sanno separarsi, sdraiati nella brezza dove il dolore, antico e colato, rimane «con granelle di cibo» per essere «un asilo / l’altalena dove spingersi nell’aria del petto / era mio, svolazzava, faceva i segni del vento / mi passava fra le mani come un anello».

Non è solo la poesia degli attimi aperti, ricuciti, sfibrati o liberati dalla letizia di una dismisura dell’anima a condensare le sue linee, è l’ora che non pesa, l’ora felice dove i cieli sono bellissimi e l’appartenenza è al fuoco che non muore, unico e peculiare:

«Nei giorni c’erano cieli bellissimi / tutti col piede appoggiato al muretto / varcavano confini, volavano schiaffi / uno sputo alla pioggia / l’esser soli di baci ne riceve tanti / ci vuole quella stranezza che girava / fra i tavoli di una discoteca / quel venire dentro le maniche / che solo il freddo conosce il brivido / ci vuole un cielo solo tuo / un cielo peso sulla spalla / con i suoi cementi, le pozze piccole / quel tramonto di gamba / grossa che gira con la palla intorno al sole / ci vuole quel briciolo di fuoco tuo / che chiede solo di cadere / come una cantilena nell’oscurità / e le calze il vento le lascia / per qualche minuto / dondolare vuote».

Pertanto, il suo allarme originario è primordiale, riflette il declino e la letizia emergente delle immagini, come «una gioia che gioca l’asso / fra me e l’universo», la fronte sudata della terra o il cielo travolto dall’addio.

Forse declino meraviglioso, forse specchio argentato o forse ancora felicità limata nel petto che custodisce i semi dell’eterno («osservavo il blu / lasciavo morire il movimento / e quelle luci i bottoni / aperti nel petto oscuro / toccavo quei muri / come un volto d’uomo / dalla rapida luce che si sdraia / nella notte, adesso. / E nessuno spegnerà il declino meraviglioso»):

«Le tue notti sdraiate nei deserti / sono occhi grandi, neri, caldi / hai mani che cercano nel vento / il ventre di una donna, / con il dito sollevi l’aria / per vedere la fronte sudata della terra / capelli lunghi come la notte appena trascorsa / un soffio muove la barca / fra l’imbrunire e il volto d’acqua / l’avvenire dondola nel blu / vibra una figura che scende / laggiù e non si volta / nemmeno per morire. / Non sai più dove la notte / vende ai fari i suoi specchi argentati. / L’acqua riflette un cielo travolto dall’addio».

L’alfabeto di Francesca Serragnoli, allora, è un tempio che custodisce l’alacre bellezza delle notti in piena con le sue ore brevi e la sua mezzanotte oltre il tavolo, cadenza l’infuocato ritmo e il respiro che «è una bandiera / bianca davanti a Dio», il silenzio del voler essere felici, il mezzogiorno delle tapparelle mentre si spinge fino alla sera delle stelle che «a testa bassa fanno la maglia», intrecciando il vivere e il morire, e nell’onda d’acqua «il gioco delle tue labbra spostava / la luna e la polvere / chiamavano l’onda per nome / chiamavamo quell’acqua, quel foulard / volevamo toccare la domenica, quel costato / come ragni del Signore, iniziare lì».

Nulla rimane fuori da questa pienezza di finitudine protesa, nulla che dopo l’eterno sfogliare dei giorni non cerchi il ricordo custodito, gli addii pestati, gli specchi del mare oltre l’aria inginocchiata e fedele, e gli anelli rovesciati come fiato:

«Non riuscivo a dire nulla d’immortale / accarezzavo moltissimi dei tuoi nomi / ero quella sulla scala mobile / che incrociavi senza morire. / Non te lo so spiegare, dicevi / ma la rosa è meglio di te / è rossa, e quel rosso tu non ce l’hai. / Hai la fuga e il piede nella pietra / non hai nemmeno l’azzurro fra punta e punta. / È come se avessi gettato / gli anelli in mare, / rovesciato il fiato come cenere».

La vita che si svolge promana e promette il suo canto disteso di dettagli dove il cuore prende fuoco nel grido agli angeli, e l’amore è promesso e lasciato, incrociato e disegnato, felice nell’aria scelta dove l’anima scivola la notte, nei codici segreti delle vendemmie: «Hai il cuore cadente dal petto / non lo sai tenere, spinge / conosco il movimento / la confusione delle due / i pulsanti, i codici segreti / il tuo cuore ha risate e sassi / sputa, non è dipinto / l’aria dolce ti cerchia il viso / come un nastro. / Stacco cose dal tuo esistere / è una vendemmia, eppure / c’è un che di aspro, di sbiadito, di invenduto / la notte, furiosa statua / cerca con le braccia di afferrarlo».

Ci sono emblemi tersi e violentissimi che muovono le sue figure nell’aria selvaggia, il canto e la domanda al cielo che è punto di fuga e di conquista, senza travestimenti. Poesia nuda che chiede nudità alle cose, le mendica, le curva pronunciandole e, infine, fa fiorire le parole in segreto dove qualcosa rimane nella polvere e non muore mai, come un nido, un incontro o un ricovero di pronunciamenti per «sentire il sole sulla testa / un cavallo che pesta l’erba / dove i pensieri miei e suoi / si annusano come animali»:

«Percorre un ripido scendere / degli occhi nel basso lei / che ha avuto voli in giovinezza / stretti in mani morte / curva sui suoi anni avverte / nello stare insieme qui / gioielli d’harem e risale / vedo nell’asfalto riflessa / paura di gioire / ma l’ossatura precisa, cadente / non morirà in quei fanali / non finirà la vita / fiorisce in lei la parola dolce / mai pronunciata, di un possibile amore».

Altra vita nella vita, voglia di vivere come musica che divide in due la riga fra i capelli e porta via, fino allo splendido sacrificio di un frantumato amore di grano e impasto di luce e terra, corpi e aria, come lo sfarzo ripido dove scivolano baci e carezze e dove «il duro grigio occhio interrato / cerca nella radura in fondo una margherita / su di lei appoggia la testa / e sogna il fresco domani»: «Mi porti là dove non sono mai stata / i piedi piatti sopra il ruvido della luna / come vecchie parrucchiere alla ricerca / di teste dove mettere i canditi. / Oh gioia che rifai con me il giro intorno al vicolo / mi porti come un cane / lasciami diventare / quel frantumato amore del grano che si lascia morire».

E allora l’incerta gloria di un giorno d’aprile, nei testi nati fra il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e l’Ospedale di Imola, si avverte tutta la bellezza e la povertà lucente dell’essere vivi, tutto l’abbandono, la grazia dell’eternità figlia dei matti e il posto delle fragole.

Questi ritratti affermano, si posano nel mosaico senza fine di un tempo infinito, dilatato e sofferto, dove ogni crepa dell’essere, ogni limite sono occhiate splendenti al di là dell’orizzonte dell’esistenza delle parole necessarie: ­­­­«Gabriella! alza quel nero vivo uccello notturno / che raspa fra le mani strette, alzalo / che riposi fra le tempie della notte / mentre ti guardo con il volto di vetro soffiato / e le stesse vecchie dure lacrime / sono i miei occhi azzurri».

Come la povere frantumata del futuro immobile che «una donna col carrello tira via dagli angoli / pietra di pianeta, eternità morta / un buco nero sembra dal nero nuovo, / pestato con orme di ciabatta / dove la roccia è girata e rida al cielo / e il pianto ha mille piedi / che vanno e vengono dalla sua ombra», poi Rita appesa a un chiodo d’aria e i suoi occhi divorati dalla luce come una farfalla notturna, la siepe oltre il buio dell’Ingresso Nuove Patologie che attraversa l’immensità e tocca la fine, il tramonto ritornato in viso del reparto geriatria Lunardelli. Un accenno e un sigillo encore: «Ho incontrato due soldati al ventiquattro / quelli partiti per la guerra / i baffetti appena accennati / li ho visti ora che il confine è un altro / le bandiere sono alte immobili bellissime / discutevamo, ma uno è uno / uno è sempre lui, quello che era / non importano gli anni / e non hai il coraggio di dire / tu devi morire, manca poco / ti spareranno dalle piccole e frantumate isole / metteranno i sigilli, chiuderanno la porta / ricorderanno che avevi vissuto / non ce la fai a non guardare tutto come eterno».

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, Euro 13.

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Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini