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Antonietta Gnerre: il nome dell’eternità

di Andrea Galgano  22 dicembre 2021

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La nuova raccolta di Antonietta Gnerre, Quello che non so di me[1], edita da Interno Poesia, custodisce vigore e impercettibilità. Non solo per la forza immaginifica e vertiginosa del verso, ma, in particolar modo, per una sorta di vitalità esistenziale incandescente, che risolleva termini e fissità, panismo e tensione metafisica.

È una leggibilità del tempo, una fenomenologia linguistica che si innerva nella Natura e la abbraccia sia attraverso la ponderale finitudine (le cicatrici, i sogni non infilati più tra le stelle, i segni provvisori, le ombre luminose dell’Irpinia che somigliano all’universo) sia attraverso uno sconfinamento di suono, come una eco di amore.

Ago di pino in un solco, benedizione di nascite appena ricolme, nome che salva dalla morte:

«Se ho pianto è perché sono stata al buio / con un peso  / capovolto di assenze. / La nave inclinata nella sua rotta,  / i sogni non infilati / più tra le stelle. / Se ho pianto è perché le preghiere  / rientravano e uscivano  / da una linea / sottile di menzogne.  / Il giorno soffocato nelle sponde dei pini,  / dopo una mareggiata, / acceso solo dalla luna. / Se ho pianto è perché da ragazzina / ho giurato / che avrei guardato in silenzio / la bellezza dei germogli svanire / davanti ai miei occhi».

Alessandro Zaccuri, nella prefazione scrive:

«Le poesie di Antonietta Gnerre seguono il percorso inverso. Si aprono con versi che già annunciano quanto verrà dopo, come in una mise en abyme anticipata ma non precipitosa. Viene in mente lo specchio che nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck riassume e nello stesso tempo capovolge l’intera scena. La contiene e, contenendola, la interpreta. «Quello che non so di me / è superiore alla piog­gia» […] Quelli ap­pena citati sono i versi iniziali di una poesia che, con studiata consapevolezza, si incontra ben oltre la metà della raccolta, in una sezione posta sotto l’emblema arcano e affascinante del muscovite, il cristallo dall’a­spetto tagliente che ben simboleggia l’affilato desiderio di precisione senza il quale nessuna avventura poetica potrebbe essere intrapresa. L’equivalente minerale del­la ginestra leopardiana, in un certo senso […]».[2]

Il nome della poesia è un grido davanti all’Eterno, terra che si rivolge verso l’alto, parola di sangue e centro esatto del cielo, come nei volti cari e amati, nella tutela dei numi e nella fronda “sfrondata” del tempo, come avviene in questo omaggio a Pasolini, prossimo e venturo: «[…]Sono una madre. Madre di un figlio e di figli mai nati./ Come te ho avvertito la mia croce umana. / Mi asciugo le lacrime con i resti delle mie mani. / Il mio sguardo fissa un solo punto. Gli ospedali sono / fatti di pareti / che sembrano fili di nuvole che soffrono il cielo».

Il nome del nome. Gnerre vive di questa nominazione, come un gemito di sogno e promessa («Quello che mi piace del tuo nome / è ciò che non è stato nei secoli. / Da bambino ti svegliava / quando non sapevi parlare. / Quando non conoscevi i numeri. / Lo ascoltavi in silenzio / prima di aprire gli occhi, / prima che lo smalto di una nuvola / diventasse grigio. / Lo so: hai bisogno di saperti in questo nome. / Di indossarlo come fosse seta, / straccio, riparo momentaneo»), il cielo abbassato sopra la pelle, la nascita e l’indumento dei sogni e la voce che si sporge sulla luce o, anche, il volo di una preghiera sommessa e lucente, come il bacio verso tutte le foglie che si sono viste cadere:

«Se ora riuscissi a dire piano il verbo che più hai amato, / a non smettere di pronunciarlo nei pensieri, / azzererei gli alfabeti i colori i rumori. / Gli anni vissuti. / Con la punta delle dita sfiderei il tempo  / – dalle tarme di una coperta –  / per vedere quei continenti distanti / che sognavo da bambina. / Se ora riuscissi a declinarlo piano il verbo del perdono, / vicino al muro della tua casa di Polla, / ferma accanto al grano, alla rosa./ Con le spalle verso la terra, / con gli occhi fissi sul cipresso che non c’è più, / ascolteresti la mia voce nella tua luce».

Il transito della vita, l’irenismo[3], la scomposizione memoriale e temporale, il contemporaneo avvenimento del qui e ora custodiscono la scena del mondo, dove la parola, la poesia che misura i nomi, il lessico familiare e intimo aprono il segreto che forma l’universo, lo scandiscono, lo sillabano, ne fanno, insomma, un respiro che si prolunga, che tocca gli apici diurni di ogni sostanza:

«C’era il respiro dei campi / accanto a te. Talvolta sfiorava / la pietra ferita. / La rifrazione della luce  / che creava i fiori. / Forse era un giorno d’autunno / quando lo hai udito per l’ultima volta. / Scintillava nell’erba impermeabile. / Eri bambina, contavi i tigli / sussurravi alle foglie: / sono foglia anche io. / Di notte lo immaginavi vicino al letto / a proteggerti dalla cera della vita, / che cadeva sul portone. / Un colpo d’aria scriveva la tua storia. / Quella che leggono i vivi fino a cadere / nei punti invisibili dei corpi».

E la salentina Pescoluse ne diviene il cosmo unico:

«Il pavimento forma un verso. / E qui, dove invento una casa nella tua, / poggio le mani sui muri ancora caldi / dell’ultima estate. / Le poggio per misurare chi siamo. / Gli ulivi ci attendono nascosti. / Ora, ad esempio, anche loro stanno fissando / le formiche che trasportano un chicco di grano. / Il verso si completa con la luce che arriva / dalle persiane / tra i nomi delle formiche che ci osservano».

E poi il sigillo delle nuvole come anime materne, le pareti del silenzio, gli anni raccolti prima di dormire come un eliso esilio, i ricordi e l’odore del pane, la goccia che somma il tempo, i colori lontani, la veglia e i fili, la muscovite e i suoi disegni.

L’eternità è un ramo di foglia innocente:

«Quello che non so di me / è superiore alla pioggia. / Si rifiuta di cadere. / È una bellezza che resiste  / al buio dei temporali. / È una piccola follia / che si ferma sopra le curve / della massa informe delle strade. / Quello che non so di me / conta gli anni dei fiumi, / tutte le mani che hanno lavato / le lenzuola. E le cose ferme a terra /tra gli abbracci delle piante. / C’è remissione nel naufragio dei miei occhi. / C’è supplica nel prestare attenzione / alle cose che mi mancheranno».

 

 

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021, pp.92, Euro 11.

Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Guarracino V., Poesia, Gnerre tra tempo, storia e identità, in “Avvenire”, 20 agosto 2021.

[1] Gnerre A., Quello che non so di me, prefazione di Alessandro Zaccuri, Interno Poesia, Latiano (Br) 2021.

[2] Zaccuri A., prefazione, in Gnerre A., cit., p.5.

[3] Blanco G., Antonietta Gnerre, Quello che non so di me, (leggeretutti.eu/antonietta-gnerre-quello-che-non-so-di-me/), 7 aprile 2021.

Idea Villariño: la dimora e la frattura

di Andrea Galgano  6 novembre 2021

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La poesia di Idea Villariño, che ora ci viene restituita in tutta la sua fulgida e tenebrosa vertigine, grazie all’antologia Di rose che si aprono nell’acqua[1], edita da Bompiani, a cura di Laura Pugno, racchiude l’enigma della frattura lacerata, la ferita del corpo-mondo, componendo, insieme, l’incolmabile dimora della solitudine, dell’impressione diruta dell’amore e della mancanza.

Come se il paradiso non fosse già esclusione ma lacerto di sogno spezzato, purezza sperduta, dove notte e silenzio si intrecciano, e il limite (e, dunque, la morte) appaiono come segno lucente e oscuro di un contrasto, di una lotta radicale interiore, che, come afferma Roberto Galaverni:

«[…] non cerca di addolcire il ritmo opaco, la routine sorda dei giorni contro i quali l’amore, la speranza spesso si infrangono. Piuttosto sembra conservare il ricordo di un Paradiso perduto, come suona il titolo di una poesia e di un’intera raccolta. Può essere un tempo lontano, può essere la dimensione non contaminata dell’infanzia. Ma questo stesso ricordo o nostalgia, una nostalgia che si direbbe costitutiva, è la molla di un desiderio mai pienamente realizzato oppure solo in modo fuggevole, in un attimo presto consegnato al trapassare e all’oblio […]. Ecco perché, stretta tra la quotidianità delle relazioni e l’idea di un assoluto che sfugge di attimo in attimo, che si polverizza nell’atto stesso di vivere, la poetessa sembra inscrivere nella propria parola una protesta, che è prima di tutto contro la fragilità degli esseri, contro lo scandalo del consumarsi, fino a esprimere quasi un desiderio di annullamento».[2]

La sua rarefazione, però, non tocca il nichilismo, si aggancia, invece, a una linea di fragile inesorabilità che trema («E quando sarà ormai la mia vita, / la mia ardua vita, / in solitudine / come una lenta goccia / che sempre vuole cadere / e sempre resta dov’è / reggendosi, riempiendosi / di sé, tremando, / affrettando il suo brillare / e il ritornare al fiume. / Ormai senza luce né tremore / cadere nell’oscurità»), di implacabile strazio (come trovarsi sotto l’acqua e sotto l’aria), disegnando, pur nella cupa linea degli orizzonti ripiegati, come un ramo di fiori scuri sul petto, una rigorosa trama umana, uno spasimo di eccellenza femminile nella sua nudità completa e, infine, un inchiostro vitale di luce rifiutata, che cerca, senza fine, una piccola luce lontana:

«In nudità completa ormai / misteriosa assenza / di processi e formule e metodi / fiore a fiore, / essere a essere, / coscienza ancora / e un cadere in silenzio e senza oggetto. / L’angoscia è ormai / appena un sapore, / non vi entra il dolore, / la tristezza non tocca. / Una forma che dura senza senso, / un colore, / uno stare per stare / e l’attesa insensata. / In nudità completa ormai / sapienza / definitiva, unica e gelata. / Luce a luce, / essere a essere, / quasi in ameba / forma, sete, durata, / luce rifiutata».

Nella sua opera, legata sia all’esperienza politica, di cui sente tutto il peso, il dolore, anche attraverso la dura repressione della dittatura militare, sia alla cosiddetta generazione del ’45, permane questo tracciamento di platense travaglio luminoso, di lacerto mai obnubilato, di amore che cerca metamorfosi e si trasferisce nelle sue armonie spezzate.

Martha L. Canfield scrive:

«Echi di Baudelaire e di Darío, ai quali Idea dedica una poesia ciascuno, si percepiscono disseminati nella sua opera, benché soltanto, specialmente per quanto riguarda il secondo, come punti di riferimento da cui prende l’avvio il suo personale codice d’interpretazione del mondo. E naturalmente non tratta mai del Darío estetizzante, ma del Darío tormentato dall’ineluttabilità della morte. […] L’inclinazione morale e filosofica della poesia di Idea, la sera e costante riflessione sulla morte concepita come una presenza attiva in ogni essere mortale, che cresce con la vita fino a trionfare su questa cancellandola, richiama direttamente la poesia di Quevedo. Ma anche quella di Paul Valery, con il suo “Misticismo senza Dio” e il suo anelito di purezza; e di César Vallejo con la sua pietà per l’uomo […] Così la poesia di Idea diventa espressione intensissima del malessere contemporaneo. Si può dire che in lei l’essere contemporaneo si definisce a partire dalla sua angolazione più drammatica: il dolore di esistere, l’impossibilità di mantenere quella coerenza e quella “purezza” che implicherebbero il rifiuto stesso della vita, la perdita di ogni speranza di trascendenza metafisica o religiosa, la perdita di ogni teologia che non sia negativa».[3]

Laura Pugno aggiunge: :

«nell’opera di Villariño tutto cambia, e allo stesso tempo tutto rimane inesorabilmente com’è. Il vivere di questa poesia è, e non cessa mai di essere, un vivere con la morte e per la morte. È una poesia totalmente laica, e allo stesso tempo irriducibilmente metafisica nella sua apparente semplicità. Una poesia radicata in quella che è vissuta come irrimediabile separatezza del corpo dal mondo, e dei corpi umani tra loro. Corpi che si slanciano con ardore verso cosa? Perché non possono evitarlo, pur nella consapevolezza che l’esito di quello slancio non potrà essere che il fallimento, e che qualcosa verso cui ci si slancia sia l’amore o la politica poco importa. […] la poesia di Idea Villarino è intima, corporea, dilaniata, esperienziale, è la poesia di un soggetto assoluto al femminile che in modo altrettanto assoluto sente di potersi esprimere di fronte all’assolutezza – crudele – del mondo che ha davanti. Senza con ciò dover sottostare – esattamente come un soggetto assoluto al maschile – a nessuna restrizione che non dipenda dalla propria capacità di dominio sulla lingua. Un soggetto femminile intero, che pensa e trova la propria voce e parla da questo sentimento di interezza di cui una lacerante solitudine è l’inevitabile traduzione, la certa conseguenza»[4].

La sua anima profuma di dolore, che fa essere un corpo di finestre chiuse, gettate in silenzio. È il dolore che ripiega e fa ripiegare, sembra quasi sprofondare ma non si arrende e avverte tutto il limite inspiegabile di ciò che termina: «Questo che va e viene / che prendiamo con noi portiamo via / da una parte all’altra / ossicini gangli midolli / la voce la dolce sensazione del contatto / il cristallino / il pube / questo che ogni notte / mettiamo in salvo / fragile cosa / tutto questo / cos’è questo / sangue / fiato / pelle / nulla».

Essere supplice di cieli lontani, ammantare il proibito di bellezza, il cielo-cielo del paradiso perduto, l’aria sporca che cade, la notte-morte (la chiusa notte umana) che viene: «è giallo fuori / dio mio, / è giallo / come un uccello morto / come un ago d’oro / di ghiaccio / come un grido. / è giallo fuori. / ed è giallo dentro».

La sua opzione negativa, dunque, sente il peso anche della storia e del povero mondo, della violenza ostinata dei corridoi e dello schifo di albe sordide. Resta, però, in fondo, la nostalgia della vita che si pronuncia e che attende:

«Tutta l’aria / i cieli / il vasto mondo ebbro / girano e girano e girano intorno / a questa stanza questo letto / questa luce questo foglio. / Tutta la vita / tutta / vibra fragile e densa / o risplende intorno / o si strazia nell’oscurità. / Tutta la vita vive / tutta la notte è notte / il mondo mondo / tutti / sono lì fuori sono / fuori di qui / del mio ambito / per tutti è sabato / la notte del sabato / e io sto sola sola / e sto sola / e sono sola / anche se a volte / a volte / il sabato, di notte / mi invade a volte una / nostalgia della vita».

In quel confine di detriti, in quel cuore freddo e azzurro, nel peso sulle spalle, l’immensità di essere goccia grigia cade nelle ombre dense, come un fiore di cenere:

«L’amore… ah, è la rosa. / Tienila, sostienila, dalle acque dolci e pure, / veglia la miracolosa ascensione del profumo / quella nebbia di fuoco che prende forma di petali. / L’amore…ah, è la rosa, la rosa vera. / Ah, la rosa totale, voluttuosa, profonda, / dallo stelo superbo e le radici d’angoscia, / da terre terribili, intense, di silenzio, / è la rosa serena. / Tienila, sostienila, sentila, e prima che sfiorisca / inebriati del suo odore, / conficcati alle lame dell’amore, quel fiore, / quella rosa, illusione, / idea della rosa, della rosa perfetta».

Essere nulla ma in quel nulla brillare di densità, essere foglia caduta di occhi chiusi, nella luce delle mani illese e lese, essere corpo di gelsomino assetato o rosa rossa, come cristallo puro di carne: «Ma tu hai qualcosa, non so, quella luce invalida / sulle tue labbra pigre. La pigra nobiltà / che fa svenire le cose sotto le tue lunghe dita, / quel retrogusto amaro / che i tuoi baci più dolci mi lasciano in bocca, / il denso bagliore che fa di cristallo le rocce / quando tu me le dici, la tensione del tuo corpo, / il suo profumo segreto».

L’amore, come quello per lo scrittore uruguaiano Juan Carlos Onetti, a cui dedica le Poesie d’amore del 1957, è dono straniero e sussurro di fuoco, pietre d’ombra («La notte non era il sogno / era la sua bocca / era il suo bel corpo spogliato / dei gesti inutili / del suo viso pallido che mi guardava nell’ombra. / La notte era la sua bocca / la sua forza e la passione / era i suoi occhi seri / pietre d’ombra / che cadevano nei miei occhi / e era il suo amore in me / che invadeva così lenta / così misteriosamente»), lettera disperata che lo dice e che sanguina nella pioggia selvaggia, persino, disamore («Prendo il tuo amore / eppure / ti do il mio amore / eppure / avremo sere notti / ebbrezze / estati / tutto il piacere / la felicità / la tenerezza. / Eppure. / Ci mancherà sempre / l’infinita bugia / il sempre»).

Questa è la sua forza ineludibile, il suo abbandono opaco e oscuro che alza gli occhi al mistero abissale delle stelle, la sua fragile pienezza che non conosce pace, avvinta alle fronti unite delle ombre, all’amore che è sogno, ghiandole, follia, alba nuda:

«Il giorno cresce verso di te come fuoco / dall’alba nuda trasfigurata dal freddo. / Il giorno cresce verso di te come fuoco, / come un fiore di carne celeste, come un fiume. / Il giorno cresce verso di te come fuoco / e quando cadi in me gli abissi chiamano il mio nome. / Il giorno cresce verso di te come fuoco. / Mare d’oblio, profondo oceano d’ombra, / anche di me fai notte assoluta e senza eco, / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra / e divento mano a mano che cancelli il mio destino / mare d’oblio, profondo oceano d’ombra».

Nella sua casa di Las Toscas, Idea vede il mare. Forse una pausa, un desiderio di fusione, un’intima segretezza che placa.

Oppure la pericolosa Sirena che conquista («Dire no / dire no / legarmi all’albero / però / desiderando che il vento lo rovesci / che la sirena salga e con i denti / tagli le corde e mi trascini al fondo / dicendo no no no / però seguendola»), l’ametista che aggiunge pienezza, il lungo braccio del no.

Vede il mare e gli occhi brillano di canto finale: «Laggiù ci sarà il mare / che comprerò per me / che ammirerò sempre / che ululerà bellissimo / stenderà le mani / si farà mite bellissimo / triste dimenticato / azzurro profondo / eterno eterno / e passeranno i giorni / mi si stancherà la vita / verrà a fine il corpo / si seccheranno le mani / dimenticherò l’amore / davanti alla sua luce / il suo amore / la sua bellezza / il suo canto».

[1] Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

[2] Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

[3] Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

[4] Pugno L., Dire no. Sulla poesia di Idea Villariño, in Villariño I., cit., pp. 6-7.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021, pp.375, Euro 22.

Villariño I., Di rose che si aprono nell’acqua, a cura di Laura Pugno, Bompiani, Milano 2021.

Canfield L. M., Il sistema poetico di Idea Vilariño, (fanzine.versanteripido.it/il-sistema-poetico-di-idea-vilarino-retrospettiva-di-martha-l-canfield-1/).

Galaverni R., Anche in Uruguay vivere la vita uccide l’assoluto, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 31 ottobre 2021.

Jón Kalman Stefánsson: lo scenario strappato dal sogno

di Andrea Galgano  7 settembre 2021

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La poesia di Jón Kalman Stefánsson, che ora Iperbrea raccoglie in un volume dal titolo La prima volta che il dolore mi salvò la vita[1], con la traduzione di silvia Cosimini, contiene la genesi  di un’attitudine nascosta, nata da un’asperità e da un smarrimento che insegue la parola che può dire l’amore e liberarlo, come musica ed eruzione, mattamente, bruciore e urlo di spiagge.

Daniele Piccini scrive: «Jón Kalman Stefánsson ha raccontato tutto questo: la sfida dell’uomo e del su sogno – spesso nutrito di parole, di libri molto amati – a una natura imperturbabile e ostile. Con personaggi che parlano poco e piuttosto rimuginano, rivanno con la mente ad anni lontani o a eventi che li hanno fulminati[2]».

Con il porto d’armi per l’eternità (1988), Dai reattori degli dei (1989) e Mi chiese cosa avrei portato su un’isola deserta (1993), più un’appendice di testi del 1994, la linea postuma del tempo, la creaturalità, la tregua e la fida, l’universo e la sua vastità, l’indistinto, l’oltre-mondo e la sua affermazione vivono di una coltre spessa e robusta, che rivela il duro cavo di un lavoro di perfezionamento archetipico e poi la lontananza, l’attesa: «Allora la tenebra era il respiro degli spettri / i casali di torba tremavano ai colpi brutali / dei venti mentre i fieno già raccolto volava via».

La scrittura di Stefánsson è un’emersione di fondo, che tenta di far affiorare, persino, ciò che svanisce e si dirada nelle tenebre, il mare oscuro delle ciglia, il divincolamento dei nessi e i rapporti interni delle sillabe.

La sua profonda inquietudine si confronta con il destino. La voce diventa il nesso causale di una bellezza franta che nasce «dal vuoto, nel vuoto forse lasciato, forse da un Dio che sembra eclissato, morto[3]», (dirà infatti: «lo riferiscono certi informatori / che uno dei prossimi giorni / si potrà vedere dio / andare a caccia insieme al futuro / l’attimo prima / di fare fagotto e andarsene / con il cielo sottobraccio»).

Egli racconta l’addensamento dello stupore («L’aurora si addensa in un sole / che come sempre non vede nulla di nuovo / e paventa l’eternità»), l’amplificazione della tradizione, la voluttà del margine, la dissolvenza onirica dei ricordi e la notizia della vita, che si mostra come spaesamento di pioggia e caldo:

«davanti ai miei occhi si dirada / la notte / gli alleati / apparsi dal buio / si rivelano fatti della densità del sogno / e il giorno / mi serra le sue mani azzurre intorno al collo / e detta le condizioni del vincitore / non mi aspetto che questa guerra / si legga nei libri di storia; / il numero dei morti / non mi supera di molto / e con le sue generazioni svanite alle spalle / dichiaro che / un giorno / un maledetto giorno / darò anch’io il mio contributo / ad abbattere i sogni».

Poi Reykjavík diviene l’approdo di una vita che si volge, lo scranno del presente e del vento salmastro, la stanchezza di una tela-isola di orizzonte, in una nuvola di polvere.

Stefánsson muove i passi attraverso dettagli mendicanti (un incidente stradale, le radio, Elvis Presley, i corvi, la luce disabitata della scomparsa e della distanza e il sortilegio umbratile di una vertigine): «questa greve / atrofizzante rotazione / del pianeta nel vuoto siderale e io / sempre faccia a faccia col calore / del sole che ogni giorno punta / il suo sguardo rovente come fiamme / lanciate dietro stelle sfavillanti / in folle fuga nella notte appena sorta».

Il senso di fallimento, l’amarezza e la malinconia, il sogno di veglie e la ferita aperta, conservano l’oro del silenzio, le parole e le sere, lo schermo dei capelli chiari, come l’assalto delle dimore che non cancella le ombre e si affida ai cicli naturali e alle attese memoriali degli istanti come folgori.

«Un mezzo bicchiere di whisky colato più volte sul vecchio piano / una voce arrochita e nel crepuscolo una tromba lamenta il suo destino / e da qualche parte, il violino si tiene / i nostri sogni. / Notte, un velo di nebbia scivola quieto / otto i lampioni. Le sedie capovolte sui tavoli / e un nero brizzolato sembra che spazzi. / La sua camicia che era blu ha un colore indefinito. / Una coppia sognante sulla pista in abbracci profondi. / La donna con un vestito a rose. Un uomo addormentato / sul bancone del bar e la sigaretta consumata da tempo. / Una lampada a olio fumosa proietta una luce flebile sul mezzo / bicchiere vuoto e un raggio di sole rossastro tasta / senza far rumore la finestra dello scantinato. / Il giorno non è nostro e lei. Lei è infinitamente lontana».

Daniele Piccini afferma ancora:

«Resta al poeta, in questa vertigine di irrilevanza, in questa condizione di povertà e di incertezza, la propria parla: una lingua affilata, accordata a un ritmo, a una vera e propria musica. […] La poesia sarà da maneggiare un po’ come un strumento, per tentare di addomesticare la solitudine e comporre scenari che la rendono contemporanea, abitabile come un luogo quotidiano».[4]

L’insonnia e gli orli, il sarcasmo e la fierezza, dunque, in cui l’io fronteggia l’epica solitaria degli arcobaleni («donna, guarda; / ho mandato quest’uomo / così posso strappargli / gli occhi / – e tenerli per me / con la tua immagine dentro»), vivono la scomparsa sgualcita dello sguardo ventoso di donne amate e lo sparo dell’eternità, come il closing time alla Tom Waits.

o l’immensità di una domanda che ricerca lo spasimo precario dell’umano, oltre l’inermità dei sogni interrotti, del limite-respiro quasi leopardiano e di ciò che sparisce oltre lo sguardo:

«A volte sogno la nera bellezza del cielo / le mani ardenti del sole che spazzano la marea / umana dalla superficie della terra prima che il giorno / si chiuda dentro la notte glaciale / A volte sogno oltre il vortice di luce urbana / un cielo che è una porta o un miraggio sopra / i monti frastagliati che s‘infilano tra le nubi cariche / d’acqua e uccelli che spariscono nei corrugati / crinali mentre l’inchiostro del tempo sposta / le montagne e la mia vita trascorre come / una stretta di mano casuale / A volte sogno un uomo indistinto / nel tempo sostenere che la terra è sua».

[1] Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

[2] Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

[3] ID., cit.

[4] ID., cit.

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021, pp.288, Euro 17, 50.

 

Stefánsson J.K., La prima volta che il dolore mi salvò la vita, traduzione di silvia Cosimini, Iperborea Milano 2021.

Piccini D., L’Islanda dopo Leopardi non è fatta per l’Antropocene, in “Corriere della sera – La Lettura”, 5 settembre 2021.

Odisseas Elitis: il minuto segreto delle cose

di Andrea Galgano  16 giugno 2021

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«Ho colto la mia immagine tra un mare che si affaccia dal muretto bianco di calce di una chiesa e una ragazza scalza cui il vento solleva la veste: un momento felice cui tendo un agguato cercando di catturarlo con parole greche».

La dimensione europea di Odisseas Elitis (1911-1996), luce fulgida della poesia contemporanea greca e premio Nobel per la Letteratura nel 1979, assurge, da un lato, al debito innegabile verso éluard, Valéry e Breton e, dall’altro, alla potenza raffigurativa greca immersa in una ricchezza elusiva e luminosa «ma anche poesia dell’ombra, dell’angoscia e della ricerca interiore, vicina ai grandi classici dell’epoca classica, Saffo soprattutto, e poesia filosofica e di riflessione esistenziale che talora arriva a prendere in considerazione un suo dialogo con la storia fino a realizzare una fusione armonica di queste due tendenze senza più distinzione tra pensiero e sentimento, tra l’ispirazione lirica e quella filosofica, tra prosa e poesia[1]».

La pubblicazione, presso Crocetti, delle sue Poesie[2], a cura di Filippomaria Pontani, con traduzioni di Filippo Maria Pontani e Nicola Crocetti, consegna la bellezza rinnovata, l’accento puro e umbratile, l’irradiazione infinita del tempo verso l’Assoluto, in una sinfonia sensuale e compiuta che raggiunge la metafisica solare e il corpo della lingua (si pensi alle torsioni, alle ellissi de Il Piccolo Marinaio, dove il metalinguismo raggiunge una sorta di elastica purezza), attraverso segnali che caratterizzano la poesia di Elitis come specchio vitale dell’altro verso delle cose e tensione.

Come avviene, ad esempio, nei movimenti di alterità frammentata del dialogo di Maria Nuvola, dove si addensano spostamenti di tangibile e intelligibile o alla densità ritrattistica di Fratellastri:

«naturalistica, metastorica e glottocentrica. […] Il parametro naturalistico si riferisce  alla grande attenzione, determinante per la poesia di Elitis, per il micro e macrocosmo della natura: un cosmo nativo ed estraneo, vicino e lontano, animato e inanimato, vegetale, animale, umano: un cosmo dal quale emergono fanciulle amorose, simboli di emozione sensuale ed estetica. La metastoria allude alla deviazione o al superamento della storia, quando e dove essa sia segnata da implicazioni belliche e politiche, da stragi intestine e da ferite infette».[3]

Filippomaria Pontani afferma:

«Poesia come sensazione, trasparente come luce, luminosa come il sole, magica come il mare, concreta e forte come la Grecia; poesia come frutto di una lingua che non conosce il chiaroscuro, lingua perenne che guida la parola sull’onda della sua forza morale prima ancora che estetica o espressiva; poesia come “fonte di innocenza colma di forze rivoluzionarie”, come mito che non è più quello marmoreo e atteso delle storie antiche ma cresce come frutto di un processo autonomo e idiosincratico di “mitizzazione” del reale secondo canali tutti propri. Questa è la poesia di un Greco (Ellinas), di un vagabondo (alitis), di un uomo libero (elèftheros), di un devoto seguace di éluard (in particolare L’amour la poésie), pronto ad assumere sin da giovane uno pseudonimo (era nato come Odisseas Alepudis nel 1911 a Iraklio di Creta) per precipitarvi un precocissimo testamento di ideali».[4]

In Orientamenti (1940), il sipario greco di fiamma, l’alfabeto dei paesaggi, la sillaba di mare e terraferma, le evocazioni e i richiami, la metrica della materia, il colore degli arcipelaghi segnano il tempo dello zefiro egeo, i baci dell’aurora, l’orizzonte ampio dei risvegli e i notturni insanati delle dita dei cipressi, «in un pervicace ilozoismo sinestetico che trascolorava dal mare al giardino, dai melograni alle fanciulle, dal vento al bacio, dall’estate all’uva, dagli uliveti ai giacinti, dalla notte al fuoco, dalla roccia al fuoco[5]».

Inoltre, lo sciabordío d’amore è una memoria turchese di braccia dischiuse, palpebre insonni ed epigrammi di luce, fino alle clessidre dell’ignoto e al segreto della trasparenza:

«S’infuria il sole, la sua ombra incatenata dà la caccia al mare / Una casetta, due casette, il pugno chiuso dalla rugiada profuma ogni cosa / Fiamme e fiamme vanno in giro a svegliare porte chiuse delle risate / è tempo che i mari si presentino ai pericoli / Che volete chiede il raggio, che volete chiede la speranza / calando la sua camicetta bianca / Ma il vento ha seccato la vampa, due occhi pensano / Senza sapere che fine faranno così denso è il loro futuro / Verrà un giorno che il sughero imiterà l’àncora e ruberà il sapore dell’abisso / Verrà un giorno che la loro duplice identità diventerà una sola / Più in alto o più in basso delle vette che ha incrinato il canto del Vespro / Di stasera, non importa, l’importante è altrove / Una ragazza, due ragazze, si curvano sui loro gelsomini e scompaiono / Resta un torrente a raccontarle ma proprio lì le notti si sono chinate a bere / Grandi colombi e grandi sentimenti coprono il loro silenzio / Pare quella loro passione sia irredimibile / Nessuno sa se verrà il dolore a spogliarsi insieme a loro / Le trappole scarseggiano, le stelle indicano agli amanti gli incantesimi / Tutto balza, si aggroviglia – pare sia giunta l’immortalità / La cercano le mani stringendo il loro destino che ha cambiato corpo e si è fatto vento / Forte – pare sia giunta l’immortalità».

Il femminile di Elitis è una transustanziazione di grazia e bellezza, un concerto di giacinti, orizzonti remoti e ricordo glauco, voci che si dimenticano, viaggi di dita sui pioppi che spartiscono il vento e labbra introvabili, come le parole che affilano l’immenso:

«Emozione. Le foglie tremano vivendo insieme e vivendo separate sui pioppi che spartiscono il vento. Prima dei tuoi occhi è il vento che mette in fuga questi ricordi, questi ciottoli – le chimere! L’ora è liquida e tu ti appoggi su di lei, piena di spine. Penso a coloro che non hanno mai accettato salvagenti. Che amano la luce sotto le
palpebre, che quando il sonno è allo zenit esaminano svegli le loro mani aperte. Voglio chiudere i cerchi aperti dalle tue dita, e applicarvi sopra il cielo perché non sia mai diversa la loro ultima parola. Parlami; ma parlami di lacrime».

E ricolme dell’isola di Thera (Santorini), esse attraversano la notte che erra nei deserti degli astri, come nascita primigenia e porfirogenita:

«IX

Io non ho fatto altro. T’ho presa come tu prendesti la natura intatta e l’officiasti ventiquattro volte entro le selve e i mari. T’ho presa in quello stesso brivido che rovesciava le parole e le lasciava lungi come aperti in surrogabili gusci. T’ho presa compagna nella folgore, nel terrore, nell’istinto. Perciò ogni volta che cambio giorno stringendomi il cuore fino al nadir, tu fuggi e sparisci vincendo la tua presenza, creando un deserto di Dio una tumultuosa inesplicabile felicità. Io non ho fatto altro che quello che ho trovato e imitato in Te!

X

Ancora una volta tra i ciliegi le tue labbra introvabili. Ancora una volta tra le amache vegetali i tuoi antichi sogni. Un’altra volta nei tuoi antichi sogni le canzoni che si accendono e svaniscono. Dentro quelle che si accendono e svaniscono i caldi segreti dell’universo. I segreti dell’universo».

Oppure attraverso la pienezza dell’istante che lega abisso e brillìo, estati azzurre, labbra rosse e rocce di enigma, lontananze e sabbia tra le dita, il corpo dell’amata diviene il primo giorno sulla terra, tra i melograni folli e lidi inodori:

«Hai sulle labbra gusto di procella / Un vestito ch’è rosso come il sangue / Giù nel fondo dell’oro dell’estate / L’aroma dei giacinti – Dove mai vagavi / Calando ai litorali ai golfi con i ciottoli / Là c’era un’alga gelida salmastra / Più in fondo un sentimenti umano dava sangue / Aprivi attonita le braccia e ne dicevi il nome / Salendo lieve a specchi diafani d’abissi / Dove l’asteria tua brillava».

Nel corpo dell’estate si afferma l’assoluto imprendibile, la densità dell’istante, la goccia che trema nel sole, il fremito nudo dell’ultima pioggia e le variazioni su un raggio, come illibata libertà:

«Aroma eccelso del dito immilla la passione / Il mio occhio aperto duole sulle spine / Non è la fonte che brama gli uccelli dei due seni / Quanto il ronzio di vespa sulle anche nude. / Datemi la cicatrice dell’amaranto le magie / Della giovane filatrice / L’ “addio” l’ “arrivo” il “ti darò” / Caverne di salute lo berranno alla salute del sole / Il mondo sarà la morte o il doppio viaggio / Qui nel lenzuolo del vento lì nello sguardo dell’immenso».

I 14 quadri che compongono il Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania, dato dopo aver rischiato la morte a causa del tifo, racconta la genesi dell’immolazione e il dramma della libertà e «proietta il sacrificio di un singolo combattente entro uno scenario di “morte e risurrezione” (emblematico il rintocco delle campani pasquali nell’ultimo testo) che coinvolge l’intera stirpe ellenica, ma più ampiamente l’uomo stesso, che tramite la lotta per la libertà e l’espiazione redime i luoghi e il cosmo portandoli a una compiuta perfezione[6]».

La passione ritorna in Dignum est (1959), dove l’inno di ringraziamento e celebrazione della tradizione liturgica ortodossa, unisce le campiture religiose, in particolare del Genesi, alla salmodia della Passione, fino al Gloria che prorompe come gemma di luce e dà vita e respiro alla bellezza.

Il travaglio della storia accompagna la sortita di ogni pienezza, la folgore di ogni umana tensione e l’avviluppo delle contraddizioni del tempo. L’autobiografia e il salmo, la voracità delle cose e la gloria di ogni lingua e stratificazione.

Il cuore dell’innocenza perduta, la lotta, il riscatto, la compiutezza morale, la fragranza ricolma della realtà, in tutta la sua gratuità (rocce, il fruscìo delle onde, le lacrime, muri, case, olivi e giardini, il corpo femminile disteso, i melograni, la sabbia di tenebra) condiscono la stilla di acqua limpida della poesia, dove, come afferma Filippomaria Pontani, il thànatos è anima del maschile, innervando il territorio della femminilità e della soggettività di Eros.

L’albero di luce e la quattordicesima bellezza (1971), che rimanda alle donne sciite, attraversa la crisi della Grecia odierna, non solo appropriandosi di una lacerazione di rimpianto e nostalgia, ma anche attraverso l’inserzione di un vocabolario autobiografico di infanzia e adolescenza e dell’enigma bianco dell’anima:

«Lo so che tutto questo è nulla  e che non ha questa lingua che parlo un alfabeto / Visto che il sole e i flutti sono una scrittura sillabica che tu decifri solo nei tempi del dolore e dell’esilio / E la patria  un affresco con strati successivi franchi o slavi   se mai ti provi a restaurarli te ne vai in prigione all’istante  e rendi conto / A una congerie di Potenze straniere   tramite la tua / Come succede per le calamità / E tuttavia   immaginiamo un’aia di remoti tempi che può stare in un grande casamento   che vi giochino bambini e che chi perde / A norma di regolamenti sia tenuto   a dire agli altri e a dare qualche verità  / Quando sono alla fine tutti tengano in mano un piccolo / Dono argenteo poema».

Il poema-luce di Monogramma restituisce l’infinita sensualità dei passaggi quotidiani: i bisbigli, i pleniluni, i varchi del mare, il silenzio delle stelle, come un tempo remoto di un affresco diruto di incanto e profumo («Il tuo corpo nella posa del pino solitario / Occhi di orgoglio e di abisso trasparente / Dentro la casa con la credenza vecchia / I merletti gialli e il legno di cipresso / Io solo ad aspettare la tua prima epifania / Nella loggetta in alto o dietro sulle pietre del cortile / Col cavallo del Santo e l’uovo della Risurrezione»):

«Tanto la notte, tanto l’urlo al vento / Tanto la goccia all’aria, tanto il gran silenzio / Attorno il mare la tirannica / Volta del cielo con le stelle / Tanto il tuo minimo respiro / Che ormai non ho nient’altro / Entro le quattro mura, il soffitto, il pavimento / Per gridare di te (e la voce mi colpisce) / Per odorare di te e gli uomini s’infuriano / Perché ciò che è intentato, portato da un altrove / Non lo reggono gli uomini ed è presto, mi senti / È presto ancora in questo mondo amore mio / Per parlare di te e di me».

Elitis procede per analogia di sensazioni, laddove il paesaggio femminile è natura vivificata, genesi geometrica e ecfrasi di cielo:

«È ancora presto dentro questo mondo, mi senti / Placati non si sono i mostri, mi senti / Il mio perduto sangue e l’appuntito, mi senti / Coltello / Come ariete che corre dentro i cieli / E spezza agli astri i rami, mi senti / Sono io, mi senti / Ti amo, mi senti / Ti tengo e ti porto e ti metto / L’abito candido d’Ofelia, mi senti / Dove mi lasci, dove vai, chi mai, mi sent / È a tenerti per mano sopra i cataclismi / Liane enormi e lave di vulcani / Verrà giorno, mi senti / Che ci seppelliranno e le migliaia d’anni poi, mi senti / Di noi faranno pietre luccicanti, mi senti / Perché vi brilli l’impietosa indifferenza, mi senti / Degli uomini / E in mille pezzi via ci getti, mi senti[…]».

I sintagmi della rêverie, la liturgia, la divinazione suprema ed eliocentrica della luce diventano ultimità ierofanica che tenta di trasformare la realtà, congiungere morale e bellezza, sospendere sintassi  ed enigma, inquietudine vitale, prisma rifratto e destino, come galassia ribassata e fogli nel sole.

O anche nel blu di Iulita, in cui Elitis fa confluire il passaggio del respiro, la sacralità del vento, il mito citereo, il tempo amante, fino alla nitidezza dell’anima, affamata e assetata di eterno:

Anche in un frammento di Briseide e in una conchiglia dell’Euripo si trova
Ciò che intendo. Deve avere avuto una fame tremenda nella bonaccia agosto
Per volere il meltèmi; così da lasciare un po’ di sale sulle ciglia e
In un cielo blu il cui nome benaugurante sentirai tra i tanti

Ma nel profondo è il blu di Iulita
Come se fosse venuta prima la scia del respiro di un bimbo
Che vedi avvicinarsi coì nitidamente i monti dirimpetto
E la voce di un’antica colomba fendere l’onda e perdersi

Se il bene è sacro, di nuovo dal vento
Gli viene restituito. Tanto si moltiplica dai suoi  stessi figli la Bel-
Lezza e tanto l’uomo cresce prima che due o tre volte
Lo raffiguri il sonno
Nel suo specchio. Cogliendo mandarini o ruscelli di filo-

sofi se non anche

Un villaggio mobile di api sul pube. E sia
L’uva fa bruno il sole e più candida la pelle
Chi altri oltre la morte ci rivendica? Chi pratica ingiustizia dietro ricompensa?
Un accordo armonico la vita
a cui si frappone un terzo suono
Ed è questo che dice veramente che cosa getta il povero
E che cosa raccoglie il ricco: fusa di gatto, rametti intrecciato di agnocasto

Assenzio con capperi, parole che si evolvono con una vocale breve
Baci e abbracci da Citera. Così, a cose come queste si aggrappa
L’edera e si fa più grande la luna perché vedano gli innamorati
In che blu di Iulita puoi leggere la ragnatela del destino

Ah! Quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi             Ho attraversato. Però il tempo non mi ha mai preso in prestito bellezza
Per ottenere una vittoria contro il nero e prolungare la durata dell’amore cosicchè                                                                                                           Il canto dell’allodola che è in noi sia più ingegnoso e melodico
Dal suo pulpito
Nube accigliata che uno schietto “no” solleva come una piuma
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e                                              Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino
Domani un suonatore ambulante ci annaffierà di fiori della notte
E nonostante ciò saremo un po’ infelici
come solitamente nell’amore
Ma dal mastice dell’argilla sale un sapore eretico
Per metà di odio e sogno per metà di nostalgia                                                                                                                                      Se continueremo a essere percepibili come uomini che
Passano la vita sotto cupole punteggiate da tritoni di smeraldo, allora
Sarà mezzo secondo dopo mezzogiorno
E la sublime perfezione
compiuta in un giardino di giacinti
Cui è stato tolto per sempre l’appassire. Un po’di grigio
Che una sola goccia di limone rasserena allorchè
Vedi ciò che intendevo dall’inizio incidersi
Con caratteri nitidi
sul blu di Iulita.

[1] (a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010, p.X.

[2] Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

[3] Maronitis N.D., Contributo sulla poetica di Odisseas Elitis. Poesie in rilievo e a tuttotondo, in Odisseas Elitis, cit., pp.18-19.

[4] Pontani F., in Elitis O., cit., p.7.

[5] Id., cit.

[6] ID., cit., pp.8-9.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021, pp. 240, Euro 16.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

  • È presto ancora, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.
  • Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del poeta, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.

(a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010.

 

Ljubomir Levčev: la furiosa precisione

di Andrea Galgano  14 maggio 2021

leggi in Pdf Ljubomir Levcev: la furiosa precisione

La poesia di Ljubomir Levčev (1935-2019), uno dei più grandi poeti bulgari, è tempio di precisione furiosa. Poesia che affastella contraddizione e ironia, si ammanta di una temperie di assurdo e cromature vitali, che insegue la nostalgia dell’infinito, e guarda con attenzione e fedeltà, come scrive Roberto Galaverni, «la vita, il mondo, gli altri, sé stesso, proprio come ci si aspetta da un poeta. E lo fa spesso e volentieri per mettere in luce il rovescio, la trama nascosta, la verità e dunque la morale inattesa delle cose. Ma e qui sta il punto, l’intelligenza e l’arguzia delle sue osservazioni non risultano affatto intrise, come quasi sempre accade, di sarcasmo, risentimento o disamore vero l’esistenza».[1]

Con la pubblicazione di I passi dell’ombra[2], edito da Bompiani, a cura di Giuseppe Dell’Agata e introduzione di Vladimir Levcev, la sua poesia esprime, pienamente, una ricchezza di immagini ed è

«adorna di numerose metafore. È musicale, ha i ritmi sincopati della poesia moderna, ma la sua essenza si fonda sulle immagini e sul paragone. Le sue metafore sono spesso strane, moderniste, ma nascono sempre da una realtà concreta (Quando all’improvviso salta la corrente). Il mondo emotivo della sua poesia reca l’alito, l’aroma, il colore del suo tempo, ne utilizza i ritmi e la lingua. Nei versi migliori non c’e niente di artificioso, falso, combinato. Perfino nei cosiddetti Capricci. Perfino le metafore più eccentriche e assurde vengono percepite come una marcata realtà fisica. La sua poesia costituisce una testimonianza di alto significato riguardo al trascorrere del tempo».[3] (p.8).

 Le esclamazioni e le interrogazioni metafisiche, la nudità del cielo notturno che contrasta il limine luminoso del giorno («Amo il cielo di notte, / perche lui solo e nudo. / E questa luce del giorno mi impedisce / di guardare la nudità dell’Universo»), la particolarità delle immagini che raggiungono linee surreali e il fondo dell’assurdo, come i parafulmini, in uno strappo di sipari.

E poi la fraternità, le illusioni di cristallo (le vie scoscese di Tărnovo, invocate come affermazione imperitura) compongono il suo scenario che insegue la bellezza nelle solitarie realtà concrete, nella posizione partecipata e distaccata, insieme.

Andrej Voznesenskij, infatti, afferma:

«Fissare l’attimo e il tratto stilistico di Levčev: negli autentici artisti e in generale nei creatori e presente una forza interiore tesa a superare lo spazio e le strette cornici di ciò che e limitato. Ciò che più gli interessa, come ha scritto in una delle sue poesie, e di essere il più sincero, il più originale, il più se stesso possibile. Il suo verso e intellettuale, ma il suo intellettualismo non e schematico, bensì carnale, virile, colorito». (p.10).

La sua immagine è in movimento, ricorda volti cari (la madre in paradiso) e solitudini accorate, racchiude inserti minimi (come i movimenti della donnola in cantina o i segreti strappati della luna di giorno), il rumore dell’anima e la sensualità dell’amore sospeso («Aprii, / tremante come una fiammella, / e ti vidi, / bellezza – / piena di desiderio, / coi capelli scompigliati dalla luna / e illuminata dal vento della notte, / e con un sussurro di una foglia di giaggiolo:“Eccomi – / Come mi hai immaginato!”/ Chiamami Carmen! / E sappi che ti amo!”»), e soprattutto, la sua luce invisibile è una ricca confidenza indicibile che si interroga e si espone («Come un grillo di città / la mia voce interiore / si interroga»): «Così che, in realtà, / quando salta la corrente, / io vedo / infinite cose, invisibili alla luce. / Per esempio: / all’improvviso capisco / che in città è raccolta / una quantità pericolosa di persone / per ogni metro quadro illuminato. / E non ha più nessun significato, / se sei stato Anteo, / perché / hai molti piani sotto di te / ed essi sono la tua terra».

La sua ironia è una filigrana che serve per mettere a fuoco il problema della realtà, per interrogare il tempo, i sogni e la memoria, e la posa dell’arte, richiamare gli amici scomparsi e guardare alle inserzioni di eterno:

 «E durante questo tempo infinito / guarderò fuori dalla finestra / come cadono le foglie / o rinverdiscono, / come la lontana cupola della chiesa assomiglia / a una tazzina di caffè rivoltata per trarne gli auspici, / come le ragazze si specchiano nelle porte di vetro / e come voi pensate che io non ci sia più per sempre».

I quadri di Levčev incrinano ogni sicurezza, sembrano giocare con le cose, fino al dramma, si spingono al dialogo per celebrare l’immaginazione vissuta e, infine, conteggiare l’ombra, la visione, la ferita, gli scherzi d’amore e le ragazze del mattino, il raggiungimento della storia (come i dialoghi con Colombo e la gloria di grandi pittori come Cézanne o Monet), la dolcezza luminosa della magnolia e le soglie profonde.

In questa trasparenza oscura, nell’arco degli abissi, nello sperdimento ribelle dei fiumi della Bulgaria e nei tamburi squarciati della notte, egli tocca le trame più interiori. E lo fa maneggiando le soluzioni eversive e minime del vero, lanciato come un traboccante sospiro: «Allora sbalordito vidi che ero sulla riva, / che tu sei il mare del mattino / e i tuoi abissi mi chiamano. / Da te sorge il sole. / Tu mi tocchi / e in me spunta l’alba».

Le sue tensioni assomigliano a sillabe di lettera, a un limpido guado d’amore («Amore come un silenzio – / questo è il mio amore. / E tu lo conosci»), all’attesa e ai semi semantici del sussurro dell’anima:

«Se ne va la luce rossa. / L’ultima lince selvatica scruta / cose per noi invisibili. / Se ne va la neve dalle cime dei monti. / Le cabine della funivia immobili / viaggiano verso l’oblio, / viaggiano. / Come un miraggio scacciato. / Come una speranza disperata. / Se ne va questa epoca. / Se ne va l’estasi… / E solo io rimango. / Non so se potrò scriverti ancora. / Non so se potrò vederti. / Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi / fino alla fine, / e forse anche dopo. / Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere. / Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco. / Con dita insanguinate ti cercherò, / ma tutto quello che toccherò, / diventerà polvere».

[1] Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

[2] Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

[3] Levcev V., Introduzione in Levcev L., cit., p.8.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021, pp.350, Euro 20.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

Hagard: braccando la soglia della surmodernità

di Irene Battaglini 29 aprile 2021

leggi in pdf HAGARD, LO SGUARDO DEL FALCO

titolo   Hagard

autore  Lukas Bärfuss

collana Kreuzville

editore L’orma

pagine 120

pubblicazione  03/2021

ISBN   9788831312592

Don Juan affermò che per vedere si deve prima fermare il mondo. Insomma, fermare il mondo era un’interpretazione corretta di alcuni stati di consapevolezza nei quali la realtà della vita quotidiana è alterata perché il flusso dell’interpretazione, che in genere scorre ininterrotto, è stato arrestato da un insieme di circostanze estranee a quel flusso. Nel mio caso, l’insieme di queste circostanze era la descrizione magica del mondo”. Così scrive Castaneda in Viaggio a Ixtlan[1]. Quello di Philip è una discesa agli inferi, guidato dal “demone” Hagard, nei sottofondi degradati di umanità e di cemento di una città il cui nome è una coordinata fantasmatica, e che in questo mirabile romanzo diventa lo scenario – a tratti magico, a tratti patetico – da cui si dipana la “via di conoscenza” di un uomo di carattere, codificato da una nevrotica contemporaneità, il cui flusso di coscienza, tenuto insieme senza alcuna presenza di sé, è interrotto da una chiamata inattesa all’individuazione.

Dire della trama, non servirebbe: si tratta di una rete a maglie larghe, di una vera e propria ragnatela, parafrasando Mario Lavagetto, di piccoli indizi, dai quali emerge la vertigine della libertà di Philip, il cui destino si compie sgretolandosi, e che attraverso una sarabanda di ricordi frammentari, ammonimenti superegoici e salti temporali, stabilisce di intraprendere un gioco di scacchi con la vita. Tuttavia la questione del destino di Philip potrebbe essere il canovaccio narratologico intessuto da Lukas Bärfuss per arrivare al cuore del problema: la vita di un uomo, indipendentemente da come possa essere vissuta, per chiarire la sua domanda di senso deve essere raccontata da chi ne sa seguire lo sguardo. Ha bisogno di un narratore al corrente degli antecedenti, delle variazioni di accordi, delle conseguenze delle scelte: lo stile di uno scrittore è, anche, il suo punto di vista. Non dico le sue opinioni, o il suo sistema di valori, e nemmeno la maestria: dico il vertice – in questo caso una mappa di vertici mobili che danzano forsennatamente – dal quale osserva. Quale piano, da quale orbita decide di salpare, da quale porta ci fa entrare, per seguire la “caccia” di Philip alla donna dalle ballerine color prugna, con le gambe di gazzella, il volto d’oro e invisibile, e il corpo flessuoso di passi che “sentono” il mondo?

“Hagard” indica quel falco che, nonostante sia tratto in cattività, non si lascia addomesticare completamente: è dunque un falco la cui natura selvaggia è solo parzialmente mitigata e maldisposta alla sudditanza.

Lo sguardo di Lukas Bärfuss è di falco libratore. I falchi «libratori» catturano la preda a terra, dopo aver perlustrato il territorio librandosi immobili nell’aria, oppure calandosi in picchiata da un “punto di vedetta”: un punto di vista, alto, molto più in alto di quello della maggior parte di coloro che si avvicendano nelle infinite traiettorie del mondo. Scrisse il drammaturgo svedese August Strindberg: “Lo sa lei come si vede il mondo dal basso? No, lei non lo sa. Agli sparvieri, ai falchi di rado gli si vede il dorso: volano troppo alti” [2], e ancora: “Abituati a osservare il mondo a volo d’uccello, e vedrai allora che tutto ti sembrerà piccolo e insignificante”[3].

Il lettore di Hagard – il romanzo laureato nel 2019 dal prestigioso premio Georg Büchner dell’Accademia Tedesca per la Lingua e la Letteratura (premio istituito nel 1951 e già assegnato a scrittori, tra gli altri, del calibro di Ingeborg Bachmann e Christa Wolf, Celan, Dürrenmatt, Thomas Bernhard, Elias Canetti, Günter Grass) si farà certamente catturare dall’occhio – che riscrive un mondo – di Lukas Bärfuss: un romanziere dal calibro introverso e disilluso alla Joseph Conrad, dal cuore emorragico di Jean-Claude Izzo, e dalla irredenta solitudine contemporanea di John Cheever.

Il respiro di Philip è affannato come di un lupo della steppa, è attento e circospetto, è solitario e affilato: la paura delle avversità (numerose, in cui si imbatte per non perdere di vista la bellissima creatura, “la dea” dalle ballerine color prugna) è una emozione primitiva che determina il rango del rapace, non la debolezza del suo cuore di fiera: si tratta di gestire eventi in rapida successione, come se il nastro della corsa si svolgesse dai fotogrammi opachi dei finestrini di un treno affannato, semivuoto, attanagliato ai binari eppure in una sequenza decisiva degna di un thriller psicologico, intriso di odori e da un immaginario tracciato erotico, con cui l’autore ammanta la mappa spietata delle molteplici realtà in cui si imbatte: si tratta di stati dell’essere che Philip, il protagonista, sperimenta per la prima volta grazie all’incontro con la donna-Anima, della quale non “vede”, suo malgrado, la natura selvaggia di Hagard, il falco non addomesticabile. Il suo sguardo, lo stile narrativo che sorvola e si libra, che si eleva e si staglia, che stana e che sovrasta e poi si avvicina come in una presa diretta, che memorizza volti e dettagli, che registra minacce, pericoli, è come di un falco su un territorio di caccia metropolitano, tuttavia all’acume della sua pupilla sfugge proprio la natura di ciò che rincorre: la creatura leggiadra è un’Anima della selva, che scompare tra gli alberi – come tra i vetri di un edificio -, si nasconde al tramonto in lividi appartamenti, paludi dell’essere entro cui sconfinano binari e fiumiciattoli sotto basse nuvolaglie che ricordano la Fiandra investigativa, pressante e annoiata, di Georges Simenon.

Philip è costretto, suo malgrado, a conoscere lo spirito putrescente dei “non-luoghi”, quegli spazi non identitari della sur-modernità, che nel suo volo incalzante verso l’infinito, braccando un’Anima indomita infilata in “soffici calze”, diventano, in una magica metonimia retrograda, i non-luoghi della sua psicologia individuale in eclissi, rappresentativi di un Sé acerbo, emotivo, sanguigno, che si sveglia al mondo: cespugli e reti, marciapiedi senza strade, opachi ristoranti, grigi scannatoi di provincia, scale mobili sospinte da gelidi nastri, caffè consumati freneticamente in maleodoranti sottopassi, metropolitane glaciali popolate da figure retoriche – ossimori indossati da uomini senza qualità come controllori e bigliettai o manager azzimati -, corridoi di anonimi condomini, self-service per la colazione popolati da uomini e donne che assomigliano ad allevamenti di pesci insipienti. Troviamo in “Hagard”, ad esempio, quadri che sono insieme sia di ridondanza analitica sia di estrema sintesi:[4]

“Quella razza Philip la conosce bene. Piccoli boia, scorticatori incaricati di tormentare il prossimo con strumenti quali i titoli di credito, le fatture scadute, l’ufficio fallimenti, la bancarotta; e ovviamente con la voce gracchiante, le vocali aguzze, le lunghe sibilanti. […] Dunque nell’edificio non ha sede un’unica azienda. È un immobile con molte utenze e molti affittuari. Studi di ingegneria, spedizionieri, contabili, call-center, forse persino ditte di import-export. Nella corte sembra esserci una tipografia. La ragazza potrebbe passare la giornata nei modi più disparati. Ma nessuno pare appropriato. È uno stabile privo di qualunque classe. La dea esige un tempio. Un intero piano come regno. La regina ha bisogno di ampi spazi. Ha la sua propria andatura e la deve tenere in esercizio, lui ne è testimone. Gli è impossibile immaginarsela tutto il giorno china su una scrivania. Forse lavora camminando, sfila da un tavolo da disegno all’altro con la matita tra le labbra. O altrimenti? Accoglie i clienti? Ripone negli armadi le pratiche lasciate in giro dai colleghi? Prepara la sala riunioni? Sistema la frutta? Cambia l’acqua ai fiori? Oppure il sorriso e il portamento sono le sue sole mansioni? È del tutto indifferente. A Philip basta poterla vedere. Ed è proprio quello che non sta facendo”.

Nonostante il velo manifesto sia sfrangiato e ripido, è proprio il grado simbolico di questa realtà finalmente fruibile che Philip apprezza: ora il suo passo veloce e il suo pensiero torrido possono appoggiarsi su una nuova rappresentazione del mondo grazie all’incontro con la provvisorietà. O meglio, grazie alla provvisorietà dell’incontro con una donna che nessun luogo abita: una donna i cui tacchi sono magici piedistalli dalle sette leghe, implacabile e vorace di tempo, una donna che sa il mondo, e che decide di non abitarlo mai abbastanza a lungo da poter restare impigliata in una trappola: è lei il vero cacciatore vigile, colei che, come direbbe Don Juan, assomiglia a quei “vecchi stregoni che avevano una fluidità favolosa. Bastava solo il più lieve spostamento del loro punto di unione, il minimo accenno percettivo ispirato dal Sognare, perché fossero subito in grado di tendere un agguato alla percezione, risistemare la loro coesione in modo da adattarla al nuovo stato di consapevolezza, ed essere un animale, un’altra persona, un volatile, o qualsiasi cosa”. [5]

È lei, la Dea dalle Ballerine Color Prugna, un Orfeo che non si volta, che non tentenna, non dubita, non cede il passo ai quesiti inattendibili: ed è per questo che è lei a salvare Philip da un destino che, altrimenti, sarebbe stato di eterna nostalgia per una vita altrimenti mai vissuta.

[1] Carlos Castaneda,Viaggio a Ixtlan (Journey to Ixtlan, 1972)

[2] August Strindberg, La signorina Julie, 1888

[3] August Strindberg, La stanza rossa, 1879

[4] Lukas Barfuss, Hagard, 2019, p. 104-105

[5] Carlos Castaneda, L’arte di sognare (The art of dreaming, 1993)

Michael Longley: la sottile maestà

 

di Andrea Galgano  15 aprile 2021

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Michael Longley, classe 1939, di Belfast, allievo del grande grecista W.B.Stanford, fa parte assieme al grande Seamus Heaney, assiepa la bellezza del mistero dalla precisione della lingua, attraverso la riscrittura di Omero, e, come afferma Piero Boitani:

«il paesaggio meraviglioso dell’Ovest irlandese; e l’amore per i particolari più minuti del mondo naturale (inaugurato con forza e delicatezza proprio qui in Angel Hill). Omero non è un semplice oggetto di imitazione, è al centro di una vera e propria ri-scrittura che colloca l’Iliade e l’Odissea, i poemi più antichi della nostra tradizione, al centro del presente: dove regna il conflitto, come nell’Iliade; dove domina la ricerca, come nell’Odissea. Febbraro ha dunque perfetta ragione nel sostenere che in Longley l’originalià è sostituita dalla originarietà. Il poeta procede isolando un grumo narrativo omerico, lo medita a lungo, lo svolge, lo traduce in un istante lirico: in Angel Hill, è “La spilla”, il fermaglio che tiene uniti i due lembi del mantello di Ulisse, ma altrove è l’incontro all’Ade con Anticlea, la madre morta di nostalgia per il figlio che non tornava mai: un solo periodo di diciotto versi e di enorme potenza».[1]

La lampante meraviglia del suo dettato appare evidente in Angel Hill[2] (a cura di Paolo Febbraro, edito da Elliott e vincitore in patria del PEN Pinter Prize), attraverso il doppio movimento della visitazione e della rivisitazione del tempo, attraverso l’orizzonte dell’attrito memoriale, dei luoghi sgranati, dell’incrocio dei depositi temporali (si pensi al ricordo dei campi di battaglia e dei cimiteri della Grande Guerra, in Francia, che egli visitò con la moglie nel 1997 e dove il padre aveva combattuto, tornando segnato), dell’epica ancestrale ed archetipica che risolleva ombre e concede vitalità, come afferma Paolo Febbraro:

«Il poeta torna al passato perché sa che il presente ne è un’articolazione, e quest’articolazione va illimpidita e preservata con un lavoro “onnipresente”, che sembri compiuto appena ieri per freschezza, nitore e assenza di ogni macchia stilistica. Il padre, vecchio soldato ucciso dalla guerra a decenni di distanza, e gli eterni ragazzi sopravvissuti solo nei veri e nei taccuini compongono un quadro vivente che detta al poeta la castità e la fratellanza dello guardo, ma anche la responsabilità di una purezza che è Storia».[3]

Lo svanimento, la perdita, l’immersione, lo stupore toccano il cimitero di Angel Hill, dove riposano i caduti della Prima Guerra Mondiale e diventano il fulcro non solo di un paesaggio dell’anima[4] ma, in particolare, di un tempo del pensiero, di una soglia che ricopre la bellezza dell’avamposto dell’io, come la lente d’ingrandimento di Fleur Adcock («Cara Fleur, per anni ci siamo congedati / ornitologicamente: i pettirossi di East Finchley / e scriccioli e cinciarelle come fatti importanti, / il mio censimento di cigni e trampolieri / dal tempaccio di Carrigskeewaun. / Abbiamo passato la vita nei campi, china / la testa, cercando sul terreno nidi di allodole») o la piccola baia, in omaggio a Kathleen Jamie: «Ho visto il tuo volto / frammezzo ai ciottoli / d’uno stagno delle Highlands. / Spandendosi nell’erba / la marea equinoziale / vi lascia alghe medicinali. / Avrai notato un orbitante / frutto di rosa canina / appeso al cielo, / una passerella scivolosa / far da ponte fra la baia / e gli estremi del mare, / il guscio di un mitilo / colmarsi di pioggia / quando giungi allo stagno».

La vulnerabilità friabile di Carrigskeewaun o la punteggiatura di Belfast sono un orologio di territorio, come il filo ventoso dell’Atlantico che lega precarietà e bellezza, solchi, luce schiacciata e smottamenti, sfumatura dell’anima e conteggio della realtà, attraverso la precisione, l’osservazione minuta ed essenziale, il fascino umbratile delle cose, cui aggiungere la cromatura primaria dell’essere che aggiunge, contorna, offre un insieme di incanto e bellezza alla veglia e all’attesa:

«Hai passeggiato con me un milione di volte / sul sentiero roccioso per Carrigskeewaun / fermandoti nell’insidia dei cerchi delle fate / a cogliere funghi per merende e poesia. / Hai indicato, per un guscio di lumaca / o la piuma di un chiurlo o il fodero vuoto / di un uovo di squalo la parola esatta, sillabe  / e silenzi udibili sul filo ventoso dell’acqua. / Abbiamo seguito le orme della lontra verso Allaran / e atteso per ore sul nostro trono gelato, / per cinquant’anni, marito e moglie, contando / a voce bassa le beccacce e i piovanelli».

A tal proposito, Paolo Febbraro scrive ancora:

«Nei versi del passato, e forse ancor più frequentemente in quelli di questo Angel Hill, il poeta, la sua amata, i suoi amici affiancati nel passo o raggiunti per lettera contano cigni, lontre, oche faccabianca, focene… Il poeta vuole tesaurizzare ciò che vede, controllare maternamente l’entità minacciata della propria prole, preoccuparsi per morti o dispersioni, chiamare a raccolta, inorgoglirsi della propria abilità sensoriale come un cacciatore inoffensivo, e infine battere il tempo dell’esperienza come facendo versi».[5]

Nella nominazione precisa, nello sconfinato amore per la pittura irlandese (Paul Henry e Gerard Dillon), per i naturalisti e i geografi, e per la brevità incolume, nei solstizi di erba delle sabbie, di chiurli e scogliere, Longley decifra l’anima indenne, dove si riunisce corporeità terrena e temperie metafisica, lotta al silenzio e alla dispersione, avvicinamento e sparizione di isole insonni e  l’asprezza rada del Connemara.

La sua sottile maestà, che attinge al vibrante serbatoio latino e greco, incrocia la fenomenologia naturale e la densità dell’istante. Scoperta e ritrovamento, linea concava e simbolizzazione, e poi, infinità naturale indicibilità di ciò che appare consentono alla poesia di Longley, di distendersi in un panorama di amore e bellezza, lasciano orme intatte e illuminando il palcoscenico del mondo.

Il suo repertorio, dunque, trapassa la cortina ombrosa della realtà. È poesia di ritrovamento ed esplorazione, epitalamio di memoria tra cardi, tempeste, storni, voli uditi: «Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle lapidi. / Potresti essere tu con pennelli e cavalletto / e i tuoi grandi fogli e il carboncino per ritrarre / strato-cumoli di bucaneve e calligrafia di lichene. / Qualcuno dev’esserci a vegliare sulle ringhiere / e chiuderle il cancello arrugginito alle spalle».

O ancora: «Considera l’uovo del lucherino, / finemente screziato – macchie / e trattini – lilla, pallida ruggine / rossiccia, spruzzi di sangue / traverso un bianco verdastro – / tramonto a finis terrae – insomma / considera l’uovo del lucherino».

Fino al poeta soldato che si salva perché tiene con sé i sonetti di Shakespeare nel taschino e il libro, così, blocca il proiettile, sorvegliando il cuore:

«Il poeta soldato mise nello zaino sapone, / tutore per la schiena, calze, pennello per la barba / (anche se non era tipo da radersi ogni giorno) / borraccia, medicazioni d’urgenza, maschera antigas, / una lattina di sigarette (dono della principessa Mary, / a Buckingam Palace la ragazza della porta accanto), / astuccio da cucito, lacci di scarpe, scovolino, libro paga / e i sonetti di William Shakespeare. / Si grattò via di dosso il fango a Passchendaele e, / prima di spiccare l’assalto, ripose nel taschino / della giacca il libro rilegato in pelle / che bloccò un proiettile a poco dal cuore / e stracciò le poesie salvavita. Poi aspirò / una delle Woodbine della Principessa Mary».

Il toponimo Angel Hill, dunque, diventa il luogo in cui catturare le intimità e le specificità dell’esistenza[6], in cui il luogo selvaggio e melodioso celebra il territorio, per dirlo con un verso del poeta romantico John Clare, dove i poeti amano la natura, e amore sono, «decifratori d’ali in falene e farfalle», per dispiegare lo sperdimento di una foschia marina:

«I poeti amano la natura, e amore sono. / Immagina un cottage fuori mano / presso le dune, l’erba delle sabbie a sussurrare / su lumache in technicolor e uova di sterna, / il gracchio ben desto sul tetto dell’alba, / al crepuscolo i chiurli a zufolare nel comignolo, / e dalla finestra della cucina la scogliera / che ha visto per cinquant’anni i nidi del corvo. / Decifratori d’ali in falene e farfalle, / annoverando pony e cigni del Connemara, / lungo i coltivi abbandonati in riva al lago / si materializzano dalla foschia marina e / nella nebbia di soffioni svaniscono. / Uno ha scritto una bella poesia sul merlo».

 

[1] Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

[2] Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

[3] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, p.9.

[4] Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

[5] Febbraro P., Introduzione, in Longley M., cit, pp. 10-11.

[6] Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019, pp. 179, Euro 19,50.

Longley M., Angel Hill, a cura di Paolo Febbraro, Elliott, Roma 2019.

Boitani P., Longley, l’Omero irlandese, in “Il Sole 24ore”, 4 aprile 2021.

Brearton F., Angel Hill by Michael Longley Review -, elegies on conflict, grief and Nature, on “The Guardian”, 17 Jun 2017.

Michelucci R., Longley, la mia poesia al servizio della pace, in “Avvenire”, 8 settembre 2019.

 

Charles Simic e l’indizio d’amore

di Andrea Galgano  1 marzo 2021

leggi in pdf Charles Simic e l’indizio d’amore 

Avvicinati e ascolta (Come Closer and Listen)[1] di Charles Simic, appena pubblicato da TLON e con la traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, coniuga, in modo brillante, la visione attuale del tempo, con tutti gli scavi rastremati, l’innovativo minimalismo, la domanda di significante e significato, il genius loci delle particelle quotidiane di Strafford nel New Hampshire,

«personifica le dicotomie della capacità negativa, distillandone un gradevole liquore agrodolce. […] Ci accompagna (come è proprio dell’epoca trumpiana in cui questi testi componimenti sono stati scritti) sull’orlo del baratro della disperazione, e poi ci riaccompagna a casa con una mesta risata sommessa e con il desiderio di continuare a tirare avanti, a dispetto di quanto il mondo sembri e sia sottosopra e di quanto siano disonesti e incompetenti quelli che dovrebbero governarlo».[2]

E nei suoi testi, dunque, possiamo

«salutare i vicini che vanno «a messa la domenica» mentre il poeta, diversamente da Cartesio e dal suo poltrire «a letto fin dopo mezzogiorno», parte «per la discarica»; intravediamo i quartieri, le avenue, le chiese in cui egli si aggira trasognato e sardonico; osserviamo gli strambissimi personaggi che rinascono nella mente come riverberi angoscianti (la Morte, la Giustizia), ma davvero si può dire che dietro all’io lirico campeggi senza soluzione di continuità l’io empirico, ossia proprio lui, Charles Simic? Nel frattempo il nostro messaggio di posta elettronica «cammina nel cielo» e atterra fra le case alberate del profondo nord: pizzica lo smartphone, turbando il quieto mestiere letterario di Simic (ispirato da irresistibili salsicce alla brace) e il laborioso andirivieni di sua moglie Hélen».[3]

Il tempo oscuro, trascritto nell’epigrafe emersoniana («Come se servissero gli occhi per vedere») e nel suono metafisico degli uccelli, la divisa sproporzione interiore, il caleidoscopio insonne e opaco («Il buio arriva presto / a questo punto dell’anno / e rende difficile / riconoscere le facce familiari / tra quelle degli sconosciuti»), il territorio fantastico della cosalità, la personificazione degli oggetti rilasciano, nella cecità omerica che dirige lo spettacolo, un invito e un indizio di avvicinamento e di ascolto, letterali: «e mi hanno passato in lacrime / a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche, / dove come una foglia su un albero, / la bella stagione finita, / ho vorticato cadendo a terra / quasi senza fare rumore / perché il vento mi portasse lontano».

In questi testi permane una sorta di agone orfano, un sipario silenzioso e ironico, una dimensione oscura su cui trasvolare, come soglia, sulla sorte, per camminare nel cielo, nella caduta, nella compiuta e ampia descrizione dell’umano, ritmato negli schizzi di inchiostro, rilasciato come un detrito di memoria.

Vi è il senso di straniamento, di incomunicabilità e irrealtà di aiuto («L’irrealtà del nostro chiedere aiuto / un ulteriore dilemma su cui meditare / mentre ci mettiamo in fila a capo chino / quando viene offerto il caffè coi biscotti»), di pazzia lucida, di solitudine franta e bruciata: «Hanno buttato giù tutto l’isolato fatiscente / di piccole botteghe mal illuminate / con le vetrine polverose / di braccialettini, anelli per il naso, / tarocchi e bastoncelli di incenso, / dove una volta ho visto un giovanotto / con la camicia bianca coperta di sangue / che soffiava bolle di sapone nell’aria, / la faccia imperturbabile e bella, / tranne quando gonfiava le guance».

O di finitudine notturna, «La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere», che mormora nella personificazione delle foglie mute che rivelano paure malefiche pronte all’agguato, aspettando qualcosa che si manifesti. E noi rimaniamo in riflessione e in rispetto silenzioso:

«Ci dicono le foglie stasera. / Sentile andare nel panico e poi ammutolire. / E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente — / ancora più terrificante che sentire qualcosa. / Pare passino minuti o vite intere, / mentre aspettiamo si manifesti / proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo? / E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere / ai loro rami che bussano sulla casa / perché li si faccia entrare, ma poi esitano. / Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono / come desiderassero non esasperare le nostre paure, / con qualcosa di malefico in agguato là fuori / che ci si avvicina, si avvicina sempre più. / La casa buia e silenziosa come un topo / se si avesse il fegato di restarci».

L’incubo ovidiano e attuale, la cupola di tenebra, il terrore dello sguardo, la galleria della visione (gli incendi e i bombardamenti, i sogni dell’antichità greca, l’insonnia inossidabile, il ricordo assieme a Charles Wright alle Giubbe Rosse, Adam Zagajewski), la visitazione dei pensieri nella mente («[O immenso cielo stellato] In cui vagano i nostri pensieri / come venditori ambulanti di Bibbie / solo per trovarsi con le porte / sbattute in faccia»), la lotta di Giacobbe con l’Angelo, nel trapelato Quiz a notte fonda, contro la Morte e il Niente, raffigurata in una maestra elementare: «Sarà sul niente. / Non sull’amore né su Dio, / ma sul niente. / Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente».

La verbalità minima, l’immagine che si staglia, come sfera improvvisa, nella dolcezza della veglia, nel paradiso della musica a letto, ritrovano anche la mimesi petrarchesca e fenomenologica di Laura, del sogno americano, delle rovine, ma appare la luminosa (e rapinosa), quasi tellurica, della visuale umana dei giorni, intessuta d’amore e di bellezza, dove anche le navi fantasma del passato spalancano lo stordimento e lo sgomento dell’ultimo picnic:

«Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. / Pane e formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti. / Se verrà il freddo – come è certo – ti stringerò a me. / La notte scenderà presto. / Scruteremo il cielo sperando che la luna piena / ci illumini il cammino. / E se non ci sarà, porremo tutta la nostra fiducia / nella tua bustina di minerva / e nel mio senso dell’orientamento / mentre vaghiamo cercando casa».

[1] Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

[2] Egan M., Introduzione. Orientarsi al buio, in Simic C., cit., pp.10-11.

[3] Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021, p.364, Euro 16.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

  • La poesia supera le calamità, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

 

La scena di Pedro Calderón de la Barca

di Andrea Galgano  13 febbraio 2021

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Il saggio di Fausta Antonucci, docente di Letteratura Spagnola all’Università Roma Tre, Calderón de la Barca, edito da Salerno Editrice, offre la possibilità di approfondire l’opera dell’autore spagnolo in tutta la sua interezza, come portatore di una scena che raccoglie gli splendori del siglo de oro, fino all’intimità del raccoglimento, allo spazio del tempo in cui l’io si svolge senza residui e all’infinito universo della sua scrittura, che crea un mondo osmotico di registri e cromature linguistiche, per restituire la potenza umana del suo teatro, ancora troppo sconosciuto in Italia:

«Le ragioni sono da rintracciare nel tenace pregiudizio ideologico che vede nella sua drammaturgia l’espressione di una visione del mondo che poco può dire alla nostra modernità; o nel pregiudizio critico altrettanto tenace nei confronti della grande poesia barocca; infine, non da ultimo, nella scarsità di traduzioni moderne, perché mentre il testo originale rimane vivo come tutti i classici, le traduzioni – abbondanti ancora nell’Ottocento – invecchiano irrimediabilmente in fretta». (p.7)

La mescolanza di comico e tragico, che si innerva nella costituzione del teatro spagnolo, compone le trame del teatro di Calderón, specie nelle prime prove, dall’assedio, colmo di equivoci, di Juda Macabeo, all’equilibrio storico, relazionale e sospeso di La gran Cenobia, al rapporto tra vittime e carnefici di La cisma de Ingalaterra e al rapporto tragico de El príncipe constante, fino alle passioni violente di La devoción de la cruz e sostanzia

«un paradigma composto da una serie di elementi caratterizzanti, sostanzialmente dei marcatori generici, ciascuno dei quali attiva nel destinatario il riconoscimento del modello di riferimento, e dunque un orizzonte di attesa, tanto più sicuro quanti più elementi del paradigma il testo subisce. Su questi elementi (protagonisti di altissimo rango; repentini mutamenti di fortuna; sogni, presagi nefasti, apparizioni; scene di violenza; pianti e dolore esibiti in scena; materia epica e storica; stile elevato; finale infelice […]» (pp. 50-51).

Tra fiaba, simbolo e polimorfismo di esiti, il suo teatro assimila appieno la tradizione gesuitica, seppure attraverso mediazioni, affermando un punto focale nell’uomo e nelle sue possibilità, nella ragione e nella bontà, nel turbamento dell’equilibrio instaurato da Dio, in una prospettiva fratturata e sghemba di salvezza.

Quando Don Chisciotte si trova nella caverna, dopo essersi legato con una corda e scomparso tra i rovi, i suoi amici lo trovano tramortito. Destatosi, afferma che nella caverna «todos los contentos desta vida pasan como sombra y sueño». La vera vita è un’altra, è altrove e il presente ha la consistenza di un sogno

Con la commedia La vita è un sogno, Calderón ci mette davanti agli occhi un interrogativo estremo e ultimo sulla stoffa del nostro essere e sulla sua intima e peculiare natura. Un immaginario re di Polonia, Basilio, esperto e studioso di astrologia, alla nascita di suo figlio Sigismondo, ha previsto che questi sarebbe stato un ribelle, un uomo prepotente e sanguinario, e che avrebbe obbligato lui, suo padre e suo re, a prostrarsi ai suoi piedi e cedergli il trono.

Per evitare che ciò accada lo fa rinchiudere in una torre sperduta, «un rustico palazzo, così poco elevato che non riesce a mostrarsi al sole», dove un «fioco lume, quella tremula fiamma, quella pallida stella che con incerti bagliori, palpitando di luce timorosa, rende ancor più tenebrosa la stanza buia con insicura luminosità».

Egli cresce, incosciente, sotto la custodia di Clotaldo, gentiluomo di corte, che lo istruisce alla religione cristiana e alle scienze naturali. Incatenato e vestito di pelli, si interroga sulla sua condizione:

«Ah sventurato me! Oh me infelice! O cieli, poiché mi trattate così, pretendo sapere che delitto ho commesso contro di voi con la mia nascita; quantunque capisca che col nascere ho già commesso un delitto; e la vostra condanna, il vostro rigore hanno avuto un motivo sufficiente, perché il maggior delitto dell’uomo è quello d’essere nato. Vorrei solamente sapere, per spiegarmi le mie pene (lasciando da parte il delitto di nascere), in che modo ho potuto più degli altri offendervi perché debba essere castigato più degli altri. Non nacquero gli altri?».

Rosaura, all’inizio figlia non riconosciuta dello stesso Clotaldo, travestita da uomo, a dorso di un ippogrifo («Ippogrifo violento, che corresti a gara col vento, dove, fulmine senza fiamme, uccello senza penne colorate, pesce senza squame e bruto senza istinto naturale, nel confuso labirinto di queste nude rupi ti sfreni, ti avventi, ti precipiti?») raggiunge la torre, trovandosi poco dopo sbalzata tra le rocce.

Lì scopre la prigione di tenebra del figlio del re, finendo per ascoltare i suoi disperati lamenti. All’inizio egli la minaccia e la scaccia, poi quando lei gli dice che è lì per volere del Cielo, la sua supplica e la sua grazia e la sua bellezza lo trattengono. Subito dopo, però, le guardie la trascinano via, Sigismondo invece, è ricondotto in prigione. Basilio, intanto, agitato e dubbioso sulla sua scelta, fa addormentare suo figlio e lo fa portare a corte, al risveglio il regno sarà suo. Risvegliatosi, diviene davvero, suo malgrado (inducendo Basilio ad aver ragione sugli astri), tirannico e quel potere lo induce a dominare anche se stesso.

Rimane solo un attimo di estasi, dinanzi alla soavità maestosa di Rosaura, uno scorcio di veduta platonica del reale che risveglia le idee. Dopo aver fatto riaddormentare Sigismondo, Basilio lo fa riportare nel carcere dove è cresciuto. Destatosi, racconta il suo sogno: «Sono dunque tanto simili ai sogni le glorie, che quelle reali sembrano false, e quelle simulate vere? Così poca differenza c’è tra le une e le altre, che si deve discutere per sapere se ciò che si vede e si gode è verità o menzogna?».

Quando Basilio annuncia di aver designato al trono i nipoti Astolfo ed Estrella, il popolo insorge in favore di Sigismondo, lo libera e lo proclama re di Polonia: «Che mai succede, mio Dio? Tu vuoi che un’altra volta io sogni grandezze che poi il tempo distrugge? Un’altra volta tu vuoi che fra ombre e immagini io veda la maestà e la pompa che il vento disperde?».

Ma il confine labile e sottile tra il sogno e la realtà si offre al richiamo di giustizia e di bontà: «O fortuna, andiamo dunque a regnare. Non destarmi se io dormo; e se è realtà quel che mi accade, fa’che io non mi addormenti. Ma realtà o sogno, quel che importa è di operare bene; se è realtà, perché è realtà; se no, per acquistare amici per quando ci sveglieremo». (atto iii, sc. IV)

La vita è un sogno è il sintagma di un dramma di esperienza e rinuncia, un’insegna ampia che si sgancia dalla ferinità, dalle inclinazioni astrali e dalla fantasmagoria, per raggiungere l’apertura all’Assoluto e ai valori morali, in una prospettiva tomistica, come scrive Mario Casella:

«Considerato nella sua individualità materiale, l’uomo, come tale, non è, per quanto distinto, che un semplice frammento dell’universo, in balia della fortuna e del caso, della sorte e del destino. È, cioè, un punto di intersezione delle molteplici influenze fisiche e cosmiche, animali e vegetative, etniche e ereditarie, di cui subisce necessariamente le leggi, ma come persona morale, egli è perfettamente libero, cioè capace di determinarsi ai mezzi e di introdurre nell’universo, con la sua libertà, una serie di avvenimenti nuovi di carattere duraturo».

Le figure sulla scena sono in bilico tra movimenti opposti: fato, disegno divino, libero arbitrio, conoscenza platonica, come testimonia l’acuto studio di Federico Sciacca. Fausta Antonucci afferma: «“Sogno è, come vogliono fargli credere Clotaldo e il re, l’esperienza fatta da Segismundo a palazzo; solo il risveglio (la prigione) è la “realtà”. Il principe però non crede mai davvero a questa versione dei fatti, perché il ricordo di Rosaura e il sentimento che prova per lei attraversano intatti la presunta frontiera fra sogno e realtà […]» (p.84).

La conversione di Sigismondo, scrive Ferdinando Castelli, «avviene per via di ragionamento, non di pura volontà». Tutto sembra svanire, ma qualcosa si impone e resta, «Tutto è finito, ma quell’immagine della bellezza non è finita», come la prima apparizione di Rosaura che risveglia in lui una dimensione sperduta di confessione e incompletezza, che gli fa riscoprire l’incanto e la bellezza di qualcosa di buono, vero e giusto per cui vivere: «Ogni volta che ti guardo, tu susciti in me nuova meraviglia, e quanto più ti guardo, tanto più desidero guardarti».

La bellezza avviene, come la ferita vicina di qualcosa di lontano a cui si appartiene, come annota Sciacca: «[…] Le cose non valgono per quel che si manifestano, ma per quel che nascondono. Farsi prendere dalle parvenze è renderle insignificanti, è restare carcerati nell’angustia del corporeo e nella caducità del tempo. Il punto di vista da assumere, affinché il sensibile acquisti significato e il tempo di un valore, è l’eterno, di cui tutto è immagine».

La libertà evidenziata nel dramma, è un crinale di scelte e di cultura, (come si rinviene in Basilio con l’astrologia), ma permane nel suo cammino di conquista, nel passaggio da individuo a persona, e come capacità di compiersi e di raggiungere il proprio destino, con la vittoria finale dell’umiltà e della giustizia.

L’esplorazione avvinta dell’onore coniugale minacciato dal corteggiamento di un innamorato, che aveva avviluppato il cuore della protagonista, segna i drammi maturi di Calderón, attraverso, da un lato, la frattura di passato e presente, dall’altro il rapporto tra onore e intervento a sua difesa.

L’amore coniugale, la violenza, gli intrecci, la giustizia, la salvezza della paternità (El alcalde de Zalamea (Il giudice di Zalamea)) o la sua ribellione, il conflitto interreligioso, l’indeterminatezza del dramatis personae, la gelosia, l’ambizione e il fatalismo destinano l’eternare dei contrasti tra i personaggi, nelle trame del destino eveniente e nei suoi ingranaggi, nel loro stoicismo controllato, e, infine, nel dramma catastrofico della caduta.

Anche nelle opere a carattere storico e celebrativo, quali  Darlo todo y no dar nada, o En la vida todo es verdad y todo mentira, in cui la mescolanza di dati e suggestioni fantastiche si intrecciano in un connubio di identità e riacquisto di sé, come afferma la studiosa,«l’orizzonte generico della tragedia è consapevolmente eluso. Si tratta piuttosto di drammi, nel senso che dà a questo termine Joan Oleza quando studia la proposta teatrale del giovane Lope de Vega […]: opere teatrali dal progetto abbastanza complesso, dagli intenti ideologici più marcati rispetto alla commedia, dal tono serio, ma che eludono le emozioni tragiche e tendono a una conclusione conciliatrice» (p.173).

I drammi religiosi legano la vita e la morte della figura dei santi (e lo scontro con le autorità pagane) a una sorta di pathos ultimo, di apoteosi finale, che rappresentano la loro forza vitale fino all’ultimità del loro sacrificio, alla loro accettazione della morte e all’epica critica. La domanda elementare dell’uomo, in Calderón, è una storia che tocca il sublime fino al mito, all’inserzione della Natura.

Qui il mito è un’abbondante scenografia di fondi e sfondi che appaiono sulla scena come meraviglia del mondo rappresentato e rottura dell’illusione teatrale, costruzione e distruzione affettiva, seguono strade diverse: «dall’espansione della comicità, all’introduzione di un lieto fine estraneo alla tradizione mitica classica, all’importanza preponderante di un intreccio amoroso condotto secondo i modi della commedia più che della tragedia» (p.209).

L’auto sacramentalIl gran teatro del mondo, dato alle stampe nel 1655, pone un modulo disseminativo–ricapitolativo ampio e suggestivo. Meta–teatro, dove l’Autore, Dio, convoca a sé, in una festa il Mondo, il Re, il Ricco e il Povero, il Bambino («Tu morrai senza nascere)», e distribuisce loro le parti, imponendo di rappresentare, nell’immensa pagina dell’universo, la commedia dell’umanità: «Cenerà con me accanto: chi, senza alcun errore, / avrà eseguita la parte assegnatagli. / Ivi tutti e due (il re e il povero) eguaglierò nel premio».

L’Autrice scrive:

«La finezza e la capacità inventiva di Calderón consistono nel creare allegorie “continuate”, che funzionano lungo tutto l’arco dell’intreccio da lui ideato mettendo in relazione gli elementi drammatici con altrettanti concetti teologici, senza che per questo il gusto dello spettacolo diminuisca e il peso didascalico sia eccessivo. Come dice lo stesso drammaturgo, prendendo in prestito una metafora della pittura, arte che gli fu specialmente cara: «L’allegoria non è altro che uno specchio, che trasforma / la fantasia [l’intreccio inventato] in verità [la verità teologica]; / ed è tanto più elegante / se la copia sulla tavola / riesce così somigliante / che al vederne una si pensi / di starle vedendo entrambe»» (pp.309-310).

La salvezza non è disgiunta dalle opere e perché l’uomo possa compierle, Dio li ha dotati di libertà. La volontà di Dio è assoluta e per salvarsi occorre ritornare al suo bene e svolgere la parte assegnata: si salva la discrezione, il Povero, e dopo purificazione, il contadino, il Re e la Bellezza. Tutti hanno implorato pietà e chiesto perdono e accolti nella mensa celeste.

Hans Urs von Balthasar sostiene che: «In questa mensa celeste non c’è assorbimento del mondo in Dio, bensì risonanza cristologica nel banchetto messianico–eucaristico: in tal modo l’attore centrale e invisibile dell’opera, l’Uomo Dio, diviene indirettamente tematico, allo stesso modo che fin da principio […] era stato il nascosto presupposto dell’opera».

Il conferimento e la vastità teologica di Calderón impone alla scena la sostanza della natura umana, nella sua debolezza, nell’inquietudine, nella fragile inclinazione e nel peccato, come commenta Ferdinando Castelli:

«Ecco l’elemento che illumina il teatro di Calderón: il peccato originale che si riflette nei peccati personali. Il drammaturgo non si dispera. Ritrae la condizione umana, e la ritrae con eccelsa arte drammatica, per far risaltare la salvezza operata da Cristo. Nello stesso tempo vuole esortare l’uomo a non compiacersi nel peccato, che è morte, ma a vincerlo ricorrendo alla Grazia».

Antonucci F., Calderón de la Barca, Salerno Editrice, Roma 2020, p.364, Euro 25.

Downtown di Andrea Galgano – nota di Yvette Marie Marchand

di Yvette Marie Marchand*

17 gennaio 2021

leggi in pdf Downtown di Andrea Galgano – recensione di Yvette Marie Marchand

Leggere le poesie dell’antologia “Downtown” di Andrea Galgano significa partecipare al mondo emozionale di questo giovane poeta e scrittore. Mi arriva a fior di pelle tutto il suo entusiasmo per il conoscere, per l’analizzare e per l’entrare nel tessuto dei luoghi del Nord America e nelle menti dei suoi abitanti, per sondare i loro abissi e salire sulle loro alture. In quanto, come newyorkese, questa terra appartiene anche a me, sono stata toccata fino alle emozioni più remote, più inespresse, più preziose nel leggere queste intriganti poesie: intriganti in quanto la materia dei componimenti, le immagini e le riflessioni, restituiscono un quadro allo stesso tempo curiosamente veritiero e riconoscibile dei luoghi “esaminati” e, allo stesso momento, inaspettatamente  “scheggiato”, immagini distorte come se fossero viste attraverso un prisma, immagini che fuoriescono da una consapevolezza razionale, squarci di paesaggio e di vita volutamente alterate, più per svelare la sua anima che per nasconderla.

L’America e i suoi “splendori”, ecco quello che ha voluto condividere Andrea Galgano con i suoi lettori: ha voluto farli partecipare al suo “rapimento” materiale e intellettuale e alla sua passione da “viaggiatore al contrario”, proveniente, cioè, dal mondo del Gran Tour, un mondo colto e “competente”: un escursionista un po’ girovago, un po’ vagabondo che parte da un’Italia che contiene l’85% delle bellezze culturali e dei monumenti del mondo e si dirige verso la giovane e, delle volte, rude America, l’America delle insegne al neon, l’America dei:

“[…] principi mendicanti, … nomadi dell’azzardo / … saccheggiatori di racket / […] / l’uomo coi pantaloni buffi, la ragazza cittadina / […] / … piccoli eroi che attraversano il denaro facile […]” (“Atlantic City Fuggiasca”),

… ma anche verso l’America delle bellezze naturali, come quelle che si intravedono in “La luce bandita (Los Angeles)” in cui possiamo ammirare l’oceano e le spiagge di Venice Beach:

“… dove le piste svernano sulle maree / e le palafitte sono sillabe trasparenti / dell’arte innominabile / e le stelle assomigliano a labbra cardinali …”,

… e poi verso l’America della natura imponente, come quei fenomeni naturali che incontriamo in “South Dakota”:

“Le terre dell’inferno spento / sono crateri che colano sulle soglie / dei fagiani dalle zampe delicate / e dai fasti piumaggi / Badlands, bende avvelenate / sulle strisce delle frontiere nere / come lune alla fine delle carezze / sono danza di spettri / colline basse e ghiaccio di laghi / scoperchiati dalle pianure / dissetate / le anime delle Grandi Pianure / dipingono la preistoria dell’arcobaleno / con il buio delle mire / la roccia scolpisce grandi volti / sul monte Rushmore …”,

e, infine, verso quella natura (anche umana), stravagante, affascinante e anche delle volte brutale, che incrociamo in “La Terra delle querce (Oakland)”:

“Il giorno sul lago Merritt / fu arrischiato di sentinelle ignare /  […] / Fu odore di querce prima del chiaro / rubarono i soli alle colline / e la fedeltà cerea al cielo, / come mano remota sul panno / di argenti saturi e felici.”

Sono numerosissime le poesie raccolte in questa antologia. Raccontano le sensazioni che ha provato il poeta di fronte a praticamente tutti e 50 gli Stati e molte città degli Stati Uniti e a cospetto di molte Regioni del Canada: uno sforzo creativo rilevante da parte del poeta, che ha voluto porgere un autentico tributo a queste due nazioni e ai grandissimi spazi dei loro territori e alle corrispondenti complessità delle loro società, paesi relativamente giovani, ma che, come si evince da tanti “schizzi” poetici di Galgano, conservano echi e rimandi alla vecchia Europa a cui queste nazioni sono ancora fortemente legate.

Ci sarebbe molto da commentare su tutte le poesie di questa collezione, ma ho scelto di concentrarmi sulle poesie che cantano la mia New York City, le immagini di cui il prisma di Andrea Galgano mi ha restituito delle impressioni convincenti e riconoscibili.

Iniziamo con la Brooklyn delle mie nascite e infanzia che si è espanso da un iniziale quartiere densamente popolato e molto simile, direi forgiata nell’immagine delle grandi città di tutta l’Europa di fine ‘800 e inizio ‘900, che è venuto a trovarsi, negli anni ’50 dell’ultimo secolo e a quelli a venire, in gran parte “modernizzato” e collegato lungo la sua grande distesa di territorio al resto della città attraverso ponti e superstrade ad alta velocità come, ad esempio, la Brooklyn Queens Expressway della mia fanciullezza, eccitante per i ragazzi di allora per i suoi giganteschi pilastri di supporto e dirompente per il chiasso che produceva, che Galgano mi ha fatto ricordare, con un po’ di nostalgia, nella poesia, “Brooklyn Bridge”:

“… sono venti scoperchiati / e benzina del traffico sui sottopassi, / sole estremo sul ghiaccio relitto / e andatura di ponti che si incrociano / … / Si infiltra la intatta bellezza degli archi, / intaglia il moto delle rade dell’East River / come scroscio di candore curvato …”

nei cui versi si riesce persino a sentire il boato del traffico e respirare l’olezzo delle sue emissioni. Le immagini sono frastagliate, i suoni distorti e gli odori pungenti, come se fossero riflessi su un prisma iridescente. Anche le immagini delle persone sembrano arrivarci in alta velocità come se fossimo dentro uno di quei treni della metropolitana elevata sui binari sospesi a sbirciare dai finestrini dentro alle finestre davanti alle quali passiamo:

“… l’estremo frammento del padre / che dà da mangiare alla sua bambina / la donna che non paga e si alza sul tavolo impervio …” (“Brooklyn Heights-Prospect Park)

 Andrea Galgano onora anche il quartiere di Brooklyn in cui io sono cresciuta fino a tutti gli anni del Liceo, prima di iniziare l’Università a Manhattan. Il mio Williamsburg, allora quieto luogo preminentemente residenziale abitato soprattutto da famiglie middle class di origini italiane come la mia e da ebrei, molti di questi fuggiti dalle persecuzioni in varie parte del Nord Europa e, per la maggior parte, ortodossi, gli uomini con i riccioli alle tempie e le donne con le maniche lunghe, anche d’estate e le parrucche brutte in testa per coprire la loro bellezza dagli occhi di altri uomini. Essendo distante una sola fermata di metropolitana da Manhattan, questo quartiere è ora, con musei e teatri recuperati dai grandi palazzi e dalle vecchie fabbriche, diventato proprio il centro culturale della città stessa di New York e, con i ristoranti etnici e non, ricavati dai deliziosi piccoli negozi,  l’hub della vita notturna della Grande Mela:

 “… o nel guado audace di Williamsburg / dove iniziano le piccole luci dei vicoli, / gli antichi negozi striati, gli oggetti raccolti / e il narciso dei murales sparpagliato ad arco / sul ponte che si collega nel suo ferro algido …” (“Northeastern and Central Brooklyn – […] Williamsburg”). 

Non vengono neglette nemmeno le attrattive delle grandi e popolatissime spiagge della città di New York con “… il sudore / che increspa gli aliti caldi del vento / impigliato nelle salse di Nathan’s / e nei ghiacciati bagni …”: (Coney Island, Brighton Beach, Manhattan Beach)

… luoghi da sempre e ancora frequentatissimi dai newyorchesi, non solo d’estate e dove il famoso Nathan’s hot dog di Coney Island ancora va a ruba in tutte le stagioni.

Andrea poi ripercorre il Bronx, dove ho vissuto per una decina di anni, quelli dell’Università e dei miei primi posti di lavoro come insegnante: la zona di Fordham-Belmont, quella “dai notturni italiani / e la clessidra di Arthur Avenue / schivata nel cielo viola ruggine”, e poi il bellissimo Riverdale con le sue “garitte inafferrabili” e Pelham Parkway, dove, trasferitici da Brooklyn, vivevamo ancora, giovanastri, con i nostri genitori e dove:

“L’orlo del sole è materia disadorna, / non ho saputo capire / se i mori incroci dei laterizi / hanno ciglia e sigilli di sguardi / come scavati sillabari / nella nota dileguata prima dell’inverno / questi vicoli che obbediscono / all’appello di un ordine scuro / squilibrano gli autunni-crepuscoli / come navate in ritardo / nella notte dei numeri.”

In quel Bronx, così famigerato e biasimato in quel famoso film di Paul Newman, ma, come si evince da questi bellissimi versi, nella sua enormità di territorio, per la maggior parte molto bello, avevamo persino il mare con la sua spiaggia spartana e quasi intonsa, Orchard Beach, che (“[salì] il suo lume / tra gli occhi delle baie / senza ora di stagione / come principio di alchimia”) e con la sua bellissima isola dei pescatori, City Island, che “…si dimentica il suo segreto / nascosta nelle geometrie delle vampe / e delle ostriche …”, un posto di uno charme straordinario, pieno come si riesce ad evincere, di ristoranti di pesce e passeggiate meravigliose. Anche questo è il Bronx! (… e ringrazio Andrea per avermi dato l’occasione di mostrare i suoi lati bellissimi.)

Vorrei concludere questo piccolo scritto e anche il ringraziamento ad Andrea per avermi restituita una New York City frastagliata e, a volte, anche abbellita dai suoi versi, parlando, se posso, degli altri posti più conosciuti a me e di cui sono più “abilitata” a parlare, come  Morningside Heights, dove lasciavo la metropolitana per recarmi alla mia City College e City University of New York che, insieme alla Columbia University, è sempre raggiungibile da quella fermata, un posto incantevole e incantato per una studentella come ero allora, molto giovane e inesperta, alle prime armi nei giri del mondo che avrebbe continuato a compiere fino al presente.

“… poi Morningside e le colonne della Columbia / che espone l’inclinata salvezza delle costruzioni / la chiesa di Riverside /tra le pezze sospese dell’Hudson / senza deriva di fiele

distratti dal fondale studente e dai bicchieri / i tavoli che specchiano la luce delle facciate / e il ragazzo che porta il violino, la coppia / che versa l’alba strinta del cuore / sui primi acquazzoni dell’autunno sfumato / nei lunghi sogni delle ore di chiusura / all’uscita della metropolitana …”.

Un’incontro con un “mondo nuovo” , quello dell’Università fatta a New York, che è simile, molto simile all’incontro del giovane poeta con questo “nuovo mondo” nel suo complesso.

Nessuna parte della City è trascurato da Andrea Galgano, dall’Uptown, dove, nella elegante Yorkside ho vissuto come giovanissima single con i suoi “… pianeti appena aperti …” al Downtown ricordato nel  titolo, dal Village (East e West) al Lower East Side, da Chinatown a Little Italy, tutti minuziosamente fotografati e fatti suoi. Un lavoro sconfinato come le frontiere dei luoghi che lui ha scelto di cantare.

* Professore associata presso Università degli Studi di Perugia