di Andrea Galgano
28 marzo 2024
La linea vivente di Alessandro Moscè
Per sempre vivi di Alessandro Moscè (Pellegrini, Cosenza 2024) offre un biografema epico-lirico di vasta intensità rarefatta e di diramazioni relazionali, in cui come afferma Tiziano Broggiato nella bandella,
«la comunicazione tra i vivi e i morti (gli affetti famigliari e il dialogo trascendentale con il padre), l’eros e il sogno incentrati nel dolcissimo ricordo dell’adolescenza, il locus amoenus dei giardini pubblici di Fabriano, luogo esistenziale, piuttosto che contemplativo, la malattia infantile con la finitudine e il sibilo misterioso, radente della morte, il riscatto, infine, con il simbolo della forza identificato nel mito dell’infanzia: il calciatore Giorgio Chinaglia, autentico trascinatore per lunghi anni della squadra della Lazio».
Nell’opera di Moscè vi è sempre una accensione e, verrebbe da dire, una salvazione che non è solo contemplativa, appunto, ma sembra spargersi come gesto, accenno, flash e dimensione unica e vitale, in cui la sua forza si contrappone a ogni fugace fragilità e anzi diventa nervo elegiaco e splendore:
«L’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia / dopo pranzo, nel vento fantasma / battuto sulle lapidi cimiteriali / di redivivi in altri paesi, in altre case / figuranti nel mese alchemico di febbraio / radunati nell’aldiquà / gli inguaribili della provincia annacquata / sotto cieli di perle celesti. / Oltre la porta, di sbieco / sembra di vederli in trasparenza / avvicinarsi e conversare / con i maglioni a righe, freschi di bucato / farsi perdonare per il pianto / di chi li ha persi e ritrovati / nella foschia a notte fonda / prima di un altro arrivederci / che ci viene addosso / dai pianerottoli dei piani superiori».
Le sue apparizioni consegnano i detriti memoriali come gocce di risacca: sono attimi sperduti, richiami viventi, dialoghi con i cari e con le assenze. Nelle cinque sezioni del libro questa linea si lucida di appartenenze e visioni, da un lato descrittive e quasi sospese, dall’altro esse entrano nella dinamica più intima e familiare come corpo intero, in quella vitalità, senza compromessi, nel «voler prendere a piene mani il frutto dell’istante, per non sprecare neanche un momento – nonostante non manchino gli attimi di riflessione nostalgica, o malinconica (ma anche questo è consegnarsi al vivi del titolo» (p.7).
I per sempre vivi sono le densità persistenti e le comunioni con chi non c’è più, che rimangono nelle nostre linee di vita, sono le tracce di eterno che permangono («Nel sogno pomeridiano c’è un angolo di giardino / la fermata per i nonni nella luce ondeggiante / nella lunga traversata primaverile. / Nel tempo corro per abbracciarli / ma la pioggia li ha già cancellati / in un vento leggero e remoto / risucchiato da ricordi tremuli / dalla catenina d’oro al collo»), i ricordi che cambiano e si aggregano (la mano del nonno quando il cielo è di un altro pianeta) e, infine, il richiamo alla stagione sui valichi.
Al sogno che unisce aria e terra, all’immagine che non muore nel tempo, fino alla giovinezza furtiva dell’amore e dei cieli d’estate, la scrittura si destina indelebilmente: «Ancona metallo dal cielo all’aria / sulle mura lunghe / sulla volta del primo arco / in controluce / con la ragazza dallo spolverino color panna / avviata seducendo il passo / nella scia di un profumo francese. / Giovane che segue il vento di mare / che appare nel pomeriggio in un autoritratto / tra il biancore e il buio taciturni. / Solitaria che accompagna il suo umore / non sa dove / e appare impenetrabile / tra le ombre umide / vista da dietro / fino al riflesso dello specchietto / e ancora più in là».
In questi accumuli di note e vita di “caproniana” caccia, l’orizzonte di Moscè si rivolge all’esserci, al cuore profondo delle città, all’incanto nudo di Fazzini, a ciò che si oppone alla morte, come l’aria illividita della pioggia che si apre ai sussurri.
Poesia nascente, si direbbe, ossia a che fare a chi resiste nascendo, a chi si porge e si rivela nascendo (qui il mare del Conero balugina in ogni sillaba e in ogni cadenza di luce), nonostante la mancanza, il dolore, la malattia a quattordici anni, trasfigurata in una vita nova di eroi (Chinaglia) e le lacerazioni.
Nei Dialoghi con mio padre, susseguenti alla raccolta, edita da Aragno, La vestaglia del padre, la poesia dialogica e filiale scrive la sceneggiatura sempiterna di una soglia che diventa sguardo su Dio, domanda di eterno, possibilità umana di bellezza e abbraccio senza fine.
Nella sua dettagliata sospensione, Moscè offre epiche crepe, attese ricoperte di memoria e rinvii, silenzi che sono parole di ombra e polvere.