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La depressione e la colpa

di Volfango Lusetti                                                                                        Prato, 31 gennaio 2013

PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA

in pdf  1. 31.01.2013 DEPRESSIONE E COLPA- VOLFANGO LUSETTI

Il giorno dopo - MunchE’  stato notato come nessuna entità psicopatologica racchiuda, al pari della melancolia, universi ed energie così sconfinati, serrandoli però in uno spazio ed in un tempo così ristretti, quasi puntiformi.

Mi pare che nell’affrontare l’argomento “depressione”, si debbano perciò esaminare due problemi, che sono anche due contraddizioni:

1)                 da un lato la contraddizione fra il “senso del nulla” che pervade buona parte del vissuto depressivo, e l’energia selvaggia, quasi infinita che viceversa, da tale vissuto, sembra promanare; in quest’ottica, la depressione appare per un verso, indubbiamente, un ingente attacco di morte portato alla mente del soggetto, per un altro, però, l’espressione d’una forte attitudine di quest’ultimo ad appropriarsi della morte stessa ed a reagirvi attivamente, seppure in forma in gran parte interiore ed auto-gestita, attitudine la quale si concretizza, in particolare, nel conseguimento della capacità d’usare una tale morte, a volte contro sé stessi (nella posizione depressiva), altre volte contro gli altri (in quella maniacale)

2)                 dall’altro, quella vera e propria contraddizione di base, tipica dell’uomo, che esiste fra la necessità di sopportare la percezione della morte che la coscienza veicola, e l’assoluta impossibilità, anch’essa tipica dell’uomo (e sua perenne condanna!) di prescindere dalla coscienza stessa, ovvero da quella singolare dotazione umana, allo stesso tempo cognitiva e morale, che una tale consapevolezza della morte veicola ed amplifica a dismisura, risolvendo molti problemi ma provocando sofferenze d’ogni genere (ed in primo luogo depressive). La coscienza umana, perciò, comporta immancabilmente la necessità di usare, al fine di alleggerirla e “smaltirla”, quella stessa morte che inevitabilmente trasmette al soggetto, ab-reagendola su altri, quindi possiede anch’essa, di per sé, delle connotazioni maniaco-depressive

Per quanto riguarda il primo punto occorre dire subito che, ad un’osservazione puramente  fenomenologica, la percezione del proprio “stare al mondo” propria del depresso grave (di cui il melancolico rappresenta l’immagine prototipica), è quella d’essere costretto, e soprattutto d’auto-costringersi, a vivere ristretto, raggomitolato e compresso su sé stesso in misura quasi disumana, accucciandosi all’interno d’un “punto focale unico” dell’esperienza, ovvero d’una sorta di fisica “singolarità” la quale possiede un’estensione che si approssima allo zero, ma in compenso è dotata d’una densità, d’una gravità e di un’energia altissime, quasi infinite, tali che in essa il tempo e lo spazio collassano, “il sole diviene nero” e neppure la luce può fuoriuscirvi.

La cosa paradossale, naturalmente, è proprio che in questo punto ristrettissimo dell’essere che è la melancolia (un punto non solo dotato d’uno spazio quasi inesistente, ma tendente anche sul piano temporale a zero) possano risiedere ed operare energie fortissime e misteriose le quali tendono viceversa all’infinito: ora, ciò nel depresso avviene in quanto in lui, in una qualche misura, tutto il mondo viene compresso, aspirato, inghiottito, insieme alla propria terrificante dotazione energetica (tanto che più ancora che di “depressione”, specie in relazione alla “colpa”, occorrerebbe forse parlare di “compressione”), ma lo è al solo fine, ed questo è il punto, d’esservi gestito dal soggetto stesso, almeno in parte, in forma autonoma.

Come ben sanno gli psicopatologi, nessun malato come il depresso è autarchico nel proprio funzionamento e relativamente refrattario all’influenzamento esterno (almeno a partire dal momento in cui la depressione si è instaurata in tutta la sua gravità), e contemporaneamente, nessun altro è come lui una fucina d’aggressività, di rabbia e di distruttività, anzi, una vera e propria “macchina da guerra” (un “guerriero”, appunto, come quelli che popolano molta della narrativa e del mito universali), anche se ciò, ai profani, ed anche a molti “addetti ai lavori”, assai spesso sfugge: ciò, forse, per il motivo che quest’energia negativa, aggressiva, distruttiva ma anche fortemente vitale, per larga parte è canalizzata contro il depresso stesso, e per di più immobilizzata e mascherata dalla feroce modalità auto-inibitoria con cui questo soggetto agisce contro il proprio sé (anche se poi quest’immobilizzazione depressiva dell’aggressività spesso crolla repentinamente, mentre alla canalizzazione di essa contro il proprio sé cede il passo, altrettanto repentinamente, un suo proiettarsi all’esterno, sugli altri, ancora una volta “usando la morte” anziché subirla).

Anche le categorie tellenbachiane dell’”includenza” e della “rimanenza”, nel depresso, pur connotando certamente una momentanea, necessaria posizione di passività (rispettivamente, l’essere “inclusi” in un ordine esteriore fatto di doveri collettivi, il quale trascina il depresso oltre il proprio sé, ed il fatale “rimanere indietro” del sé medesimo, ovvero del corpo e delle sue appetizioni, rispetto a questo trascinamento esterno), sembrano stare ad indicare semplicemente un “primo tempo” nel quale egli, a differenza dell’ossessivo, anziché negare l’oppressione che subisce, cancellarne la nozione e neutralizzarne ritualmente ogni risonanza emotiva, la accoglie pienamente nella propria coscienza, e non solo ne viene passivamente inondato ma quasi “se la annota”, ovvero la accumula attivamente dentro di sé e la capitalizza in termini di “credito” da rivendicare successivamente, come se essa costituisse un patrimonio energetico di aggressività, da usare al momento opportuno verso lo stesso sé oppure verso il mondo esterno.

Insomma, nel depresso è come se la persecuzione che proviene dal mondo e dalla stessa percezione della morte, oltre che interiorizzarsi e rivolgersi contro il proprio sé, venisse da quest’ultimo afferrata e maneggiata come una clava, o comunque usata anziché subita passivamente: nessun soggetto come lui, infatti, impara a sfruttare ed usare la morte che subisce da fuori o che scaturisce dal suo stesso interno, a brandirla, a tradurla in un attivo e strutturato attacco rivolto ad un oggetto preciso.

Il fatto, poi, che questo oggetto sia anzitutto il proprio sé, in fondo, non cambia di molto i termini della questione, poiché il punto caratterizzante di questa “patologia” risiede proprio nell’enorme capacità del depresso di passare da una posizione passiva ad una attiva, nonché autonoma ed autarchica: e ciò, qualunque ne sia il costo (e che questo costo sia accettabile, dal punto di vista del “rendimento energetico” della depressione, trova la sua controprova nello stato maniacale, ovvero nell’altra faccia della depressione, nella quale il patrimonio di energia aggressiva accumulato durante il “lavoro depressivo” compiuto contro il sé ed all’interno del sé, viene utilmente reinvestito in una fortissima attitudine predatoria ed aggressiva rivolta verso il mondo esterno).

Da questo punto di vista, il melancolico è ben lontano dalla posizione di vittima “designata” e passiva del collettivo sociale che è proprio di altre “patologie mentali” (vedi segnatamente, la schizofrenia): la sua capacità di tradurre attivamente l’aggressione subita in aggressione agita, infatti, lo rende pressoché intangibile ai tentativi d’influenzamento e di condizionamento di varia natura che hanno una presa così facile, al contrario, nella schizofrenia; anche quando il depresso si uccide, dunque, prevale in questo suo atto una frazione di conato attivistico, e comunque di ribellione fattiva ed indomabile ad un destino che coarta la sua volontà (lo stesso suicidio, a pensarci bene, è un tentativo, seppure inutile, di strappare l’iniziativa alla morte).

La forma concreta, poi, della “fucina depressiva” attraverso la quale quest’energia negativa ma anche trasformativa e vitale opera, è interessante notarlo, viene spesso percepita e raffigurata al “femminile” (si rammentino anche, per inciso, le “madri” inquietanti che popolano il Faust di Goethe).

Ciò avviene, semplicemente, in quanto la donna, che il mito e l’inconscio assai spesso identificano con la morte, ha il compito di selezionare la specie, ossia di decidere, apparentemente da sola, chi fra i suoi figli è degno di vivere e chi no, ed ancor più, che tipo di figlio debba essere da lei concepito e da parte di chi; in definitiva, come affermava Soren Kierkegaard, laddove l’uomo “libera”, la donna “sceglie” chi la deve liberare, e dunque ha il compito di far propria e di ritrasmettere ovunque la spinta spietatamente selettiva ed auto-predatoria che grava, più che su ogni altra specie vivente, sul genere umano.

Perciò non deve meravigliare che quella morte che sempre fatalmente ci raggiunge, o che dal suicida viene invocata ed attivamente provocata, abbia, per dirla con Cesare Pavese, gli “occhi d’una donna”: se davvero è la donna, in ultima analisi, colei che “decide della vita umana”, che usa la morte contro la morte, che contrappone il padre al figlio ed allo stesso tempo media fra di loro, è ovvio che il luogo, puntiforme e dotato di altissime energie, di quella depressione ove ha luogo l’elaborazione di tali forze “basiche” che decidono della sopravvivenza, abbia una connotazione femminile.

Tuttavia occorre ricordare che ad infliggere in concreto la morte, nella nostra specie, il più delle volte sono delle mani maschili: le innumerevoli stragi che punteggiano capillarmente la storia della nostra specie, bisogna non dimenticarlo mai, hanno il sesso maschile come loro protagonista materiale pressoché esclusivo.

Negli stessi sogni e dinamiche dell’inconscio, del resto, maschile e femminile si mescolano ampiamente: la terribile voragine della morte in cui l’uomo necessariamente finisce (per dirla con Leopardi, qual “vecchierel canuto e stanco…. ove precipitando il tutto oblia”), ha sì una connotazione femminile, fatale, abbracciante, però l’articolato persecutorio che concretamente la provoca è inconfondibilmente maschile: tutti gli strumenti più palesemente persecutori, a livello simbolico, hanno come si sa una forma acuminata, appuntita, maschile.

Ad esempio, molti degli eroi antichi e medioevali, in particolare degli innumerevoli “cavalieri senza macchia senza paura” che popolano sia i poemi classici che quelli medioevali di tipo “cavalleresco”, a livello fenomenico sembrano in tutto e per tutto dei melancolici, o più ancora, dei “maniaco-depressivi” alla ricerca d’una qualche riscossa maniacale, mentre sul piano dei contenuti psico-dinamici appaiono nient’altro che dei figli alla disperata ricerca d’un padre-rivale con il quale misurarsi (e se del caso scontrarsi). Ciò, del resto, almeno nel caso dei “cavalieri medioevali erranti” di cui ci parlano il ciclo arturiano e bretone, corrisponde puntualmente al dato sociologico rappresentato dal riversarsi “in campo”, per tutto l’alto Medio Evo, d’una terrificante massa di manovra, dal gigantesco potenziale militare (peraltro abilmente utilizzato dalla Chiesa Cattolica nelle Crociate), rappresentata da giovani nobili che erano stati spodestati dai loro padri, in virtù sia della legge salica che del maggiorascato, da ogni diritto di successione ai troni dei vari principati d’Europa, e che dunque erano portatori di quella insanabile “ferita depressiva” (basata su un conflitto edipico di base consistente in un antagonismo mortale con i loro padri) la quale traspare, in filigrana, in personaggi come Lancillotto, o nello stesso Amleto.

Questa connotazione maschile degli aspetti persecutori che confluiscono nella colpa, fu genialmente notata sia da Abraham che da Freud, e mentre Abraham la riportò, tramite i connotati depressivi della colpa, all’introiezione cannibalica d’un oggetto aggressivo che continuava a perseguitare il soggetto anche dall’interno dopo averlo perseguitato dall’esterno, Freud, in “Totem e Tabù, identificò questo oggetto aggressivo con il padre ucciso dai figli nel corso d’un rito collettivo cannibalico, il cosiddetto “pasto totemico”, anche se di fatto cancellò l’assai più plausibile e logica priorità del padre, per quanto concerne la responsabilità aggressiva primaria nell’ambito del triangolo edipico, per concentrarsi invece su quella dei figli (per inciso, occorre dire che tutta questa potente teorizzazione, in ragione del suo carattere assai imbarazzante e scarsamente dimostrabile, è stata poi circoscritta da tutti gli psicoanalisti, a cominciare da Freud, nel regno della “metafora”, dei simboli, del narrativo e dell’extrascientifico, ovvero d’un innocuo “modo di dire immaginifico ” per indicare ciò che avviene nell’inconscio, quasi che quest’ultimo fosse ad un certo punto nato già bell’e fatto e “calato dal cielo” senza alcun antecedente antropologico reale, mentre sia Abraham che lo stesso Freud avevano avuto, a leggere bene i loro testi, tutta l’aria di parlare terribilmente sul serio).

In ogni caso, tutto ciò va a connotare in un senso misteriosamente sessuale, ovvero maschile e femminile, quello che potremmo a ragione definire come “l’alfabeto mitico” dell’inconscio umano, il quale costruisce la lingua che ci “narra” il rapporto con la morte che in esso alberga.

La polarizzazione di tale inconscio fra un lato femminile ed uno maschile (già genialmente notata per la prima volta, come si sa, da Carl Gustav Jung), comporta però un parallelo sdoppiamento delle armi che la nostra mente ha a disposizione per combattere la morte: queste armi, infatti, hanno il duplice compito di fronteggiarla, da un lato con la forza fisica ed insieme con il pensiero razionale, ossia attraverso il ruolo (prettamente maschile, assertivo e di “contrasto frontale” alla morte) proprio del “guerriero”, dall’altro con gli strumenti, di connotazione prettamente femminile e volti a procrastinarla, della manipolazione e dell’inganno: si tratta di strumenti, come si vede, eminentemente riparativi e trasformativi, i quali sono propri del pensiero emotivo e pre-razionale nonché rivolti all’influenzamento magico dell’altro, e come tali possono perfettamente incarnarsi nel ruolo dello “sciamano”.

In questo senso, tornando per un momento alla depressione, laddove lo schizofrenico è anzitutto un  soggetto che viene influenzato, il depresso (in particolare, nella sua versione “bipolare” o maniaco-depressiva) è un soggetto che semmai influenza gli altri, il che si vede particolarmente nella sua “versione maniacale” (o, nella forma monopolare, è un soggetto che influenza sé stesso).

Ma il guerriero (ovvero il maschile, la dimensione della razionalità e del contrasto frontale), ove non incontri lo sciamano (ovvero il femminile ed il riparativo, l’influenzante ed il trasformativo), “si perde” fatalmente nel gorgo della dimensione depressiva e della colpa, ed anzi la alimenta attivamente con la sua violenza, generando un vortice senza fine; e lo sciamano ed il femminile, a loro volta, ove non incontrino il guerriero ed il maschile, letteralmente smarriscono ogni loro funzione e ragione d’essere, dunque vengono inghiottiti e “scompaiono”, confluendo anch’essi in un gorgo depressivo senza fine, che però in questo caso ha il volto assai meno “acuminato” del femminile.

Insomma, la dialettica fra maschile e femminile, nella depressione, oltre che esterna e tale da configurare uno scontro materiale fra “mondi” diversi, ci appare interiore, ovvero tale da riguardare il soggetto e la sua dinamica intrapsichica, e ne connota in ogni suo movimento emotivo (cosa che nello splendido “Melancholia” di Lars Von Trier, ad esempio, risalta in maniera esemplare, sul significativo sfondo delle note del preludio del “Tristano ed Isotta” di Wagner).

Qualche psicopatologo (recentemente, in particolare, Stefano Mistura) ha connotato questo “punto focale unico”, questa fisica “singolarità” ove universi differenti e complementari s’incontrano e si scontrano, questa sorta di terribile “fucina” ove l’esperienza melancolica, in forme apparentemente indecifrabili, “lavora” attraendo ed inghiottendo tutto ciò che la circonda (e che non riesce ad articolarsi in maniera sufficientemente definita ed individuale rispetto ad essa), utilizzandolo  ai propri misteriosi scopi, proprio nei termini (si veda pocanzi) d’una “ferita primaria”, la cui riparazione esige di attingere energia da ogni dove, parimenti sottraendola, però, ovunque, e perciò impoverendo il paziente delle sue risorse fino ad un suo svuotamento emozionale pressoché totale.

Cerchiamo di approfondire ulteriormente questa questione inerente il paradossale potere d’attrazione e di “fascinazione” d’una “ferita primaria depressiva” fatta insieme di rabbia e di dolore, poiché essa è cruciale per rischiarare il fitto mistero che da sempre avvolge la depressione.

Per il melancolico dunque, a differenza che per il delirante di tipo non melancolico (ad esempio schizofrenico), sembra che esista un’assoluta priorità, nell’ambito degli interessi da accordare alla realtà: ogni interesse va distolto dal mondo esterno, sottratto ad esso e concentrato sul sé, sulla osservazione e sul monitoraggio del sé, sul giudizio che il soggetto può dare di sé, sulle colpe e sulla riparazione delle presunte colpe (e del male) che provengono dal sé: ed è proprio questo atteggiamento depressivo di base, di tipo auto-centrico, auto-gestito e quasi autarchico, ciò che spiega il fatto che da un lato lo spazio ed il tempo del depresso si prosciugano e si svuotano, si restringono e collassato in lui, dall’altro lato il fatto che ciò che viene tolto alle sue relazioni spazio-temporali esterne (anche allo scopo di disinnescarne e di padroneggiarne la connotazione fortemente aggressiva!) va ad arricchire, ad ipertrofizzare e quasi ad inflazionare il suo universo energetico interiore, concentrandovi e facendovi confluire sia l’energia che la connotazione aggressiva medesime.

Ogni elemento critico, aggressivo, predatorio insito nelle sue relazioni esterne, dunque, nel depresso confluisce in quell’autentico “buco nero”, ad attrazione gravitaria quasi infinita (denominabile come “punto focale unico” della sua realtà), che si configura alla stregua d’un “rapporto predatorio con sé stesso”, e ciò avviene nella forma specifica di un’abiezione “abissale” che il depresso ritiene di avere individuato dentro di sé: un’abiezione che egli dovrebbe in teoria sanare, ma che a causa della sua stessa attitudine auto-predatoria e della sua aspirazione all’onnipotenza non vuole, in realtà, sanare, bensì aumentare ulteriormente.

Questa energia, allo stesso tempo inflazionaria, distruttiva ed autarchica, è la base della paradossale percezione del proprio sé che è propria del melancolico: una percezione da un lato radicalmente svalutativa ed auto-colpevolizzante, dall’altro assolutamente smisurata ed insaziabile nella sua onnipotente ambizione, la quale per un verso lo svuota, per un altro lo arricchisce di energie, tanto che nel delirio di colpa essa giunge a fargli considerare sé stesso la causa della morte e delle disgrazie di tutti gli altri, mentre in quello di negazione tale morte e tali disgrazie acquisiscono una forza tale da annullare l’intero mondo fisico, facendo ancor più rifulgere la sua “potenza” smisurata.

Ciò che si può dunque affermare, circa questa caratteristica misteriosamente auto-alimentantesi (ovvero auto-cannibalica) che è propria del circuito auto-persecutorio ed auto-distruttivo del melancolico, è che questo soggetto, in realtà, fa propria e “volge su sé stesso” quella teoricamente illimitata persecuzione che sente primariamente provenirgli sia dal di fuori che dal proprio stesso interno, la accaparra e “se ne nutre”, le conferisce una strutturazione e la trasforma in onnipotenza auto-lesiva (a carattere compensatorio della persecuzione): e fa ciò proprio a partire da quella sconfinata ed impotente reazione rabbiosa che egli rivolgeva originariamente agli altri, ovvero ad un mondo esterno avvertito come sommamente pericoloso, tanto che questa rabbia, in talune condizioni depressive, riaffiora al soggetto in forma assolutamente pura ed inalterata, divenendo omicidio (i famosi e misteriosi “raptus” dei depressi) e/o omicidio-suicidio, oppure delirio di onnipotenza, sia pure sotto la specie paradossale del “delirio di negazione”.

Veniamo ora al secondo punto.

La caratteristica auto-osservante ed auto-giudicante, ma anche auto-punitiva ed in qualche misura auto-divorante che è propria del sentire melancolico, a guardar bene, non è altro che uno spingere al grado estremo, fino a deformarla potentemente (e volgerla nel suo contrario!), una qualità che è propria della coscienza umana: quella di concentrare in un punto solo della mente l’intero mondo percepito sia nel tempo che nello spazio, trasformando questa percezione, da quell’insieme frazionato, sfumato, articolato e variamente “diluito” di stimoli che ordinariamente si presenta ai sensi d’ogni essere vivente, in una sorta, ancora una volta (e come nella depressione), di “punto focale unico” dell’esperienza.

Si tratta, peraltro, d’un punto, anche qui, ad altissima densità, ma molto più leggero e metaforico rispetto al vissuto prettamente depressivo, e che l’uomo ha quindi la sensazione di poter assai meglio dominare ai fini dell’auto-controllo.

La coscienza, secondo alcuni, opera attraverso due procedimenti paralleli: da un lato, il procedimento che consiste nell’unire o collegare fra di loro in una trama unica e quasi “filmica”, sintetica e continua, le tracce mnemoniche dell’esperienza, soprattutto seguendo un modello di “collage visivo” ed avvalendosi in ciò dell’attenzione e della memoria a breve termine (questa è ad  esempio l’idea di coscienza che ci ha fornito un neuro-scienziato come Francis Crick, ma si tratta d’una idea condivisa da molti altri ricercatori); dall’altro, complementare al primo, il procedimento che consiste nel separare, dissociare, e comunque distanziare (ad esempio tramite procedimenti di “rimozione”) i sopra-citati elementi percettivi che vanno a formare una tale “trama filmica” a carattere “cosciente”, da quegli altri elementi (a carattere soprattutto emozionale, pulsionale ed istintuale) che li appesantirebbero, impedendo o ostacolando gravemente le operazioni, eminentemente “sintetiche”, che proprio servendosi di essi compie la coscienza (se tutto giungesse alla coscienza, ovviamente, quest’ultima si “ingolferebbe” di messaggio  di stimolazioni, e non potendoli selezionare cesserebbe, alla fine, di funzionare come struttura sintetica e  selettiva, il che peraltro si verifica puntualmente negli stati confusionali).

Ora, questa seconda idea della coscienza, la quale implica ovviamente l’idea dell’esistenza parallela d’un “inconscio” (a contenuto prevalentemente emozionale), era come si sa quella, fra gli altri, propria di Sigmund Freud, e non solo non esclude la prima, ma ne è in qualche modo presupposta. Infatti i moderni neuro-scienziati non solo ritengono che l’inconscio esista (sebbene lo raffigurino alla stregua d’un inconscio “procedurale” ed automatico, anziché come “luogo del rimosso”, quindi in forma alquanto differente dall’inconscio freudiano), ma asseriscono che il vero mistero, più che l’esistenza dell’inconscio, è semmai l’esistenza della coscienza.

Ebbene, questo secondo “punto focale unico” dell’esperienza che, al pari dell’esperienza depressiva, è appunto la coscienza, in virtù di tali procedimenti da un lato sintetici e volti all’unione delle parti in un “tutto”, e dall’altro dissociativi e tali da escludere da questo tutto, paradossalmente, una parte molto importante (quella che corrisponde al vissuto, oltre che alle operazioni mentali automatiche e pre-coscienti) è anch’esso, esattamente la depressione, da un lato autarchico, dall’altro esclusivo di tutto il resto.

La coscienza inoltre, così come deve dissociarsi, almeno in parte, dalle emozioni (dato che solo grazie a questa dissociazione che la “alleggerisce”, può osservare e manipolare a piacimento le immagini mentali degli oggetti), allo stesso modo deve dissociarsi dalle immagini del proprio sé nonché da quelle del corpo, anzi quasi lievitare al loro fianco, osservarle come degli oggetti, soppesarle e giudicarle come se fossero estranee ad essa.

Ancora, rendendo il “sé” un oggetto privilegiato, invasivo della coscienza ed inquietante, nel quale rispecchiarsi ma tale da dover essere costantemente controllato e tenuto a freno, la coscienza ne viene anche, in qualche modo, “fascinata” e persino ossessionata: quindi è costretta, di fatto, a trasformare ogni percezione del mondo esterno in una preliminare “auto-percezione” la quale, prima ancora che un significato cognitivo, ne possiede uno morale.

La percezione cosciente della necessità di auto-regolarsi di fronte agli altri, infatti, non è altro che l’identificarsi, “sic et simpliciter”, con il punto di vista degli altri. Ma un padroneggiamento del mondo esterno che debba passare necessariamente attraverso un auto-padroneggiamento, non può non generare quell’illusione di onnipotenza che, per l’appunto, è tipica della coscienza (e che molto assomiglia, occorre notare, all’onnipotenza depressiva).

Ora, questa onnipotenza della coscienza comporta la conseguenza che l’universo, non appena concentratosi nella coscienza stessa e collocatosi nell’ambito d’una percezione delle cose che grazie ad essa è divenuta illusoriamente “globalizzante”, deve apparire da un lato unitario, ovvero esente da fratture interne ed onni-includente (poiché la coscienza, “cum-scientia”, è per definizione una conoscenza percepita come comune agli altri, anzi, per molti aspetti, istituita dal loro punto di vista), dall’altro deve necessariamente configurarsi come “diviso in due” (giacché per unificare bisogna anzitutto dividere, dissociare, ossia dapprima scegliere quegli elementi che sono realmente unificabili con altri e successivamente separarli da quelli che non lo sono, e come si è già accennato la prima cosa da dissociare, in una siffatta operazione, sono quei messaggi corporei ed istintuali di natura strettamente individuale che nel carattere “globale” della coscienza e nella sua presunta onnipotenza non appaiono affatto integrabili).

L’uomo, insomma, deve sacrificare gran parte del contatto con sé stesso e con le proprie percezioni, perfino cenestesiche, all’esigenza di conquistare un’immagine unitaria del mondo, la quale includa fra le altre cose anche gli altri esseri umani e renda possibile una comunicazione simbolica con essi (e tramite questa, un controllo della realtà naturale): ma questa auto-dissociazione, quest’esclusione del sé e di buona parte del vissuto che ne promana, paradossalmente, genera una sorta di ossessione proprio per il sé medesimo, ovvero per la parte dissociata; ed una tale ossessione per il sé a sua volta, come già accennato, implica che l’essere umano, a differenza di tutti gli altri animali, è condannato a non poter mai percepire il mondo direttamente, bensì solo attraverso un’auto-osservazione capillare ed un ossessivo auto-controllo.

Quest’ultimo, poi, è allo stesso tempo un auto-giudizio, ovvero un porsi dal punto di vista dell’altro, un condividere il suo sistema di valori ed un parlare, letteralmente, la sua lingua ed i suoi simboli.

L’essere umano, in definitiva, deve percepire il mondo come un tutto unico al fine di poterlo padroneggiare, ma deve immediatamente dopo rompere questa unità, ovvero decentrarsi da sé stesso, proprio al fine di potere percepire il mondo come un tutto unico; infine, può fare tutto ciò solo filtrando le proprie percezioni attraverso un singolarissimo, privilegiato e quasi ossessivo rapporto con sé stesso, il quale è di natura, allo stesso tempo, auto-dissociata ed auto-centrica, auto-repressiva ed auto-regolativa.

Ora, anche in base a quanto abbiamo detto all’inizio, è interessante notare che quest’operazione mentale di auto-dissociazione e di auto-manipolazione (in sé relativamente onnipotente ed autarchica), la quale rende possibile la coscienza, benché sia molto più “leggera” e metaforica, è qualcosa di molto simile ai procedimenti d’auto-dissociazione e d’auto-accusa (anch’essi onnipotenti) dei depressi.

La differenza, naturalmente, sta nel fatto che la struttura depressiva sottrae al mondo ed accumula nell’interiorità elementi pesantemente persecutori (quindi è costretta a comprimere all’interno del sé energie altissime, le quali successivamente debbono trovare un loro canale di sfogo piuttosto violento), mentre la coscienza sottrae al mondo, e “cuce” nella propria trama filmica, solamente elementi percettivi che sono stati, al contrario, preventivamente depurati d’ogni possibile valenza persecutoria e resi assai più “leggeri” dai procedimenti dissociativi e di “rimozione” (tanto che la maggior parte di quel materiale emozionale e pulsionale “pesante” che da tale persecuzione poteva essere improntato, è stata relegata nell’inconscio).

Insomma, mentre l’accumulo depressivo di persecuzione prepara inevitabilmente un’esplosione successiva d’energie fortemente aggressive, la sintesi “filmica” che la coscienza compie non fa altro che indurre la formazione d’una struttura parallela di tipo inconscio, la quale funziona contemporaneamente alla coscienza e non necessita, di per sé, di alcuna forma di scarico massiccio, e neppure d’un funzionamento “ciclico” o “bipolare.

Tuttavia, anche la coscienza prepara, a suo modo, un terreno assai fertile per contraccolpi depressivi: il suo enorme potere rappresentativo (in particolare della morte) infatti, per quanto astratto e dis-emozionalizzato possa essere, è comunque d’entità tale da compensare, e per certi versi sopravanzare, il potere di accumulo di stimolazioni mortifere che è proprio della struttura depressiva; ora, la percezione di morte che giunge a ciascuno di noi per via simbolico-rappresentativa attraverso la coscienza, compie il proprio “lavoro” depressogeno, essenzialmente, mediante la creazione d’un mondo di oggetti artificiali e di strumenti tecnologici atti ad arginare la morte stessa, nonché ad essere usati collettivamente: ma questi strumenti espropriano l’individuo, in misura pressoché totale, del suo potere di fronteggiare la morte direttamente con le proprie emozioni ed il proprio vissuto; ecco dunque che anche a causa della coscienza, il “vissuto” e le emozioni, lungi dall’essere annullati, riprendono piuttosto ad essere “inclusi”, tellenbachianamente, in un ordine di valori che li trascende, ed a “rimanere indietro” rispetto ad un tale ordine.

Quando Heidegger, per fare un esempio, critica le scienze esatte e la tecnologia per il loro proposito di fornirci un’immagine del mondo realistica, “in presa diretta” con ciò che è esterno a noi ed a prescindere dal nostro “vissuto”, e contemporaneamente dichiara che la tecnologia, con la sua micidiale efficacia, non è per nulla padroneggiabile a partire da questo vissuto (e quindi, neppure da parte dell’essere umano!), in fondo richiama la nostra attenzione proprio sulla contraddizione di base dell’uomo che abbiamo appena tratteggiato, e che a questo punto potremo meglio definire come “il paradosso della coscienza”.

Questo paradosso, lo ripetiamo, consiste nel fatto che la nostra specie, per poter raggiungere lo scopo di padroneggiare il mondo rappresentandoselo in forma “generalizzabile”, ovvero in termini astratti (o ancora, considerando le cose ad un altro livello, in forma simbolica, narrativa e comunicabile ad altri esseri umani), ha dovuto “unificarlo” in un’immagine “cosciente”; però, proprio per poter compiere quest’operazione di unificazione del mondo, ha dovuto immediatamente dopo “dividere questo mondo in due”, ovvero, ha dovuto togliere dalle proprie rappresentazioni simboliche delle cose il peso del vissuto, e con ciò espellere dalla visione cosciente che ha del mondo quell’insieme di percezioni più “particolari”, ad esempio cenestesiche, che provenivano dal corpo e confluivano nel vissuto medesimo (in altre parole, ha dovuto cancellare la stessa nozione che l’immagine generale ed unitaria del mondo da essa costruita, è in gran parte provenuta dal proprio “sé” e dal più o meno “pesante” vissuto che da quest’ultimo scaturisce).

Tuttavia, pur essendo continuamente spinto ad espellere il proprio “vissuto” dalla coscienza ed a “depurare” quest’ultima da ogni possibile “scoria” emotiva, l’uomo (ed è questo il cuore del “paradosso della coscienza”) è costretto a pensare costantemente il mondo proprio attraverso il vissuto, che poi è l’unica cosa di cui può essere sicuro, quindi, in definitiva, a re-introdurre quest’ultimo nella coscienza subito dopo avere invano tentato di espellerlo da essa (si pensi al “cogito ergo sum” di Cartesio!): quindi egli viene alla fine indotto a pensare al “vissuto” come all’unica realtà possibile, accettando il fatto che esso gli ripropone proprio quelle sensazioni particolari che la sua coscienza razionale, unificata, auto-dissociata e generalizzante, per altri versi gli richiederebbe imperiosamente di eliminare.

E’ così accaduto che l’uomo, sconcertato da questa contraddizione fra le proprie percezioni esterne ed il proprio “vissuto”, abbia finito per percepirsi come un granello insignificante, del tutto casuale e “particolare”, dell’universo, nel quale però l’universo nella sua interezza, misteriosamente, si concentrava, ed al di fuori del quale non appariva possibile nessuna forma di “essere”.

Ora, è proprio a  causa di questa inquietante somiglianza fra la coscienza e la colpa, che l’unica speranza di sfuggire alla depressione è divenuta, per taluni (ce lo insegna ad esempio il messaggio esistenzialista) l’assegnare momento per momento un “senso”, anziché contrapporre una ribellione, al dato bruto di quell’esistenza particolare che ci è stata data e che viviamo “qui ed ora”, visto che essa è allo stesso tempo un “tutto” che possediamo ed un destino cui non possiamo sfuggire.

Nel mondo attuale e secolarizzato, però, ovvero in una situazione che potremmo definire di “percezione massiccia ed estensiva della morte”, qualora le ragioni del “particolare” e del “corporeo” si facciano dappresso alla coscienza stessa in misura troppo impellente, e quest’ultima, nel suo vissuto unificato ed allo stesso tempo auto-dissociato, sia indotta a vacillare in una misura troppo accentuata (ad esempio sotto i colpi inferti dalla percezione, resa sempre più chiara dallo strepitoso sviluppo della scienza e dalla tecnologia, d’un mondo reale che si origina sempre di più all’esterno del vissuto umano ed è indipendente da esso), nonché a percepirsi per  quello che è, ovvero come una struttura ontologicamente alienata, all’uomo può facilmente sopravvenire una disperazione assai simile a quella depressiva.

Insomma, nel contesto impostoci dal mondo tecnologico, ormai, come diceva Heidegger, ai nostri occhi, “gli dei sono volati via”, il che significa semplicemente che i rituali ossessivi e parzialmente pre-coscienti di padroneggiamento della morte che erano propri delle culture antiche, sotto l’azione dissolvitrice della coscienza e della ragione, si vanno sempre più svuotando (come già le religioni monoteistiche ci vanno dicendo da più di duemila anni), cedendo il passo all’unica possibile reazione rimasta: quella depressiva. Il Cristianesimo in particolare, religione in sé sommamente de-ritualizzante e de-sacralizzante, contrariamente alle apparenze possiede un così ingente contenuto di “fede”, di “credo quia absurdum”, proprio in quanto è in realtà ultra-razionalistico e sommamente speculativo, anzi percepisce così distintamente le fonti della morte da doverle negare in forma plateale, ad esempio identificando l’uomo con Dio ed il figlio con il padre, ossia componendoli in unità malgrado quelle loro insanabili contraddizioni che, come abbiamo visto sopra a proposito dei guerrieri medioevali spodestati dai padri, sono spesso alla base del vissuto melancolico.

Non è affatto detto, tuttavia, che la depressione promossa dalla tecnologia, dalla scienza e dalla coscienza sia sempre e comunque un male: si tratta, semplicemente, d’una trasformazione epocale ed oltremodo critica, la quale, se su un versante risolve numerosi e millenari problemi, su un altro ne pone (ed impone) molti altri, di natura diversa ma non meno importante, la cui soluzione è ancora difficile persino da immaginare.

Un esempio molto semplice di ciò è il seguente: se la progressiva decodificazione del DNA, consentita proprio da quella tecnologia strapotente e “non dominabile” cui alludeva Heidegger, renderà possibile su scala di massa una previsione ragionevolmente certa circa la durata d’ogni vita individuale e circa la natura non solo delle malattie che la limiteranno (fino a porvi fine), ma anche della nostra libertà d’auto-determinarci in vista d’un fine (per inciso, si tratta proprio di quella libertà umana residuale che è alla base dell’esistenzialismo!), ebbene, a quel punto il vissuto che ci consente tuttora di mantenere un minimo di “spinta vitale”, ossia quello che tipicamente si basa sulla “possibilità d’auto-progettazione” nonché su quella di “proiettarsi nel futuro” partendo da una sia pur minima illusione di “libertà”, subirà un colpo durissimo e foriero di ingenti contraccolpi depressivi; ma a questo punto, a causa della disperazione che potrebbe derivarne, diverrà forse fatale andare, ormai in preda alla depressione e ad un vissuto di “lutto”, alla ricerca di quegli “dei del vissuto” (il sacro, i riti, ecc.) che sono “volati via”, nonché invocare il loro ritorno sulla terra. E di ciò, nella società attuale esistono già segnali inconfondibili.

Dott. Volfango Lusetti. Psichiatra e Psicoterapeuta, Roma.

volfangolusetti@tiscali.it

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