di Andrea Galgano 23 gennaio 2018
leggi in pdf LE INCISIONI ESULI DI JOSIF BRODSKIJ
L’ultimo libro di poesie di Josif Brodskij (1940-1996), premio Nobel nel 1987, So forth, pubblicato nello stesso anno della morte negli Stati Uniti, ora in traduzione italiana (E così via[1]), a cura di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, ed edito da Adelphi, comprende testi scritti nel decennio precedente, autotradotti in russo e testi in inglese.
In questa sorta di ibridismo di congedo, la fatalità della lingua si accompagna alla propria genesi di sguardo e tensione, dove «l’impasto dei suoni, la precisione e l’ambiguità dei termini, la possibilità di spingere la regola grammaticale fino al punto di rottura» sono costitutivi
«dell’espressione poetica e molto difficilmente sopravvivono nella loro interezza quando si verifica il passaggio da un idioma all’altro. Eppure, nonostante tutto, la poesia continua a essere tradotta. Anzi, ci sono casi in cui deve essere tradotta, per assicurare all’autore non soltanto la notorietà internazionale, ma addirittura la libertà, che è, per l’esattezza, la libertà di essere poeta».[2]
Gli arresti, l’internamento in un ospedale psichiatrico per due mesi, il processo per parassitismo sociale, con la conseguente condanna alla reclusione di cinque anni, l’esilio e la fine di ogni possibilità di riconoscimento in patria (fino al 1972 quando l’OVIR gli chiede di lasciare il paese), e il nomadismo segnano il tempo del suo destino, in cui il verso scagliato è un ritorno nel grembo della sua madrelingua, dove poter ritirare la propria anima nuda e scissa, che se da una parte, sente la provenienza e la proiezione delle linee di Anna Achmatova («la Musa in lutto»), Cvetaeva e Mandel’štam, come indizio e cifra di superstite sopravvivenza, dall’altra si accompagna a W. H. Auden, come respiro e vertigine di un risarcimento che si appropria della lingua nuova, come possibilità, innanzitutto, di tallonare un orizzonte nuovo.
Brodskij scrive moltissimo in inglese (tre saggi importanti, tra gli altri). È una acquisizione inevitabile che cerca agganci e radici, in modo assoluto e inevitabile. Come se la nuova lingua fosse la radice di una espressività figurativa rilucente che si incide in un codice vistoso e nomade, persistente nelle sue impronte inseguite e traslitterate, ininterrotto nel suo viaggio inciso.
Roberto Galaverni, infatti, afferma:
«In realtà, attraverso l’impiego della lingua del Nuovo Mondo, con tutto il sistema di riferimenti culturali, di coordinate storiche e geografiche, di abitudini di vita che questo comporta, Brodskij sembra mettere ancora più a fuoco l’orizzonte a cui aveva sempre guardato: lo sradicamento, l’esilio, lo spaesamento, come realtà prima e ultima dell’uomo, vale a dire, sempre con le sue parole, come «condizione metafisica»[3].
Le incisioni di Brodskij sono esuli. Percepiscono il gravido limite dell’essere isola dentro un’isola, sorvegliano la realtà, per decifrarne il messaggio irrecuperabile: «Scrivo questo / con l’indice / sulla sabbia bagnata e vitrea del tramonto, forse ispirato / dalle cime delle palme strombate contro il cielo platino come / caratteri cinesi. Benché non abbia mai studiato / quella lingua. Inoltre, la brezza / le scompiglia troppo in fretta perché si possa decifrarne / il messaggio».
È una lingua di ombra, un commiato, una traccia di scie che rimangono imbevute di fine e limite, oblio e stridore: «È sera, il sole cala; / i ragazzi urlano, stridono i gabbiani. / Che senso ha dimenticare, / se poi alla fine si muore?».
Esiste in questo libro una sorta di estrema conclusività e di postuma evocazione che reca interruzioni indistinte, grumi di ricordi, silenzi, ripetizioni naturali come nuvole «sparse come vesti di uno scapolo».
La visione di Brodskij è abitata da un coagulo di affetto adombrato come una voce sconosciuta che ritorna, si secreta, e rimanda alla memoria infinita che è l’immaginazione. Tale visitazione trascurata avverte il peso del vuoto, il censimento dell’anima che deve protendersi verso l’Infinito, per non trovare più coltri rauche, come la stella di Betlemme: «Di un Padre era lo sguardo».
La sua spietata precisione colpisce la sua superficie riflessa. La vita deve ricominciare, indipendente dalla propria traiettoria:
«Mai come in questi versi il poeta si era mai spinto verso una deflagrazione totale del significato poetico. Brodskij qui ha uno sguardo lucido sulla catastrofe. In ogni suo verso prende tra le mani l’insensatezza del mondo e ne attraversa, senza rinunciare a un immanente spietatezza, tutti i perimetri, le geometrie e le prospettive, suggerendo delle cose una lettura che ha il coraggio di guardare in faccia la tragedia dei giorni e della Storia».[4]
Cominciare, anche se è araldo di catastrofe, anche se ogni cosa è vulnerabile e dimentica, anche se la lingua divora le labbra nel crepuscolo nella sgargiante nudità dell’essere, e nelle spoliazioni:
«Le bianche pareti di una stanza si fanno ancora più bianche / sotto uno sguardo che severo ammonisce, / aduso più che alla vastità dei campi / all’assenza del loro non-colore nello spettro. / Molto alla cosa si può perdonare – tanto più là / dove essa si esaurisce. In fin dei conti la curiosità / per quei luoghi deserti, per i loro paesaggi / spogli di oggetti è pur sempre arte. / Nella nuova vita meglio una nuvola del sole. / La pioggia è ininterrotta come l’autoconoscenza. / Dal suo canto un treno che tu, avvolto nell’impermeabile, / fermo sulla banchina non aspetti, giunge in perfetto orario. / Dove c’è l’orizzonte, una vela è il suo giudice. / L’occhio preferisce il sapone a spugna o schiuma. / E se qualcuno chiede: «Tu chi sei?», rispondi: «Io? / Nessuno», come una volta Ulisse a Polifemo».
La parola è rarefatta, spinta oltre il precipizio di ogni convenuta asserzione, condensata nella contusa ricerca di una felicità possibile «in un diametro / che sta da qualche parte nell’aria mite della California», e affermata nel ritmo della sua ascia scagliata[5] e mai sconfitta. È l’arte che insegna la privatezza della condizione umana, la relazione indefessa con l’uomo, il suo viso non comune, affinchè possa precisare il tempo della propria esistenza e il suo essere parallela alla storia.
Ed ecco che in quel punto nevralgico, la disobbedienza del canto diventa la sua inclusione di mondo, dove la vita straniata «è la distanza tra quest’oggi e il domani / – che sarebbe il futuro. Vale la pena di accelerare / il passo soltanto se qualcuno ti incalza sul sentiero: / assassino, bandito, il tempo andato…».
La memoria traslocata è la poetica dipartita di un ritorno delle immagini. Sono dettagli di voce, frantumi di cenere soffice che si scontrano, in modo dolcemente inesorabile, con la durezza di un tratto, di un vincolo, di uno snodo terminato per sempre nell’addio:
«Contorni di una nuvola, lassù in alto piccioni, acqua immota, / legna, qualche residuo di architettura nota, / ma di vista nessuno. Così capita talvolta / che alcuni ancora partano per l’estero ma, privi della scorta / di una seconda vita, indietro tornino di corsa, con lo sguardo / sfuggente per paura e, lento a posarsi nel gesto dell’addio, / un fazzoletto palpita nell’aria. Altri, a cui è già toccato / di amare qualche cosa più della vita stessa, sapendo / in fondo al cuore che quella seconda vita è la vecchiaia, / se ne stanno al sole, senza abbronzarsi, bianchi come il marmo, / e fissano un punto qualsivoglia, non disdegnano le consolazioni / della storia. Perché quanti più sono i punti, tanto più picchiettate / risultano le uova di pernice, beccaccia, francolino / che hanno perduto nel gioco a nascondino».
L’elegia del poeta non è consolatoria, è chiara sì, ma avverte la conchiglia del proprio suono precipuo, la distanza come divisa alterità, l’amore di volata e il tempo scoperto senza diritti. Dove la poesia rappresenta l’affermazione contrastata di una durata in bassa marea e l’avamposto di una tenace resistenza, nonostante l’aria inquinata del mondo:«Bassa marea. Io fumo al buio e inalo la putredine dell’aria».
L’inflessibilità intransigente e inesorabile della Storia porta il conto. Brodskij è poeta tragico, quindi arrestato nella singolarità ed esclusività di ciò che accade, squarciato dalla mancanza e dal dolore dilatato. Per cui la concrezione del reale avviene per accumulo impermanente, resistenza indomabile, contingenza appartata e raccolta di lacrime estasiate: «Guardiamola in faccia, la tragedia: / vedremo le sue rughe, / il profilo aquilino, il mento mascolino. / Udremo i suoi diabolici toni di contralto: sovrasta il pigolare della causa la melodia roca dell’effetto. / Salve tragedia! Era da un pezzo che non ti si vedeva. / Salve rovescio di medaglia. / Passiamo a esaminarti nei dettagli».
Oppure la sofferta veglia, nel mondo, è una povertà depredata che custodisce l’umido salato delle lontananze: «Che brutti tempi: / niente a nessuno puoi rubare. / I legionari tornano a mani vuote dalle campagne militari. / Le Sibille, al pari delle piante, con fondono il futuro / col passato».
Gli oggetti, le impronte digitali, gli angoli, il futuro senza fiato, l’azzurro contumace, i residui dei fiammiferi bruciati raffigurano la salvazione reduce del tempo e della storia. Essi generano la vita mischiata all’aldilà e l’unica tangibile dolenza di un ibridismo sorgivo.
Egli è come il centauro («un semplice ero e sarò grammaticale / nel continuum presente»), accostato alle antiche pietre, alla rarità del gesto astrale, vive negli attriti dell’aria e sulle scorte illimitate della ferina materia prima: «Sugli oggetti si posa la polvere d’estate, e la neve d’inverno. / Merito della superficie liscia e piana che è attratta / verso l’alto: verso la polvere e la neve. Oppure / solamente verso l’inesistenza. E come, dice il verso, / «Ricordati di me» sussurra la polvere alla mano / che con lo strofinaccio inumidito assorbe quel bisbiglio».
Brodskij è interessato alla trasformazione in pericolo, allo svelamento prima dell’abisso delle direzioni lineari, ai vicoli ciechi, a ciò che sfugge, perché malleabile, elementare, solitario, finito e, pertanto, non eroso:
«Il mondo fu creato mescolando con fango, aria, acqua, / fuoco il grido «Non toccarmi!», racchiuso in quell’impasto, / che eruppe da una pianta, e in seguito da labbra, / perché tu non credessi che il mondo fosse vuoto. / Poi sorsero le stanze, e gli oggetti, e gli slanci amorosi, / le affinità tra ciò che fu e sarà, le arie d’opera con la tubercolosi, / roteando nei globi oculari l’alfabeto si mise in movimento. E il vuoto stesso fu sgomento».
O ancora come accade in Vertumno, poemetto dedicato alla divinità etrusco-romana che personificava la nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti, esso nasconde un appunto elegiaco, che fonde i paesaggi («Smisi pure di guardarmi indietro. Se odo alle mie spalle/ scalpicciare, ora io non sussulto»), per lo slavista Giovanni Buttafava, suo primo traduttore italiano.
L’incontro di latitudini straniere diviene la rifinitura di un’appartenenza cangiante, il segno della lingua, il suono intricato e la scolpita metamorfosi del destino: «Non ti stupire: la mia specialità sono le metamorfosi. / Chiunque io guardi, quello diventa me all’istante. / A te conviene. Sei comunque in un paese straniero».
La finitezza è una condizione dell’identità, l’estensione della lontananza, come una cartolina che si ripulisce e, attraverso il moto transitorio («Il deperibile divora il deperibile alla luce del giorno»), riesce a toccare la densità dell’istante felice, perché il cosmo non conosce discrezione e tutto si vede ad occhio nudo:
«Il mondo attorno non contava, / né la tormenta che monotona ululava, / o che nella bucolica magione stessero / allo stretto e per loro non ci fosse altro tetto. / Intanto erano insieme, / E in tre per giunta, la cosa principale, / da ora avrebbero spartito in modo eguale / i doni almeno, nonché cibo e imprese. / Il cielo invernale sul rifugio era chino / come accade a ciò che è grande col piccino, / e brillava una stella – ormai non poteva sfuggire / allo sguardo del bimbo, lo doveva seguire. / Il falò divampava, il ceppo si consumava ardente; / era calato il sonno. Non già per il superfluo riverbero / fulgente l’astro si distingue va tra schiere di sorelle, / quanto perché rendeva la terra prossima alle stelle».
Le architetture di Brodskij strappano il mondo diviso, rammendano le radure, le pozzanghere, i lidi ridotti in sabbia, gli angoli remoti, i cumuli tracciati di nubi («Spumeggianti cascate / di angeli, di abiti / da ballo, crollo / di barricate inamidate, / nozze di farfalle / con nevi himalayane, / vette alpine, a zonzo / per il cielo / delicato del Baltico / che a nessuno appartiene – / lassù, in alto, / nella vostra dimora, quali / appelli ascolterete? / Chi è il vostro architetto? / Chi il vostro Sisifo?») e i marmi. Poi ancora le statue, i portici, le colonne, le geometrie che piangono il sottosuolo depredato, l’oceano e le rive deserte.
Sono il codice sbrecciato di una promessa e pioggia sull’abisso che avverte «l’influenza della non-esistenza / sull’esistere».
Qui avviene l’interstizio di cristallo della poesia e la resa dei conti con il nulla, con il frusciare del tempo e degli incontri, dell’anonimato, del vuoto e delle rovine, perché le cose «si induriscono per restare ferme nella memoria; / ma è più facile sparire, non già affiorare, / in una prospettiva / che, lasciandosi alle spalle la città, attraversa gli anni / in cerca del tempo puro, senza felicità nè terracotta» e «Agli uccelli del paradiso per cantare non serve un ramo»:
«E non sono un codardo, bensì pronto a essere / un oggetto che viene dal passato, se così, / per capriccio, vuole il tempo, / mentre dall’alto in basso – o da sopra la spalla – / guarda la preda che accenna ancora / qualche movimento ed è calda / al tatto. Sono pronto a che la sabbia / mi ricopra, preparato a che un viaggiatore / appiedato non metta a fuoco / l’obiettivo su di me, e per me non provi / forti sentimenti. Per ciò che mi riguarda, / il tempo che scorre al di fuori / non vale l’attenzione».
[1] Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.
[2] Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.
[3] Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.
[4] Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).
[5] Brullo D., Iosif Brodskij e la disobbedienza linguistica (a colpi d’ascia), in “Il Giornale”, 9 dicembre 2017.
Brodskij J., E così via, Adelphi, Milano 2017, pp. 254, Euro 22.
Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.
Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.
Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).
Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.