Le rifrazioni di Elio Pecora

di Andrea Galgano 22 marzo 2018

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Il nuovo lavoro di Elio Pecora (1936), Rifrazioni[1], appena edito da Mondadori, restituisce  un assorbimento originario e uno stupore frammentato di splendore che afferma la cristallinità umbratile e lucida di un movimento di memoria, adesione al presente, scena cromatica.

Attraverso i lembi dell’essere, è nell’ombra[2] che si situa la parola incrunata, l’attesa azzardata, l’esplosione di colori nudi, la voce che ansima, come l’istante racchiuso nelle palpebre chiuse, nella lampada accesa fino all’alba, nella corrispondenza dei nomi.

L’esergo che apre il testo è del grande poeta esule Josif Brodskij. Un debito, un’apertura, una fessura riflessa: «Che funzione abbia la poesia davvero non lo so. È semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono».

Questo passaggio è lo sbocco che intitola un gesto di origine, nato nel reale e nel reale custodito. Attraverso la densità profonda, Pecora attinge il repertorio luminoso dell’attesa, del silenzio incontaminato e dell’ultimità munifica dell’essere: «E tutto sarebbe perduto se dal cuore chiuso / non affiorasse inattesa una nube violetta, / l’odore di un cibo, una voce al telefono, / il libro lasciato sul tavolo ancora da leggere. / Così il mondo intero si popola di storie concluse, / di passaggi, di soste, e un dio munifico / disegna nel cielo vasto e chiaro un arcobaleno».

Vediamo la pienezza dei brandelli, occhi, passi, vigilanze, abbandoni invigilati, ombre scalzate dalla memoria, vicinanze interrotte: queste sono le rifrazioni, le incidenze, le deviazioni luminose di una grazia screpolata. L’ombra tesse la sua diacronia, il suo silenzio, l’attimo aggrappato alla necessaria incorporazione della bellezza:

«Dice che se un quarto è soltanto luce / e la verità iniziale, se ce n’è una, va cercata / nel buio: che poi è il niente non più niente… / Dice che se così poco ha finora compreso / e in quel poco nemmeno può più giovarsi del nulla… / Dice, e insiste a dire, che sente di galleggiare / in uno spazio intoccato e pure continua / ad avere fame e sete e non desiste la paura / del soffrire. E ancora s’innamora di un fiore, / del profilo minuto dell’adolescente / che gli siede a fianco nell’autobus affollato, / e ancora guarda estatico la luna sui giardini, / lo inebria la pioggia scrosciante sui tigli. / Dice che il vuoto, il niente, il buio / – quelli sui quali vanno indagando nello sprofondo / e da minaccia sono divenuti un’immensa promessa – / sa di portarseli dentro, cosmi e particole, / e di esserne traversato e abitato / mentre li abita e li traversa».

La consegna relazionale delle immagini addensa una complementarità contrastante. L’intima relazione tra luce ed ombra costituisce il senso, il conflitto, il contrasto intenso, il lato origliato di splendore, come il solco di una terra scura che ritorna al lampo della sua origine, che annaspa nel fango occhieggiando le stelle: «Dove sono finiti i giorni, le ore, / quando, chiuso in un solco di terra scura, / attese parole, sillabe, giri di frase / che finalmente significassero / la consegna inspiegabilmente promessa? / È smisurato il silenzio che succede al rumore, / è il niente, il vuoto privo di voci di echi, / e, se prima è la paura e l’orrore, dopo / è l’incognita di una nuova salute».

L’osservazione di Pecora, dunque, prepara al viaggio nell’ombra, al fondo del rumore, al colloquio dell’arsi della parola che fa vedere scorci minimi e zone finissime che scandagliano, proteggono, assillano l’anima dolorosa e splendente delle cose, la manifestazione del tempo, la soglia tattile degli antri come degli accordi emersi, come da un’eternità immisurabile o un’attitudine di meraviglia:

«Sa che se molto accade nella sua mente / – un gioco misto a paura, idee a cento watt / e infervorati scandagli – molto, ma molto di più / accade di fuori, in quel che chiama mondo / ed è un immenso rimescolio di crescite, / sparizioni, feste, ruberie, delitti, progetti, prospetti, / rovine e tanto altro. E sopra e intorno / e sotto cieli ruotanti, vuoti da perlustrare, / spaventose minacce, strepitose promesse. / E lui qui, vestito del suo poco, rinchiuso / nei suoi sonni che sognano. È questo / il tempo in cui passa, l’ora in cui sosta […]».

Adriano Napoli afferma:

«Poesia è osservare il tempo nell’assenza di ciò che continuiamo a vedere: nella memoria, nel nome che ci chiama da una distanza, nelle ore perdute, colme di redenzione. Guardare il tempo è in fondo una metamorfosi. Per questo l’immagine del giardino che ci accoglie fin dalla soglia di questo libro screziato di colori e umori, persuadendoci con sensazioni tattili (quasi una fisica della percezione, antidoto alle astrazioni incolori dell’impoetico modernariato attuale), ci appare come l’emblema materico di una realtà che si avvera tutt’intorno nel suo incessante fluire, nell’attimo del suo trascorrere che è al contempo forma, manifestazione – l’unica possibile – dell’Eterno. Il giardino è l’angolo in sé conchiuso, non dissimile dalla coscienza umana, da cui guardiamo immobili (con Pitagora e con Proust; con Ovidio e Bergson) la forma esatta ed effimera delle cose trascorrere, rifrangendosi, in un altrove. E la poesia stessa, altro non è che questo incanto, tenero e malinconico, di sentire il tempo, da un angolo silente e ombroso («quel che chiamiamo Sublime / sta nell’ombra»), da un’ansa della coscienza esposta ad esso, fino a percepirne (come ci ricorda in un bellissimo saggio Pietro Citati) la liquidità».[3]

Attraverso la proiezione, la ricognizione, la scissione e l’identificazione, il gesto del magma poetico frequenta ogni volto o parola che si immerga nel reale e ne viene toccato: dal dolore, dalla morte, dall’assenza, dalla allegria del respiro, dal buio dello specchio e dalle chiamate delle vicinanze.

La poesia ricerca i frammenti per rinnovarli e avvertire il segno del mondo, la sua crittografia e la sua contrazione. Ma il mondo del poeta non è un cosmo di frantumi, poichè lo sguardo pienamente umano vigila la densità dell’istante, per vivere la compiutezza intera di ogni tensione, come pagina leggera in un pugno o specchio accordato di lunghezze epifaniche.

L’oralità trepida sfiora l’inattendibilità di ogni richiamo e abisso, come urgenza, innanzitutto, e poi come confronto instancabile con l’esistenza e la poliedrica nudità di ogni forma («Al crepuscolo la luce è uniforme, / ogni cosa si mostra nella sua nudità. / Ma che resta all’uomo del suo crepuscolo: / che del suo entrare nella vita, / che del suo uscire nella morte?»): «L’ora è ferma e lucente, un pigolio / si spande fra i castagni e gli ulivi; / al desiderio basta il desiderio / di una felicità solo sfiorata».

La sparizione delle cose, innervate nel loro limite buio e luminoso, confrontate nel passato perduto e nelle soglie dei ritorni, non è, quindi, un enigma rovesciato, o una annichilente rapsodia inconsistente, è pausa del tempo, che, nella poesia, trova il suo ritmo di lingua e di relazione e di appartenenza. In definitiva, la sua luce ultima e verbale riconosce e mostra tutto il suo vigore stremato che non si nasconde, bensì si offre, porge il suo ordinario mistero del vivente che risillaba ogni speranza, nonostante l’ora precipiti, mentre corre un altro tempo in questo tempo («è l’ansa dove il sogno della mente / non conosce durata, / la parola che tenta se stessa / esatta, svelata»):

«V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora / ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia / nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme / di cani affamati si presentano i pensieri più cupi, / le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda. / Del passato non resta nemmeno una stilla di bene, / non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte: / cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo / se riesci a trovare la forza di accendere la lampada, / di tornare alla pagina del libro lasciato prima / che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai / a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte / socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)».

È il tempo della scrittura arresa, il sogno vivo e riflesso, come se tutto possa essere placato, i segni smisurati, l’attesa amante che ritorna, il pianto che punge gli occhi, le torme e il grido che scorge l’abisso chiaroscurale e i cumuli delle ombre e «sa che da questi verrà un frutto, un fiore, / una foglia minuscola. Sa pure / che la parola non è più di un cenno, un avvio / per un altrove nemmeno ancora intravisto».

C’è nella poesia di Pecora questa tensione sorgiva per la parola emersa, non sottratta e rifratta, appunto, nelle categorie dell’anima, che rimandano a una appartenenza unica e, a volte, infeltrita dal rumore taciturno ed esploso che strappa, incaglia, arreca discordanza.

Come se essa dovesse risalire dalla nostalgia, dalla memoria confusa, dal bagliore dentro l’addio, e dal legame di conquista e perdita, si fa giardino concluso che non nutre disfacimenti e oblio nella sua luce striata di ombre.

Come una testarda voglia di restare attraversa l’amore, il vento tenue della gioia e le incrinature dei sogni:

«È solo un recinto il giardino / di verdi che svariano, / e i bianchi e gli azzurri degli ibischi, / il rosso tenero dei lillà, / le dalie gialle e amaranto… / E un tempo senza ore, / una luce striata di ombre. / Solo un recinto il giardino / dove il cuore e la mente si alleano / in una chiusa dimenticanza. / Qui è intero lo stare, / un punto di tutto, / la grana taciuta di una voce / che non si conosce».

Nella dimensione onirica, poi, tutta la lava delle impressioni e delle percezioni, così come il fiato delle parole slegate e delle veglie, tornano in un cenno di spazi, in una figuratività sconosciuta o forse confusa, ma sempre generativa nei suoi luoghi anteriori (come il testo dedicato a Roberto Deidier) e nei crepuscoli venati.

La scena del testo riporta ancora l’affresco dell’ombra. Ne Lo spessore dell’ombra, sezione decisiva e importante del libro, dove gli addii agli amici divengono la dimora della parte oscura. Amano frequentare l’Ombra ma allo stesso tempo riemergono in un incontro vivo. Essi «svariano nel giardino d’estate», si mostrano nella sospensione e nella luce che declina.

Tornano vivi in un assedio, avanzano come sommessi nel loro passo e nel loro respiro, come sponde di sogno o scaglie lacerate, «un’ansa, uno specchio nel tempo immisurabile», perché l’aria è piena di anime in una città senza nome: il padre Arsenio, andato per mare, la madre Elena («le labbra carminio, il bracciale di perle e smalto, / il sorriso trattenuto di chi ha vinto») e la sorella di lei Maddalena, il fratello Osvaldo, raccolto nella stupefazione o le care figure, attinte nella dimensione familiare e della sua terra, gli amici poeti Luciano Erba, che tra le ombre parla incagliando e ride del suo nome lucente, e Dario Bellezza («Non fu facile soprattutto / per quel suo dio truce e vendicativo / che minacciava gli inferni al fanciullo / incantato dalle parole e invaghito / da un bene colmo, eccessivo»).

E poi ancora Elsa Morante, «la manichea dagli occhi di agata / l’aspra dispensatrice di sentenze, / l’amica tenera che poteva mutarsi / nella più spietata nemica, / e nemmeno la padrona irridente / la serva che storpiava i cognomi / del manipolo curvo dei fedeli», Aldo Palazzeschi in una danza chiara di parole, Amelia Rosselli nella sua musica incomparabile di incagli, cieli segreti e farfuglii, Elsa de Giorgi, Alberto Moravia nella sua energia raggrumata, Juan Rodolfo Wilcock, Francesca Sanvitale e infine il pianto interrotto di Sandro Penna che splende nell’allegria dell’essere.

Nell’interno della sua estensione poetica, il recinto diviene sia la forma di un riconoscimento dettagliato e sia una appropriazione di alito disparso. L’appropriazione è una custodia e una sottrazione, uno svolgimento di ferite che cerca un nuovo gemito di sicurezza e un atto smisurato verso la totalità, nella strenua ricerca di un approdo oltre il vuoto, la domanda dischiusa, il labirinto dei suoi mostri e il suo lutto:

«Qui conoscemmo l’amore e le sue disfatte, / amico che torni a chiamarmi, è quieta la voce, / da chi sa quali distanze, e ancora domanda / se il bene fu rimanere nel cerchio che stringe, / se il canto fu solo un motivo fiacco, stonato. / Pure la sola durata è in questa luce scarna / che al dolore resiste, anche dove più fortemente / colpisce e infetta (meno grave la resa), / invece prosegui incontro a un altro mattino, / ancora aprile, ancora un febbraio di vento: / una fatica e un’ebbrezza fin dentro la norma / di questo restare, fin dentro il lutto e l’assenza. / Prima il teatro sublime del tramonto viola / – geometrie di continuo composte e scancellate / ora con strida infernali l’inarrestabile orda / di storni va occupando ogni ramo, ogni foglia: / i platani hanno radici che spaccano l’asfalto».

Ecco la genesi della sua architettura, della sua resistenza e della sua preghiera. L’osservazione del mondo è la rifrazione. Aspettare che le cose si rivelano e si disseminino, quando la luna falcata sui terrazzi porterà l’esagerata destinazione del desiderio e del supremo registro dell’anima. Tutta la vastità della vita, nella meta dei dettagli e nei processi di conoscenza, si situa in questa urgenza che lega passato e presente:

«C’è un momento la notte, / subito avanti l’alba, / quando, spente le luci, / ogni forma dispare: / è la città che sogna / il suo sogno iniziale, / l’aratro traccia il solco / della rifondazione: / gli storni fra le nubi / disegnano promesse, / boschi dovunque e selve, / tutto è da cominciare. / È un momento. L’aurora / dei centomila watt / risolleva il sipario / sull’immenso teatro. / Lo spettacolo ha inizio, / va crescendo il rumore, / una folla in cammino / si trova, si disperde».

La tessitura di questa poesia si compone di tracce vissute e di materia viva che diviene, a sua volta, densità lessicale, fisicità di nomi, metafora chiara. Non c’è esibizione di nomi, bensì piuttosto un canto assimilato alla vita e alla morte, come un territorio che ritrae la testimonianza di un canto accostato al mondo, in attesa di una parola che strappi un sì, che non si mutili, e che si pronunci in modo chiaro e definitivo.

[1] Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

[2] Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

[3] Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018, pp. 147, Euro 18.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

ATENA: L’intelligenza del cuore e la forza del carattere

di Irene Battaglini 11 marzo 2018

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Il contributo appoggia uno sguardo “al femminile” sulla donna Atena nel mito di Atena, come ad esempio il sapersi muoversi all’interno di uno spazio relazionale che oscilla tra la Necessità (Ananke) di individuare un modo di essere-nel-mondo e la Creatività che si esprime nel dono e nel gesto di una sapienza industriosa (da cui l’attributo ergane), attraverso una vera e propria rinuncia al potere sessualizzato, e che appare come una chiamata mistica e contemplativa sublimata nell’arte della strategia militare, attraverso l’adozione di un sofisticato assetto difensivo e valoriale. (L’articolo è il primo di una serie di lavori dedicati al “femminile” intrapsichico e relazionale, nelle sue infinite declinazioni, in pubblicazione nel 2019 sotto forma di saggio).

Questa intelligenza dell’immaginazione risiede nel cuore: l’espressione «intelligenza del cuore» connota l’atto di conoscere e amare simultaneamente per mezzo dell’atto immaginativo. Se tale filosofia è un evento del cuore, gli eventi del cuore possono essere concepiti come eventi filosofici. Il lavoro del cuore è pensiero immaginativo, anche quando si presenta sotto le vesti di filosofie che sembrano senza immagini e senza cuore.

J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore

Il mondo della pluralità degli dei elimina il dualismo perché espande se stesso in un universo di pluralità.

Panella, S. Zanobetti, Pierre Klossowski. Ritualità e mitologia. Tra verità del simulacro e realtà del mito

Atena è in Omero personaggio “vivo”, vicino all’uomo e alla donna della polis, e per questo oggetto di molte attribuzioni a carico della sua personalità, dovute alle storie e alle gesta di cui è stata protagonista nell’epoca che precede l’imposizione monoteistica giudaico-cristiana; per parlare del suo mito in termini di “psicologia dinamica”, occorre rifarsi necessariamente alla storia del personaggio, ai fatti più o meno veritieri che sostanziano la sua, per così dire, anamnesi. Qui ci apprestiamo, quindi, a rileggere la storia di Atena con il suo modo soggettivo di essere nel mondo, un mondo, connotato dal potere del Dio che è anche il padre Zeus, nel quale la giovane dea solare non ha potuto sviluppare un tempo in cui non c’è il tempo, il tempo della gratuità dell’amore parentale, il tempo eterno del Puer. Nonostante il connotato di eternità, la Dea sviluppa secondo la visione della psicologia archetipica di Jung e Neumann – che ben si coniuga con un’antropologia classica antecedente ai lavori di Gimbutas – e con la psicologia di un mondo in cui la Dea, sia per ragioni di stato sia di economia mitografica, è tenuta a servire il potere quanto a servirsene.

La storia del mito di Atena si inscrive da millenni nella psiche dell’uomo e della donna del Mediterraneo e delle terre che vi si affacciano, tracciando un solco filogenetico che unisce Medio Oriente, Magna Grecia, popolazioni italiche, e invasori indoeuropei. Culture che intrecciandosi hanno sviluppato un mito metastorico in parte rimosso, poiché, se è vero che Atena appartiene ad un potente e virulento ordine titanico, è altrettanto vero che “rappresenta” (in ordine a un concetto di rappresentazione che non appartiene alla capacità rappresentazionale, ma alla sintesi dei contenuti simbolici e semantici che siamo soliti attribuire ad un’icona) le qualità intellettuali, sia dell’uomo sia della donna (infatti la Dea era la protettrice delle arti femminili), unite a quelle di guerriera saggia. Una stratega, diremmo oggi, sotto le cui vesti si nasconde la forza, ma dal cui cuore scaturisce il dono estetico. Atena era chiamata a prendere decisioni in un mondo di uomini, che vi si affidavano perché custodisse i tribunali. Dunque dea della giustizia, o della conservazione del potere istituzionale, affinché non fosse preda degli istinti di sopraffazione di piccoli gruppi? Tuttavia Atena diventa dea della “saggezza” anche per non disperdere i doni ricevuti dalla madre Metis, la Prudenza.[1]

Anche se alcuni studiosi hanno visto in Atena una personificazione della pioggia, sembra più probabile che fosse in origine associata alle tempesta e che fosse la divinità dei fulmini, a cui è possibile ascrivere l’origine e la funzione dell’egida, il suo attributo classico, e il suo epiteto come “Dea dagli occhi brillanti.  È venerata tra le grandi divinità nella sua qualità di dea-guerriero, come dea delle arti, della pace e come dea dall’ intelligenza prudente.

Il “carattere” della Dea va collegato all’idealizzazione delle donne di Sparta di condizione sociale elevata: dovevano essere atletiche, combattive, forti e sagge. La Dea è nata dalla testa del padre Zeus, è quindi “tutta del padre”, con un carattere bellicoso, al punto da saper maneggiare la folgore di Zeus, con la quale uccide Aiace Oileo. Tuttavia, per contrasto, il culto femminile di Atena è attestato in Grecia e Magna Grecia dai numerosi ex voto ritrovati presso i templi; la dea viene anche invocata come protettrice delle nascite e dei bambini, in collegamento con il mito di Erittonio, suo figlio adottivo. Ad Atene, nella processione annuale delle feste Panatenaiche veniva donato alla statua della dea un prezioso peplo tessuto dalle fanciulle della città.[2]

Possiamo dire senza tema di errore che la Dea racchiude in sé qualità contraddittorie, che hanno una probabile scaturigine nel conflitto psichico della sua personalità di fanciulla privata delle cure materne, il cui sviluppo viene affidato al logos, alla dimensione Apollinea del divino, non senza far ricorso ad una aggressività che se da una parte le permette di “sopravvivere” in un olimpo di Dei “maschili”, dall’altra le impone la scelta di restare vergine, ovvero di non essere fecondabile da un maschile diverso da quello endo- gamicamente recepito dal padre. Lo stesso Erittonio,[3] figlio adottivo, è frutto di un’unione spuria di Atena con il fratellastro Efesto,[4] lo stesso Dio che le permise di nascere “spaccando” la testa dolorante al padre. Efesto è un Dio reietto, brutto e storpio, rifiutato dalla madre Era, ma dotato di competenze tecniche ineguagliabili. Ne consegue che se volessimo dare una interpretazione sommaria di queste dinamiche delle relazioni familiari, potremmo dire che Efesto e Atena rappresentano una coppia di orfani – precocemente parentificati – che al pari di Hansel e Gretel colludono nel rimanere invischiati all’interno di una famiglia dominata da genitori autoritari – o abbandonici – e sadici e che, sebbene apparentemente “allargata”, è scarsamente empatica con la prole, che viene asservita a soddisfare i bisogni narcisistici del genitore.

Questo naturalmente consente al mito di rinforzarsi intorno ai nuclei centrali patognomonici,[5] poiché sappiamo che l’integrazione delle parti scisse della personalità implicherebbe una “normalizzazione” che ne indebolirebbe la capacità simbolica e nello stesso tempo ne vanificherebbe la funzione scenica, rappresentazionale. La psicopatologia dell’archetipo, che sembra intagliata intorno a criteri classificatori a se stanti che definiscono lo psichismo specifico del Dio e gli conferiscono qualità immaginativa, consente quella messa in atto della teoria esplicativa di una visione del mondo utile all’uomo della polis per orientarsi, per cercare risposte, per apprendere un nuovo comportamento. Il Dio privo di difetti e di tratti psicopatologici muore, come sostiene Hillman in un lavoro del 1974, La vana fuga dagli dei, in cui è presente una corposa trattazione del rapporto tra Atena e Ananke, la Necessità, generatrice delle Moire, deputate a intessere il filo del fato di ogni uomo intricato a quello della sua condizione iniziale, descrivendo una traiettoria di ineluttabilità, frammista a morte, violenza, oscurità. Una qualità, la necessità, prettamente umana, che rende assai difficile l’idealizzazione trascendente del Dio, che è invece una qualità che acquisirà soltanto con l’avvento giudaico-cristiano. Emerge, quasi a fare il verso alla nuova criminologia, la Triade Oscura, connotata dai tre grandi tratti psicologici del male. La triade oscura delle personalità è un gruppo costituito da tre tratti comportamentali: narcisismo, machiavellismo, e psicopatia, tre strutture correlate ma indipendenti tra di loro, differenti l’una dall’altra e che a volte condividono elementi con altri tratti psicologici.[6] Nulla di più simile e più vicino alle tre figlie di Ananke, nulla di più intrecciato intorno ad Atena a costellarne l’Ombra.

Atena, il cui Io dotato di splendore regale, apollineo e portatore di Logos deve fare i conti con il male “estromesso”, sperimenta il rischio di uno stato limite che non viene mai raggiunto. Se André Green sostiene che nello stato limite il male è funzionale alla coesione narcisistica,[7] con Atena siamo in un funzionamento di alto livello, una forma specifica di psicopatologia su cui Kernberg ha lavorato con Eva Caligor e John Clarkin, definendola “lieve disturbo della personalità”, ovvero di una vita psicologica organizzata intorno a modelli relazionali interiorizzati, indicati con il termine relazioni oggettuali. È illuminante Maria Campolo[8]:

La differenza fra dei e uomini si coglie innanzi tutto in rapporto alla necessità. […] Era destino che da Meti dovessero nascere due figli estremamente saggi: Atena, la fanciulla simile al padre per coraggio e saggezza ed Efesto, il fanciullo “prepotente” capace di soppiantare Zeus nel ruolo di sovrano […]. La fanciulla dagli occhi di gufo fece tremare l’Olimpo appena fu nata e il mare si gonfiò tanto da formare onde rosse e tanto fu lo splendore, anche se terrifico, dell’evento, che Zeus, quando la vide, non poté fare a meno di rallegrarsene. Atena, la vergine guerriera, occupò, da Omero in poi, il secondo posto accanto al padre. Il suo occhio è capace di scorgere da lontano l’imprevedibile per poterlo far rientrare nelle leggi formulate. E’ ad Atena che l’uomo deve l’arte della scienza, della matematica, della logica, dove, come suggerisce Aristotele, “una conclusione non può essere altrimenti” perché discende necessariamente dalle premesse dei processi deduttivi. Nell’universo di Atena, a cui si conferisce lo strumento della ragione, non entra tutto ciò che è emotività, istinto, e quant’altro possa disturbare la calma cristallina che richiede la lucidità intellettuale.

Non può concederselo, presa com’è a fornire strumenti per il bene di tutta la polis. Nella mitologia greca vi sono entità che sono al di sopra degli dei stessi; una, ad esempio, è Ananke (la Necessità) che, pur prendendo a seconda dei casi vari nomi, non viene mai rappresentata.

Arduo stabilire di quali meccanismi di difesa non si avvalesse la Dea, dal momento che ella eccelleva sia nella difesa sia nell’attacco. Sicuramente sapeva come difendere il mondo dai terribili movimenti di morte imposti dagli Dei votati all’oscurità e alla morte; delegava agli eroi mondani la sua magistrale arte della guerra, fornendo loro le armi per combattere, per contrattaccare il potere distruttivo, con la forza di carattere che si addice soltanto a chi ha saputo far fronte alle proprie “carenze” potenziando al massimo le risorse disponibili.

Certamente il suo Io dovette fare i conti con il grande vuoto lasciato dall’assenza di una madre, per cui possiamo affermare che a qualche livello abbiamo a che fare con la formazione reattiva, che è a sua volta frutto secondario del più arcaico meccanismo della rimozione.

Anche l’idealizzazione è un meccanismo di difesa che potrebbe essere stato adottato dalla Dea nella determinazione di una nevrosi del carattere, maturata per far fronte ad un trauma che avrebbe portato ad una grave condizione depressiva.

Immaginiamo una bambina che non riceve offerte di cibo e amore dalla madre, e alla quale viene chiesto di “diventare grande” prima del tempo, di occuparsi di sé e di altri in un processo di parentificazione precoce, che nel caso di Atena induce una rinuncia solamente biologica, acquisendo la Dea una connotazione fortemente produttiva, addirittura biofila, poiché in forza dell’adozione di Erittonio, Atena è anche considerata protettrice delle nascite).

In una prima fase, la bambina abbandonata a se stessa prova impulsi di smarrimento, di sconforto, poi di sgomento e rabbia violenta, con pianti, urli, proteste veementi come richiamo diretto al genitore o al caregiver. Solo in un secondo momento, se la rabbia non ottiene una risposta adeguata e la bambina non si sente contenuta o confortata, in preda alla disperazione rischia di cadere in una “depressione anaclitica” (descritta per primo da René Spitz), uno stato di inerzia, torpore e inappetenza, che porta alla rinuncia alla vita e qualche volta conduce il neonato alla morte. In una condizione di carenza di “struttura”, la bambina si troverebbe costretta a difendere il rapporto con la madre svalorizzando il proprio Sé a favore della negazione o della scissione delle parti aggressive (proprie e della madre) e di difesa dei connotati “buoni” della madre e della relazione oggettuale, sorretta ad uno scheletro di senso di colpa.

Atena, seppure privata dell’affetto materno, si trova invece nella condizione di poter “bypassare” il problema, avendo un padre molto “potente”, e si sposta rapidamente in una posizione di idealizzazione del maschile, che diventa l’unica ipotesi di identificazione attiva, in grado di determinare la nevrosi del carattere e nello stesso tempo di mantenere gli attributi “buoni” ricevuti in dono dalla madre: infatti la titanide Metis lascerà ad Atena tutte quelle caratteristiche di prudenza e saggezza che serviranno non solo alla giovane Dea, ma anche al padre Zeus, che ne è parzialmente privo, e a molti giovani “eroi” suoi protetti. L’adozione di Erittonio può essere letta come uno spostamento dell’investimento affettivo su un oggetto bisognoso di cure, che però non minaccia il legame di tipo narcisistico posto in essere con la nascita “dalla testa del padre”.[9]

È interessante notare come la Dea possa attivare questa idealizzazione delle figure parentali attraverso non soltanto la “delega” del padre e della madre della capacità di pensare con arguzia e di guidare con saggezza, ma, in forza della sua propria capacità di far valere le virtù acquisite, di elaborare l’eredità ricevuta in lascito sul piano psicologico di quei tratti che i genitori le hanno attribuito attraverso un meccanismo proiettivo, avvalendosi di uno specifico dispositivo di modello operativo, come se ella stessa fosse stata consapevole del destino di cui era portatrice fin dal primo giorno di vita.

Dotata di grande intelligenza, Atena non soffrirà di isolamento affettivo: metterà a disposizione degli uomini i tratti del suo carattere che sono andati a rafforzarsi, senza minimizzare quanto le è accaduto, e senza negarlo. Tuttavia, per difendere almeno il padre, Atena dovette in qualche modo ricorrere alla rimozione degli aspetti cattivi connotati da violenza, attuando una scissione a carico di Ares, il Dio della Guerra figlio di Era, sanguinario e vendicativo come il padre Zeus. Quanto ai meccanismi di difesa più maturi, si potrebbe dire che Atena utilizzi, ad esempio, l’anticipazione, ad esempio accostandosi alla divinazione e alla veggenza, e in particolare ai grandi misteri iniziatici. Ella è sacerdotessa prima e depositaria di un sapere non solo arcano e numinoso, ma strategico, psicologico, sociologico, forte della propria natura in cui sono mirabilmente integrati il maschile e il femminile. Queste doti sono strettamente collegate all’intuizione in un “tipo” psicologico di pensiero, come avrebbe probabilmente sostenuto Jung.

Atena quindi previene, impartisce istruzioni, inizia i seguaci ad un sapere più profondo e li guida verso un destino più giusto, consapevole dei doveri che le sono imposti e dalla necessità di guidare i gruppi “dirigenti”, le classi di politici e di religiosi che esercitavano l’autorità. La “dea” dà così un importante contributo alla vita degli uomini della polis. Una saggia conoscitrice dell’animo umano e delle sorti infauste che capitano, quando la guerra viene gestita soltanto dalle emozioni, Atena sviluppa negli uomini il ruolo dell’intelletto e, diremmo oggi, guida il potere di un’intelligence al servizio della stabilità dello Stato.

Anche il meccanismo di difesa della sublimazione, in parte collegato all’anticipazione di cui è in qualche misura estensione, in una dimensione estetizzante, e talvolta estatica, sembra utilizzato dalla Dea della Sapienza. Ella informa di sé la capacità degli artisti e dei folli-visionari di vedere con gli occhi e con la mente, o per meglio dire, con gli occhi della mente. Sappiamo che nell’intelaiatura del mito di Atena, i collegamenti con Iside sono fonte di ipotesi sulla natura “visionaria” e intuitiva della mente femminile, o meglio potremmo dire in un’ottica più archetipica, del “femminile della mente”, come ci indica Serino: «In conseguenza delle ataviche conoscenza magiche, sempre in periodo ellenistico, Iside fu anche associata a dea della Conoscenza e della Sapienza, e vista come una sorta di Pallade Atena o di Minerva egizia»[10].

Relativamente alla sublimazione come meccanismo di difesa, secondo Giuseppe Panella, docente di Estetica alla Scuola Normale Superiore di Pisa:

Atena è la ragione che agisce sulla malinconia (la bile nera per gli antichi). Nel saggio “La spada di Aiace” in Tre furori di Jean Starobinski (Garzanti), Atena interviene a impedire che Aiace uccida i capi achei in preda a mania furiosa perché gli hanno negato le armi di Achille e devia la rabbia di Aiace su un gregge di pecore… Athena è la razionalità che interviene contro la pazzia o la mania… [11]

Atena, stando alla sua storia, dovette diventare forte ed industriosa, cooperante e ingegnosa, integrando le istanze superegoiche dei genitori, una sorta di identificazione con l’aggressore in senso ampio: un tratto della personalità che spodesta le richieste pulsionali e le istanze riproduttive strettamente biologiche. Sosteneva Eraclito (in Colli 1980, 14, A 63, p. 71): chi non spera l’insperabile non lo scoprirà. Atena sembra essere la Dea dell’insperabile, la Dea che combatte in nome di un vero e proprio processo di individuazione: preposta allo sviluppo delle potenzialità, dell’empowerment diremmo oggi. Atena sviluppa una sorta di nevrosi del carattere[12] in relazione al suo tenace portare a compimento quella che potrebbe essere la “delega” del padre Zeus, ovvero il portare le cose in una direzione, ma in nome di un ideale di giustizia, pace, creatività, bellezza e coraggio. Ella non si arrende, non sembra accedere alla maternità in senso stretto, non sembra aver posto nel suo grande cuore psichico per un ventre che genera. Eppure adotta, nutre e alleva Erittonio, in uno sforzo strenuo di combattere contro la sorte che lo vorrebbe orfano.

A proposito della delega del padre, è rilevante l’episodio della lotta tra Atena e la sorellastra Pallade. Robert Graves ne I Miti Greci sostiene che il racconto che ne fa Apollodoro (III, 12, 3) sia una tarda versione patriarcale, costituendo un’ammissione della già avvenuta invasione degli Achei, popolo indoeuropeo portatore di valori e ideali patriarcali. Quest’ultimo, infatti, scrive che Atena, nata da Zeus e allevata dal dio-fiume Tritone, uccise accidentalmente la sua sorellastra Pallade (della quale la Dea si annetterà il nome come un ulteriore appellativo e come a ricordare colei alla quale procurò involontariamente la morte) figlia dello stesso Tritone. Zeus, infatti, avrebbe abbassato il suo scudo tra le due giocose contendenti, per distrarre l’attenzione di Pallade che stava per colpire Atena. La dea, senza volere, colpì così a sua volta Pallade, uccidendola. Zeus qui è un genitore che sposta tutta la sua carica aggressiva sulla figlia, alimentandone i conflitti con i fratelli. Questa ingerenza di Zeus sul mito della Dea, che sappiamo essere inizialmente di origine matriarcale, diffuso sulle coste libiche, a Creta e in tutta l’Ellade anche dopo le invasioni indoeuropee, è confermata dalla tradizione orale, mantenuta dai sacerdoti di Atena che, secondo Graves, credevano nella nascita della dea dalla testa di Zeus.[13]

Oltre ad essere quello di Atena un femminile dedito all’arte, allo studio, alla scienza, alla tecnica, all’arte della strategia (l’aspetto quindi meno cruento della guerra, che invece è appannaggio di Ares-Marte), è un femminile che rinuncia, che sa differire, che si addossa vicariamente il lutto – che doveva essere del padre – prima della madre Meti e poi della sorella Pallade, e lo fa attraverso la sublimazione. Atena rinuncia al controllo sessuale del partner e al controllo biologico della prole, si pone come figlia-sorella e non amante-sposa, complice del maschio nel portare a termine i suoi obiettivi in un mondo aggressivo, crudele, a volte impietoso, sviluppando una competenza al gioco di squadra e al coordinamento delle azioni sul campo. Ella libera anche i prigionieri (gli oggetti persecutori?), accede al livello metacognitivo: è la Dea che conferisce astuzia ad Ulisse, del quale è per antonomasia nume tutelare. In questa dimensione a-sessuale Atena, che è per eccellenza “figlia”, ha anche connotazioni trascendenti, legate alla verginità, all’austerità, alla sacralità della sua veste, il mantello, realizzato con la pelle della capra Amaltea (un materiale indistruttibile e resistente a qualsiasi colpo), che le viene fornito dal padre.[14]

[1] http://mitologiagreca.blogspot.it/2007/06/pallade-atena.html

[2] Cfr.: Maria Papachristos, Gli Dèi dell’Olimpo, 1 novembre 2014, p. 88

[3] Secondo la Biblioteca dello Pseudo-Apollodoro, Efesto tentò di unirsi ad Atena ma non riuscì nell’intento. Il suo seme si sparse al suolo e fecondò Gea e così nacque Erittonio. Atena decise comunque di allevare il bambino come madre adottiva. Esistono comunque numerose altre versioni della nascita di Erittonio.

[4] Efesto (in greco antico: Ἥφαιστος, Hēphaistos) nella mitologia greca è il dio del fuoco, delle fucine, dell’ingegneria, della scultura e della metallurgia. Era adorato in tutte le città della Grecia in cui si trovassero attività artigianali, ma specialmente ad Atene. Nell’Iliade, Omero racconta di come Efesto (Vulcano per i romani) fosse brutto e di cattivo carattere, ma con una grande forza nei muscoli delle braccia e delle spalle, per cui tutto ciò che faceva era di un’impareggiabile perfezione.

[5] Cfr. C.G. Jung: «gli dei sono diventati malattie». Nel mito, di qualsivoglia si tratti, gli aspetti “caratteriali” devono essere netti, devono stigmatizzare la personalità. Non è azzardato affermare che ogni mito sottende un culto della personalità, nel bene e nel male, dei suoi protagonisti. James Hillman sostiene a questo proposito che «Jung ci sta indicando che la causa formale dei nostri malesseri e delle nostre anormalità sono delle persone mitiche; le nostre malattie psichiche non sono immaginarie, bensì immaginali (Corbin). Sono anzi malattie della fantasia, sofferenze delle fantasie, di realtà mitiche, l’incarnazione di eventi archetipici. […] Il nostro intento più profondo è stato di far compiere alla psicopatologia, fondamento del nostro campo, il passaggio da una sistematizzazione ottocentesca, positivistica, della mente e dei suoi disturbi a una psicopatologia degli archetipi, non-agnostica e mitopoietica. Essenziale per compiere questo passaggio è il riconoscimento degli Dei come essi stessi patologizzati, il riconoscimento dell’infirmitas dell’archetipo. […]. Essenziale per compiere questo passaggio è il riconoscimento degli Dei come essi stessi patologizzati, il riconoscimento dell’infirmitas dell’archetipo». J. Hillman (1974), La vana fuga dagli dei, Adelphi, Milano 1991, pp. 42 e segg.

[6] Un punto di vista alternativo suggerisce che i tre misurino tutti la stessa strategia sociale fondamentale. Inoltre, questa prospettiva sostiene che i tratti della personalità siano riflessioni di strategie sociali inconsce ed evolute. Le pressioni delle scelte potrebbero non agire come singole variabili di interesse e, conseguentemente, non dovremmo aspettarci un grado alto di coerenza dai tre tratti quando si misura una cosa qualsiasi. Quando si misurano incarichi adattabili come l’accoppiamento, c’è una coerenza evidente e marcata (Jonason, Li, Webster, & Schmitt, 2009).

[7] Cfr.: A. Green, Psicoanalisi degli stati limite, Cortina, Milano 1991, p. 340.

[8] M. Campolo, Atena in: Individuazione. Trimestrale di psicologia analitica e filosofia sperimentale a cura dell’Associazione GEA, Anno 8°, 30 Dicembre 1999 Pag. 12. http://www.geagea.com/30indi/30_12.htm 2/3

[9] Nel mondo mitologico le narrazioni spesso oltrepassano la nostra visione dualista bene/male di matrice monoteistica e positivistica, e riescono a condensare processi che normalmente richiederebbero ben più lunghe e complesse elaborazioni.

[10] V. Serino, I. Battaglini, Convivio dei Simboli. I sette peccati capitali. La superbia. Corso di Antropologia e Psicoanalisi, Polo Psicodinamiche, Prato 2017

[11] G. Panella, Lezioni di Estetica. Polo Psicodinamiche, Prato 2016.

[12] Cfr. P. Migone, Il concetto di carattere nell’evoluzione del pensiero psicoanalitico, Il Ruolo Terapeutico, 2000, 83: 47-53 (I parte), e 84: 82-88 (II parte): «La psicoanalisi contemporanea ha acquisito grande esperienza nel lavoro sul carattere, grazie anche al cambiamento della psicopatologia di cui si accennava prima, per la quale i sintomi eclatanti si presentano sempre meno alla nostra attenzione. E nei rari casi in cui si presentano, sarebbe ingenuo credere che la loro eliminazione rappresenti la cura, anzi, spesso la cura inizia dopo che essi sono stati ridimensionati, quando si affrontano i problemi del carattere, quei problemi che il paziente magari prima non vedeva perché erano egosintonici. Una volta esaminati i sintomi eclatanti, ci si accorge che essi non possono essere affrontati se prima, o parallelamente, non si lavora alle loro radici, cioè non si rende il paziente progressivamente consapevole della sua “nevrosi del carattere”, delle sue strutture cognitive che permettono che questi sintomi traggano la loro linfa vitale (si noti che, a rigore, il termine “nevrosi del carattere” è un ossimoro, cioè una autocontraddizione, in quanto, secondo la concezione tradizionale, la “nevrosi” viene sempre concepita come egodistonica, mentre il “disturbo di personalità” viene concepito come egosintonico: nel termine quindi “nevrosi del carattere” – proposto da Shapiro – i due termini vengono uniti volutamente, a mo’ di provocazione, per alludere a una problematica nevrotica che rimane in buona parte egosintonica, cioè non riconosciuta, non vista dall’Io)».

[13] Cfr. R. Graves, I miti greci. 25. Carattere e imprese di Atena, Longanesi, Milano 1955.

[14] Amaltea è il nome della capra che allattò Zeus sul monte Ida a Creta (in altre versioni è il nome della ninfa che custodì la capra il cui latte alimentò Zeus). Diventato il re degli dei, Zeus, per ringraziarla, diede un potere alle sue corna: il possessore poteva ottenere tutto ciò che desiderava. Da qui la leggenda del “corno dell’abbondanza”, o cornu copiae, cornucopia, detto anche Corno di Amaltea. Alla sua morte Zeus la pose, insieme ai suoi due capretti, tra gli astri del cielo; consigliato da Temi, Zeus prese la sua pelle e se ne vestì come di una corazza, durante la lotta contro il padre: questo rivestimento è conosciuto come egida.

[1]L’articolo rappresenta una versione ridotta della relazione Atena, l’Anima e la Necessità in occasione del 17° Seminario Itinerante “L’IMMAGINARIO SIMBOLICO” ©, 6° Workshop – Expo “IL FEMMINILE e L’IMMAGINARIO” tenutosi a Marsala dal 26 al 29 ottobre 2017.

Maria Grazia Calandrone: il fondo poetico delle cose

di Andrea Galgano 7 febbraio 2018

leggi in pdf  MARIA GRAZIA CALANDRONE. IL FONDO POETICO DELLE COSE

sul sito di Maria Grazia Calandrone

Il nuovo lavoro di Maria Grazia Calandrone, Il bene morale[1], edito da Crocetti, lega figure, cose, scene e viste, ombre fuggitive e potenza della realtà, in un intenso polittico di resa e fasto, dolcezza e illuminata concavità.

La direzione della lingua sfiora le cose come sorpresa di scorcio, restituendo l’energia viva di un tempo non sfaldato e sempre congiunto, ravvivato dall’immagine che emerge e “si fa” nel testo, ed esprimendo, infine, la gemma della appartenenza vivente, sia al magma lessicale sia alla relazione con ciò che accade e la sua trafittura. Lo sguardo si forma nella densità e nella purità fertile:

«guarda le cose / con dolcezza / e con dolcezza tu verrai guardato / dalle cose: / con la tua anima / imita le cose / tu, che sei mondo, guarda / i fiori / come se fossi un fiore / e poi guarda / le api / come se fossi un’ape / poi guarda i fiori / con gli occhi / dell’ape / e vedi rosse, gialle, azzurre, bianche / tazze di nutrimento / fatte per te / bevi, / diventa forte / allora guardi / in alto / la radiazione azzurra / e sei cielo / sei la dolce giornata di settembre / che durerà per sempre».

Tale fertilità è la presenza commossa della realtà, in cui l’io porge il suo paradigma di narrazione e osservazione feconde, per amare la verità più di se stessi. Il centro di ogni rapporto è la relazione tra il gesto e la concezione del tutto, che in esso si implica, si sfodera e si offre.

In una bellissima intervista di Michele Paoletti su “Laboratori Poesia”, Maria Grazia Calandrone così afferma:

Il bene morale è quello che dovremmo portare gli uni agli altri: un bene etico, responsabile. Dieci anni fa ho intitolato un altro mio libro La macchina responsabile. Come tutti, ho le mie ossessioni: una tra le più radicate è la responsabilità dei nostri sentimenti, l’attenzione che dobbiamo al bene che proviamo e facciamo. Tradire o, peggio, rinnegare quello che abbiamo amato, oltre al male che arreca, ha la imprudente conseguenza di tradire noi stessi. Questo, per quel che concerne i micromondi privati. Ma l’etica del bene, nel libro, è ovviamente estesa alla storia, poiché la storia è agita da individui che, sommandosi uno all’altro, formano i popoli: scrivo dunque di Shoah, del Vajont, della Shoah contemporanea dei migranti e di singoli eventi come la misteriosa morte di Marilyn Monroe o il conflitto interiore di un padre indiano, cui è nata una figlia con otto arti – e tutto ciò a contrasto con un controcanto leggerissimo, infantile, che rappresenta la gioia alla quale abbiamo diritto, semplicemente per nascita.[2]

È in questo livello che l’ampio gesto poematico svela la sua radice e il dramma del nostro tempo. L’intreccio, la composizione del reale, l’invito, la spoliazione essenziale restituiscono il vigore di ciò che av-viene.

Nicola Bultrini scrive:

In questo ultimo lavoro […] il moto è tellurico e il dettato sussultorio. Il verso quindi si frantuma per poi ricomporsi in agglomerati intertestuali, assumendo un respiro piano, dilatato. […] Conseguentemente, la realtà è sempre chiamata per nome, l’anatomia del corpo (vivo o esanime) è giustificata e decrittata secondo verità. La trasfigurazione degli eventi (coerente con un laico ma pregnante lirismo) è sempre comunque aderente ad una concretezza materica […]. Ma la voce della Calandrone rivela sempre una matrice sottocutanea ed autobiografica di esperienze, avviluppate attorno a duri nodi e nudi sentimenti, dinamiche e dialettiche.[3]

Le cose procedono per apparizione, come gli alberi, ad esempio, colti nella loro risplendente corposità materica. È una traccia di genesi che espone un contatto, una precisione non annerita, un rimando, esortando a una «pulizia dello sguardo», per «eliminare il superfluo e le scorie, mentre si forma l’agglomerato dolce che diciamo frutto».

L’ascesi prospettica rappresenta il sì a ciò che c’è. Non si toglie alcun limite acuminato o senso, come se fosse un dialogo ora muto, ora acceso, con l’infinita promessa del vivente, la sua origine e la sua polpa di ombra («Nella struttura a strati dell’arancia c’è il cosmo / spiegato ai ragazzi. Soliloquio di prismi, calore, protuberanze e irregolarità – collisioni di plasma sotto la crosta oceanica / della buccia).

Poi si legge ancora: «Ma i ragazzi mangiano le arance / seduti in gruppo intorno alla fontana, sotto il sole / spolpano il cuore senza prima avere messo a nudo la sua sfera, senza prima avere / scalzato la scorza / dalla sfera. Così, da un incidente nasce uno stile»:

Essi hanno questo fiore dentro che comincia / con l’affermazione che non sanguinano, / ma hanno anzi una capacità variabile / di sopportare tagli / tra i filamenti vivi / con anelli dorsali e una frattura / marginale, con qualche escoriazione per il fuoco issato / una volta sulla bianca colonna del fusto come una bandiera di dolore. / Tutto portava una scucitura di silenzio / sulla corteccia: in quel punto
non passava più la voce. / Mimose e mandorli sono i primi a fiorire / ma tutti se amputati, rimarginano in lance di fogliami appesi alla faretra dei tronchi con tralci portanti e un fresco e vivo rampichìo di gambi / e un clamore di stami al culmine del pomeriggio
e un luccichio frontale, tutti sono strumenti per lasciare cadere / lingue e lamine d’oro, processioni con croci bianche di corolle e fiaccole / di stimme nel nettario, sono cose cresciute per dare / e per dimenticare. Dimenticare come s’innestava la tua voce / nel nettario del cuore, come i regoli e i timbri / delle vocali fossero fatti per impressionare / il fiore maturo. / Essi sfiorano il cielo in formazioni audaci, / si avvitano / con una pacatezza e una competenza / perfette pure nell’evidenza del corpo ferito, / pure a bagno nel nero e nell’amaro inverno. Dunque bisogna avvicinarsi a loro / senza il cupo ruminare notturno nella morchia dell’anima / ma come cinghiali, un entroterra bianco: essere terra / bisogna, sotto la loro macchina da fiore. (Alberi).

La rivelazione si afferma anche nelle metafore dell’amor perduto, addensandosi tra l’abbandono («La materia celeste della scomparsa / tra i fiori del giardino. / Qui tutto è colmo di benevolenza e le turbine / ronzano a mezzacosta»), la lauda fragile e violenta («Ti lodo per la dolcezza del suolo / e per la nullità degli oggetti / e per lo stare / e per l’avere amato / e per il portare / a memoria l’estate della nostra grandezza / quando salimmo il monte con le scarpe / vuote e smaglianti, quando la mano / sollevò il viso che cadeva in silenzio / sopra le prime lacrime dicendo / io non sono sensibile al dolore»), la continuata interminabilità di una tensione («Non toccarmi, ho sognato che in cielo / ruotavano i pianeti e io tra quelli / portavo il cuore / esposto, perché la terra è piccola per il dolore / ma qualcosa perdeva sangue, ancora»), i giorni dell’eroismo («Come vedi ho finito per amare / l’esposizione delle ossa / che buttano dal petto / qualcosa / come canto / agave / o torre / sgretolata / con le bave di linfa alle finestre / liane e ferro che s’innalza / dal vuoto del costato e quando dentro i tubi delle vene passa il vento fa ancora quella musica») e, infine, la bocca:

«Il corpo è un’esultanza della superficie / grido di gioia / del vuoto / ma tu abbassa lo sguardo su di me / come sopra una spoglia imminente: io me ne vado / in gloria all’abbondanza della terra / perché, vedi, non metto impedimento / dove butta una rosa / di sangue / al centro dell’oggetto. L’oggetto / non ha radici. Lo vedi / sono la regola / sono la mia radice / la rosa umana / una quota di acqua invulnerabile / che espelle corpi estranei / come la lince. Io porto / ruote di elitre / nella specola cranica / e il sangue perduto / nel coro muto / degli astri / è uno smagliante eccesso di fiducia / come di uccelli al primo sole nel senso della larghezza e della bellezza / del corpo più profondo della solitudine».

La dimensione tellurica di Maria Grazia Calandrone è, di fatto, una fluviale dinamica dell’essere, che capovolge altezze, stringe solitudini corali, attinge all’arcaica invisibilità del tempo, al vortice e al bacio del farsi del reale, inseguendo i rumori della notte, perché «l’amore dopo tutto lo strazio è ancora intero e mostra fiori grandi come meteore».

Lo strenuo equilibro, che unisce lo strappo alla elevazione, dipana le fibre d’amore in tutte le loro spalancate nudità e partiture, fino a salire alle alte stelle erose e al segreto movimento del logos:

come sono operose le creature, / con che attenzione passano i pennelli / sulle assi di legno / eppure sanno di dover morire / ma ora / fanno / e facendo / dimenticano / e sono dèi davvero, veramente immortali, in questa svolta di sole sulla prima verdissima erba di aprile / questi quattro ragazzi col pennello e l’odore di fresco e di vernice, / la birra nella tasca dei calzoni, il berretto a sghimbescio e / il sorriso che dice io sono vivo, io in questo momento / sono vivo per sempre

Non un ritiro per contemplare, anzi un proteso germoglio che è meta di sangue e mare nudo, leggerezza di resti e salvezza, nella schiarita in finitudine del canto:

«oh effusione del mondo / nella grazia dei suoi significati – grande / e muta – oh, paesaggio! / con gli alberi e le ruspe e tutti gli strumenti di lavoro / abbandonati all’empia, / alla succosa solidità dei grappoli – oh, fortuna! / di notare la scaglia di luce / interna alla scena, / considerare la maiolica scempia sulla quale si rompe / tutto l’irreversibile del corpo come un fenomeno sottomarino, / la porta di un travaso / provvisorio / e, nel provvisorio, notare solo un’apparizione copiosa – / il biancore dell’osso come l’esposizione di un sorriso».

Se la poesia salva il volto non comune di ogni individuo, come ha affermato Josif Brodskij, il suo recupero, in questo territorio, è farsi movimento e trama, per rinascere nell’incontro con l’altro, affermare i detriti perduti, recuperare il fondo dell’umano, per radicare la luce e dare testimonianza alla sua feconda e frangibile potenza (Verba Manent).

Il grande teatro ferino del mondo, in cui il corpo si immerge e, allo stesso tempo, deterge il suo limite plastico, tocca il magma del linguaggio della incompiutezza, del dolore, della sofferenza e del mistero dell’orfanità, per «mantenere la memoria della comunità umana», così come il compito del poeta «è ricordare la grandezza possibile della nostra persona. Il temporaneo dispiacere è vedere le cose come stanno, cioè che siamo creature sofferenti, crudeli e sole in misura variabile. Il massimo piacere, l’utopia del piacere, è la circolazione fluida dell’amore umano. Per ciò abbiamo inventato il paradiso»:

«immaginiamo siano i nostri corpi / questi corpi lasciati / a cadere nell’indifferenziato come orfani […] biancore sovraumano di legno morto / – figlio mio / fatto di carne / umana / combustibile, / marcescibile / figlio mio / nel bruciare / del sale, riconosco il tuo odore di selva / e di laboratorio solare, quel profumo sensibile di pelle fresca e cotone / lavato – poi / per un attimo, riconosco lo sguardo dei tuoi occhi / che ho portato con me, in questa vita / che non arriva più».

Il segno della sua poesia si situa, dunque, al centro dell’umano. È la cifra lucente e paziente di un gesto solenne e intimo, che toglie mosaici mobili e cerca identificazioni, e quando vede, nulla perde, nonostante l’oscurità del mondo che si rovescia su di esso e il suono divelto, per farsi comunione che ridona consistenza: «una vallata a picco / nell’innevato splendore / sotto la bretella autostradale / un sogno di potenza, una / esclamazione, un vapore di terre appena emerse, un fresco / di carne cruda / e il suono / antropomorfo, la voce umana del vento».

È la grafia che si imbeve della quotidianità e della singolarità della cronaca, per disserrare ogni occlusione o urlo strozzato, difendere la voce sola e unanime della parola che visita il suo termine inerme e la sua lacerazione nelle gradazioni minime e massime dell’abbandono.

E anche l’affioramento dell’irripetibilità dell’avventura umana e della sua carne indifesa esprimono il loro grido di gioia nella sperdutezza: «poi ho alzato la coperta / che gli avevano messo sulla testa / e non era rimasto più niente / di lui se non carne indifesa / se non voce, la sovraumana / carità del legno».

L’attenzione alla creaturalità dischiude la categoria della possibilità che non nega l’esistente, bensì raccoglie le dispersioni, i lamenti, l’abbandono, per fermarli, guardarli, domandarne la loro gemma essenziale.

Come accade nel poemetto di Marilyn, segno di decifrata innocenza e disperazione, e delicata nudità lunare: «Marilyn è il sarcofago d’oro / sopra un corpo scomparso / e / -dentro-/ sta rannicchiato il fossile di una bambina / con gli occhi chiusi / la bambina, se ancora parlasse, direbbe solo abbracciami / perché io non ho anima, solo un’infanzia / rimandata fino alla morte».

La vitalità primigenia dilata la gratitudine, il portato del buio e gli stracci della propria gloria, le tracce di vita attraversata, e la mendicanza superstite e sopravvissuta, che nel suo sì, dolente e posato, afferma il confine ultimo dell’esistere e l’essenza della vita comune: «Ma il tuo piccolo corpo non poteva reggere / il peso della terra, il tuo piccolo corpo venne sepolto su un’ala di cigno / e una scheggia di selce ti venne infilata / nella bocca, una lama di pietra / salina perché sarai / solo nell’ingiustizia della morte. / Questa cosa che io so pienamente / è la tua bocca / sparsa per tutta l’opera umana».

La forza sacrale delle cose vive è il necessario ottuso atto di fiducia nella bellezza, attraversa il suo sovrarespiro, la sua emersione di lembi rovesciati e l’affioramento del sangue, per risalire la legge di natura e agire «come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi. Come se non avessimo visto i nostri cari morire. Agire come se fosse la prima volta. Con la stessa innocenza di Cristo. Con la medesima mortalità elettiva».

Nel suo chirurgico scuotimento, la materia incantata porge il suo inno di gioia a ciò che vive, per stringere insieme il tempo dell’incontro, dell’amore disperato e della solitudine incomprensibile ai vivi:

«Io poso sulla terra del tuo petto il fiore bianco delle mie parole. / La nebbia degli aggettivi / fluttua su questa tua declinazione. / Io prosciugo la lebbra della parola / con mozziconi d’aglio. Il silenzio / è il maggiore dei canti. Resti / solo il metallo. Ferro del cuore e liquor / minerale. Tu ti disperdi nella torba in rivi / incorruttibili. Io mi devo piegare per leccarti / adesso. Assorbo il tuo silenzio / come fa la terra. Adesso / ti capisco. Ora la mente è metodo, spoglia / radioattiva, ora ha la fluorescenza del metallo arso. Tutto in me / tu lo hai fatto / increato e nativo».

E poi Roma, ricca di smarginature e rivista nell’improvviso slancio tenero e rapace delle sue manifestazioni: lo stupore dettagliato della tangenziale, ricolmo dei cambi di cromature e resistenze, come se da tutto rimanesse una ferma resistenza non disseccata e un volto da cui viene fuori la meridiana gialla e un sorriso canino.

Il paesaggio si delinea nella vertigine delle immagini e nello spettacolo di ordine amoroso: un fondo di simboli, uno scorrimento misterioso che si rivela, come «un paradiso caduto / sotto la fiamma liquida del cielo», dalle rovine e dagli oggetti e infine, da un’eccedenza di passaggi: «Sotto di voi è distesa la colata di pace / della carreggiata. Raramente qualcosa / deraglia. Solo talvolta il cuore – l’orbita / magna – guizza / nella maglia d’uranio / della sopraelevata. Solo talvolta / un soffio del sangue / porta fin qui, sui groppi / di cemento del ponte / la luce delle rose».

Gli inni di gioia cadenzano isole di parole che si consumano e si ricreano nelle dismisure di colore ed elementi. Come una sospensione che riguarda il pronunciamento dell’amore e del tempo, nelle selve di metafore, nelle cose che manifestano magnetismo e aderenza, per andare incontro alla bellezza involontaria, risvegliare l’uomo nell’uomo, essere stupore, elevazione e dono commosso di se stessi, evidenza dell’invisibile, e infine, piega di luce.

[1] Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017.

[2] Paoletti M., intervista a Maria Grazia Calandrone, in “Laboratori Poesia”, 25 novembre 2017.

[3] Bultrini N., recensione, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2018.

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Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017, pp. 184, Euro 12,00.

Calandrone M. G., Il bene morale, Crocetti Editore, Milano 2017.

Bultrini N., recensione, in “Il Tempo”, 15 gennaio 2018.

Paoletti M., intervista a Maria Grazia Calandrone, in “Laboratori Poesia”, 25 novembre 2017.

 

 

 

Le incisioni esuli di Josif Brodskij

di Andrea Galgano 23 gennaio 2018

leggi in pdf LE INCISIONI ESULI DI JOSIF BRODSKIJ

L’ultimo libro di poesie di Josif Brodskij (1940-1996), premio Nobel nel 1987, So forth, pubblicato nello stesso anno della morte negli Stati Uniti, ora in traduzione italiana (E così via[1]), a cura di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, ed edito da Adelphi, comprende testi scritti nel decennio precedente, autotradotti in russo e testi in inglese.

In questa sorta di ibridismo di congedo, la fatalità della lingua si accompagna alla propria genesi di sguardo e tensione, dove «l’impasto dei suoni, la precisione e l’ambiguità dei termini, la possibilità di spingere la regola grammaticale fino al punto di rottura» sono costitutivi

«dell’espressione poetica e molto difficilmente sopravvivono nella loro interezza quando si verifica il passaggio da un idioma all’altro. Eppure, nonostante tutto, la poesia continua a essere tradotta. Anzi, ci sono casi in cui deve essere tradotta, per assicurare all’autore non soltanto la notorietà internazionale, ma addirittura la libertà, che è, per l’esattezza, la libertà di essere poeta».[2]

Gli arresti, l’internamento in un ospedale psichiatrico per due mesi, il processo per parassitismo sociale, con la conseguente condanna alla reclusione di cinque anni, l’esilio e la fine di ogni possibilità di riconoscimento in patria (fino al 1972 quando l’OVIR gli chiede di lasciare il paese), e il nomadismo segnano il tempo del suo destino, in cui il verso scagliato è un ritorno nel grembo della sua madrelingua, dove poter ritirare la propria anima nuda e scissa, che se da una parte, sente la provenienza e la proiezione delle linee di Anna Achmatova («la Musa in lutto»), Cvetaeva e Mandel’štam, come indizio e cifra di superstite sopravvivenza, dall’altra si accompagna a W. H. Auden, come respiro e vertigine di un risarcimento che si appropria della lingua nuova, come possibilità, innanzitutto, di tallonare un orizzonte nuovo.

Brodskij scrive moltissimo in inglese (tre saggi importanti, tra gli altri). È una acquisizione inevitabile che cerca agganci e radici, in modo assoluto e inevitabile. Come se la nuova lingua fosse la radice di una espressività figurativa rilucente che si incide in un codice vistoso e nomade, persistente nelle sue impronte inseguite e traslitterate, ininterrotto nel suo viaggio inciso.

Roberto Galaverni, infatti, afferma:

«In realtà, attraverso l’impiego della lingua del Nuovo Mondo, con tutto il sistema di riferimenti culturali, di coordinate storiche e geografiche, di abitudini di vita che questo comporta, Brodskij sembra mettere ancora più a fuoco l’orizzonte a cui aveva sempre guardato: lo sradicamento, l’esilio, lo spaesamento, come realtà prima e ultima dell’uomo, vale a dire, sempre con le sue parole, come «condizione metafisica»[3].

Le incisioni di Brodskij sono esuli. Percepiscono il gravido limite dell’essere isola dentro un’isola, sorvegliano la realtà, per decifrarne il messaggio irrecuperabile: «Scrivo questo / con l’indice / sulla sabbia bagnata e vitrea del tramonto, forse ispirato / dalle cime delle palme strombate contro il cielo platino come / caratteri cinesi. Benché non abbia mai studiato / quella lingua. Inoltre, la brezza / le scompiglia troppo in fretta perché si possa decifrarne / il messaggio».

È una lingua di ombra, un commiato, una traccia di scie che rimangono imbevute di fine e limite, oblio e stridore: «È sera, il sole cala; / i ragazzi urlano, stridono i gabbiani. / Che senso ha dimenticare, / se poi alla fine si muore?».

Esiste in questo libro una sorta di estrema conclusività e di postuma evocazione che reca interruzioni indistinte, grumi di ricordi, silenzi, ripetizioni naturali come nuvole «sparse come vesti di uno scapolo».

La visione di Brodskij è abitata da un coagulo di affetto adombrato come una voce sconosciuta che ritorna, si secreta, e rimanda alla memoria infinita che è l’immaginazione. Tale visitazione trascurata avverte il peso del vuoto, il censimento dell’anima che deve protendersi verso l’Infinito, per non trovare più coltri rauche, come la stella di Betlemme: «Di un Padre era lo sguardo».

La sua spietata precisione colpisce la sua superficie riflessa. La vita deve ricominciare, indipendente dalla propria traiettoria:

«Mai come in questi versi il poeta si era mai spinto verso una deflagrazione totale del significato poetico. Brodskij qui ha uno sguardo lucido sulla catastrofe. In ogni suo verso prende tra le mani l’insensatezza del mondo e ne attraversa, senza rinunciare a un immanente spietatezza, tutti i perimetri, le geometrie e le prospettive, suggerendo delle cose una lettura che ha il coraggio di guardare in faccia la tragedia dei giorni e della Storia».[4]

Cominciare, anche se è araldo di catastrofe, anche se ogni cosa è vulnerabile e dimentica, anche se la lingua divora le labbra nel crepuscolo nella sgargiante nudità dell’essere, e nelle spoliazioni:

«Le bianche pareti di una stanza si fanno ancora più bianche / sotto uno sguardo che severo ammonisce, / aduso più che alla vastità dei campi / all’assenza del loro non-colore nello spettro. / Molto alla cosa si può perdonare – tanto più là / dove essa si esaurisce. In fin dei conti la curiosità / per quei luoghi deserti, per i loro paesaggi / spogli di oggetti è pur sempre arte. / Nella nuova vita meglio una nuvola del sole. / La pioggia è ininterrotta come l’autoconoscenza. / Dal suo canto un treno che tu, avvolto nell’impermeabile, / fermo sulla banchina non aspetti, giunge in perfetto orario. / Dove c’è l’orizzonte, una vela è il suo giudice. / L’occhio preferisce il sapone a spugna o schiuma. / E se qualcuno chiede: «Tu chi sei?», rispondi: «Io? / Nessuno», come una volta Ulisse a Polifemo».

La parola è rarefatta, spinta oltre il precipizio di ogni convenuta asserzione, condensata nella contusa ricerca di una felicità possibile «in un diametro / che sta da qualche parte nell’aria mite della California», e affermata nel ritmo della sua ascia scagliata[5] e mai sconfitta. È l’arte che insegna la privatezza della condizione umana, la relazione indefessa con l’uomo, il suo viso non comune, affinchè possa precisare il tempo della propria esistenza e il suo essere parallela alla storia.

Ed ecco che in quel punto nevralgico, la disobbedienza del canto diventa la sua inclusione di mondo, dove la vita straniata «è la distanza tra quest’oggi e il domani / – che sarebbe il futuro. Vale la pena di accelerare / il passo soltanto se qualcuno ti incalza sul sentiero: / assassino, bandito, il tempo andato…».

La memoria traslocata è la poetica dipartita di un ritorno delle immagini. Sono dettagli di voce, frantumi di cenere soffice che si scontrano, in modo dolcemente inesorabile, con la durezza di un tratto, di un vincolo, di uno snodo terminato per sempre nell’addio:

«Contorni di una nuvola, lassù in alto piccioni, acqua immota, / legna, qualche residuo di architettura nota, / ma di vista nessuno. Così capita talvolta / che alcuni ancora partano per l’estero ma, privi della scorta / di una seconda vita, indietro tornino di corsa, con lo sguardo / sfuggente per paura e, lento a posarsi nel gesto dell’addio, / un fazzoletto palpita nell’aria. Altri, a cui è già toccato / di amare qualche cosa più della vita stessa, sapendo / in fondo al cuore che quella seconda vita è la vecchiaia, / se ne stanno al sole, senza abbronzarsi, bianchi come il marmo, / e fissano un punto qualsivoglia, non disdegnano le consolazioni / della storia. Perché quanti più sono i punti, tanto più picchiettate / risultano le uova di pernice, beccaccia, francolino / che hanno perduto nel gioco a nascondino».

L’elegia del poeta non è consolatoria, è chiara sì, ma avverte la conchiglia del proprio suono precipuo, la distanza come divisa alterità, l’amore di volata e il tempo scoperto senza diritti. Dove la poesia rappresenta l’affermazione contrastata di una durata in bassa marea e l’avamposto di una tenace resistenza, nonostante l’aria inquinata del mondo:«Bassa marea. Io fumo al buio e inalo la putredine dell’aria».

L’inflessibilità intransigente e inesorabile della Storia porta il conto. Brodskij è poeta tragico, quindi arrestato nella singolarità ed esclusività di ciò che accade, squarciato dalla mancanza e dal dolore dilatato. Per cui la concrezione del reale avviene per accumulo impermanente, resistenza indomabile, contingenza appartata e raccolta di lacrime estasiate: «Guardiamola in faccia, la tragedia: / vedremo le sue rughe, / il profilo aquilino, il mento mascolino. / Udremo i suoi diabolici toni di contralto: sovrasta il pigolare della causa la melodia roca dell’effetto. / Salve tragedia! Era da un pezzo che non ti si vedeva. / Salve rovescio di medaglia. / Passiamo a esaminarti nei dettagli».

Oppure la sofferta veglia, nel mondo, è una povertà depredata che custodisce l’umido salato delle lontananze: «Che brutti tempi: / niente a nessuno puoi rubare. / I legionari tornano a mani vuote dalle campagne militari. / Le Sibille, al pari delle piante, con fondono il futuro / col passato».

Gli oggetti, le impronte digitali, gli angoli, il futuro senza fiato, l’azzurro contumace, i residui dei fiammiferi bruciati raffigurano la salvazione reduce del tempo e della storia. Essi generano la vita mischiata all’aldilà e l’unica tangibile dolenza di un ibridismo sorgivo.

Egli è come il centauro («un semplice ero e sarò grammaticale / nel continuum presente»), accostato alle antiche pietre, alla rarità del gesto astrale, vive negli attriti dell’aria e sulle scorte illimitate della ferina materia prima: «Sugli oggetti si posa la polvere d’estate, e la neve d’inverno. / Merito della superficie liscia e piana che è attratta / verso l’alto: verso la polvere e la neve. Oppure / solamente verso l’inesistenza. E come, dice il verso, / «Ricordati di me» sussurra la polvere alla mano / che con lo strofinaccio inumidito assorbe quel bisbiglio».

Brodskij è interessato alla trasformazione in pericolo, allo svelamento prima dell’abisso delle direzioni lineari, ai vicoli ciechi, a ciò che sfugge, perché malleabile, elementare, solitario, finito e, pertanto, non eroso:

«Il mondo fu creato mescolando con fango, aria, acqua, / fuoco il grido «Non toccarmi!», racchiuso in quell’impasto, / che eruppe da una pianta, e in seguito da labbra, / perché tu non credessi che il mondo fosse vuoto. / Poi sorsero le stanze, e gli oggetti, e gli slanci amorosi, / le affinità tra ciò che fu e sarà, le arie d’opera con la tubercolosi, / roteando nei globi oculari l’alfabeto si mise in movimento. E il vuoto stesso fu sgomento».

O ancora come accade in Vertumno, poemetto dedicato alla divinità etrusco-romana che personificava la nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti, esso nasconde un appunto elegiaco, che fonde i paesaggi («Smisi pure di guardarmi indietro. Se odo alle mie spalle/ scalpicciare, ora io non sussulto»), per lo slavista Giovanni Buttafava, suo primo traduttore italiano.

L’incontro di latitudini straniere diviene la rifinitura di un’appartenenza cangiante, il segno della lingua, il suono intricato e la scolpita metamorfosi del destino: «Non ti stupire: la mia specialità sono le metamorfosi. / Chiunque io guardi, quello diventa me all’istante. / A te conviene. Sei comunque in un paese straniero».

La finitezza è una condizione dell’identità, l’estensione della lontananza, come una cartolina che si ripulisce e, attraverso il moto transitorio («Il deperibile divora il deperibile alla luce del giorno»), riesce a toccare la densità dell’istante felice, perché il cosmo non conosce discrezione e tutto si vede ad occhio nudo:

«Il mondo attorno non contava, / né la tormenta che monotona ululava, / o che nella bucolica magione stessero / allo stretto e per loro non ci fosse altro tetto. / Intanto erano insieme, / E in tre per giunta, la cosa principale, / da ora avrebbero spartito in modo eguale / i doni almeno, nonché cibo e imprese. / Il cielo invernale sul rifugio era chino / come accade a ciò che è grande col piccino, / e brillava una stella – ormai non poteva sfuggire / allo sguardo del bimbo, lo doveva seguire. / Il falò divampava, il ceppo si consumava ardente; / era calato il sonno. Non già per il superfluo riverbero / fulgente l’astro si distingue va tra schiere di sorelle, / quanto perché rendeva la terra prossima alle stelle».

Le architetture di Brodskij strappano il mondo diviso, rammendano le radure, le pozzanghere, i lidi ridotti in sabbia, gli angoli remoti, i cumuli tracciati di nubi («Spumeggianti cascate / di angeli, di abiti / da ballo, crollo / di barricate inamidate, / nozze di farfalle / con nevi himalayane, / vette alpine, a zonzo / per il cielo / delicato del Baltico / che a nessuno appartiene – / lassù, in alto, / nella vostra dimora, quali / appelli ascolterete? / Chi è il vostro architetto? / Chi il vostro Sisifo?») e i marmi. Poi ancora le statue, i portici, le colonne, le geometrie che piangono il sottosuolo depredato, l’oceano e le rive deserte.

Sono il codice sbrecciato di una promessa e pioggia sull’abisso che avverte «l’influenza della non-esistenza / sull’esistere».

Qui avviene l’interstizio di cristallo della poesia e la resa dei conti con il nulla, con il frusciare del tempo e degli incontri, dell’anonimato, del vuoto e delle rovine, perché le cose «si induriscono per restare ferme nella memoria; / ma è più facile sparire, non già affiorare, / in una prospettiva / che, lasciandosi alle spalle la città, attraversa gli anni / in cerca del tempo puro, senza felicità nè terracotta» e «Agli uccelli del paradiso per cantare non serve un ramo»:

«E non sono un codardo, bensì pronto a essere / un oggetto che viene dal passato, se così, / per capriccio, vuole il tempo, / mentre dall’alto in basso – o da sopra la spalla – / guarda la preda che accenna ancora / qualche movimento ed è calda / al tatto. Sono pronto a che la sabbia / mi ricopra, preparato a che un viaggiatore / appiedato non metta a fuoco / l’obiettivo su di me, e per me non provi / forti sentimenti. Per ciò che mi riguarda, / il tempo che scorre al di fuori / non vale l’attenzione».

[1] Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.

[2] Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.

[3] Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.

[4] Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).

[5] Brullo D., Iosif Brodskij e la disobbedienza linguistica (a colpi d’ascia), in “Il Giornale”, 9 dicembre 2017.

Brodskij J., E così via, Adelphi, Milano 2017, pp. 254, Euro 22.

 

Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.

Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.

Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).

Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.

Edward Thomas: le fenditure di acqua e di vento

di Andrea Galgano 16 gennaio 2018

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Quando inizia a scrivere poesia nel 1914, Edward Thomas (1878-1917), nato a Londra nel 1878 da genitori gallesi, è uno dei critici inglesi più autorevoli, autore prolifico di prosa d’arte e di viaggio, biografie, antologie, libri su commissione.

L’indefesso lavoro pagato con la dipendenza dall’alcool e dall’oppio, la depressione, il tentativo di suicidio, le camminate infinite, l’innamoramento per Hope Webb, il matrimonio, le fughe, la pulsione di morte e la campagna sono la cifra umbratile e sollevata di un altrove ricercato oltre la quotidiana guerra del limite e del lavoro, della densità e della terminale ekphrasis:

«[…] Quanto a me, / dove ho incontrato quell’aroma amaro / non so più. Anch’io sminuzzo le grigie cime, / le annuso e penso e le annuso ancora e provo / ogni volta a pensare cosa sto ricordando, / sempre invano. Quell’odore non può piacermi / però rinuncerei a ogni altro, più dolce / ma insignificante, per quell’amaro. / Ho smarrito la chiave. Annuso il ramoscello / e penso a nulla; vedo e sento un nulla / che pure sembra doversi ascoltare, aspettando / ciò che dovrei, e mai potrò, ricordare. / nessun giardino appare, né sentiero o cespuglio / di brina verde, assenzio, abrotano, né una bimba / lì accanto, o padre o madre, o compagno di giochi; / solo un viale, buio, senza nome, senza fine» (Assenzio).

Con la pubblicazione, presso Elliot di Roma, di una corposa antologia di cinquanta componimenti, La strada presa. Poesie scelte[1], a cura di Paolo Febbraro, la poesia di Thomas ci viene restituita nel suo setaccio di stupefatta austerità, di solcata freschezza e, allo stesso tempo, concentrando l’arma segreta dell’essere, l’appunto e la stesura di una fibra di contrasti.

Una forza enorme che attinge anche alla conoscenza condivisa con Robert Frost, laddove l’amore per le lunghe passeggiate e la dolcezza del Sud dell’Inghilterra diventano il taccuino di uno sguardo e il calore mitopoietico di una leggerezza brezzata:

«[…] Ma, per quanto io sia come un fiume / sul far della sera quando sembra che mai / il sole l’abbia acceso o scaldato, mentre / brezze oblique ne increspano la superficie, / il cuore, frazione di me stesso, felice / si libra per la finestra anche ora, verso l’albero / d’una nebbiosa e fioca, quieta valle; / non come un vanello che torni a gemere / per ciò che ha perso, ma come un colombo / che plani ad ali ferme sul nido amoroso. / Lì trovo riposo, e nel crepuscolo la brezza / solleva ciò ch’è vivo in me. È lì la Bellezza» (Bellezza).

La fuga dalla violenza espressiva indizia un convoglio, invece, di densità sofferta, di memoria cadenzata e nitida, di strettoie esistenziali e di liberazioni esuli, in continua librazione tra caducità e perennità:

«Un tempo avevo dato a ore come questa / il nome di malinconia, quando / non erano quelle di letizia e potenza / che stavano tornando come esuli in patria, / e le fragilità che lasciavano i propri tetti / sorridevano e si godevano, lontane da tutti, / dei momenti di perennità. / E fortunata fu la mia ricerca / finchè ciò che cercavo, nonostante / lo stessi cercando, ancora non indovinavo. / Fu breve quel momento: di nuovo in locande / e per le strade cercai il mio uomo / quando un giorno nel frastuono d’una mescita / a voce alta lui chiese di me, cominciò / a parlare, come fosse stato un peccato, / di come io pensassi e sognassi di lui / e dietro a lui corressi, un giorno dopo l’altro / viveva come uno messo al bando / per questo: cosa avevo da dire? / Non dissi nulla. Non feci che sfuggire. / e ora non oso seguitarlo troppo / da vicino. Provo a tenerlo in vista, / temendone il disgusto e peggio il riso. / Esco furtivo dal bosco della luce; / vedo il rondone lanciarsi dalle travi / presso la porta della locanda: prima d’approdarvi / aspetto e sento gli storni ansare / e piluccare come anatre: aspetto la sua fuga. / Lui va: io seguo: niente liberazione / finchè non finisce. Poi finirò anch’io».

L’annotazione e la memoria, l’accentuato solco della poesia, il rovello spazio-temporale sollecitano sovrapposizioni di colore e suono che si trasferiscono e si intersecano nella densa monografia dell’essere, nel suo ossimoro di voce poetante, che mai rimugina, bensì vive e lotta, nel violento permanere keatsiano dello sguardo e della percezione, come origine e conoscenza feroce nel mondo e del mondo:

«Tutto il giorno l’aria trionfa con due voci, / il vento e la pioggia: / come fosse in collera, forte si solleva / inglobando il suono della terra / che beve, nel soffocato sforzo, e vano, / d’ingoiare la pioggia. / A metà notte, pure, feroce è solo l’aria a parlare / con vento e pioggia, / finchè la muta fonte del fiume erompe / e ingloba pioggia e vento, / mugghia gigante nel gaio tuffo campestre / il trionfo terrestre» (La fonte).

Paolo Febbraro scrive:

«Autore subalterno, compresso dalla proletarizzazione della funzione intellettuale, solo camminando e annotando Thomas cerca di agganciarsi a un tempo diverso, a una cadenza naturale, e quindi ciclica, stagionale, trans-individuale. Le vaste letture della tradizione poetica inglese, la conoscenza di ballate e canzoni del folclore anglo-gallese e le ampie escursioni a piedi o in bicicletta attraverso i territori amati (lo stesso Galles, il Wiltshire, il Gloucestershire, lo Hampshire…) gli forniscono una segnaletica identitaria al tempo stesso precisa e trascendente, ben collocata e metastorica. I tempi della Natura sussumono quelli del lavoro nell’industria culturale, li circoscrivono, invece di inserirsi in essi come un’evasione compensatoria».[2]

Edna Longley, soffermandosi sulla poesia di Thomas e di Frost, unitamente collegate e, allo stesso tempo, disciolte, sostiene:

Le prime poesie di Thomas sono particolarmente ricche di strade e sentieri; anche se questo visibile simbolismo […] deriva dall’intersezione fra il suo labirinto interiore e i suoi viaggi nella campagna inglese e gallese. Tuttavia, The Road Not Taken – e se è una sagoma profetica – può essere a conoscenza di tutto ciò. Può prefigurare più generalmente il paesaggio psicologico della poesia thomasiana. Chi parla è un “Io” diviso: un Sé frazionato sia nelle presente sia in incarnazioni presentie  future. E lo stesso titolo della poesia accentua non la strada potenzialmente presa, ma quella impedita: di qui il desiderio. Nella poesia di Thomas, la bramosia per una via “migliore”, per opzioni perdute e sequestrate, si connette con la forza motrice del desiderio.[3]

Se, quindi la poesia celebra il suo vortice epifanico, la taciturna densità dell’istante aggiunge «il ritmo dispiegato e tridimensionale di oggetti naturali, colline, alberi, prati, gorgheggi di uccelli, flussi d’acqua», la stessa epifania «si dispone negli spessori della memoria letteraria, e poetica in particolare, poiché la poesia è la descrizione grafica della propria stessa cadenza, e non ha paura dei propri echi e dei propri calchi, in quanto la memoria non è originalità lessicale, ma riattivazione, connessione con il già esistente, riscoperta sorprendente[4]».

Andrea Caterini afferma:

Ci sono scrittori per cui la poesia è qualcosa di innato, e la consumano così come si consuma o si incendia la giovinezza (Rimbaud, Keats, fino al nostro pittore visionario, Scipione). Per altri, che sembrano nutrire per la poesia un rispetto finanche reverenziale, arriva solo più tardi, quando gli strumenti per leggerla e giudicarla sono tanto solidi da fargli credere sia maturo il momento per poterne loro stessi scrivere. Thomas, che sulla poesia aveva un continuo confronto col suo amico Robert Frost, è di questi secondi (il primo componimento lo scrisse a trentacinque anni), e crediamo sia stata una fortuna abbia atteso, non abbia avuto fretta, così come al contrario ne aveva avuta lavorando agli altri suoi libri, con cui sosteneva se stesso e la famiglia. Ma quella scoperta tardiva della poesia la avvertiamo nel ritmo calmo e paziente dei versi. Non si confonda però la calma per apatia, e neppure per una forma di ostentata saggezza. Thomas è un uomo lacerato dentro (si era sposato giovanissimo perché aveva messo incinta la sua futura moglie, ma segretamente nutriva desideri omosessuali; soffre di depressione e ha fasi acute di irritabilità) e mentre osserva il mondo gli dona la sua cerebralità – come se la sua mente offrisse alle cose, e alla loro organizzazione (cioè a un sistema di significati) un ritmo.[5]

Il segreto pattern dell’esistente, vive di un consueto seppellimento ed esumazione, sommersione ed emersione (Il ponte). La parola appartata, il consorzio memoriale, la materia verbale celebrano, quindi, oblio e ricordo in un odore di interstizi e infanzia, percezione coperta e investimento, lievità di sogni e dimore perdute («E seppe di sale il mio cibo, e la mia quiete, / di sale e di senno poiché quel verso / parlava di quelli coperti dalle stelle, / i poveri e i soldati, esclusi dal riaversi»):

«Tante sono le cose che ho scordato / che un tempo furono – o non furono – molto per me, / perdute, come il figlio di una donna senza figli / e i figli di quel figlio, nell’incorrotto / abisso di ciò che non ci sarà mai più. / Ho scordato anche i nomi dei potenti / che combattendo hanno perso e vinto vecchie guerre, / dei re, dei demoni e degli dèi, e di molte stelle. / E adesso scordo quante cose ho scordato. Ma cose ci sono, ancora ricordate, minori di ogni altra. Un nome che non ho scordato / – per quanto sia solo un vuoto e nudo nome – / non può morire perché ad ogni primavera / i tordi imparano a dirlo col canto. / A mezzogiorno ce n’è almeno uno a  dirlo / chiaro e pungente – sempre e soltanto il nome. / Se sto pensando forse all’odore del sambuco / che sembra cibo, o mentre mi appago / con quello della rosa canina, uguale alla memoria, / ecco che a questo nome mi giunge gridato / chissà da quale cespuglio, detto e ridetto ancora / da un volatile, di un tordo la pura parola» (La parola).

Roberto Galaverni scrive:

Thomas è un poeta legato al mondo campestre, alla natura, al paesaggio del Galles e soprattutto dell’Inghilterra meridionale. […] Le sue poesie sono concepite da qualcuno che attraversa la campagna (quanti sentieri, quante stradine nei suoi versi; e poi gli uccelli, gli alberi, le acque, certe figure di viandanti, di uomini al lavoro, di bambini), e che intanto guarda, riflette, soprattutto ascolta. Sono le poesie di un passeggiatore che cammina e pensa, e che dunque si ferma anche ad annotare le sue osservazioni, come cercasse la legittimazione, la solidificazione reciproca tra immagini, pensieri e parole. Saranno proprio le annotazioni su suoi taccuini campestri il punto di partenza della sua scrittura poetica. Questa intensità percettiva, questo sentire così pieno e totale, potrebbe forse far pensare al nostro Pascoli più impressionista, se non fosse che Thomas non cerca nel paesaggio naturale e nei suoi elementi un punto di fuga, un’emozione circoscritta, uno sfondamento nel mistero, quanto un termine di commisurazione affidabile, un territorio non particolaristico su cui provare a definire la propria identità, la curvatura del proprio destino.[6

I field-notes rappresentano sì il tempo campestre, il viaggio naturale, il vissuto periscopio dell’anima e il pronunciamento delle notizie dal mondo («Tutto mi è stato annunciato; niente che potessi prevedere; / ma ho imparato il suono del vento / quando queste cose fossero state vere»), ma sono anche l’implacabile sostanza del parto della sua coscienza, la semina e la potenza dell’attesa, e, infine, la profondità verbale slogata del tempo («Fu un’ora distesa, allungata, / nulla è restato / incompiuto; ogni giovane seme / senz’altro disseminato. / E adesso, dà ascolto alla pioggia / lieve e senza vento, / per metà bacio, per metà pianto, / ad assopire l’evento»), come una faglia di una manciata di terra e di nome:

«Sì. Ricordo Adlestrop – / il nome, per un caldo pomeriggio / in cui il treno espresso vi si arrestò / insolitamente. Era la fine di giugno. / La vaporiera fischiò. Uno schiarirsi di gola. / Nessuno lasciò la nuda banchina, / nessuno vi giunse. Ciò che vidi / fu Adlestrop – il nome soltanto / e salici, epilobio, ed erba, / e regina-dei-prati, e secchi covoni / non meno fermi, disposti e solitari / che in cielo gli alti cirri. / E un merlo in quel minuto cantò / lì presso, e attorno a lui, più persi, / da molto più lontano, tutti gli uccelli / delle contee di Oxford e Gloucester» (Adlestrop).

La decisione di arruolarsi nel luglio del 1915 (morirà colpito da una granata tedesca nei pressi di Arras nell’aprile del 1917), è il fatto distintivo di una netta comunione di illuminazione e sconfitta, in cui la toponomastica e la geografia cadenzata del reale, la connettività del gesto e l’officina muta, il transito ineludibile e dimenticato, rappresentano la feconda energia di labilità diverse, di figure, di natura e di destino.

La sedimentazione esplorata della parola raggiunge l’apicale distinzione oltre l’anonimia dell’umano in guerra. Il tempo frazionato e sincopato del taccuino riconosce la dura e dislocata dis-umanizzazione della guerra meccanica.

È la relazione con le cose a solcare, a dissodare e incavare l’immaginazione decisa di ciò che vive (Scavare), come un acro trascurato e gioioso.

Il tempo, la sua fragranza, il colore accumulato, divengono rammemorazioni, schegge impazzite, restituzioni osservate che si fondono nell’ultima luce uscita dal mondo:

«Dovrei quest’oggi / prendere a cercare, anche se fino al cielo / e all’inferno, senno e forza pari a questa bellezza, calcando la polvere chiara macchiata di gocce scure, / nella speranza di trovare ciò che vado cercando, / dando ascolto a cose liete in apparenza / e passeggere, di cui nulla sappiamo, nel noccioleto? / O devo essere contento con lo scontento / come rondini e allodole lo sono con le loro ali? / O devo chiedere ancora, finito il giorno, / che sia la bellezza, e ciò che posso aver inteso / per felicità? E lasciare che tutto scivoli via, / lieto, sfinito o l’uno e l’altro? O sapere forse / d’esser stato spesso felice, prima, per un po’ / scordando quanto sono imprigionato, / quanto rapido a incupirsi, al nulla vagando, / sia il Tempo? Non so afferrare il cuore del giorno» (La gloria).

Facendosi voce del respiro, poi transitano, trascinandosi nell’analogia, nella metafora e nell’equivalente atonia delle intuizioni, in cui, come asserisce Febbraro:

ogni pianta e le diverse locande rurali, sono profondamente psicologizzati; ma questo non vuol dire totalmente espugnati dalle proiezioni mentali, né tradotti in equivalenze simboliche. È una strada a due sensi, come in ogni vero mondo poetico: gli elementi esterni alla coscienza sono investiti dalle proiezioni della mente, ma conservano una sufficiente autonomia per scompigliarne le geometrie. Le cose accolgono getti di luce – spesso oscura – del Sé, ma rimandano anche riflessi diversi, anche soltanto oggettivi, che agiscono come fattori in architetture più solide, cose, forse più sane, di certo esteticamente felici.

È una sospesa e decisa vitalità che si muove decisa verso il numinoso stupore epifanico e che, nella stessa direzione, frequenta ogni instabilità di luce e paesaggio.

Le strade rappresentano la continuazione non obliata della realtà. Una perdurata compiutezza che non esclude e in cui le curvature svelano un paradiso ottenebrato.

L’esito di una transazione, conclusa tra memoria conscia e inconscia, porta così  all’estremo la tesa finitudine, l’oscurità fatale e la rivelazione: «E tuttavia sono quasi innamorato del dolore, / di ciò che è imperfetto, di gioia e di guerra, / di quanto ha una sua fine, di vita e di terra, / di questa luna che mi abbandona oscuro sulla porta».

Il sentiero, sezionato e descritto, dischiude il suo rasentato e fragile percorso di stille, serpeggiante d’argento, intuito e battuto dai bambini, infine socchiuso di illusione e meraviglia:

«Al di là di un argine, di un parapetto / che protegge da un bosco che scoscende / sotto la via, corre un sentiero. Consente / ai bimbi di guardare il lungo e uniforme pendio, / fra i rami di faggio e di tasso, fin dove / un albero caduto ferma la vista: mentre gli adulti / si accontentano della via e di quanto vedono / al di qua dell’argine, e di quanto i bambini dicono. / Il sentiero, con un serpeggiare d’argento, è stillante, / rasentato e infine invaso dal muschio più sottile / che tenta di coprire le radici e il calcare friabile / con oro, olivastro o smeraldo, ma invano. / I bambini lo segnano. Hanno spianato l’argine / sulla cima e l’hanno inargentato fra il muschio / col camminarvi sopra, anno dopo anno. / Pure la via è senza case, e non conduce a scuole. / vedervi un bambino è raro, e lo sguardo / non coglie che la via stessa, il bosco che v’incombe / e sotto si spalanca, e il sentiero che sembra / condurre a qualche leggendaria o fantastica / contrada in cui gli uomini hanno voluto andare, / finchè, all’improvviso, cessa dove cessa il bosco» (Il sentiero).

Per Thomas, allora, la stessa poesia

vuol dire vitalità in attesa della condanna, intrattenimento della fine, intensificazione della presa su oggetti che si stanno per lanciare via da sé, per lasciarli al loro tempo permanente e fragilissimo. Combattere nel fango francese vuol dire salvare la terra inglese; lo stesso è scrivere poesie: rappresentare l’intero campo arato, non più il semplice solco della stenografia appoggiata sui taccuini.[7]

Il luogo è la bruta bellezza di una prodezza in atto, per dirla alla Hopkins, in cui poter sperimentare l’accento del mito e della tradizione, la narrazione tumefatta e stupefatta  di un culto di voce e sopraffina luce. La meditata estasi dei rimandi, che si increspano, si disabitano, chiude le sue aperture di interezza alla spezzata solitudine:

«Pioggia di mezzanotte, solo la pioggia selvaggia / su questa capanna tetra, e solitudine, ed io / a ricordare ancora che dovrò morire / senza ascoltare la pioggia o ringraziarla / perché mi dilava e mi fa puro come mai / da quando sono nato a questa solitudine. / Beati i morti cui la pioggia dà pioggia: / ma prego che chi ho amato, un tempo, / non stia morendo, stasera, o a letto sveglio / solitario, ascoltando la pioggia, / nel dolore o in tale impotente / compassione fra i vivi e i morti, / come un’acqua gelida fra canne spezzate, / spezzate a milioni, rigide e ferme, / come me, privo d’ogni amore che questa pioggia / selvaggia non abbia dissolto, tranne quello per la morte / se amore può esserci per ciò che è perfetto / e non possa, dice la tempesta, disilludere» (Pioggia).

L’elegia, il residuo, il detrito dei lasciti, il mondo conservato compiono il loro passaggio. La mentalizzazione delle sillabe raggruma ogni fatalità nell’attesa. L’opacità di Thomas è il riflesso di un’opzione negativa, laddove la creaturalità, e quindi la corporale presenza degli oggetti e della Natura, rappresentano la metafisica unione di ritagli splendenti e sbandamenti.

Non è evasione e nemmeno fuga ciclopica dello sguardo, bensì rifratta tenebra, somiglianza e accoglienza di immagini emergenti, che agganciano e intrecciano «abstract meditation» e «visible beauty».

Pertanto, «il suo materialismo darwinista gli impedisce le fughe nell’irrazionale, nell’animistico, e apre in lui piuttosto alla rappresentazione della quarta dimensione, il tempo[8]». Il suo ingresso nella dimensione naturale è subìto, diventa parcellizzazione della mens semplificata e poesia dell’io frantumato, come arguisce Febbraro:

«Va nella Natura per subirla, per farsi da lei interrogare, o sconcertare, incalzando la “strada ogni volta presa” con le altre potenziali, perdute e per questo attivanti. Un paesaggio di colline, stagni e boschi come quello dell’Inghilterra meridionale è anche una forma della mente: attraversarlo, rievocarlo, comporta condensamenti e rarefazioni, accostamenti alla pienezza e svuotanti emorragie».[9]

Tale frantumazione riprende la coscienza di una dislocata rappresentazione e narrazione sconvolta. È poesia-crocevia, dramma lacerato e lacerto di speranza, segno unico e irripetibile di un incontro fervido di figurazione e mondo, in cui la percussione di ogni abbozzo si situa nella nostalgia rifilata e congiunta della fitta scomoda della propria demarcazione, che ha forma nella sottigliezza[10], nella terminazione contrappuntata, nella sintassi esperita e nella mancanza come sparo di  flatus vocis.

[1] Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017.

[2] Febbraro P,., Introduzione, in Thomas E., cit., p.19.

[3] Longley E., Under the Same Moon. Edward Thomas and the English Lyric, Enitharmon Press, Londra 2017, pp.182-183.

[4] Febbraro P., cit., p. 20.

[5] Caterini A., Edward Thomas «La strada presa» per incontrare (tardi) la poesia, in “Il Giornale”, 1 dicembre 2017.

[6] Galaverni R., Il cantore gentile della natura che una granata mise a tacere, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 26 novembre 2017.

[7] Febbraro P., cit., pp. 23-24.

[8] Id., cit., pp.26-27.

[9] Id., cit. p.28

[10] Cfr. Schmidt M., in Lives of the Poets [1998], Vintage Books, New York 2000, p.571.

Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017, pp. 192, Euro 19,50.

Thomas E., La strada presa. Poesie scelte, a cura di Paolo Febbraro, Elliot, Roma 2017.

Caterini A., Edward Thomas «La strada presa» per incontrare (tardi) la poesia, in “Il Giornale”, 1 dicembre 2017.

Galaverni R., Il cantore gentile della natura che una granata mise a tacere, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 26 novembre 2017.

Longley E., Under the Same Moon. Edward Thomas and the English Lyric, Enitharmon Press, Londra 2017.

Marucci F., Storia della letteratura inglese. Dal 1922 al 2000. I. Il Modernismo, Le Lettere, Firenze 2011.

Schmidt M., in Lives of the Poets [1998], Vintage Books, New York 2000, pp.568-576.

MINDHUNTER. Il viaggio dentro la mente che mente di J. Douglas

di Irene Battaglini 28 novembre 2017

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A tutta prima, anche intuitivamente, Mindhunter sembra essere il titolo riuscito compendio di un viaggio nella mente dell’assassino seriale, sia che si alluda alla fortunata serie prodotta da Netflix,[i] sia che si tratti della bella edizione di Longanesi[ii] firmata da John Douglas,[iii] – americano doc fondatore nel 1980 dell’Unità Investigativa di supporto all’FBI antesignano del primo programma di Criminal Profiling e autore del CCM,[iv] il primo manuale di classificazione diagnostica di Criminologia – con la collaborazione di Mark Olshaker, scrittore e produttore pluripremiato. Il sodalizio tra Douglas e Olshaker ha prodotto lavori pregevoli, ispirati a fatti di cronaca e delitti irrisolti, a personaggi noti per i propri crimini e a problemi legati alla colpevolezza e all’intenzionalità.[v]

Mindhunter significa “cacciatore della mente”, o meglio “cacciatore di menti”. Una sorta di risposta speculare alla forma mentis del serial killer, che per Douglas non funziona diversamente, alla base, da quella del predatore per eccellenza, il leone. Così recita l’incipit di Mindhunter:

«Mettetevi nei panni del cacciatore. Pensate a un documentario sulla natura: un leone nella pianura del Serengeti, in Africa. La belva avvista un branco di antilopi all’abbeverata e in qualche modo glielo leggiamo negli occhi: ne sceglie una fra migliaia. Questo, perché è allenato a percepire la debolezza, la vulnerabilità, la diversità dell’antilope in cui riconosce la vittima ideale. Alcune persone si comportano allo stesso modo. E se appartengo a quella cerchia, anch’io vado a caccia tutti i giorni, in cerca della mia vittima. […] È l’eccitazione della caccia che spinge questi individui all’azione. Un’eccitazione, credo, paragonabile a quella del leone nella savana. E poco importa se la loro predilezione va ai bambini, alle donne, alle prostitute o ai membri di qualsiasi altra categoria, oppure se cacciano in maniera indiscriminata. Per certi versi, sono tutti uguali».[vi]

Fin dalle primissime frasi, il lettore riesce a “pensare” senza fatica dal punto di vista di John Douglas, e a subire, inconsapevolmente, un primo influenzamento iniziando a “ragionare” in termini di predatore e preda, di vittima e carnefice, in una sorta di gioco “stimolo-risposta” carico di infinite complessità, rinforzi e varianti sul tema. Tuttavia, la psicologia dinamica fa continuamente da sfondo al tessuto narrativo, poiché sono tanti i riferimenti alla transgenerazionalità del trauma, alle implicazioni diagnostiche in psichiatria, alle teorie delle personalità.

A far da contraltare a questo ordito, sta una trama che rimanda continuamente ai problemi dell’irrecuperabilità del reo, della condannabilità e della capacità di intendere e volere, delle procedure giudiziarie americane. Già nel 1914 lo psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi scriveva:

«Io ritengo che attualmente sia possibile sottomettere sistematicamente i criminali a un’investigazione psicoanalitica, purché, naturalmente, l’esaminatore sia perfettamente padrone del materiale scientifico relativo e della tecnica psicoanalitica. Un simile compito è essenzialmente di pertinenza dei medici addetti ai tribunali, ma anche dei giudici, dei procuratori e degli avvocati con una formazione psicologica. Uno studio più approfondito della psicologia del “senso della giustizia” comporterà la riforma del sistema penale. Quando i fattori passionali (desiderio di vendetta o indignazione provata di fronte a una violazione della legge) saranno stati eliminati dalle motivazioni ispiratrici della punizione, anche le diverse pene saranno più adeguate al loro scopo, cioè tenderanno esclusivamente a proteggere la società e a “emendare” il colpevole».[vii]

Per catturare un serial killer bisogna entrare nella sua mente, capire i suoi pensieri, i suoi ragionamenti e prevenire le sue mosse. È proprio questo l’obiettivo esplicito dell’agente del FBI John Douglas. Il “saggio”, distribuito in 20 capitoli, leggibili anche in modalità random e non necessariamente nell’ordine proposto, si incentra sugli interrogatori che Douglas ha intrattenuto con numerosi criminali (principalmente assassini e stupratori seriali), compiuti al fine di “entrare nella mente di un serial killer”.

La domanda incessante, che fa da filo rosso a tutto il saggio di Douglas (che esce per la prima volta in America nel 1995 con il titolo Mindhunter: Inside the FBI’s elite serial crime unit per Scribner di New York), è apparentemente quella di individuare i processi che governano il comportamento di un assassino, cosa lo spinge a compiere un’azione tanto grave quanto violenta, e spesso in modo reiterato e compulsivo.

Quella del leone e dell’antilope, tuttavia, non è soltanto una metafora. Più verosimilmente potremmo definirla un’allegoria, poiché se la metafora rappresenta una dinamica che è trasferibile da un dominio semantico ad un altro, l’allegoria [dal lat. tardo allegorĭa, gr. ἀλληγορία, comp. di ἄλλος «altro» e tema di ἀγορεύω «parlare»] affida ad una raffigurazione a più livelli e ricca di implicazioni un senso riposto e allusivo, diverso da quello che è il contenuto logico delle parole, e necessita di essere interpretata diversamente dal suo livello “apparente”.

Il significato nascosto in questo caso non sta tanto nella dinamica di dominio e sottomissione che lega intrinsecamente il predatore alla sua vittima, quanto nella dialettica che lega l’Ideale dell’Io del Criminal Profiler (in cui si addensano le aspettative individuali e istituzionali in una sorta di viaggio eroico nelle fauci di creature infernali condannate a non essere mai più integrate nella vita sociale) al Super-Io, compromesso e frammentato – o qualche volta del tutto eclissato –, del Serial Killer, che si costringe in una sorta di violenza autoinflitta ad identificarsi – intrudendosi, seminando fallacie comunicative – nella mente dell’investigatore per tentare di opacizzarne la visione, cucendosi addosso il pentimento o un ravvedimento, come una falsa veste che possa garantirgli una libertà condizionale o qualche altro vantaggio agli occhi della macchina della giustizia.

A tenerli legati in una sorta di “bondage” relazionale è una sfida in continuo rialzo, alla ricerca di quell’angolo cieco e vulnerabile della mente dell’altro ma soprattutto ad eludere l’inciampo in una falla nella storia dell’assassino, che permetta di risolvere quella che diversamente appare come una sciarada di inestinguibile mistero: il tentativo, potremmo dire, di dare un senso, di attribuire una logica razionale a qualche cosa che diversamente risulterebbe essere la messa in atto di una modalità perversa di stare al mondo. E questo modo necrofilico di essere nel mondo, potrebbe risultare molto più angosciante, perché inspiegabile, perché votato all’idea di male come opzione fondamentale, rispetto ad una forma perversa di reagire a qualche cosa di traumatico e di atroce che è intervenuto nella prima infanzia del “soggetto ignoto”, che si trasforma a propria volta in vittima – del genitore violento, del destino persecutorio o di un danno al sistema nervoso –, aprendo quindi un qualche spazio controtransferale.

Non si tratta quindi “soltanto” di individuare, attraverso gli interrogatori, i processi che si trovano alla base del comportamento adottato dai criminali interrogati da Douglas, non solo di far emergere il conflitto primario e isolare il tratto perverso narcisistico che modella tutti i loro pensieri, ma di far luce sulla loro natura attraverso una osservazione del loro comportamento, come se si trattasse quasi di una sfida antropometrica. Che “tipo” di uomo si nasconde dietro il serial killer? Prosegue Douglas:

«Ma è ciò in cui divergono [i serial killer], ossia le tracce delle rispettive personalità, a fornirci una nuova arma per l’interpretazione di certe tipologie di crimini violenti e delle modalità di caccia e di esecuzione dei loro autori. Ho passato buona parte della mia carriera di agente speciale dell’FBI a cercare di potenziare quest’arma, e proprio questo è l’argomento del libro. Sempre, davanti a un crimine orrendo, si pone l’interrogativo assillante, fondamentale: che genere di persona può aver commesso una simile azione? Il lavoro di analisi che svolgiamo noi dell’Unità investigativa di supporto si propone appunto di dare una risposta a questa domanda. Il comportamento riflette la personalità».[viii]

Nei suoi interrogatori Douglas individua anche la capacità che hanno i criminali di distorcere la realtà; nel loro isolamento all’interno delle prigioni, gli individui presi in esame dall’agente erano stati in grado di elaborare risposte alternative a ciò che era veramente successo, risultando (solo nelle parole) innocenti accusati ingiustamente. È una caratteristica che Douglas riscontra spesso durante i suoi incontri, la capacità di mentire e di distorcere la realtà attraverso “la fantasia”. Sostiene il sociologo e psicoanalista tedesco Erich Fromm:

«Dunque, l’uomo si differenzia dagli animali perché è assassino; è l’unico primate che uccida e torturi membri della propria specie senza motivo, né biologico né economico, traendone soddisfazione. È proprio questa aggressione «maligna», biologicamente non-adattiva e non- programmata filogeneticamente, che costituisce il vero problema e il pericolo per l’esistenza dell’uomo come specie. […] La distinzione fra aggressione benigno-difensiva e maligno-distruttiva richiede un’ulteriore, più fondamentale distinzione: quella fra “istinto” e “carattere”, o, più precisamente, fra pulsioni radicate nelle esigenze fisiologiche (pulsioni organiche) e quelle passioni specificamente umane che affondano le radici nel carattere («radicate-nel-carattere o umane»). […] Gli uomini si distinguono fra di loro proprio rispetto alle passioni che li dominano. Per fare un esempio: l’uomo può essere guidato dall’amore o dalla passione di distruggere: in ciascun caso soddisfa uno dei suoi bisogni esistenziali: l’esigenza di «realizzare», o di muovere qualcosa, di «lasciare una impronta». Che la passione dominante dell’uomo sia l’amore o la distruttività, dipende in gran parte dalle circostanze sociali: queste circostanze, in ogni caso, operano in riferimento alla situazione esistenziale dell’uomo, data biologicamente, con le esigenze che ne derivano, e non a una psiche infinitamente malleabile, indifferenziata, come presume la teoria ambientalistica».[ix]

Se il comportamento riflette la personalità, l’approccio che Douglas utilizza per ogni individuo è differente, e si modifica a seconda delle informazioni di personalità che si riescono a ricavare; l’agente oscilla tra le polarità del “poliziotto buono” e del “poliziotto cattivo”, al fine di spingere il criminale stesso a una identificazione proiettiva che gli permetta di fidarsi parzialmente e di far emergere le parti mancanti del mosaico del suo romanzo criminale.

John Douglas, Mark Olshaker,

Mindhunter. La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano

Longanesi, Milano: 2017, pp. 384

Euro 18,60

[i] Joe Penhall, Mindhunter, Netflix, Usa 2017 – https://www.netflix.com/it/title/80114855

[ii] John Douglas, Mark Olshaker, Mindhunter. La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano, Longanesi, Milano: 2017.

[iii] Brooklyn, NY, 1945.

[iv] John E. Douglas, Ann W. Burgess, Allen G. Burgess, and Robert K. Ressler, Crime Classification Manual. A Standard System for Investigating and Classifying Violent Crimes, Jossey-Bass, Wiley Imprint, 989 Market Street, San Francisco, CA 94103-1741

[v] http://mindhuntersinc.com/books/

[vi] Mindhunter, op. cit., p. 21

[vii] Sandor Ferenczi (1914), Psicoanalisi del Crimine, in Tutte le Opere, pp. 144-145, vol. II (1913-1919), Raffaello Cortina editore, Milano: 2009.

[viii] Mindhunter, op.cit., p. 22

[ix] Erich Fromm (1973), Anatomia della distruttività umana, pp. 21-22. Mondadori, Milano: 1975,

Il chiarore senza riposo di Antonio Gamoneda

di Andrea Galgano 22 novembre 2017

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Il chiarore senza riposo di Antonio Gamoneda. Lettura di Andrea Galgano

Vidi lavande sommerse in un lago di sangue e questa visione arse in me.
Oltre la pioggia vidi serpenti infermi, belli nelle loro ulcere trasparenti; frutti minacciati da spine e ombre e fiori eccitati dalla rugiada. Vidi un usignolo agonizzante e la sua gola piena di luce.
La realtà è il mio pensiero. Sto sognando l’esistenza ed è un giardino torturato. Ma morirò. Frattanto, passano davanti a me madri incanutite nella vertigine.
Il mio pensiero è anteriore all’eternità ma non c’è eternità. Ho consumato la mia gioventù davanti ad una tomba vuota; mi sono estenuato in domande che ancora battono in me come un cavallo che galoppi tristemente nella memoria.
Ancora mi aggiro in me stesso sebbene sappia che ormai cadrò nella freddezza
del mio stesso cuore.
Così è la vecchiaia: ore incomprensibili, chiarore senza riposo.

ANTONIO GAMONEDA

La poesia di Antonio Gamoneda (1931, Premio Cervantes nel 2006 e precedentemente Premio Castilla y León (1985), premio Nacional de Poesía (1988)) percepisce il cardine della perdita, come sentiero di appartenenza e dolore, lasciando affiorare la marcatura dell’evento, il suo segno cifrato, la vertigine, la discesa della propria finitudine (attraverso la frattura misera e menzognera della Guerra Civile, che ha lasciato la sua impronta di miseria, lotta e affrancamento desolato), filtrando così

«una strenua tensione etica, una sofferenza per qualcosa di cui ci si sente privati, di un paradiso mai avuto più che perduto, che è a mio giudizio un possibile dato comune a molta poesia della sua generazione. […] Gamoneda crea un linguaggio poetico nuovo, aprendo spazi inediti agli universali dell’uomo e della celebrazione del sentimento, con particolare attenzione, in questo caso, alla miseria e alla quotidianità del dolore e dell’ingiustizia. […] se Gamoneda non è mai stato in linea con le poetiche del momento e la sua voce, pur così intensa e radicata nella realtà spagnola, è sempre stata piuttosto marginale […]».[1]

La pubblicazione del testo Canzone erronea. Canción errónea[2], a cura Roberta Buffi, edito da Lietocolle, restituisce la sintassi tesa della lotta e della germinazione disperata, la lacerazione dell’origine, l’agone dell’inesistenza, l’abisso nebbioso e immenso dell’attesa della fine. La destinazione del sangue è la sovrabbondanza abrasa dell’essenziale:

C’ERANO / vertigine e luce nelle arterie del lampo, / fuoco, sementi e una germinazione disperata. / Io laceravo l’impossibilità, / sentivo fischiare la macchina del pianto e mi perdevo nel folto vaginale. Entravo / anche in urne poliziesche. Dimenticavo / così gli occhi bianchi di mia madre. / Vivevo. / Pare. / Vivevo. / Proprio ora bado distratto al mio rantolo. Non vi è in me / memoria, né oblio: soltanto e semplicemente lucidità. / Sono scomparsi i significati e nulla ormai intralcia / l’indifferenza / Una volta per tutte, mi sono seduto / ad attendere la morte / come colui che attende nuove già note.

Poi ancora, l’infinitesimo scontro della vita apre la chiusa ebbra della propria scomparsa e finitezza, dove la sistole di suono del nostro essere ci determina, rilasciando un pellegrinaggio di tensione e acume.

Ma il tempio di Gamoneda è la scomparsa dove vedere le ali tremare fra ceneri e vetri e la gravità, afferrata a rami immobili nelle porpore arse: «Vidi / la passione girevole degli uccelli / sulla macchina azzurra della gioia. / Vidi / la geometria ardente del lampo. / Alla festa finale, arse la porpora / dell’ultimo giardino. / Vennero meno / le cifre del lampo e il bronzo si staccò / dai rami immobili».

Un paesaggio di scomparsa che attinge così il proprio giacimento nella mistica di suono, nello smarrimento immenso, nell’interrogazione dell’impossibile, che distende la sua purezza di limiti e la sua ampiezza di negazione (« «Ignorare per vedere», dici anche. / Ma vedere cosa? Non potrai / far altro che lasciare i tuoi occhi ardere. / Cerca di capire / esiste soltanto una parola vera: non»).

Il ricordo del volto (e dei volti) e l’inattingibile spazio della morte, della fine e del limite, attraversano il pianto azzurro tra le tenebre:

INTENDO ascoltare la musica sistolica e il suo involucro di / pianto, ma mi disperdo nella fugacità di volti che prendono / forma nella pioggia, volti così svelti che neppure arrivano ad esistere. / D’altronde so piangere a stento, e allora mi chiedo: qualcuno / forse sta piangendo in me? / Non importa. Io voglio sentire la musica sistolica oppure, non so, / vedere qualcosa, vedere, per esempio, l’ultimo legno, la sua / assenza di tremito dinanzi all’abisso. Vedere / il tempo nell’immobilità e poi / avvertirne piano la scomparsa. / Però no. /  A pensarci bene, può essere che mi sbagli: la sola cosa vera è / la falsità e / le parole sono prive di significato; la parola «vivere», per / esempio, non significa per quanto sia / spesso insanguinata. / Però, a pensarci ancor meglio, / la parola «agonia», per esempio, significa. / Non / è chiara dunque la ragione linguistica. / Non / è chiaro: agonizzare senza causa né desiderio. / È / per di più molto crudele questa e qualsiasi altra / significazione. / Auspicabile sarebbe, / invero, non avere pensiero; riposare nella falsità, e poi, / invero, senza timore né speranza, / finire.

La paura, il dolore, la negazione sono la gemma infilata nei dettagli della sua poesia («Luce, Altre luci, Limiti, Impossibilità, Insistenze, Contraddizioni, Feste funebri, Cause cieche, Smarrimenti, Cause linguistiche, Indifferenza, Negazioni, Oblio, Ira, Agonia, Legno, Poesie con nome, Perdite») che esprime il taglio dell’epoca e dell’io, l’alchimia, il simbolo e la vertigine, il lessico del pianto, la distruzione delle assi, la parola che annoda l’acciaio e le viscere.

L’approssimarsi della fine destina l’incandescenza del limite a perdurare nel suo legno, nella propria peculiare orfanità e clandestinità. La poesia di Gamoneda, che «crea realtà […] e genera conoscenza», intensifica il dramma del vivente e prolunga la sua narrazione verso la morte, la temporalizzazione consumata, l’intensificazione della voce:

Avverto / oli accorti, e stanchezza, e spine; lo smisurato ago sui miei occhi. / Scendo / orientato da mensole. Non so. Vado, scendo / i gradini profondi della vecchiaia. / Si vede: / la falsità è la nostra chiesa. / ormai / sto arrivando, / ormai / arriverò. / Adesso, non so perché, devo cantare circondato da specchi. / Mettete a punto la vostra coclea, le vertebre successive / dell’ira dorsale, l’anatomia / conduttrice della paura. / Dice / questo la mia voce nella sua impostura, / dice: / Vivere è cosa strana, riposare nella collera. Larve illustri / libano nelle nostre vene. / Vivere / è cosa strana. Non conviene salvarsi. / Non / c’è salvezza nel sandalo e neanche nelle radici torturate. / È indubbio, / non c’è salvezza nel legno. / Raccomando pertanto / la più sublime indifferenza. / Importa solo / agonizzare con una certa / dolcezza. / È / cosa strana anche l’agonia. / Eppure / alcuni animali copulano in maniera fugace. Persino io copulo / con tenebrosi fiori, con le cifre astratte, e, ancor più spesso, / con fossili azzurri e / anziane gialle. / Ci fosse / una corda finale, le terze ombre / sarebbero penetrabili. / Però no, non abbiamo / una corda finale. / Nient’altro che / legno ammattito, sì, legno soltanto.

Essa, quindi, si intesse di impulsi musicali che si antepongono alla memoria e al pensiero («Io non posseggo il mio pensiero finchè la mia scrittura non me lo rende sensibile/intelligibile, o in altre parole: quello che dico lo so solo dopo averlo detto», afferma l’autore), rivelando la propria essenza, il proprio ritmo simbiotico con quello del poeta stesso (visto come una sorta di cittadino di passaggio) e della forma conseguita, facendo di Gamoneda, come scrive Clara Janés,

«un chiaro esempio di ciò che Maurice Blanchot attribuisce allo stile: «La parte oscura, legata ai misteri del sangue, l’istinto, profondità violenta, densità di immagini, linguaggio di solitudine in cui parlano ciecamente le preferenze del nostro corpo, del nostro desiderio, del nostro tempo segreto ed esclusivo di noi stessi[3]». Ovvero ciò che Gamoneda lascia scritto procede direttamente dal suo sangue e dai suoi umori, per questo insiste nella simbiosi tra la sua forza interiore e la parola che gli viene data, quando esprime in che cosa consiste questa sua poesia di maturità, della quale, seguendo Pasternak, si è detto «prosa in poesia», e che lui definisce come «blocchi di linguaggio che, nello stesso tempo, sono blocchi di senso e di suono […] non distinguo né verso libero né prosa poetica, ma blocchi ritmici»; blocchi nei quali «si attivano le parole e sono esse (con la tua forza musicale e la tua vertigine intellettuale, ma loro) quelle che estraggono la tua lucidità la tua molta o poca lucidità».[4]

In un’intervista con Alberto Pellegatta, il poeta afferma il valore di espansione, per così dire, della coscienza, della poesia. Il suo mescolamento alla storia però non è in grado di cambiarla:

La poesia è, già l’ho detto, poco o per nulla operativa nell’ordine sociale. Ma il tempo la espande, penetra nella cultura generalista e, nonostante il freno che le impongono i poteri (il potere economico e il suo “sacrestano”, il potere politico), porta benefici alle capacità intellettuali e alla sensibilità. In questo senso, sì, è conduttrice di progresso, ma questo progresso non modificherà grandi cose nella realtà storica. Lo ha detto bene Sartre nel suo Orfeo nero: «La poesia è irrimediabilmente soggettiva; non può modificare le realtà oggettive».[5]

I sentieri lucidi di Gamoneda non ci donano però una cupio dissolvi, bensì lo sferzato panorama oscuro del dolore, il fulgore degli equinozi, la nudità che fende le sorgenti, il desiderio che il corpo amato possa libare nelle piaghe.

L’incandescenza frontale e la vigilanza affermano l’agone tra l’inesistenza e la vita, l’immobilità silente e il segno sconosciuto di una orfanità di parole cieche:

UNO sconosciuto abita in me. Agonizza e, per agonizzare, adopera il mio cuore. / Penso a mio padre impazzito alla vista di frutti molto freschi, / penso all’amore e alla morfina. No, non è mio padre. E dunque, chi agonizza in me? / Può essere che io stesso sia lo sconosciuto e che il mio cuore non sia mio per quanto io ne alimenti i battiti. Può essere. / Comunque non c’è problema. A ogni modo, sarò, sono già, orfano di me stesso.

Tale lucidità è indizio di un attraversamento del corpo nel tempo, nello spazio e nello sguardo che costruisce il mondo. Le sue sillabe nere lucidano la corolla del miracolo transitorio del vivente, il grido dei coltelli al crepuscolo, la cenere scrollata dalle palpebre e l’inscrivibile passaggio delle mani:

UN fiore bianco simula l’unità. / La luce si vale delle calamite del silenzio / e dalla luce calano sillabe d’oro. / Sì, ma / pensa tu adesso l’unità, la misera / unità, o meglio, / pensa a te stesso, pensa / la tua consistenza: coaguli, / incertezza, disgusto. / In confusioni bianche, / i numeri si arrestano. / Non / c’è unità. / Nelle tombe vuote, / galleggia l’assenza e, / nelle ultime celle, / un dio incerto affonda le sue mani e apre / la ferita dei limiti. / Non / ci sono cifre viventi. / Soltanto / la falsità è sacra.

Dando al pensiero di morte dignità poetica, da una parte lo restituisce alla vita e dall’altra lo rende meno minaccioso, connotandolo di una sua propria intelligibilità, tentando di spiegare l’inspiegabile, rendere saturo l’insaturo, comprendere l’incomprensibile e infine ingabbiare il tremendum, la materia oscura e perturbante, l’immobilità che crea geometrie insonni:

MI stai chiamando in te stessa. Anch’io voglio chiamarti / in me, ma non ne sono capace. È facile morire, dici, ma non ti credo. / Tu pensi che io sia vivo e che la morte stia in attesa / sotto le mie palpebre, ma io non ti credo benché l’affermazione / arda sulla tua lingua. Dimmi: / Ancora tubano le colombe, cantano i seminatori e i cani / gironzolano sotto il tuo sguardo? / Potresti avere ragione; forse ciò che dici è vero e la menzogna / è in me perché non so vivere, ma devi capirlo: è questa / la mia innocenza. Dimmi: / Sono certezza le mele decomposte nelle mani degli operai? / Se la decomposizione è certa tutto potrebbe essere certo. / In tal caso, devi restare umanamente ebbra, appesa alla potenza dei tuoi ultimi numeri […].

È una ricerca di senso attraverso il verso, l’illuminazione oscura che propaga interno ed esterno, fino alla purezza della dolenza, alla vibrazione del lampo, alla piagata trasmutazione dell’invisibile e alla risignificazione del grande sogno bianco.

Valerio Nardoni scrive:

«Il poeta inizia ad accogliere nella sua scrittura i segni dell’annullamento, tentando una vertiginosa scalata dell’abisso che si scava fra la persistenza dell’umano e il vuoto che l’attende: «Parlano le sorgenti nella notte, parlano nei magneti del silenzio. Sento la soavità delle parole dimenticate». Ecco in che senso si può affermare che questa poesia cerchi di dire l’indicibile: ciò non significa che essa si compiaccia di assurdi misteri, quanto che attraverso altre parole è capace di indurre sensazioni di cui non conosciamo la natura, che sentiamo senza saperle nominare. I valori cominciano a convergere, ed è così che il poeta imprime sulla pagina il senso della vecchiaia: il tempo del mondo e il proprio personale percorso non si scindono più, perché il futuro si è come prosciugato, anche felice-mente, con una sorta di ebbrezza […]».[6]

Nella ebbrezza della propria scomparsa, nel vuoto dilatato e cieco di luce, nella perdita inestinta del padre, la morte diviene la madre del pensiero:

CI fu un tempo in cui le tue palpebre si chiudevano sui miei occhi. / Vidi la povertà nascondersi nel tuo fegato, la miriade / dei venerdì e la tua follia che ardeva nell’ospedale di Nerva. / Com’era luminosa la tua follia e quanto pesi in me ancora adesso. / Tu, ora, non abiti te stesso. penso, demenzialmente / penso che dormi tra le braccia di tua madre. / Bene. A ogni modo, / tu ed io torneremo a ricongiungerci e ai ignorarci. / Tu / ormai non peserai nel mio cuore.

Il suo mondo è attraversato da una creaturalità perduta, dall’ontologia della comparizione e dal sangue attraversato da gemiti («Sono io, / essere di solitudine, un corpo / vivo nella sua agonia? / Sono / la somiglianza di un sogno? / Per questo / è impossibile la certezza?»).

È il corpo ad incidere la sua peculiare ferita lambita dagli accidenti, dagli umori, dalla memoria, dallo spasimo interiore e dalle tenebre di legno, che sono ossatura, radice, croce, feretro.

Il corpo rappresenta il tempio della degradazione organica e nell’incontro d’amore diviene il luogo di celebrazione dei sensi, in un tripudio che allude a un corpo in decadenza («Ascolto l’ultimo / grido giallo. / Attraversando / cifre e ombre sono arrivato. / Non valeva la pena / tanta stanchezza senza destinazione») e al lievito del tremore di una coltre carnale scomparsa:

«L’oscenità comporta, a quanto pare, morte e sesso, e ad essa sembra possibile afferrarsi come forma di vita dentro quella che abbiamo definito frontiera. L’erotismo delle poesie, l’insistenza sui dati fisici che si mischiano con i sintomi del deterioramento e la malattia sembrano indicare questo; potrebbe trattarsi di una forma disperata, assediata dalle limitazioni, resistente ed energica, del carpe diem».[7]

Poi lo spazio della madre, originario e antico, l’interstizio della propria stanchezza piena di luce, il peso del morire:

AMO il mio corpo; le sue vertebre spaccate / da acciai viventi, le sue cartilagini / bruciate, il mio cuore appena umido / e i miei capelli impazziti / nelle tue mani. / Amo pure / il mio sangue attraversato da gemiti. / Amo la calcificazione e la malinconia / arteriale e la passione del fegato / che freme nel passato e le squame / delle mie palpebre fredde. / Amo lo stame cellulare, le feci / bianche infine, l’orifizio / dell’infelicità, le midolla / della tristezza, gli anelli / della vecchiaia e l’influenza / della tenebra intestinale. / Amo i cerchi / unti del dolore e le radici / dei tumori lividi. / Amo questo corpo vecchio e la sostanza / della sua miseria clinica. / L’oblio / dissolve la materia assorta / dinanzi ai grandi vetri / della menzogna. / Ormai / tutto è concluso. / Non c’è causa in me. In me non c’è / altro che stanchezza e / uno smarrimento antico: / andare / dall’inesistenza / all’inesistenza. / È un sogno. / Un sogno vuoto. / Però capita. / Io amo / tutto quanto ho creduto / fosse vivo in me. / Amai le mani / grandi di mia madre e / quel metallo antico / dei suoi occhi e quella / stanchezza piena di luce / e di freddo. / Disprezzo / l’eternità. / Ho vissuto / e non so perché. / Ora / devo amare la mia propria morte / e non so morire. / Un grande equivoco.

I dispositivi semantici, le giustapposizioni lessicali, i tropi, le segmentazioni segnano il termine della sua luce. L’uragano dei suoi segni e dei suo modi cantano sull’orlo dell’abisso l’ossido sulla lingua, il non essere aggrappato, in cui «la luce è l’inizio della causa invisibile», dove la bellezza dell’esistente racconta la sua insorgenza vegetale e «il vino elementare che apre i miei occhi / all’ultima alba».

È l’insorgenza delle radici, il gemito estremo del mare, la sillabazione dell’imminenza a racchiudere il pensiero della luce: violento germoglio, offerta ai vetri rotti degli occhi, i numeri dispersi delle cose.

L’ultimità della luce ricade come oblio di passi raggiunti e ricordo perenne di perdita non spenta, dove si evidenziano le orme nere, l’ora senza tempo, il clamore musicale del linguaggio: «LUCE. / dev’essere / l’ultima luce. / Sono / molto stanco. / Non / ricordo i miei passi. / Oramai / sono arrivato. / Non so / dove. / Sono / molto stanco».

Clara Janés afferma ancora:

«La sapienza dell’oblio conduce a qualcosa che si conosce, della quale, tuttavia si è stati purificati. Ma ha due facce: ciò che si è cancellato e ciò che non si ricorda ma la cui esistenza si è incarnata. Per questo motivo, tutto ciò che è stato esperienza trova spazio in quel qualcosa. Non si tratta di un sapere di non sapere ma di un sapere cieco incorporato. Costituisce, pertanto, una stupefacente totalità».[8]

Nella vita degli odori, nell’amore rammendato e rastremato della terminale nudità, abitato dalla dimenticanza dolente, la parola, che lega alchimia e mistero, ermetismo e oscurità, si spossessa nelle sue salite di assenza, si scortica, permea la stratificazione vitale, affermando già il suo contrasto, la sua fine nell’inizio, l’errore. La lacerazione dell’ombra, nella riscrittura indecente[9] di un ricordo disabitato, offre il suo tremito di eternità bruna, rinsaldando il suo ultimo patto luminoso con la morte:

AMAI. È incomprensibile come il tremito dei pioppi. / Mi sento smarrito ma so che amai. / Io vivevo in un essere e il suo sangue si univa al mio sangue e / la musica mi avvolgeva e io stesso ero musica. / E adesso, / chi è cieco nei miei occhi? / Delle mani passavano sul mio volto e invecchiavo lentamente. / Che cosa fu vivere tra ferite e ombre? Chi fui tra le braccia / di mia madre, chi fui nel mio proprio cuore? / Ho imparato soltanto a ignorare e dimenticare. È strano. / Ancora l’amore / abita nell’oblio.

[1] Antonio Gamoneda. La nitida essenzialità, a cura di Valerio Nardoni, in «Poesia», dicembre 2011.

[2] Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

[3] Gamoneda A., El libro por venir, Trotta, Madrid 2005, p. 243.

[4] Antonio Gamoneda. Di vertigine e oblio, a cura di Clara Jánes e Valerio Nardoni, in «Poesia», maggio 2007.

[5] La poesia oggi per Antonio Gamoneda, a cura di Alberto Pellegatta, (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/intervista-ad-antonio-gamoneda/), 1 ottobre 2013.

[6] Nardoni V., L’intensa elementarità del bianco nei versi di Antonio Gamoneda, in Gamoneda A., Libro del freddo, Città Nuova, Roma 2010, p.19.

[7] Casado M., El curso de la edad, postfazione del volume Gamoneda A, Esta luz. Poesía reunida (1947-2004), Galaxia Gutenberg-Círculo de Lectores, Barcelona 2004, p.616.

[8] Jánes C., cit.

[9] Marcos Rodríguez J., Antonio Gamoneda: “Soy un indignado que disiente”, “El País”, 3 novembre 2012.


Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017, pp. 102, Euro 15.

 

 

 

Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

–          Esta luz. Poesía reunida (1947-2004), Galaxia Gutenberg-Círculo de Lectores, Barcelona 2004.

–          El libro por venir, Trotta, Madrid 2005.

–          Antonio Gamoneda. Di vertigine e oblio, a cura di Clara Jánes e Valerio Nardoni, in «Poesia», maggio 2007.

–          Antonio Gamoneda. La nitida essenzialità, a cura di Valerio Nardoni, in «Poesia», dicembre 2011.

–          Libro del freddo, Città Nuova, Roma 2010.

–          Solo luce, Empiria, Roma 2009.

–          Cecilia e altre poesie, Ponte Sisto, Roma 2012.

–          Un armadio pieno d’ombra, Editori Riuniti University Press, Roma 2012.

–          La poesia oggi per Antonio Gamoneda, a cura di Alberto Pellegatta, (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/intervista-ad-antonio-gamoneda/), 1 ottobre 2013.

Marcos Rodríguez J., Antonio Gamoneda: “Soy un indignado que disiente”, “El País”, 3 novembre 2012.

L’ordine uncinato di Giancarlo Pontiggia

di Andrea Galgano 22 ottobre 2017

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L'ordine uncinato di Giancarlo PontiggiaGiancarlo Pontiggia (1952), con Il moto delle cose, edito da Mondadori, calibra una indocile sapienza refertuale con il passo intessuto del magma tragico ed essenziale dell’esistenza. Nei basamenti dell’essere si imprime «l’unghia del tempo». Ed è in questi lacerti di durata che le cose iniziano a stridere, oscillare, farsi materia, versarsi nei firmamenti algidi e cadere.

Non c’è vuoto in questa distillazione di poesia, ma egli impugna il coltello opaco della finitudine e della estraneità per ricercare il bollore d’origine, il fiato, il tutto «che ripiega, a notte, nel suo eremo / – cieco, torvo – / di nube».

Lo stesso Pontiggia afferma che nel titolo:

[…] forse lucreziano, lascio che le forze della vita – tumultuose, sovrane, erratiche – si confrontino e si scontrino, in un agitìo di immagini e di pensieri, di ombre e di apparizioni, che rimbalzano da una sezione all’altra, ora quietandosi ora esplodendo rovinose e magmatiche. Ma al centro è la figura-cuore – luminosa e serena – di un’isola amata, in cui tutto pare, magicamente, rasserenarsi. Il libro si apre con tre poesie-prologo di ispirazione e di tonalità diverse, cui corrispondono in conclusione tre poesie in cui i temi cosmici ed esistenziali del libro si risolvono in forme immaginative molteplici e contrastanti: la luce abbagliante di una stella morta, che giunge a noi da chissà quale era remota; una visione – paurosa, fermentante – del “buio-non buio” delle origini; la celebre figura paestana del tuffatore, colto però un attimo prima del tuffo.[1]

La stanza interiore dell’esistente sedimenta interrogazioni inesauste, senza ripiegarsi in una insoluta ellissi. Nel respiro, nella articolata e raccolta superficie profonda, nella immaginazione tangibile, la scalfittura della parola rivolge distanze e partecipa all’infinita gamma dei depositi, delle stratificazioni e del tempo adagiato.

A tal proposito, Davide Rondoni scrive:

Pontiggia infatti sceglie – e per lui non poteva essere altrimenti – una interrogazione intesa subito come di voce comune. Il parlante parla di un “tu”, di un “uno” – a cui la voce del poeta si rivolge o la cui esperienza indaga. Il “tu” con cui vi si rivolge è distanziante e accorato al tempo stesso. Si guarda allo specchio? Certo, ma l’immagine riflessa nello specchio, restando la medesima voce, potrebbe essere quella di tantissimi. E raggiungere l’esperienza comune di interrogazione sul moto delle cose. Quest’uomo di cui si parla, così diffuso tra uomini e donne e anche giovani della nostra epoca, sente uno smottamento, percepisce distintamente il “sovrano, fisico, delirante // moto delle cose”, sente che si «smontano / le muraglie del mondo» e che «Si squaderna / il principio scosceso / delle cose, la sua broda // intonsa, fermentante». Ma è appunto la voce di un poeta che ne parla, e con termini di esattezza dantesca e scientifica (la immagine dell’universo come libro, presa dalla Commedia, intonso aggettivo librario, brodo primordiale, termine inglese dei fisici per lo stato iniziale della materia) ovvero con grande consapevolezza.[2]

Sono frammenti incastonati che pongono l’inseguimento vagante e invaso come propria traccia di battesimo. Transizioni, impronte, cose sfatte e in divenire, che vengono registrate in un approdo mai mutilo, che avvengono, mutano, deviano in uno stridore concreto e in una torsione che figura l’osservazione del mondo e il suo punto di snodo «nel gelo / di biglia delle cose».

Inseguire le cose in ogni imo di profondità significa percepire anche la lingua che crepita, la datità che si cela e s’infima, e chiedersi se sia vuoto, ombra che sfida le scure trame, distanza incolmabile:

 

È notte, sei / tra le cose del mondo, le cose / solide, vaganti, che si sfanno / in altre cose, nell’imo che fermenta, / e sprofondi / nella vita che è, nel tutto / che s’invasa in uno, prima / di sfarsi nel crivello della mente / stridi, becchi, blaterii / buchi di lingua, suoni / che si torcono, stipano, si ammaccano / ed è lì, lei, fa un cenno / l’ombra funesta, troppo amata, / fa freddo, com’è troppa la stagione, / con che tenaglie stride, si torce, scuote / le lusinghe del mondo, «dov’è che sei?» / le chiedo, nel gelo / di biglia delle cose «sei cosa o altro?», mentre delira / in delirio il mondo, si sfarina, ed io / «non ho tempo per questo / struggimento stupido, doloroso, di’ / soltanto se sei o no» / ma lei: «di’ tu, piuttosto, di’ / qualcosa che valga / per me, per noi, che ti guardiamo», e va / per una strada che non conosco, va, dove non è / altro che lei, che loro, lì, nella gran fossa / del firmamento algido, stipato / di roba ultima, vagante, «di’, se sai, qualcosa / che valga la pena», continua / stridendo come una stupida / ferraglia / e fa cenno nel non so dove del sonno, nel / ben maturato senno della mente / a qualcosa che si cela, s’infima / in brividi, in onde / di niente, di poco – cosa / che si fa cosa, verbo / che sì’intana / in una lingua di troppo gelo, / di solo, forse, / vuoto?.

Francesco Filia sostiene che:

Il titolo del libro mostra l’oggetto, al tempo stesso meraviglioso e terribile, della riflessione e della visione poetica, il divenire che travolge ogni cosa, il suo incessante e ineluttabile fluire che rende ogni cosa al tempo stesso unica e finita. La riflessione poetica parte da questa visione, da questa meraviglia originaria, da questo thauma – per rifarci al termine greco, che per Aristotele era all’origine sia del pensiero filosofico sia della parola del mito e quindi della poesia – verso l’enigma del mondo. Ciò che rende necessario questo libro è la tensione partecipe dell’io lirico verso l’enigma che attraversa il nostro stare al mondo, in quanto del moto delle cose ognuno di noi è partecipe drammaticamente e quel moto siamo anche noi, nel nostro spirito e nella nostra carne, presi nella nostra irripetibile e mortale individualità.[3]

L’esattezza di Pontiggia, allora, è un accertato moto di passaggi registrati, che sfidano le luci ardue, che cercano di infoscarsi nei frustoli sfrangiati di senso e di suono, e nel fondo che muta, per farsi respiro luminoso.

Le voragini di fuoco, gli abissi, i nomi, i sensi petrosi e sepolti racchiudono ciò si vela e si svela, ciò che sprofonda e si aggruma, ciò che diventa irripetibile e sovrumano come ordine e stridìo rigoglioso.

È ordine scrostato e uncinato ma anche obbedienza meticolosa a ogni impollinazione che dà vita e tumultua all’appello dei nomi e al mondo che dispone la sua depredata sorgente, il suo covo altero e irreprensibile di bronzo lucente: «Nell’ordine uncinato delle cose, / nel suo fulgore di fuoco e di vento / in ciò che è / e non è / impazzano / gli atomi della mente, nomi / infrazionabili».

Dentro la fiamma del respiro si trova la genesi primordiale della sua forza limpida che guarda il cielo, il suo muto gorgo di schegge e brandelli sgretolati, la contemplata germinazione del moto operoso e micidiale della luce del mondo («Pochi versi, ma veri. / Valgano per te, come per me. / Che siano limpidi – per guardare il cielo / alto – / e severi, se così è il tuo animo»):

Sovrastino, su queste sabbie / finissime, tese come un lino, vaste / come il fiammeo dominio dei pensieri, / cieli più ampi del tempo / che s’ingorga, lento, pigro / in una luce ardua, / ventosa / o s’infoschino – in una sera / scura, dura, scheggiata, / che si sgretola, pezzo / dopo pezzo, sugli scogli / ondosi, flagellati / da crespe dense di fuoco, erosi / dalla furia / gemmata degli elementi – le porte / brucianti, dei tuoi occhi, / sempre, o contemplante, sentirai / il respiro / possente, luminoso / del mondo, la sua forte quiete, il suo operoso, micidiale / moto.

Ed è così che la dismisura del tempo sovrasta e deborda l’essere, la crescita e decrescita del tempo, la cesura, l’orlo, la esemplare forbitezza del tenue arco della vita che si impone, evocando memoria e doppi rimandi di destino: arco, trombe, stame e sfinge. L’enigma bilanciato delle cose si flette e vortica nello spazio infinitesimo, nella deità e nella umanizzazione temporale.

Nella opacità e negli abissi orlati, però, si vede, nitidamente, anche una sovra- enunciazione che avviene. Si forma la chiarità, si intravvede, ancora una volta, il fondo (perché tale è la poesia di Pontiggia, un fondo che si sporge) che risale negli attriti e nei detriti, nei vortici, nei tremiti, negli scarti dei segni dapprima rinvenuti esili, poi man mano scolpiti nel loro gesto che invade e sbianca ogni cosa:

Nasce, il bimbo, alla vita, e vede / per primo il chiaro dei cieli e delle stanze / – fiamma che invade i suoi occhi / molli, ancora, di scuri tepidari, di sonni / deliranti. Viene / dal fondo dei popoli, delle madri / antiche come la specie; del tempo / in cui tutto fu cielo, e acque, e frastornanti / fogliami. Risale, dai grumi e dai fanghi / di ere troppo remote, di paste / scure, grondanti / muffe di un innominabile ade, / e si esalta, sospira, si dispera / mentre già la notte cala, che tronca / ogni luce, e la immerge / in un acquario di sogni / caotici e riottosi. / Viene il mattino, un altro, si desta: com’è / che ritorna la luce, l’esile, prima, poi man mano più fulgida, folgorante / fino a sbiancare ogni cosa? E gli occhi / s’immergono di nuovo, s’imbevono, non hanno / altro da chiedere che questo / lasciare che le cose siano, e siano…

Le cose improvvise, allora, irrompono e congiungono e legano alla vita e, appunto, «al sovrano, fisico, delirante / moto delle cose». Non c’è scampo a questa sospensione franata di ore, all’era vasta e immortale, a questo sgretolato splendore.

Alla diafanità scura si oppone il prodigio illuminato e in limine del vivente, dell’essere, dell’esser-ci che trascende, ricerca, posiziona la sua ontologia di congedi e straripamenti, chiedendo allo splendore di permeare la propria incipiente mendicanza («e implori un senso / unico, forte, uno / stupefacente prodigio che illumini / il buio, intediato, della mente, / la tua, di nuovo, / che si spappola / in materie straripanti, ignote, formine / colorate del mondo che intanto / si congeda in addii e ancora addii / – e senti»):

E temi, e nel timore ti separi da ogni cosa, / e da chi, perfino, ti è più caro; temi, / e tremi, / e non osi guardare fuori di te, e ti rinchiudi / in una cella di diffidenza e di rancore. E senti / che non hai doveri se non per te, e che ogni atto, / ogni pensiero è solo per stare un po’ di più, ostinata / mente, / sul suolo dei mortali. Esser vivo, essere, esserci: / solo a questo pensi, e pensi / come celare al mondo il tuo orribile segreto: / di stare, di stare più che puoi nel mondo / azzurro, tra i cieli e le terre, i fiori e gli asfalti, / starci comunque, anche tra gente che non ami, / in città tetre, apocalittiche, / malato, storpio, a mendicare un po’ della loro vita / calda, inebriante.

La luce di Pontiggia è porosa, si innerva nelle catabasi vertiginose e ultime, raccoglie le disposizioni temporali e memoriali attraverso una catalogazione che sprofonda e intrude.

L’enumeratio della realtà non serve solo a registrare l’ombreggiamento della mente che guarda, ma «Come in un’anfora / scaldata dal sole», diventa forza mitopoietica e contemplazione dirottata verso l’intatto podio dello sguardo, il suo sogno, la sua ineluttabilità di confine fino alla piagata fine della durata.

Essa è odore, seme, nascita, rapidità che sprigiona, spalanca l’hic et nunc e l’altrove in una inoltrata aratura, dove le cose sono in quanto sono e dove il fiato fulgido e trafitto gioisce nello schianto e nella polvere di ogni fessura e di ogni ombra finita:

Resta nel tuo vallo / di fiamme e di tempo / che cola, lento, e non è / cosa che lo argini, né dito / che saldi la fessura, immane / gioisci / della gioia, prova / male per i mali, ma non tanto, vedi / com’è la natura delle cose, polvere / su polvere, ombra / che si disfa in ombra / smanie effluvi / schianto.

La poesia, allora, rappresenta questa ellittica germinazione di senso che cola nell’immanità: i cieli di fiamma, il dirupo degli spasimi, il dono dolce e tragico dell’esistere cercato.

A tal proposito, il poeta afferma:

L’improvviso irrompere, in una condizione di aurea felicità, di segni inquietanti è espresso con immagini limpide e esemplari che nondimeno sono cariche di storia e di pensiero: trombe, arco, stame, sfinge evocano qualcosa che è certo nella memoria di ciascuno di noi, e che derivano dalla doppia cultura, classica e cristiana, nella quale ci siamo formati: sono insomma parole-mito, in cui si condensa intuitivamente, quasi fulmineamente, la nostra idea di vita e di destino. Anche l’ambientazione, domestica e mitica insieme, della scena porta in sé echi profondi: l’eden biblico, il giardino delle Esperidi, i giardini epicurei. La poesia non è emozione, ma un’esperienza in cui si fondono moti di pensiero, percezioni di vita quotidiana, echi di dottrine, sogni, visioni. Tutto questo in una lingua che deve affondare nell’elementare ruvidezza del parlato e insieme distanziarsene: non so se «s’incavedia» sia un neologismo, ma certo chiunque abiti in un palazzo dell’ultimo secolo, sa cosa sono i cavedii, e quale fitto di buio e di paure in esso si concentri. Le parole della poesia sono sempre sensibili, dotate di una loro materia fisica, concreta, con tutte le risonanze, le scie di luce e di ombra che ogni oggetto – e ogni nome – inesorabilmente porta con sé.[4]

Qui la poesia sembra annunciare, in modalità lucreziane, la folgorazione vigile della realtà, il classico che promana la sua effige tragica, il seme conflagrato, la sua cognizione altera, e il confine vacillato della mente, dove la luce degli enti è uncino e trono di nubi, si sospende nel tremore che si ripete incessante da ogni inizio, che «non elude nulla, nulla censura, nulla pare riscattare anche perché – a differenza di un altro lombardo senza riparo, Testori – qui non c’è nulla da riscattare, non è centrale il tema di una colpa o peccato, ma solo punto, calo di forze, sperdimento[5]».

L’infinita somma dei colori conflagrano e smottano nel fondo, laddove la muraglia montaliana del tempo contrassegna l’imo infero e le sue code, la dispersione nebulare, l’appercezione e l’infinita sospensione di quel che ci precede e ci segue, come sguardo che travaglia e separa ogni sperdutezza lontana: «Una linea infinita di tempo / ci precede; un’altra / ci segue: attoniti le contempliamo, / sospesi fra due mondi / indifferenti, lontano. Eppure, niente li separa / se non te, che guardi».

Nell’infinita radura urtata del nostro vivere rimane questo spaesamento, la perdita nel possente inizio delle cose («quando ancora niente è in noi / se non caldo grembo, cibo, sonno, / suoni stranieri che rimbombano nel cavo / della mente»), la loro nascita inaudita e la loro corteccia come lungo bagliore e stridore finale: «Stride, il cielo, e stridono / le vertebre dell’aria. Guardi in su, dove / gli occhi si nutrono – stupiti – / di una materia sottile, / più sottile, infinitesima, tenebrosa / quasi – e ti sprofondi / in una palude di ozi, di silenzi vasti e / lunghissimi».

La stanza declinata degli occhi, sopra le mura incendiate del mondo, accende briciole e barbagli. Qui l’apparizione rarefatta della materia plasma l’origine remota dei frantumi, i residui e i lumi nelle stive, i grumi e le scorie, fermentando il grembo primario delle cose come un soffio evaso.

[1] Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.

[2] Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (https://www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.

[3] Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.

[4] Pontiggia G., in Di Palmo P., cit.

[5] Rondoni D., cit.

copertina_il-moto-delle-cosePontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017, pp. 160, Euro 18.

 

 

 

 

 

Pontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017.

Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.

Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.

Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.

 

L’esilio reduce di Ghiorgos Seferis

di Andrea Galgano 29 settembre 2017

leggi in pdf L’esilio reduce di Ghiorgos Seferis

giorgos_seferis_1963Nella sua voce risuonava una nota dolente come se l’oggetto del suo amore, la sua adorata Grecia, avesse malaccortamente e distrattamente rovinato le acute risonanze dell’ululato. Il mellifluo cantore asiatico era stato più d’una volta costretto da una folgore inattesa al silenzio; le sue poesie si facevano sempre più dense, sfavillanti, rivelatrici.

Henry  Miller

Il nomadismo di Ghiorgos Seferis, pseudonimo di Georgios Seferiades, (1900-1971) è una migrazione dello sguardo. Una migrazione toccata dalla scalfittura disorientata dell’anima. Ed è la stessa anima a recare il portato di una vertigine umbratile e precisa che lega il brogliaccio di passato e presente, nazione e patria perduta, memoria, identità, folto di immagine che incastona Omero, Eschilo, Sofocle, Pindaro, Massimo Cazzulo afferma:

La scelta linguistica indica chiaramente i due poli attorno ai quali orbita la poesia seferiana: culturale l’uno, etico l’altro. Culturale perché trivellare gli strati successivi della lingua, recuperare il passato e farlo rivivere innestandolo nel tessuto linguistico più vivo e corrente significa dichiarare implicitamente la continuità della lingua greca, negare qualsiasi iato tra passato e presente […][1]

Una corposa antologia di testi, Le poesie[2], (da Svolta del 1931, fino a Quaderno di Esercizi, II, raccolta postuma del 1976), che è stata da poco pubblicata dall’editore Crocetti, con la traduzione di Nicola Crocetti e la prefazione di Nicola Gardini, restituisce agli occhi la condizione di un poeta che porta addosso il segno di un luogo di bellezza e asperità, la raffinatezza e la tradizione, il mito e il suo «porto sepolto».

Nato a Smirne, si trasferì ad Atene con la famiglia nel 1914, formatosi poi nella facoltà di Giurisprudenza di Parigi (si laureò nel 1924) dove seguì il padre, giurista insigne di Diritto Internazionale, da qui guardò alla catastrofe dell’Asia Minore, ossia la disfatta dell’esercito greco in Asia Minore, appunto, durante la guerra greco-turca, la distruzione di Smirne e il conseguente abbandono delle comunità greche di quella zona.

Rientrò in Grecia nel 1926, dove intraprese la carriera diplomatica che lo renderà cosmopolita e poliglotta (spiccano i viaggi ad Ankara e Londra tra tutti, in quest’ultima infatti fu decisiva per la conoscenza e la traduzione della poesia di Eliot prima, Pound, Valéry e Auden poi, ma anche Albania, Nord Africa e Medio Oriente). Quando fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1963, Atene stava attraversando gli anni più bui della dittatura dei colonnelli, la sua dichiarazione pubblica, avvenuta poco tempo prima della morte, rappresentò un emblema di forza e splendore, e i suoi funerali divennero, pertanto, una sorta di manifestazione politica, di riscatto e di tensione.

Roberto Galaverni scrive:

Se a partire dal romanticismo – pensiamo solo a Schiller e a Leopardi – i poeti ci hanno detto che il rapporto con l’origine è perduto, per un autore neogreco qual è appunto Seferis questa rottura doveva assumere un carattere insieme drammatico e totalizzante, diventare il segno o la cifra unica del destino, visto che riguardava la patria stessa della poesia, e allora la perdita dell’armonia e della pienezza, della lingua e del canto, della possibilità di ordinare il mondo secondo giustizia […] tuttavia, non sarebbe giusto derivare meccanicamente la sua vicenda poetica dagli eventi dello sradicamento e da una ferita pur così profonda e immedicabile. Questi costituiscono piuttosto un elemento importante di un percorso di svelamento e di conoscenza più ampio (condotto sempre attraverso gli strumenti poetici e secondo l’etica del verso), che si allarga via via ad anelli concentrici fino a configurare alcune fondamentali verità dell’uomo non in termini storici o circostanziali, bensì assoluti, inamovibili, eterni.[3]

L’erranza costituisce non soltanto il passaggio vociante di una condizione, ma, soprattutto, l’epos di una linea che cerca di cucire il tempo affondato nel sangue, la scelta della poesia, il repertorio degli antichi detriti e l’interrogazione del destino.

Il poeta ci dice il suo disgiungimento dell’anima dinanzi alla clessidra muta, al repertorio dell’attimo invischiato nella domanda, il buio vivo dell’istante dinanzi al vasto mondo che richiama e si richiama: «Attimo, inviato da una mano / che avevo tanto amato, / mi hai raggiunto al tramonto come una colomba nera. / Biancheggiava di fronte a me la strada, / alito dolce del sonno / al termine dell’ultima cena… / Attimo, grano di sabbia, / che da solo hai tenuto tutta / la tragica clessidra muta, / come se avesse visto l’Idra / nel giardino celeste» (Svolta).

I drammi che tremano nella loro nudità sono melodie di lacrime sradicate (Oreste, Astianatte, Andròmeda, Alessandro Magno e i mille volti sconosciuti), corpi che ritornano alla loro fruttifera estremità, singhiozzo che dona al mondo un cielo pieno di stelle, il cuore disertore che disegna fondi di nudità:

Sul sasso della pazienza / sedesti verso sera, / e il nero della pupilla / svelava il tuo dolore; / e sulle labbra avevi / la linea che trema nuda / quando l’anima si fa arcolaio / e pregano i singhiozzi; / avevi in mente la melodia / che muove alle lacrime / eri un corpo che dall’estremità / ritorna al frutto; / ma lo strazio del tuo cuore / divenne senza un gemito / il senso che dona al mondo / un cielo pieno di stelle (La ragazza triste).

Nella sua profondità si rinviene sempre un lascito di meraviglia ancestrale, qualcosa che non si disfa mentre si cerca di raggiungerla, mentre si ha coscienza di una perdita già insita, una fame satolla e incosciente che è soffio cancellato e diario segreto di un incastrato miraggio.

È un canto stretto, allora, che ritma le nebbie, un affossamento di immagine che tiene l’anima ancora, mentre i ricordi brillano nel loro bruciore ritrovato e nella efferatezza di uno smarrimento scolpito: «Si gonfia lento il mare, le sartie menano vanto e si addolcisce il giorno. / Tre delfini nereggiano luccicanti, la gòrgone sorride, e un marinaio fa cenni, dimentico a cavalcioni sull’albero di gabbia».

L’esperienza singola, che raggruma poi l’esperienza universale stremata, dispone la catabasi disorientata del folto dell’essere e il remoto reperito dal foglio.

Il tempo di Seferis è un sommerso tempo spogliato, laddove l’amore rimane la lama del silenzio e la chimera, il velo piaggiato, la confessione contrapposta  e inconsolabile, come accade in Scolii:

Sulla veranda si era fatta sera / la fretta batteva le ali a noi vicina / e nei due cuori aveva la sua tana / una confessione contrapposta. / Sfiorita la voce infruttuosa / sui labbri sciami di errori a iosa / solo dal fondo del corpo, cielo, / aspettavamo della grazia il velo. / Il buio ronzava nella villa / e dalla luce della stella a oriente / fino al magnete dei tuoi capelli, / ricorda l’angelo trascendente / all’improvviso con rapidi anelli / caduti, due ventagli nel pensiero / che con la stessa implorazione / leggevamo come un evangelo. / Donna estranea al mio cuore, / bella donna adorata, / mi resta il tuo stupore / in questa sera insensata  / dei tuoi occhi gli anelli neri / e l’orrore leggero della sera…/ Chínati, rientra nel tuo fodero / lama del mio silenzio, mia chimera.

L’assolutezza sfrontata è sete e fame di occhi chiusi che cercano la volta del firmamento, «la luce oltremare / sopra le nostre dita», la figura della Gòrgone che appare come un epicedio di sguardo.

Nicola Gardini afferma:

[…] la poesia […] è esclamazione, impeto, che le parole sempre distorcono in qualche misura, producendo nel lettore o nell’ascoltatore la pretesa di un messaggio o di un pur minimo senso. L’ “ah!” Seferis riesce a esprimerlo in modo convincente, fino alla fine, accarezzando il senso, indicandolo, e sempre riuscendo a scansarlo, allontanandolo dopo averlo intuito, alternando la precisione dello stile – vigile e sintetico – con la vaghezza e la suggestione, perfino una qualche dispersività. […] Le poesie di Seferis sembrano nascere da un’occasione, quasi sempre, e l’occasione risulta privata della sua “occasionalità”, ridotta a evento assoluto e, così, alla fine in giudicabile, imprendibile, perfetti e imperfettibile in una volta. I ricordi ci sono, ma non costruiscono una memoria, non in senso autobiografico e nemmeno proustiano; non vogliono, forse non devono, perché il recupero è dato per impossibile, e vince solo la perdita, il tempo distruttore, l’irritrovabile.[4]

In Seferis, avviene sia l’elezione rammagliata del tempo, sia lo svanimento della pronunciazione, che è sì smarrita, senza traccia, inabissata, ma quando si rivela, nella vita che viene meno e negli inferi, celebra lo smottamento di ciò che non finisce, il nero grappolo d’uva sotto il sole a picco, il corpo, il ricco veliero delle cose.

In questo canto, così appartato e vivente, si consuma il dramma dell’esistere («I segreti del mare si scordano sulla riva / la tenebra dell’abisso si scorda nella stiva; / risplendono purpurei i coralli del ricordo…»), la cenere e la vertigine del litorale, il silenzio folto e le parole confuse al sangue come nell’amore.

Mario Vitti sostiene:

Gli aspetti che continuano ad affascinare il lettore di Seferis, a distanza di trent’anni dal Premio, sono rappresentati soprattutto dalla presenza nella sua poesia dell’ambiente insulare greco e dall’uso particolare del mito classico. Si tratta di due aspetti coesistenti e interdipendenti, che stanno a fondamento dell’indole poetica di questo autore. L’esperienza quotidiana del paesaggio greco che si schiude alla sua vista assume in lui un significato esistenziale, non appena questa presenza fisica viene posta a confronto con la memoria di fatti e personaggi appartenenti al passato, in particolare al mondo antico. In un simile coinvolgimento di sensi e della mente sembra naturale che il paesaggio e il mito nato in questo paesaggio si confondano; poiché infatti è quasi normale per un greco sensibile, sul quale pesano la memoria storica e il mito della classicità, avere una visione “greca” del dramma che nasce e finisce con la vita di ciascun uomo, nel modo in cui sa di esserlo Seferis.[5]

Queste ombre di noci in fiore, le lanugini del bacio alle foglie, le letture dimenticate, la lievità di conchiglie e lamenti, fondi di istanti e rapidi sistri di vento, cercano lo specchio di un ricongiungimento di epoche, il viaggio non consunto che ripete uno scenario drammatico e irripetibile che, attraverso «La mediazione del paesaggio fa giungere al poeta voci di altre esistenze, di altre persone più vere, più autentiche di quelle che si trovano intorno a lui e in mezzo alle quali è condannato a vivere[6]»:

Sul sasso della pazienza aspettiamo il prodigio / che ci dischiude i cieli e rende tutto meno grigio / come nel dramma antico il nunzio viene a riferire / nell’ora in cui svaniscono le rose dell’imbrunire… / Rosa scarlatta del vento e del fato, puoi restare / solo nella memoria, come un ritmo profondo, / rosa notturna, passasti come un ondeggiare / purpureo del mare…Così semplice è il mondo.

Ne La cisterna, la fioritura della luce cade nel ritmo disanimato del tramonto e il moto delle cose si spegne in un buiore d’ebano.

Ecco questa caduta è il fiore che forza la bellezza della prospettiva. Prospettiva piegata (e piagata, certo), ma che nella impurità linguistica dispone il tempo sfiorato e concepisce grembi di parole nude e speranze dove «Scorrono le ore, i soli, le lune, / rappresa come uno specchio è l’acqua; / sta con gli occhi sgranati la speranza / quando tutte le vele affondano / all’estremo mare che le nutre».

Se di impurità si tratta, è soprattutto desiderio di amore infinito, non una cesura con l’esistente. Che possa così frangersi sulla riva l’onda che sulla sabbia resta schiuma. L’amore di Seferis per l’esistente è mare («Il mare con cui venisti ti ha portato / lontano, tra i limoneti in fiore, / ora, al risveglio dolce delle Parche, / mille figure con tre semplici rughe / conducono il Sepolcro in processione»), un corpo segreto, un profondo grido, «uscito dalla grotta della morte, / come l’acqua briosa dentro il solco / come l’acqua che splende solitaria / tra l’erba e parla alle radici nere…», poiché «la notte non crede più nell’alba / l’amore vive per tessere la morte / come l’anima libera, così, una costerna che educa il silenzio / nella città avvolta dalle fiamme».

Ecco i rilievi di un’arte disadorna, protesa al primo seme che ricomincia. Le dita avvertono il fresco della pietra nel rischio dell’anima e nel silenzio al colmo. Mani scomparse e mutile, come se nella separazione ci fosse qualcosa che fa cadere i sogni e le membra fiacche:

Tornammo sfiniti alle nostre case / le membra fiacche, la bocca devastata / dal sapore di ruggine e salsedine. / Al risveglio, ci dirigemmo a nord, estranei / immersi nella bruma delle ali immacolate dei cigni che ci ferivano. / Le notti d’inverno, l’impetuoso vento dell’est ci toglieva il senno / d’estate ci perdevamo nell’agonia del giorno che non riusciva ad estinguersi. / Riportammo indietro / questi rilievi di un’arte disadorna.

La poesia si muove, quindi, attraverso il contrasto irrisolto del tempo, laddove la giustizia riceve il taglio irrisolto di una invocazione amorosa, non conclusa. Il viaggio dell’anima, che insegue lo spazio minimo di respiro, è logorato, non solo dalla guerra, dall’esilio e dalla perenne fenditura, ma dall’ininterrotto richiamo con chi ci ha preceduto e fatto vivere.

In Seferis, questa sempiterna feritoia trova il suo acme ne Il re di Asíne, in cui il minuto richiamo omerico si accompagna all’incontro sensoriale e memoriale, e dove rivive la domanda che giace nel fondo, come uno spigolo di sogno:

E il poeta si attarda a guardare le pietre e si domanda / chissà se esistono / in mezzo a queste linee guaste, agli spigoli, alle punte alle curve, alle cavità / chissà se esistono / qui, dove s’incontrano la pioggia, il vento e l’usura / se esistono il moto del viso, la forma dell’affetto / di quanti diminuirono così stranamente nella nostra vita / di quanti rimasero ombre di flutti e pensieri nella sconfinatezza del mare? / O forse no, non resta altro che il peso / la nostalgia del peso di un’esistenza viva […]

È istinto ulissico, quando riporta l’àncora tra gli asfodeli, sembra un angiporto nel paese chiuso di navi spezzate dai viaggi conclusi e corpi che non sanno più amare, quando porta al suo interno i remi rotti nella calma sconfinata delle acque.

Anche il vento rappresenta la decimazione dell’aria nella separazione, nelle ferite delle terre straniere, come una lettera infinita che unisce luce ed oscurità nel piovasco che grava:

Chi ci leverà dal cuore questa pena? / Ieri sera un piovasco e oggi / il cielo coperto grava ancora. I nostri pensieri / come gli aghi di pino del piovasco d’ieri / ammucchiati sulla porta di casa e inutili / vogliono innalzare una torre che crolla. / In questi villaggi decimati / su questo promontorio esposto al vento del sud / con la linea dei monti che ti nasconde, / chi valuterà per noi la decisione dell’oblio? / Chi accetterà la nostra offerta in questa fine d’autunno?

Ciò che trema nel fondo è il senso del tragico, che attraverso la concrezione di immagini frante, depone il depredamento e sprofondamento delle luci. Si pensi anche alla porosità marina di Kichli, dove la calma delle acque naufraghe gli consentiranno un serrato dialogo con il passato, in una sorta di nekyiomanteia.

Non solo, il tono reduce di un relitto che affiora dal mare di Poros «fa scattare nell’anima del poeta un riflesso quasi condizionato. Il poeta, nello scorgere la nave adagiata sul fondale, percepisce delle voci. Il relitto è un mediatore che suscita nella sua memoria persone care del passato, forse dimenticate, forse tradite[7]».

Il taglio raro del silenzio, le statue infrante, lo sconforto che nasce dalla resa delle realtà perdute, il dolore impossibile ed inevitabile («Tutto ciò che amai si è perso con le case / che l’altra estate erano nuove / e son crollate al vento dell’autunno») non riescono ad annullare i mandorli in fiore, i marmi splendenti, il mare che si frange («Chìnati, se puoi, sul mare oscuro dimenticando / il suono di flauto sopra i piedi nudi / che calpestarono il tuo sonno nell’altra vita sommersa. / Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio / il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi»):

Tante e tante cose ci sono passate sotto gli occhi / che gli occhi non hanno visto nulla, ma più oltre / e dietro, la memoria come un telo bianco una notte in un recinto / dove avemmo strane visioni, più strane anche di te, / passare dileguando nell’immoto fogliame di uno schino; / perché abbiamo conosciuto così bene la nostra sorte / vagando tra le pietre rotte, per tremila o seimila anni, / frugando in edifici diroccati che forse erano casa nostra, / tentando di ricordare date e gesta eroiche; / ci riusciremo? / perché siamo stati legati e dispersi / abbiamo lottato con difficoltà – dicevano – inesistenti, / smarriti, ritrovando una strada piena di reggimenti ciechi, / sprofondando in paludi e nel lago di Maratona; / riusciremo a morire normalmente? .

Questa oscurità sommersa e opaca si espone all’abisso, all’estraneità vivente, all’affranta metrica dei sistri del tempo. Ma è origine, genesi, sboccio dell’attimo che cresce come lama sospesa che aduna l’umano, sparpagliato in mille frammenti, come lo stupore puro di una fuga amata:

Non altro che questo era il nostro amore / fuggiva, tornava e ci portava / una palpebra china assai distante / un sorriso pietrificato, perso  / nell’erba mattutina / una conchiglia strana che l’anima / tentava con insistenza di spiegare. / Non altro che questo era il nostro amore / frugava piano tra le cose intorno a noi / per spiegare perché ci rifiutiamo di morire / tanto appassionatamente. / E se ci reggemmo a lombi, se abbracciammo / altre nuche con tutta la nostra forza, / e confondemmo il respiro / al respiro di quella persona / se chiudemmo gli occhi, non era altro / che questo profondo desiderio di sorreggerci / nella fuga.

Il suo diario di bordo solleva la polvere dei gesti, i sussurri violentati e le sete dorate dei ricami d’oro, dove poter emettere l’amore sotto le vene, l’acqua piovana, le lunghe ombre espatriate dei pendii e, infine, la volta dei platani come grazia semplice.

Durante i viaggi a Cipro, Seferis respira l’avvenimento di ciò che c’è, l’affioramento di qualcosa che si credeva irrimediabilmente sommerso, il recupero millenario delle voci aediche, il miracolo cosmico che regola la materia universale:

Il mondo / ritornava com’era, il nostro, / con il tempo e la terra. / Profumi di lentisco / si riversarono sulle pendici antiche della memoria, / grembi tra foglie, umide labbra; / e tutto si seccò d’un tratto nell’estesa piana, / nella disperazione della pietra, nella forza erosa, / nel luogo vuoto con l’erba rada e i rovi / dove strisciava un serpente spensierato, / dove impiegano molto tempo per morire (èngomi).

Nelle confessioni agli scali delle stelle, nelle fughe e nelle sabbie, così come negli autunni piovosi, l’uomo cerca l’erba assetata e la sua insaziabilità si riflette nel dolore, quando l’inseguimento di Dio diviene un lungo viaggio nel fumo azzurro e nell’amore.

Si potesse far riposare le proprie disiecta membra, che ricordano il passato inseguito tra ruderi sfasati e bellezze eterne e sfibrate: «La prima cosa che Dio ha creato è l’amore / poi viene il sangue / e la sete di sangue / pungolata / dallo sperma del corpo come dal sale. / La prima cosa che Dio ha creato è il lungo viaggio; / quella casa aspetta / con un fumo azzurro / con un cane invecchiato / che aspetta il ritorno per morire».

Il suo tremore tattile dispiega, allora, le ciglia sprofondate e sghembe come conchiglie, l’orizzonte coperto e l’assoluta cadenza delle basole:

Apri gli occhi e dispiega / il panno nero e tendilo / apri bene gli occhi, fissali / concèntrati, concèntrati, ora sai / che il panno nero non si dispiega / nel sonno e neppure nell’acqua / né quando le ciglia rugose calano / e sprofondano sghembe come conchiglie, / ora sai che la pelle nera del tamburo / ti copre tutto l’orizzonte / quando apri gli occhi riposato, così. / Tra l’equinozio di primavera e l’equinozio d’autunno / qui c’è l’acqua corrente, qui c’è il giardino / qui ronzano le api in mezzo ai rami / e squillano nelle orecchie di un neonato / ed ecco il sole! e gli uccelli del paradiso / un sole enorme, più grande dalla luce (Mattina)

Il suo pronunciamento diviene aperto, dunque, nei varchi splendenti, in cui egli parla sull’orlo dell’abisso, attraverso una quête di intaglio e memoria, che vuole sfuggire al tempo e dimorarvi, allo stesso tempo, con un tocco, uno sfioramento, un ornamento al di là del vuoto.

Il respiro non rappresenta soltanto la sorgente da cui prendere fiato, è anche lo sperdimento della lingua che nomina, dove tutto è eterno ed effimero, come la Grecia che strazia ovunque:

Perché credo che la poesia sia necessaria a questo mondo moderno in cui siamo affetti da ansia e paura. La poesia ha le sue radici nel respiro umano: e cosa mai saremmo se il nostro respiro dovesse venir meno? La poesia è un atto di fiducia: e chi sa se il nostro disagio non dipenda da una mancanza di fiducia. […] E devo aggiungere che oggi dobbiamo ascoltare quella voce umana che chiamiamo poesia, quella voce che rischia sempre di andare estinta per mancanza di amore, ma che sempre rinasce. Minacciata, ha sempre trovato un rifugio; rifiutata, rimette sempre radice nei luoghi più impensabili. Non fa distinzione tra luoghi grandi o piccoli del mondo; la sua patria è nel cuore degli uomini di tutto l’universo; ha l’istinto di sapersi sottrarre al circolo vizioso dell’abitudine (dal discorso di accettazione del Premio Nobel).

[1] Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

[2] Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

[3] Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

[4] Gardini N., La voce di Seferis, in Seferis G., Le poesie, cit., pp. pp.8-9.

[5] Vitti M., Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

[6] Vitti M., cit.

[7] Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

seferis147337Seferis G., Le poesie, Crocetti, Milano 2017, pp. 288, Euro 15.

 

Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

  • Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

 

Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

leggi in pdf Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini – Diego Baldassarre

17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini