Questa è la traduzione italiana, fatta dall’autore, di un articolo pubblicato in inglese su Fromm Forum. La pubblicazione della traduzione italiana avviene col permesso del Direttore di Fromm Forum, Rainer Funk. Il copyright della traduzione è dell’autore.
Alice Miller era una psicoterapeuta svizzera. Quando morì, il 12 aprile 2010, scrissi una commemorazione in inglese che venne pubblicata su Academy Forum (Bacciagaluppi, 2010). Ora vorrei indicare dei collegamenti tra lei ed Erich Fromm. Entrambi erano autori molto vitali e creativi; entrambi avevano una formazione nelle scienze umane (Fromm in sociologia, la Miller in filosofia); entrambi passarono dalla psicoanalisi freudiana ad una sua contestazione; infine, entrambi si sono occupati di Hitler ed altri capi nazisti. Il primo libro della Miller, Il dramma del bambino dotato, venne pubblicato nel 1979, prima della morte di Fromm nel 1980. Tutti gli altri suoi libri vennero pubblicato successivamente, quindi Fromm non conosceva la sua opera. La Miller, invece, fa riferimento al libro di Fromm del 1973, Anatomia della distruttività umana, nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, dove, nel capitolo su Hitler, cita la definizione che Fromm dà di Hitler come di “una bestia necrofila”. Già all’inizio del capitolo aveva citato Fromm, quando dice che l’essere umano e la bestia non si escludono. Da allora la Miller non ha più citato Fromm. In ciò che segue farò notare altri collegamenti impliciti tra di loro. Questo articolo è un omaggio a due autori che mi sono cari. Nella bibliografia sono elencate tutte le opere della Miller in ordine cronologico. Cito la data dell’edizione originale tedesca, seguita dal titolo e dalla data della traduzione italiana.
La Miller, di professione psicoanalista, si mise ad esprimere la sua creatività nel 1973 con la pittura. Nei suoi dipinti mostrava la verità e la sofferenza della sua infanzia. Un saggio di questa sua attività artistica, con la riproduzione di 66 acquerelli, venne pubblicato nel 1985 col titolo Bilder einer Kindheit (Quadri di un’infanzia). Cinque anni dopo l’inizio della pittura cominciò a scrivere i suoi libri. Nel quarto capitolo del suo terzo libro, Il bambino inascoltato, affermò che le esperienze traumatiche della prima infanzia trovano spesso espressione nelle opere creative di pittori e di scrittori, che poi esaminò in molti altri suoi libri.
Per quanto riguarda il suo allontanamento dalla psicoanalisi freudiana, esso risulta molto evidente dal confronto tra le due edizioni del Dramma. Nella prima edizione, nel titolo del primo saggio parla del disturbo narcisistico dello psicoanalista. Nella seconda edizione, apparsa in Germania nel 1997, parla invece di come si diventa psicoterapeuti. Nella prima edizione dice che i suoi assunti di base sono vicini al lavoro di D.W. Winnicott, di Margaret Mahler e di Heinz Kohut. Nella seconda edizione questi nomi scompaiono. La Miller nomina Winnicott una sola volta, benché rimanga un riferimento implicito a lui nel “vero sé” del titolo inglese del libro. Nella prefazione di La persecuzione del bambino parla della sua seconda analista, Gertrude Boller-Schwing, poi non la nomina più.
Dopo i suoi primi due libri la Miller smise di vedere pazienti e si dedicò a scrivere. Dopo il suo terzo libro, nel 1983 fece una terapia con Konrad Stettbacher, uno psicoterapeuta svizzero, al quale poi rimase sempre grata. Nella sua premessa al libro di Stettbacher, Wenn Leiden einen Sinn haben soll (Se il dolore deve avere un significato), rende omaggio al suo metodo graduale di “un passo alla volta”.
Nel 1988 la Miller si dimise dall’IPA e non volle più essere chiamata psicoanalista. Di conseguenza, gli ortodossi reagirono costruendo attorno a lei il muro del silenzio (che compare nel titolo tedesco del suo settimo libro, tradotto in italiano come La fiducia tradita), così come avevano fatto con altri eretici come Ferenczi e Fromm.
Il suo interesse costante fu rivolto ai traumi infantili, dovuti sia all’incuria che agli abusi. Specialmente in La rivolta del corpo, la Miller fece notare che il corpo manifesta sintomi se il trauma viene esaminato a livello soltanto intellettuale e non anche a quello emotivo.
Un’altra conseguenza della negazione del trauma è la distruttività, trattata da Fromm in Anatomia della distruttività umana, dove in particolare esamina Hitler. La Miller descrive questa situazione ripetutamente nel caso di Hitler, trattato in cinque dei suoi libri (La persecuzione del bambino, Il bambino inascoltato, La chiave accantonata, L’infanzia rimossa, e nel suo ultimo libro, Riprendersi la vita), ma nominato anche in tutti gli altri. Nell’ultimo libro afferma che i seguaci di Hitler erano vittime della loro educazione, ossia che condividevano la medesima struttura caratteriale. Questo è il concetto di Fromm del carattere sociale (Fromm, 1941), secondo il quale la società, attraverso la famiglia, crea nei bambini la struttura di carattere adatta al perpetuarsi della società stessa. In La persecuzione del bambino, la Miller esamina anche altri capi nazisti: Eichmann, Goering, Hess, Himmler e Höss. Fa notare che per tutta la vita essi eseguirono gli ordini senza mai metterne in discussione il contenuto.
Vi sono altri punti di convergenza con Fromm. Fromm tratta di questi argomenti in varie parti della sua opera, e li ricapitola quasi tutti in Anatomia della distruttività umana. Nel Dramma la Miller critica “l’adorazione della normalità”. Nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, nella prefazione all’edizione britannica essa condivide con Fromm la preoccupazione per la guerra atomica, e più avanti critica l’obbedienza come “principio supremo”, così come Fromm nel suo libro postumo su questo argomento (Fromm, 1981). In questo libro essa contesta la pedagogia, non soltanto quella apertamente traumatica del padre di Schreber, vissuta da Schreber in maniera delirante, ma l’idea stessa di pedagogia. Essa sostiene che la pedagogia va incontro ai bisogni dei genitori, non a quelli dei bambini. Tra i bisogni dei genitori essa elenca la “paura della libertà”, che è il titolo dell’edizione britannica del primo libro di Fromm, Fuga dalla libertà (Fromm, 1941). La critica della pedagogia, da parte della Miller, vista come il tentativo degli adulti di estirpare il “male” dai bambini, ricorda la critica da parte di Fromm, in Il linguaggio dimenticato (Fromm, 1951), della visione “agostiniana” di Freud del bambino come piccolo peccatore, spinto da impulsi sessuali ed aggressivi. In La persecuzione del bambino la Miller parla dell’unità narcisistica e simbiotica tra il Führer ed il popolo. Qui, di nuovo, adopera termini spesso usati da Fromm. In Il bambino inascoltato, e in molti altri passi, la Miller parla del potere degli adulti sui bambini, così come Fromm distingue tra “potere su” e “potere di”. Infine, sia Fromm che la Miller si sono occupati delle fiabe, dei sogni e dei miti, ed in particolare di quello di Edipo, Fromm in Il linguaggio dimenticato, e la Miller in Il bambino inascoltato.
Per quanto riguarda i sintomi somatici, in L’infanzia rimossa la Miller esamina due casi estremi: Galileo, che divenne cieco dopo che la Chiesa lo obbligò a rinnegare la verità, e Freud, che manifestò un cancro alla mascella dopo avere rinnegato la teoria della seduzione nel 1897. Bowlby definì questo cambiamento di opinione un “voltafaccia disastroso, in “La violenza nella famiglia”, un articolo del 1983, poi ristampato in Una base sicura, in cui si occupò degli abusi fisici, piuttosto che di quelli sessuali, dopo avere ammesso di avere in precedenza trascurato questo argomento. L’abbandono della teoria della seduzione è anche l’argomento del libro di Masson del 1984, Assalto alla verità. Questa mossa di Freud, da lui annunciata a Fliess nella lettera del 21 settembre 1897, era stata preceduta da due avvenimenti: nel 1896 era morto suo padre, ed in una lettera precedente a Fliess, dell’8 febbraio 1897, Freud aveva parlato della “perversione” di suo padre manifestata nell’abuso sessuale dei suoi figli. Quindi, Freud negò i traumi nelle sue pazienti e li sostituì con le loro fantasie, allo scopo di negare i propri traumi e di proteggere la buona fama del padre. Egli poi impose questa visione a molte generazioni di psicoanalisti. La corrispondenza tra Freud e Fliess era già stata pubblicata nel 1985 quando la Miller scrisse il suo libro nel 1988. Probabilmente non ne era a conoscenza, altrimenti l’avrebbe certamente citata. Essa aveva già trattato più brevemente dell’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud in La persecuzione del bambino.
La manifestazione di gravi sintomi somatici è un concetto della Miller che può essere molto pertinente a Fromm. Nell’introduzione al loro recente libro su Fromm, Funk e McLaughlin (2015) parlano di certi “limiti” di Fromm. Nella sua biografia di Fromm del 1983, Funk riferisce che, quando Fromm ebbe due episodi di tubercolosi negli anni Trenta, Groddeck, il fondatore della medicina psicosomatica, affermò molto decisamente che ciò era dovuto alla difficoltà che Fromm aveva a separarsi da Frieda Reichmann. Questo è molto plausibile, ma solleva il problema del perché Fromm abbia dovuto esprimere questa difficoltà in termini somatici. Qui la Miller è molto pertinente, quando dice che è essenziale raggiungere le emozioni del bambino nell’adulto. Ad un livello intellettuale adulto, Fromm era ben consapevole del fatto che aveva avuto una madre fortemente depressa (Funk, 1983, p. 21) ed un padre ansioso, e che entrambi avevano cercato di tenerlo legato a loro. A livello adulto, e con l’aiuto di modelli alternativi, Fromm si liberò. Tuttavia, se manifestò dei sintomi somatici, ciò significa che non era in contatto con le emozioni del bambino dentro di sé. Frieda Reichmann aveva 10 anni più di lui e, prima di diventare la sua prima moglie, era stata la sua prima analista. Essa era ovviamente una figura materna per lui. La separazione reale da Frieda Reichmann riattivava in Fromm la separazione emotiva dalla madre depressa. La separazione prolungata, come dimostra Bowlby (1973), porta alla rabbia della disperazione. Le emozioni di Fromm da bambino devono essere state, dapprima la rabbia verso la madre depressa, e poi la rabbia verso entrambi i genitori per ciò che Bowlby (1973) chiama l’inversione del rapporto genitore-bambino, che porta ad una duplice frustrazione dei bisogni di base: dapprima il bisogno di un attaccamento sicuro, e poi il bisogno dell’autonomia. Tale rabbia, ritorta su di sé, ha dato origine in Fromm ai sintomi somatici. Beninteso, la tubercolosi comporta la presenza del bacillo di Koch. La componente psicologica consiste nell’indebolimento del sistema immunitario. Fromm stesso, quindi, può essere stato vittima di ciò che egli chiamava “cerebralizzazione”. Come giustamente dice il titolo della traduzione inglese di La rivolta del corpo, The Body Never Lies (il corpo non mente mai). A questo proposito, è pertinente ciò che la Miller dice in Il bambino inascoltato della tubercolosi di Kafka.
Ferenczi, il quale, dopo avere riscoperto il trauma, venne scomunicato dagli ortodossi, e morì a 59 anni di anemia perniciosa, è un altro esempio, più estremo. Non a caso, in La persecuzione del bambino, e da altre parti, la Miller usa l’espressione “identificazione con l’aggressore”, dapprima usata da Ferenczi. Essa mostra la sua affinità con Ferenczi anche nel rivolgersi costantemente al bambino nell’adulto. Eppure, lo nomina brevemente soltanto in L’infanzia rimossa, mentre Fromm lo difese strenuamente a due riprese, sia prima che dopo la guerra.
Un’altra cosa che manca alla Miller, in confronto a Fromm, è la dimensione temporale della preistoria, con la sua dialettica tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Essa attribuisce le esperienze traumatiche dell’infanzia all’osservanza del Quarto (che per molti è il Quinto) Comandamento di onorare i genitori. Ciò può essere vero, ma risale soltanto alla cultura patriarcale dell’Antico Testamento. La Miller non contrappone questa cultura a quella matriarcale, precedente, e ben più antica, come fece invece Fromm, quando nel 1934, in un saggio ristampato nel 1970, trattò di Bachofen, che per primo, nel 1861, descrisse la cultura matriarcale. Eppure la Miller stessa, come Ferenczi, Fromm e Bowlby, appartiene alla cultura matriarcale innata. La cultura patriarcale è troppo recente per essere entrata nel nostro genoma, è soltanto un’espressione dell’evoluzione culturale, e ad ogni generazione si deve imporre con la socializzazione violenta e traumatica dei bambini. Con i suoi riferimenti a Marx e Bachofen, Fromm rivela le radici storiche e preistoriche della nostra società alienata, e verso la fine della sua vita, in Anatomia della distruttività umana, si è impadronito dell’etologia e dell’evoluzionismo, così come ha fatto Bowlby per costruire la teoria dell’attaccamento.
In conclusione, si possono vedere Erich Fromm e Alice Miller come complementari. Il contributo principale della Miller consiste nel rilievo dato alle esperienze traumatiche dell’infanzia, mentre Fromm fornisce il contesto più ampio, preistorico ed evoluzionistico, nel quale porre queste osservazioni.
Bibliografia
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Bowlby, J. (1988). Violence in the family. In: A Secure Base. London: Routledge. Trad. it.: Una base sicura. Milano: Cortina, 1989.
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Masson, J.M. (1984). The Assault on Truth. Freud’s Suppression of the Seduction Theory. Harmondsworth: Penguin. Trad. it.: Assalto alla verità. Milano: Mondadori, 1984.
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Miller, A. (1988). L’infanzia rimossa. Milano: Garzanti, 1990.
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Miller, A. (1998). Le vie della vita. Milano: Garzanti, 1998.
Miller, A. (2001). Il risveglio di Eva. Milano: Cortina, 2005.
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Miller, A. (2007). Riprendersi la vita. Torino: Bollati-Boringhieri, 2009.
Miller, A. (2009). From Rage to Courage. Answers to Readers’ Letters. New York: Norton.
Stettbacher, J.K. (1990). Wenn Leiden einen Sinn haben soll. Die heilende Begegnung mit der eigenen Geschichte. Hamburg: Hoffmann und Campe.
Perché diventare psicoanalisti? Una intervista agli Allievi della Scuola di Specializzazione Erich Fromm lo spiega con un invito all’Open Day
di Sara Ginanneschi
Durante le giornate Open la SPEF, apre le porte ai professionisti per presentare il modello teorico, le tecniche utilizzate, le modalità con cui la psicoanalisi di Erich Fromm trova attuazione ai giorni d’oggi.
Le parole” Psicoanalisi” e “Pratica”, “Tecnica”, o tantomeno “Scienza” non si trovano spesso nella stessa frase! Perché la Scuola di Specializzazione Erich Fromm sarebbe diversa?
Gli incontri di Settembre ed Ottobre, si sono focalizzati sull’illustrazione della triade dei gruppi sul quale l’identità della SPEF si fonda e si sostanzia: i gruppi psicodinamici, lo Psicodramma e i gruppi alla Balint.
Oltre alle lezioni teoriche frontali, fondamentali per acquisire un metodo clinico e scientifico, “gli studenti avvertono sempre più il desiderio di un apprendimento dove sia possibile sporcarsi le mani per imparare l’arte del mestiere” suggerisce Laura, al termine del primo anno di studi ed è andando incontro a questa esigenza che la SPEF offre tre tipi di esperienze gruppali: Gruppi di Psicodramma, Gruppi alla Balint e Gruppi Psicodinamici.
Con lo Psicodramma si acquisisce una vera e propria tecnica di intervento che, vissuta prima “sulla propria pelle” diventerà poi fondamentale strumento terapeutico, unico nel suo genere; gli allievi, alternandosi nei ruoli di paziente e di psicoterapeuta, si calano di volta in volta nei panni dell’altro, imparando ad sviluppare e controllare, l’empatia e la risonanza emotiva, fondamentale per il ruolo di psicoterapeuta che andranno a rivestire.
I gruppi alla Balint si configurano invece come momenti di supervisione e confronto alla pari con i colleghi e permettono agli psicoterapeuti in formazione di migliorare la propria professionalità con il confronto diretto con le esperienze degli altri, andando quindi ad arricchire il bagaglio individuale, con quello portato da tutto il gruppo.
I gruppi psicodinamici sono dei gruppi dove gli studenti “mettono a tema il proprio percorso e vissuto personale per guardarsi con gli occhi dell’altro e capire il proprio percorso”. Racconta Giulia al quarto anno di studi. “La scuola è un luogo dove nascono relazioni che vengono analizzate in senso psicodinamico quindi, oltre che vivere l’esperienza dall’interno si sfrutta la possibilità di analizzare la dinamica di una situazione di gruppo reale.”
Le attività di tirocinio sono strettamente supervisionate e come più volte è stato affermato dai colleghi già iscritti, questa condizione è fondamentale per porre le basi di una più completa professionalità direttamente sul campo; con la sicurezza di non essere abbandonati a se stessi e la fiducia crescente nelle proprie capacità di problem solving.
La scelta di diventare psicoanalista o psicoterapeuta deve assolutamente rispecchiare l’idea di ognuno di noi nel futuro e basarsi su una teoria che rispetti il più possibile la forma mentis originaria della persona pur restando sempre aperta a nuove integrazioni.
La SPEF ed il Polo Psicodinamiche hanno inoltre una Rivista on Line, iscritta al Tribunale di Firenze, che, oltre a offrire materiali di approfondimento scientifico è anche strumento per possibili pubblicazioni.
Abbiamo parlato di modello teorico che di Erich Fromm e dei neo-positivisti, che non va a disconoscere il Positivismo Freudiano e l’impostazione relativa alle pulsioni, ma ne rivaluta e integra il nucleo dell’individuo, non più soggetto a impulsi soltanto interni, ma anche esterni, teoria che, con nomi diversi vediamo sposare dalla maggior parte degli orientamenti psicoterapeutici attuali.
È alla luce di questa similitudine che si può affermare che anche la SPEF offre tecniche psicoanalitiche più chiaramente inquadrabili in un piano didattico; lo stesso Erich Fromm parla di regole nella terapia ed anzi, sostiene che queste andrebbero condivise anche col paziente: “con le sole parole non è mai guarito nessuno” e non è pensabile che il paziente resti passivo nella relazione. L’approccio Center to Center risponde poi al quesito circa che tipo di rapporto interpersonale si vada a creare con il paziente: centro con il centro, non Super Io del terapeuta con Io del paziente!
Perché diventare psicoanalisti dunque? Perché è un modello che gode di un’esperienza storica pur restando attuale e moderno, è supportato da studi di efficacia neurobiologici che ne attestano i risultati terapeutici e trova la sua maggiore forza nella relazione interpersonale; È fondamentale il ruolo svolto dal terapeuta nella stessa relazione: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert, ma alla sua azione all’interno di un modello interpersonale.
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 15 Luglio 2015
I Gruppi di supervisione alla Balint rappresentano una metodologia collaudata di formazione di gruppo ideata da Micheal Balint, da cui prendono il nome, a partire dalla inclusione del personale sanitario ma non medico nelle strutture in cui veniva praticata.
Creata originariamente per l’addestramento “psicologico” dei medici di famiglia, nasce all’interno di un modello di cura fondato sul rapporto duale curante/paziente, andando incontro ad ampie trasformazioni che hanno consentito di rispondere ai profondi mutamenti che nel corso degli ultimi decenni hanno cambiato il volto dell’approccio al paziente ed alla sua presa in carico, sia dal punto di vista professionale che emotivo.
Nell’ambito della psicologia, il metodo dei gruppi alla Balint si è reso utile nell’indagine della relazione tra professionista e cliente, sull’azione del gruppo come strumento facilitatore del pensiero e sull’apprendimento basato sull’esperienza sul campo e non solo sulla conoscenza teorica.
Alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm i gruppi alla Balint si sviluppano come una situazione gruppale eterocentrata, in cui ogni allievo presenta un caso clinico che sente di voler discutere con i colleghi. Sempre nell’ottica di una Scuola che forma e fa crescere i terapeuti, ma in nessun momento lascia che si sentano da soli in questo percorso che non è solo professionale, ma è profondamente personale, anche il Gruppo alla Balint è un momento di scambio indispensabile.
L’analisi del caso clinico è condotta garantendo il completo anonimato dei pazienti e, così come nell’ambito terapeutico, anche nella stanza del Balint viene totalmente sospeso il giudizio, sul paziente ma anche sul terapeuta in formazione.
Il confronto con gli altri ed i suggerimenti che da essi pervengono, insieme alla guida dei conduttori e docenti della scuola, rende questo momento formativo allo stesso tempo teorico e pratico; il momento ideale per personalizzare in sicurezza il metodo teorico, plasmandolo sulla persona che richiede l’intervento, ma anche sulle caratteristiche personologiche proprie del terapeuta, ferma restando un’attenta e continua valutazione del percorso terapeutico attraverso il raggiungimento di specifici obiettivi pattuiti col paziente.
Moreno racconta di come sta procedendo il caso che ha presentato qualche mese prima al gruppo ed illustra i propri dubbi sulla gestione emotiva di alcuni contenuti emersi; “hai paura di questa situazione?” gli chiede il Dott. Benelli, “si!” risponde lui mentre Lavinia, un’altra terapeuta in formazione suggerisce: “credo che la tua paziente ti faccia sentire controtransferalmente tutto quello che anche lei prova in questo momento”.
Confronto, conforto, guida sul metodo; le possibili strategie terapeutiche da proporre, ma anche il contenimento del proprio vissuto personale è quello che può essere ricercato e che sicuramente viene trovato con i gruppi alla Balint.
Per chi osserva e partecipa senza presentarsi con un proprio caso clinico, acquisisce comunque il vissuto dell’altro, nel quale può sperimentarsi proponendo soluzioni e percependo il vissuto offerto tanto onestamente dal collega; il caso di uno, diventa bagaglio esperienziale di tutti. Non vi è vergogna o paura del giudizio, piuttosto si vedono abbassare tutte le difese superegoiche di chi presenta il caso clinico e la propria esperienza in esso. “Se ogni gruppo di lavoro è un organismo complesso con cui relazionarsi è una sfida, il Polo Psicodinamiche non fa eccezione. Vi si mescolano diversi livelli di formazione, provenienze spesso eterogenee, e al suo interno si sviluppano contaminazioni, integrazioni, realizzazioni di sogni e progetti” dice Irene Battaglini CEO e coordinatore della Formazione alla Scuola, che continua; “Quel che ci unisce è la consapevolezza di quel gioco nascosto di forze di freudiana memoria, sia nella formazione sia nella psicoterapia. Non è un problema di impostazione o di orientamento, ma di forma mentis: non si può uscire da questo ganglio, bisogna tenerne conto. Riduttivamente, si può pensare che ogni modello abbia le sue peculiarità, ed è scontato; inoltre si può pensare altrettanto intuitivamente che ogni modello alla fine porti alla risoluzione del problema attraverso la relazione. Tuttavia la relazione professionale necessita di una competenza tecnica, che forse può essere “semplificata”, ovvero resa accessibile, ma che deve affondare le proprie radici in un pensiero molto ben strutturato, come viene sviluppato con professionalità nei gruppi di supervisione alla Balint condotti dal Dott. Benelli. Il format offre uno scenario in cui i livelli messi in gioco sono multipli, ma possono essere tenuti relativamente sotto controllo. All’allievo può essere veicolata la competenza a lavorare attraverso se stesso nel caso clinico, non ricorrendo alla drammatizzazione autocentrata, apprendendo tecniche eterocentrate che interpretano anche il ruolo del terapeuta, ovvero che impediscano il dilagare diretto delle istanze controtransferali (che nello psicodramma invece possono essere vissute ed elaborate), con il rispecchiamento del gruppo guidato dal supervisore. Se lo psicodramma offre uno scenario dionisiaco, il gruppo alla Balint esprime il lato apollineo della formazione, senza mai trascurare l’anima-cuore pulsante, il volto emotivo, relazionale, che tiene insieme le due ali della stessa colomba, simbolo non a caso di Anima.”
Nel gruppo vengono illustrate le criticità della gestione del caso ed offerte soluzioni possibili, così come anticipati scenari eventuali: “Moreno, questo l’avevamo previsto da subito!” dice Lavinia, e Moreno illustra al gruppo in che modo questa previsione si è poi realizzata e come ha saputo gestirla sul momento, con tutto il carico emotivo della situazione reale e non più solo immaginata. Ogni situazione viene attentamente analizzata per offrire una valida cornice teorica, etica e deontologica dove il terapeuta in formazione possa essere libero di operare assecondando le proprie intuizioni. “Ogni terapia non è mai uguale, bisogna relazionarsi alla persona in maniera personalizzata sulla base dell’esperienza professionale” dice il Dott. Ezio Benelli e quando questa esperienza non si è ancora maturata, è il gruppo che sopperisce e corrobora i punti di forza attuali. Continua: “Come sosteneva Boris Luban-Plozza, con il quale mi sono formato ad Ascona, l’intervento sanitario in genere – anche se oggi assistiamo ad una certa inversione di tendenza – presta molta attenzione alla malattia e ai sintomi, molto meno alla persona malata, poco o nulla alla relazione col paziente, amplificando il rischio di errori diagnostici e di terapia. Il modello biopsicosociale, che dovrebbe essere integrato con degli insegnamenti di Erich Fromm, richiede al medico e allo psicologo nuove competenze emotive e relazionali, senza le quali il suo lavoro corre il pericolo di diventare inefficace, logorante ed esposto al burn-out. Nel nostro caso, l’acquisizione delle competenze empatiche (emotivo-relazionali) permette al terapeuta in formazione di sviluppare l’ascolto, la relazione, l’attenzione efficace al paziente, attraverso l’affinamento delle tecniche di gestione delle emozioni, anche ampliando la comprensione del punto di vista, del sapere e del saper fare, per andare nella direzione del saper essere negli interventi più complessi.Inoltre addestra al lavoro in equipe, anche multiprofessionale, che al Polo Psicodinamiche è una consuetudine consolidata, e sviluppa consapevolezza, capacità di affrontare l’ansia e di gestire le difese. Si tratta quindi di alimentare il benessere lavorativo a vari livelli”.
Un po’ di storia
La formazione mediante la tecnica dei “Gruppi Balint” è una pratica di derivazione psicoanalitica che consiste nel frequentare attivamente un gruppo composto da 8/12 medici e condotto da uno psicoanalista o da un Medico formato alla conduzione dei Gruppi Balint.
Uno dei motivi della celebrità di Balint (Micheal Balint nella foto a sinistra, 1896 –1970, Psicoanalista ungherese, patrocinatore della Object Relations School) è l’invenzione di una specifica tecnica di formazione, poi denominata “Gruppo Balint”, attraverso la quale si proponeva di migliorare le capacità dei medici di utilizzare con i pazienti la relazione interpersonale come fattore terapeutico.
Balint e sua moglie, per oltre 5 anni, lavorarono con gruppi composti da 8-10 medici, basandosi su due ipotesi principali:
• il medico stesso è il farmaco principale che viene somministrato al paziente,
• nel rapporto tra paziente e medico si possono produrre sofferenze ed irritazioni inutili, che Balint si è reso conto essere evitabili laddove il medico divenga maggiormente in grado di ascoltare e comprendere ogni paziente nella sua singolarità, entrando in relazione con lui in modo più consapevole del fatto che anche la loro relazione è parte sia dell’atto diagnostico sia dell’atto di cura.
Secondo Balint, un incontro tra colleghi durante la propria attività, poteva favorire sia un momento di condivisione dell’esperienza, sia un sostegno psicologico reciproco. Ma lo specifico obiettivo del percorso formativo mediante il “Gruppo Balint” è quello di un lavoro su di sé, da parte di ciascun medico, per arricchire e potenziare i versanti terapeutici della sua personalità di curante.
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 24 Giugno 2015
Durante la presentazione della Scuola, Ezio Benelli, Direttore e docente e Giuseppe Rombolà Corsini, Vice-Direttore e docente, hanno presentato l’offerta formativa attraverso un excursus professionale e personale, farcito di aneddoti personali non necessariamente autocelebrativi, piuttosto sottolineando lo sforzo e la dedizione di creare un Centro di Psicoterapia che destinasse una proposta formativa all’avanguardia, pur rispettando i principi della Psicoanalisi di Erich Fromm.
Il valore aggiunto della presentazione è certamente dato dal vissuto diretto degli studenti in corso i quali hanno saputo ampiamente argomentare il loro percorso verso la psicoterapia, dove l’individuazione e l’emancipazione dal docente vengono vissute con una doppia gradualità: quella che deriva dall’apprendimento teorico e quella che si matura con un percorso emotivo personale.
“Non si è mai soli; terapia personale, supervisione, gruppi…c’è sempre la possibilità di avere uno scambio; sei da solo, ma insieme al gruppo” dice il Dr. Lino Arnone, medico e specializzando presso la SPEF.
La Dr.ssa Giuditta Perri invece, riporta delle proprie esperienze durante il tirocinio e sottolinea l’importanza di aver imparato a gestire le proprie emozioni, contemporaneamente alle tecniche terapeutiche del paziente: “una formazione di questo tipo, permette che non prevalga la paura del terapeuta nel momento in cui deve essere più presente al proprio paziente”.
Poiché è da Fromm che si parte, nel documentario-intervista mostrato in sala, vediamo che l’approccio center-to-center, da uomo a uomo, è uno dei presupposti fondamentali della SPEF; il terapeuta non è il Super Io del paziente, come Rombolà Corsini sottolinea, abbiamo già avuto un padre che ci ha detto cosa fare, non abbiamo bisogno di un terapeuta che faccia lo stesso; il terapeuta è una persona che ha fatto il proprio cammino ed in quanto tale, conosce quello che il paziente sta provando e con la dovuta preparazione tecnica, lo sostiene nel suo percorso terapeutico.
Lo stesso Erich Fromm si definisce un nevrotico, cresciuto in una famiglia nevrotica con padre ossessivo e madre ambivalente: se si comportava correttamente era un Krause [nome da nubile della madre], se invece avesse avuto una condotta non consona ai precetti materni era un Fromm.
È grazie a questa esperienza “universale” di essere uomo che viene inquadrato il futuro terapeuta.
L’Open Day della SPEF ha poi esplorato brevemente i temi principali della teoria di base: l’amore, come forza che unisce tutto; la fuga dalla libertà; il tema dell’autorità.
L’esperienza formativa è esperienza in senso stretto, con attività non soltanto didattiche frontali, ma simulate di casi, role playing, tirocini, esperienze di gruppi dinamici dove, Benelli dice: “si elaborano e si esprimono i propri vissuti fino a sviluppare la capacità di cogliere i segni che l’inconscio dei futuri terapeuti manda loro durante il lavoro sul campo.” La SPEF offre Gruppi di Supervisione alla Balint, Gruppi Psicodinamici e Gruppi di Psicodramma; di quest’ultimo dopo lapresentazione della Scuola, Corsini Rombolà, con l’aiuto degli studenti al terzo e quarto anno ha “messo in scena” lo psicodramma, facendo vivere un’esperienza intensa, seppur solo come rappresentazione e non momento di terapia.
Sullo Psicodramma, la Dr.ssa Linda Gargelli, una delle persone che ha partecipato attivamente alla dimostrazione pratica dice: “Lo psicodramma psicodinamico è un processo naturale, tutti hanno in testa un dramma che necessita di diventare storia. I conflitti intrapsichici, che vengono verbalizzati nelle sedute con il proprio terapeuta, possono nella scena psicodrammatica prendere forma e sostanza. Accade così che le persone del gruppo, tramiti meccanismi proiettivi (ma non solo), possono diventare i personaggi della propria storia interiore, una madre o un padre simbolici ai quale si può dire finalmente tutto. Lo psicodramma che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso formativo, grazie ai miei maestri, il Dott. Giuseppe Rombolà Corsini e il Dott. Ezio Benelli, è un metodo per entrare in contatto con i propri nuclei emotivi in un contesto protetto e altamente contenitivo“.
Chiediamo a Irene Battaglini, CEO di Polo Psicodinamiche, qual era la sua idea formativa e come è riuscita a svilupparla:
“Il mio compito è coagulare ogni giorno le energie del team di didatti, docenti e allievi affinché si raggiungano gli obiettivi formativi a breve e medio periodo. Le strategie devono contemplare traiettorie molto più estese: l’orizzonte di ciascun professionista non si esaurisce in quattro anni, e la scuola rappresenta un investimento che darà frutti lungo tutto l’arco della vita, con ricadute a cascata nella vita dei pazienti e delle loro famiglie. Dunque è una grossa responsabilità. Se gli obiettivi sono suggeriti dall’analisi della domanda, la strategia di approccio alla psicoterapia – parafrasando Nietzsche nella Gaia scienza – deve tenere accesa una fiaccola, come nel passaggio della torcia olimpica, traendo il fuoco da un incendio che fu acceso da Freud, Jung, Adler, Fromm, Ferenczi, e molti altri grandi psicoanalisti, ormai più di un secolo fa, i quali lo hanno tratto a propria volta dalla psicologia, dalla medicina, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e dalle scienze naturali. Questo non è un compito, bensì una chiamata: il mio ruolo è promuovere una strategia che contribuisca a tenere viva questa energia“.
Conclude così Irene Battaglini: “La sfida, oggi, è mantenere credibile la luce di questa storia bellissima, che molti di noi hanno dimenticato precipitando in una diatriba tra metafisica e neopositivismo. Noi abbiamo una storia vera da raccontare, ma anche da vivere e trasmettere alle successive generazioni: questo è necessario trasmettere agli allievi e ai docenti, questa forma di amore“.
Relativamente ai Gruppi di Supervisione alla Balint, la Scuola offre un altro Open Day gratuito Mercoledì 1 Luglio 2015
L’Open Day alla SPEF è stato Open in tutti i sensi, mostrando i locali, l’offerta formativa, i metodi, i docenti ed i colleghi specializzandi per quello che sono nella realtà dei fatti.
Quello che certamente si respira entrando alla SPEF è un clima di reciprocità e rispetto, ma ancor prima di quello dovuto come colleghi, indipendentemente dal ruolo o dal grado di preparazione che ognuno riveste, si coglie la sincera attenzione verso la persona, ciascuna con la propria storia di vita.
L’analisi del “comportamento non verbale” degli esseri umani, oggi assai impiegata in criminologia ed in ambito poliziesco-giudiziario (in specie in alcuni paesi), è in realtà nata nel campo della ricerca psicologica relativa a contesti diagnostico-terapeutici: essa si è rivolta sin dall’inizio all’intento di scoprire le emozioni “non palesi” dei pazienti in psicoterapia, quindi i loro eventuali “meccanismi di difesa”, e di conseguenza è stata applicata anche allo scopo di gestire gli interventi del terapeuta e le sue stesse reazioni emotive al paziente, nonché d’investigare le modalità profonde della relazione psicoterapeutica presa in sé stessa.
Ciò è avvenuto principalmente in ragione del fatto che la nostra specie, in quanto l’unica dotata d’un linguaggio “parlato” altamente simbolico (e dunque capace di veicolare significati e contenuti informativi estremamente complessi), è anche l’unica che presenta, nella sua comunicazione, una vasta e clamorosa discrepanza, ovvero una particolarissima “dissociazione”.
In particolare, la comunicazione umana presenta da un lato degli aspetti di tipo “semantico” relativi, appunto, ai numerosissimi “significati” ed informazioni presenti nelle comunicazioni verbali umane: ora questi significati, di per sé, sono assai sovente astratti e relativamente “neutri”, in quanto riferibili alle caratteristiche del mondo fisico circostante (si pensi agli aspetti matematici), e sono anche concatenati fra loro in rigorose architetture formali di grande pregnanza gerarchica e di grande complessità (si vedano gli aspetti sintattici e logico-formali dei vari costrutti linguistici, in gran parte basati sui concetti di “soggetto”, “predicato” e “complemento oggetto” nonché su quelli di “attività/passività” e di “qualità/relazione”, e soprattutto sulle loro pressoché infinite possibilità di combinazione).
Dall’altro lato, la comunicazione umana presenta degli aspetti di tipo “pragmatico”, cioè relativi all’uso pratico ed immediato che della comunicazione stessa viene fatto nell’ambito della più elementare relazione interindividuale e collettiva (in particolare, in relazione alle sue finalità d’influenzamento, d’intimidazione, di amicizia, di ostilità, di pacificazione, di profferta di alleanza, ecc.), ovvero nell’ambito d’un tipo di comunicazione che in genere, dal punto di vista strutturale, è assai più semplice della prima e si avvale di elementi comunicativi non strettamente e non necessariamente verbali o formalmente codificati in strutture complesse, ma che pure comunicano qualcosa di assai preciso: il tono della voce, l’espressione del viso, la postura corporea, la gestualità, e quant’altro.
Ora, il punto è che questi ultimi elementi (quelli “pragmatici”) sono assai spesso in contrapposizione anche diametrale con i primi (quelli “semantici”), o quanto meno si pongono su piani assai diversi rispetto ad essi, il che genera puntualmente, riguardo all’essere umano, l’impressione d’una singolare “ambiguità” espressiva.
Perciò, nel suo volere andare “al di là delle apparenze” ed investigare più in profondità la relazione medico-paziente, lo studio del “comportamento non verbale” dell’uomo, nato come si è detto in ambito psicoterapeutico, sembra avere ubbidito a queste caratteristiche assolutamente peculiari e “dissociate” della natura umana, ed avere voluto decifrare ciò che fra gli uomini, “al di là delle parole” e dei loro significati, transita di amichevole oppure di ostile, di fiducioso oppure di diffidente, di vitale oppure di mortifero, d’improntato alla sicurezza di sé e degli altri oppure alla paura, ecc.
Per tale insieme di ragioni, un tale studio sembra essere stato singolarmente simile, sin dai suoi esordi, alle cosiddette “terapie del profondo” di natura psico-dinamica, le quali su altri piani sono da esso quanto di più lontano si possa immaginare. In definitiva, quando si parla sul piano teorico della “comunicazione non verbale” fra gli esseri umani, un riferimento prioritario al campo delle psicoterapie (in primo luogo analitiche), più che legittimo, è d’obbligo.
Chiarisco subito che il nostro livello d’analisi,pur partendo dal “comportamento non verbale”, ossia dall’osservazione del “comportamento di superficie” ed in qualche modo “visibile” del paziente, ed in generale da ciò che potremmo chiamare la “semeiotica del comportamento umano” (nella fattispecie, la semeiotica del comportamento di coloro, terapeuta e paziente, che per definizione rappresentano i due soggetti d’ogni prassi psicoterapeutica), si concluderà con la formulazione di alcune ipotesi di carattere generale circa la natura del rapporto fra gli esseri umani, ed in particolare circa la relazione psicoterapeutica vista nei suoi aspetti più profondi e decisivi, ovvero in quei suoi risvolti “strategici” che per definizione non emergono dai livelli comunicativi più palesi, ma che alla fine fanno sì che essa sia veramente “terapeutica” oppure no.
Parlerò quindi, oltre che della “comunicazione non verbale”, anche dell’argomento, in sé ben più arduo, dello “scambio psichico”, a mio avviso di natura biologica e quasi “metabolica”, che fra terapeuta e paziente, così come fra tutti gli altri esseri umani, si svolge a livello inconscio: uno scambio il quale permea di sé quella sfera della relazione terapeutica che comunemente si denota, nel linguaggio psicoanalitico, con i concetti di “transfert” e di “contro-tranfert”. Un tale scambio, infatti, a mio avviso costituisce il meccanismo stesso d’ogni psicoterapia intesa, in senso letterale, come “pratica d’aiuto” condotta attraverso l’azione di una mente su un’altra mente.
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Facciamo per cominciare alcuni classici esempi di “semeiotica del comportamento non verbale” con particolare riferimento al loro possibile uso in terapia, a mo’ d’introduzione all’argomento ed al fine di capire almeno a grandi linee di cosa stiamo parlando.
Per farne uno che può colpire l’immaginario di ciascuno di noi, si è compreso abbastanza presto il motivo d’un frequente fenomeno transferale negativo, in sé enigmatico (per lo meno all’apparenza) ed assolutamente contro-intuitivo: esso concerne il fatto, ormai accertato, che il sorridere troppo frequentemente, da parte del terapeuta, durante una psicoterapia, anziché “mettere a proprio agio” il paziente e “rassicurarlo”, come di solito ci si aspetta che avvenga, può facilmente ostacolare l’instaurazione d’una buona relazione terapeutica con lui. Ora, è sin troppo facile, se solo si riflette un attimo sulle concrete condizioni dell’interazione psicoterapeutica, comprendere il motivo di questo fenomeno apparentemente paradossale: è evidente, infatti, come non sia il sorriso in sé, bensì una qualsivoglia posizione o atteggiamento “fisso” e stereotipato da parte del terapeuta, l’elemento il quale, nel suo denotare nel terapeuta medesimo una scarsa comprensione ed aderenza alla realtà psichica del proprio paziente (necessariamente cangiante di continuo!), o comunque una scarsa vicinanza ai suoi reali vissuti ed alla sua soggettività, insinua in quest’ultimo il dubbio, e progressivamente, la certezza, di non essere compreso. Ad esempio, il sorridere inizialmente ad un ansioso, ad un fobico o ad una persona per qualunque motivo spaventata, può risultare benefico poiché indica comunque l’intuizione d’un suo stato d’animo; tuttavia il farlo troppo spesso, o ancora più il farlo ad un depresso, può rivelare al contrario un’incolmabile distanza empatica e/o una fatale dissonanza emotiva con lui e con la sua sofferenza, così come il farlo ad uno schizofrenico paranoideo può generare in quest’ultimo il sospetto di essere deriso, ecc. Ed è anche facile intuire come un tale atteggiamento “emotivamente dissonante”, paradossalmente realizzantesi tramite un “sorriso” più o meno sterotipato, possa denotare una precisa “difesa” del terapeuta (fatta essenzialmente di negazione e di anestesia emotiva) dall’angoscia che un dato paziente gli trasmette: il sorridere troppo spesso ad un depresso, ad esempio, può denotare un tentativo di negare e/o di allontanarsi dalla sua sofferenza, mentre il sorridere troppo spesso ad un paranoico o ad un “antisociale” può significare negare la paura che si prova nei suoi confronti, ecc.
Altri esempi “classici” di “semeiotica del comportamento non verbale” sono i seguenti, e sono perfettamente noti ad ogni psicoterapeuta che abbia un minimo d’esperienza: il ruotare il busto in una posizione perpendicolare all’interlocutore, oppure l’incrociare le braccia di fronte a lui, denotano di solito una precisa “resistenza” nei confronti della sua persona e di tutto quanto nell’ambito della comunicazione in corso, proviene da essa; l’inarcare le sopracciglia nel porre una domanda denota in chi la pone supponenza e presunzione di conoscere già la risposta; il porre la punta dei piedi in direzione non dell’interlocutore ma della porta indica desiderio di andarsene il più presto possibile; lo schiarirsi la voce, il respirare rumorosamente, il sospirare, denotano spesso impazienza, o addirittura aggressività; il grattarsi la testa, lo sfregarsi il naso, il fare l’atto di cavarsi qualcosa dall’occhio o dall’orecchio, denotano la percezione di qualcosa di molto molesto presente nella comunicazione. Il mettersi in bocca un dito o la punta d’una penna, viceversa, denota un’accettazione più o meno piena, o quanto meno una curiosità ed “apertura”, nei confronti dell’interlocutore e dei contenuti della comunicazione medesima. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Alcuni comportamenti, poi, specie se psicotici, sono alquanto imprevedibili, e l’unica cosa da fare è usare al loro riguardo una generica “cautela”: personalmente, porto sempre ad esempio la disavventura nella quale incorsi molti anni fa, psichiatra di Manicomio alle prime armi, quando infransi la “tacita regola universale”, valida in qualsiasi tipo di relazione umana non ancora divenuta intima, del mantenimento d’una distanza corporea interpersonale minima e “di sicurezza” con il proprio interlocutore (circa un metro), e la infransi proprio con un paziente psicotico di tipo paranoideo: nella fattispecie, non solo mi avvicinai troppo, ma giunsi a toccarlo amichevolmente con una mano sulla spalla a scopo di rassicurazione; infatti si trattava d’uno schizofrenico apparentemente bonario e benevolo nei miei confronti, il cui pensiero sembrava perennemente vagare “altrove” rispetto alla relazione interpersonale, essendo all’apparenza incentrato principalmente sul sé ed in particolare su tematiche ipocondriache, seppure a carattere delirante; ebbene, ne ricevetti in cambio, all’improvviso e senza alcun segno premonitore, prima un calcio (che riuscii a schivare) e poi uno schiaffo (che presi in pieno).
Alcuni antropologi e studiosi della “comunicazione non verbale” (ad esempio, Edward T. Hall, 1963), sono in proposito molto minuziosi e portati alla classificazione formale: parlano anzitutto di “comunicazione oggettuale” (preferenze, più o meno rivelatrici della personalità d’un soggetto, per oggetti d’uso personale particolari e d’un certo tipo, quali il modello dell’auto, la marca dell’orologio, la tipologia dell’abitazione e degli oggetti di più abituale consumo), e la distinguono dalla “comunicazione non verbale propriamente detta” (modalità comunicativa ottenuta invece attraverso le espressioni più dirette e gestuali del proprio corpo). Poi, per quanto riguarda le forme di “comunicazione non verbale”, essi distinguono fra comunicazione non verbale “statica” (ad esempio il modo di vestirsi e/o di modellare il proprio corpo, ad esempio con i tatuaggi o andando in palestra) e “comunicazione non verbale dinamica” (il modo fisico di atteggiarsi tramite i gesti). Distinguono infine, nell’ambito della “comunicazione non verbale dinamica”, a) la comunicazione cosiddetta “prossemica” (riguardante la gestione degli spazi e delle distanze fisiche fra le persone, le quali in media si aggirano, appunto, attorno ad un metro, ma che a seconda delle circostanze possono allungarsi o accorciarsi fino ad azzerarsi); b) la comunicazione “cinesica” (l’insieme delle comunicazioni gestuali di tipo non verbale quali, come già accennato, il grattarsi il naso o gli occhi o la testa, l’incrociare le braccia davanti al busto, il mettersi di traverso rispetto all’interlocutore, ecc.); c) la comunicazione “para-linguistica” (gli aspetti non verbali delle comunicazioni verbali, quali il tono, il volume, la prosodia ed il ritmo della voce, ma anche i borborigmi intestinali involontari prodotti mentre si parla, il raschiarsi la gola, il calo “involontario” della voce, il sospirare e lo sbuffare mentre si parla); d) la comunicazione “digitale” (tutte le caratteristiche e soprattutto le variazioni che si registrano nel contatto corporeo intenzionale, quali il brusco ed inopinato toccamento, o al contrario l’improvviso sottrarsi ad un contatto fisico magari in precedenza abituale ed accettato); infine, e) la comunicazione “olfattiva” (l’emissione non consciamente intenzionale sia di odori provenienti dalle ghiandole apocrine che di ferormoni ad effetto sub-liminale, emissioni le quali nel loro complesso regolano una buona parte delle interazioni inconsce fra individui). Ora, è evidente, ad esempio, come la cinesica e la para-linguistica siano modalità comunicative solo “indirette”, in quanto concernono atteggiamenti che il soggetto si limita ad assumere più o meno consapevolmente e senza coinvolgere direttamente gli altri (quindi sono assimilabili a delle “comunicazioni pure”), mentre la digitale e l’olfattiva (ed in parte anche la prossemica) rappresentano delle modalità comunicative assai più “dirette”, poiché implicano una qualche forma di “scambio fisico” che in qualche modo “si impone” agli altri, può richiedere più o meno imperiosamente una loro reazione e comunque va ben oltre la semplice “comunicazione”. Ma come abbiamo già detto, non è scopo della nostra trattazione l’addentrarci in un’analisi sistematica di tutte queste forme di “comunicazione non verbale”, e basterà qui avervi fatto questo breve cenno.
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Facciamo, a questo punto, una breve ricognizione storico-critica circa il “linguaggio non verbale”: anzitutto occorre dire che gli studi scientifici sul “comportamento non verbale” nella pratica psicoterapeutica sono tutti relativamente recenti. La ricerca empirica sull’argomento è invece più antica: essa si è basata, per molti anni, soprattutto sui resoconti delle sedute di psicoterapia (i cosiddetti “self report”), reperibili già nelle opere di Sigmund Freud.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento però, a poco a poco, un nuovo approccio cominciò a farsi strada: esso fu aperto dal classico saggio “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., pubblicato per la prima volta in italiano, a Roma, da Astrolabio, nel 1971. L’assunto di base, anzi il vero e proprio “paradigma” del libro sopra citato era quello che comunque ci si ponga rispetto agli altri, di fatto, volenti o nolenti, in quanto esseri umani, anzi in quanto esseri viventi che per definizione inter-agiscono, “non possiamo non comunicare in qualche modo fra noi”, per cui le forme concrete di tale comunicazione, in sé essenzialmente “pragmatiche”, possono, anzi debbono, venir “studiate”. L’importanza d’un tale concetto, solo apparentemente banale e scontato, era che esso richiamava l’attenzione sul fatto che la relazione fra tutti gli esseri viventi senza eccezione alcuna (specie ove studiata all’interno di “gruppi”), appare svolgersi nell’ambito d’un “sistema” nel quale avviene comunque un qualche tipo di “scambio comunicativo” avente un valore pratico ed immediato.
Ora, questo “scambio” è universalmente “non verbale”, e se nel caso degli esseri umani esso è anche (ma non solamente!) “verbale”, appare comunque tale da presentare, al di sotto della superficie, numerose e preponderanti forme di comunicazione “alternative” a quella verbale, le quali spesso addirittura la contraddicono: forme che, ad esempio, pur salvaguardando la comunicazione del gruppo nel suo insieme, possono escluderne o sacrificarne alcuni membri, cosiddetti “designati”, i quali ne divengono ad un certo punto i “capri espiatori”. Insomma, questo “scambio comunicativo profondo” di carattere non verbale, per desiderato o non desiderato, sociale o predatorio, “tossico” o “nutritivo” che sia, appare venire assai prima ed andare ben oltre rispetto agli aspetti verbali che caratterizzano “in superficie” l’essere umano.
Gli aspetti “verbali” della comunicazione, poi, a differenza di quelli “non verbali”, ci appaiono sempre e comunque come “volontari” e “coscienti”, oltre che caratterizzati da un’apparentemente assoluta preponderanza della loro parte semantico-informativa e sintattico-grammaticale su quella “pragmatica”, ovvero d’influenzamento degli altri: in questa loro caratteristica (che per definizione ci sembra in qualche modo “impalpabile” e “dissociata” dalla biologia, in quanto tesa a dominare e manipolare i concetti ed i simboli anziché altri esseri viventi) essi ci appaiono quasi fatti apposta per padroneggiare gli aspetti pragmatici medesimi, ovvero per differire nel tempo la loro azione più o meno brutale di condizionamento sugli altri membri del gruppo e “contrattarla” con essi nei modi più sofisticati, più improntati alla reciprocità e più metaforici possibili, nonché talora per occultarla ai loro occhi sotto forme apparentemente opposte: si pensi, a quest’ultimo proposito ai numerosi termini, circonlocuzioni e concetti “piacevoli” usati per designare realtà sommamente “spiacevoli”, o più semplicemente, alla presentazione “ideologica”, retorica ed accattivante di realtà anche molto tragiche e letali, come avviene ad esempio in guerra con la retorica del “patriottismo”.
Per quanto riguarda invece la “comunicazione non verbale”, occorre osservare come essa, in linea generale, sia assai meno “menzognera” di quella verbale, e comunque più aderente ai fondamenti stessi della comunicazione (che sono di natura biologica): ad esempio, anche restando in silenzio, prima o poi si comunica comunque qualcosa ai nostri simili (anzi qualcosa, di solito, di assai importante!), e lo si fa anche con i propri atteggiamenti corporei, poiché essi molto spesso riaffermano gerarchie, rapporti di potere, reazioni emotive profonde, ecc.
In definitiva, si può affermare che tanto più si comunica in forma “veritiera” quanto più si mettono in atto quelle innumerevoli forme di “comunicazione non verbale”, proprie della nostra specie come delle altre, di cui siamo ormai bene a conoscenza ed alle quali abbiamo fatto sopra cenno.
Ancora, con il tempo si è capito che tutte queste forme di “meta-comunicazione”, le quali vanno largamente al di là degli aspetti verbali e vengono mediate sia dalla gestualità corporea che dal silenzio, nonché da alcuni aspetti inconsci, ideologici e/o “sotterranei” della comunicazione verbale stessa, possono essere studiate più agevolmente, rispetto all’ambito della comunicazione duale, in sistemi strutturati collettivi quali il gruppo o la famiglia: in questi ultimi infatti, da un lato i livelli individuali di auto-controllo, proprio perché “diluiti” nel gruppo, fatalmente si allentano; dall’altro, la posizione del terapeuta, in quanto divenuto a sua volta più “esterno” alla “relazione duale”, quindi anche meno “immerso nella relazione terapeutica”, e di conseguenza molto più libero dai suoi condizionamenti (per certi versi più cogenti), diviene sempre di più quella d’un “osservatore del comportamento”. Da ciò l’affermarsi progressivo, per un verso, delle “terapie di gruppo”, per un altro di quella cosiddetta “terapia relazionale-sistemica” altrimenti nota come “terapia familiare”, e soprattutto il crescere della loro importanza in quanto “luoghi privilegiati” e relativamente più “neutrali” per un’osservazione del comportamento non verbale e delle suddette “meta-comunicazioni” nell’ambito delle relazioni umane.
L’altro autore della vera e propria “svolta” che avvenne nell’ambito dello studio della “comunicazione non verbale”, negli anni Sessanta del Novecento, fu Albert Mehrabian. In quegli anni, dunque, questo psicologo statunitense condusse pionieristiche ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione umana nel far recepire all’interlocutore un determinato messaggio. Il risultato, il quale all’epoca apparve rivoluzionario, fu che la frazione “non verbale” della comunicazione umana (in particolare quella legata al corpo ed alla mimica facciale) risultò avere un’influenza del 55% sul totale, mentre la comunicazione paraverbale e/o paralinguistica (tono, volume, ritmo della voce, ecc.) la aveva del 38%, ed il contenuto verbale di tipo propriamente semantico, ossia legato al significato letterale del messaggio ed al suo contenuto informativo più astratto, solo del 7%. Da questi dati, come si vede, risultava che anche sommando insieme gli aspetti della comunicazione direttamente ed indirettamente legati al linguaggio parlato (aspetti verbali più aspetti para-verbali), essi influivano nel loro insieme sul comportamento umano per non più del 45% del totale, mentre gli aspetti “non verbali” risultavano ancora maggioritari, in quanto influivano sul restante 55%.
Ma v’era di più: proprio come gli studi di natura “relazionale” sopra citati, anche quelli di Mehrabian confermavano come la trasmissione dei contenuti semantici delle informazioni verbali (i quali rappresentano la caratteristica comunicativa precipua e più “vistosa” del linguaggio simbolico umano, quella cui siamo soliti dare la maggiore importanza), rappresentasse nella nostra specie solo una parte minima, ovvero la “punta emersa”, d’un enorme “iceberg comunicativo” la cui parte preponderante (del tutto sommersa rispetto alla nostra “percezione cosciente”) era di natura non verbale, in perfetta analogia con quanto avviene negli animali. Questi studi, peraltro condotti con sufficiente rigore metodologico ed equilibrio, furono però “forzati” e travisati da buona parte delle cosiddette “scuole di Programmazione Neuro-Linguistica” (PNL) nate sulla loro scia: esse, proprio sulla base di tali risultati, presero in molti casi a sostenere, semplicisticamente, che ciò che contava in ogni tipo di comunicazione, assai più che il suo contenuto o la sua stessa finalità effettiva, era il modo in cui la comunicazione medesima veniva “offerta”, quindi in definitiva il suo potere suggestivo (anche a fini commerciali). Da ciò derivò il proliferare d’ogni genere di “urlatori della comunicazione”, di “esperti della comunicazione sub-liminale” nonché di scuole di psicoterapia essenzialmente “suggestive” (ad esempio quelle basate sull’abuso più sfacciato del sorriso, quali certe forme estreme di “Patch-Therapy”, oppure sette mistiche e finalizzate al plagio quali “Scienthology”): scuole che a tutt’oggi imperversano ovunque, malgrado sempre più siano smentite, nella loro efficacia e veridicità, dagli studi più seri esistenti in proposito di “comunicazione non verbale”. E’ infatti ovvio che ciò che alla fine conta davvero, in una comunicazione interpersonale la quale può essere “tossica” o “ al contrario “benefica” per chi la intrattiene, al di là della sua forma più o meno accattivante, è proprio il suo contenuto, in sé biologicamente tutt’altro che “indifferente”: in ragione di ciò, la forma con cui tale contenuto viene “offerto” non può affatto essere considerata in maniera astratta e separata rispetto a quest’ultimo, specie in psicoterapia. In altre parole, l’indubbia dissociazione, esistente nella specie umana, delle forme comunicative verbali da quelle non verbali ed anche l’altrettanto indubbia preponderanza quantitativa delle seconde sulle prime, non possono assolutamente essere confuse con una presunta dissociazione delle forme comunicative prese in sé stesse, e nel loro insieme, dai contenuti biologici da esse veicolati, e neppure con l’onnipotenza d’una non meglio precisata “suggestione”: è infatti una considerazione di puro buon senso il ricordare come le forme comunicative prevalentemente “paradossali”, ovvero fortemente discordanti dai loro contenuti biologici (quali quelle, d’impronta nettamente “patologica” e disfunzionale, dette “doppio messaggio”, indagate ad esempio nella “Pragmatica della comunicazione umana” a proposito delle famiglie degli psicotici, oppure quelle proprie delle sette dedite al plagio), sono alla lunga “patogene”, quindi controproducenti, per qualunque specie, in particolare ai fini della sua vita associata, ed in definitiva incompatibili con la sua stessa sopravvivenza; perciò è ovvio che una tale incompatibilità debba emergere, prima o poi, anche e soprattutto nell’ambito d’una attività che si presume “curativa” quale una psico-terapia.
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Ma vediamo un po’ meglio, adesso, in quali direzioni le ricerche più serie sulla “comunicazione non verbale” si sono nel frattempo sviluppate, nel mentre che questi orientamenti più o meno “ciarlataneschi” dilagavano: ora, occorre dire che in gran parte degli studi della fine degli anni 60 del Novecento, si era indagato prevalentemente sugli aspetti comunicativi legati all’insieme del corpo umano, tralasciando singolarmente il volto. Un orientamento completamente diverso lo si dovette, per la prima volta, a Silvan Tomkins, uno psicologo di Philadelphia il quale indagava le emozioni umane da un punto di vista “innatistico”. I suoi studi, che risalgono al 1965, furono così dirompenti da indurre un altro studioso, Paul Ekman, suo collega di Washington, ad estendere anche lui lo studio del comportamento non verbale (sempre partendo dagli stessi presupposti “innatistici”) proprio alla mimica del volto.
Ekman aveva all’epoca iniziato, per conto della A.R.P.A. (Advanced Research Project Agency), una ricerca sulla “comunicazione non verbale del viso”, anche se in precedenza si era occupato soprattutto di pazienti psichiatrici. Egli per la verità fino ad allora, quanto a quadro teorico di riferimento, si era ispirato in prevalenza a studiosi di approccio “culturalista” quali l’antropologa Margareth Mead o lo studioso della comunicazione Gregory Bateson (appartenente a quella stessa “Scuola di Palo Alto”, o “scuola relazionale-sistemica”, di cui facevano parte anche gli autori della “Pragmatica della comunicazione”): questi autori sostenevano che sia il “linguaggio parlato” sia il “linguaggio non verbale”, in particolare quello del viso, erano costituiti da elementi “appresi” nel corso dello sviluppo, tutti quanti identificabili nella loro origine e sviluppo, tramite un approccio antropologico di tipo appunto “culturalista”, nell’ambito dell’ambiente circostante, quindi della famiglia, dell’educazione ricevuta e della cultura d’appartenenza di ciascun soggetto. Silvan Tomkins, invece, riprendendo i classici concetti già espressi a suo tempo, fin dal secolo XIX, da Charles Darwin (il quale riteneva che le espressioni facciali legate alle emozioni fossero innate e universali in tutto il regno animale ed anche nell’uomo), aveva per primo, almeno per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”, sostenuto il contrario.
Del resto, anche il grande linguista d’approccio “strutturalista” Noam Chomski, da tempo, per quanto riguarda lo stesso “linguaggio verbale”, andava sostenendo tesi analoghe, ovvero l’esatto contrario di quanto affermato anche a tale proposito dall’approccio “culturalista”: egli affermava infatti, sia contro le concezioni ambientalistiche e culturaliste del linguaggio, sia contro il “gradualismo adattivo” proprio d’un certo “darwinismo ortodosso” (quello, per intendersi, di Richard Dawkins, Steven Pinker e Daniel Dennett), che il linguaggio parlato è una proprietà della mente umana “emersa” all’improvviso, quale “struttura formale innata” del cervello, e non già il risultato d’una lenta evoluzione ed interazione della specie con l’ambiente, tanto meno faticosamente raggiunto tramite l’esperienza individuale /o di gruppo, ovvero con modalità lamarckiane e “per tentativi ed errori”. Una tale concezione strutturalistico-formale, peraltro, è stata recentemente sostenuta, anche sul piano dell’evoluzione più generale di tutti gli esseri viventi, dagli studiosi della recente corrente di pensiero evoluzionistico detta “Evo-Devo”, l’acronimo di “Evolution-Development” (Evoluzione-Sviluppo), della quale un importante esponente italiano è lo studioso di biologia del linguaggio Massimo Piattelli-Palmarini. Ora, secondo l’ipotesi “Evo-Devo”, nel mutare delle specie e nel loro acquisire nuovi e complessi tratti, non tutto si ridurrebbe ad “evoluzione per selezione ambientale”, come vogliono gli evoluzionisti cosiddetti “adattamentisti”, “gradualisti” e “darwiniani ortodossi”, poiché una parte cospicua di tali tratti deriverebbe o da fattori puramente casuali ed improvvisamente “emergenti” senza un motivo preciso, dalla struttura precedente (è il caso del numero sempre dispari delle paia di zampe delle oltre tremila specie di chilopodi impropriamente detti “centopiedi”); oppure deriverebbe da fattori che sono gli unici a permettere lo “sviluppo strutturale intrinseco” d’una determinata forma vivente, ovvero i soli a presentare una loro “intrinseca compatibilità formale” con la struttura biologica complessiva all’interno della quale si trovano inseriti. In base a ciò, essendo le caratteristiche “formali” di alcuni tratti le uniche ad essere “intrinsecamente possibili” all’interno d’un determinato quadro di riferimento “strutturale” che sia valido per quei tratti, esse sarebbero anche le sole a far sì che una tale struttura vivente, concretamente, “si regga in piedi” e risulti fisicamente possibile (e ciò a prescindere da ogni eventuale “pressione selettiva ambientale”). Ebbene, il linguaggio, con la sua complessità e con la sua dipendenza stretta, nella sua componente verbale, da certe strutture anatomiche (ad esempio, la particolare conformazione del laringe e del faringe), farebbe parte appunto di questa categoria di tratti “strutturalmente obbligati ad assumere una data forma”, delineata da “Evo-Devo”: tratti in parte “emersi” per puro caso, in parte strutturatisi in forme altamente differenziate nonché “obbligate” dalla loro stessa conformazione intrinseca, ed in ogni caso in larga misura “innate” ed indipendenti dall’ambiente.
Le ricerche che seguirono quelle di Thomkins videro dunque Ekman ed altri psicologi e ricercatori suoi contemporanei sostenere (sulla scia per un verso del Darwin “innatista” che si contrapponeva a Lamarck, e per un altro del Chomski “strutturalista” che si contrapponeva ai linguisti d’orientamento “culturalistico-ambientalista”) che anche il “comportamento non verbale” era un comportamento formale altamente “strutturale” e connaturato alla specie. Essi in tal modo stabilirono la natura innata, accanto alle forme espressive verbali (quelle studiate appunto da Chomski), delle stesse espressioni facciali, a loro volta fortemente condizionate in senso “strutturale” dalla conformazione del cranio facciale umano e della muscolatura del viso. Il viso, dunque, in questa prospettiva cominciò ad essere considerato la parte del corpo più in grado di fornire informazioni attendibili e veritiere nell’ambito della “comunicazione non verbale”. Paul Ekman e Wallace Friesen elaborarono di conseguenza un sistema di codificazione delle espressioni facciali il quale consentiva di classificarle ed identificarle in modo analitico e sistematico a prescindere dalle variabili ambientali e/o culturali, ovvero il F.A.C.S. (“Facial Action Coding System”).
Oggi, ormai, lo studio scientifico del “comportamento non verbale” viene posto in una posizione assolutamente centrale nella ricerca sulle interazioni che hanno luogo nell’ambito della “diade” madre-bambino e, in generale, nell’ambito di tutte quelle relazioni umane in cui i soggetti interessati non sono in grado di verbalizzare adeguatamente le proprie emozioni (ad. nell’autismo, nel ritardo mentale, nel sordo-mutismo, ecc.). Inoltre, il F.A.C.S. e la comunicazione non verbale in genere, vengono usati in studi quali quelli sulle espressioni facciali alterate e/o carenti proprie di alcuni forme psicopatologiche (ad esempio, quelle dei pazienti schizofrenici, bipolari e depressi), o nell’analisi del pianto neonatale (“Neo-natal Action Facial Coding System”, o NFACS), oppure nella dinamica interattiva che ha luogo nell’ambito delle sedute di psicoterapia individuali e di gruppo.
In quest’ultimo settore di ricerca, ci sono lavori che hanno analizzato le dinamiche della “diade” paziente-terapeuta (una “diade” perfettamente parallela ed analoga a quella madre-bambino) in una maniera per quanto possibile “oggettiva”, quindi andando ben oltre l’ultra-soggettivo “self-report” d’epoca freudiana. Autori come Jorg Merten e coll. (1996 e 2005), ad esempio, hanno utilizzato il F.A.C.S. comparando le sedute di terapie nelle quali la relazione terapeutica era efficace con altre in cui invece falliva, ed hanno scoperto che il “punto critico” non era la “scuola di pensiero” cui apparteneva il terapeuta, bensì un dato puramente tecnico, contingente ed in sé banale, consistente nella mancata rilevazione, da parte di quest’ultimo, di alcune espressioni facciali del paziente, quindi il mancato adeguamento del terapeuta stesso a ciò che tali espressioni potevano significare. Altri studi hanno mostrato come un terapeuta il quale, al contrario, sia sufficientemente avveduto di questi fenomeni, possa manovrare la propria componente verbale e quella non verbale, in terapia, non solo in linea generale ma anche nell’ambito d’una leggera situazione di conflitto con il paziente, cosa che concorre fra l’altro a spingere quest’ultimo al cambiamento pur preservando la relazione terapeutica con lui.
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In questa sommaria revisione storico-critica del significato della “comunicazione non verbale”, sia nelle psicoterapie che in generale, abbiamo dunque acquisito un concetto: spesso la suddetta comunicazione appare essere, oltre che quantitativamente preponderante, assai più “veritiera”, rispetto alla “comunicazione verbale”, in quanto più aderente a ciò che potremmo definire lo “scambio biologico di base”, in gran parte a carattere innato, che avviene fra esseri umani nell’ambito della loro interazione comunicativa.
Stabilito questo punto, veniamo ora alla parte più centrale del nostro discorso: essa, come già accennato, verte proprio su ciò che si suppone avvenga in profondità nella relazione terapeutica medesima, ossia su ciò che transiterebbe in profondità tra terapeuta e paziente al di là delle espressioni comunicative più palesi (in particolare di quelle verbali, ma non solo), ed esplicherebbe presumibilmente un’azione “curativa”. Ora, l’ipotesi che facciamo in proposito, lo anticipiamo sin da adesso, è quella, del tutto conforme ai postulati “strutturalisti” ed innatistici di Chomski (per quanto riguarda il “linguaggio verbale”) e di Ekman (per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”), che anche lo scambio comunicativo profondo ed “inconscio” che intercorre tra paziente e psico-terapeuta ubbidisca, assai più che ad elementi culturali “appresi” e/o di superficie, a delle leggi biologiche a carattere permanente, per lo più innate ed indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di volta in volta conseguite dalla nostra specie.
Com’è noto, un’esplorazione pionieristica rivolta non tanto alla “comunicazione non verbale” presa in sé stessa, quanto a quella vita psichica che potremmo definire “collaterale” o sotterranea rispetto alla coscienza, ovvero ai pensieri latenti, nonché alla vita emotiva che, su una precisa base biologica, sta in qualche modo “al di sotto” delle parole, fu quella dell’Inconscio. Quest’esplorazione, nata in realtà assai prima (si veda l’ormai classico saggio “La scoperta dell’inconscio” di Henri F. Ellenberger), ebbe però il suo sviluppo più significativo in Psicologia, com’è noto, con la grandiosa rivoluzione psico-analitica operata da Sigmund Freud oltre cento anni fa. Questa “rivoluzione” nacque sulla base d’una considerazione attenta dell’antropologia e delle scoperte dell’evoluzionismo. Occorre però dire, per amore di precisione, che lo studioso di storia della scienza Frank Sulloway, nel suo saggio “Freud biologo della psiche”, ha sostenuto che il fondatore della Psicoanalisi, assai più che a Charles Darwin, si sarebbe ispirato alle teorie di Ernst Haekel ed al suo cosiddetto “monismo”, ed in particolare al famoso motto di quest’autore “L’Ontogenesi ricapitola la Filogenesi”; quindi, per il tramite d’una tale teoria, in specie nella sua idea del succedersi nello sviluppo psichico delle fasi orale, anale, uretrale e fallica, Freud, per Sulloway, si sarebbe rifatto ad una visione dell’evoluzione che nel complesso era assai più lamarckiana ed “ambientalista” (ossia improntata all’idea di un’incorporazione sistematica ed in qualche modo “finalizzata”, nell’organismo individuale, delle esperienze derivanti dalle sollecitazioni ambientali), che non darwiniana (ovvero volta a quella d’una selezione ambientale delle variazioni che di volta in volta, per puro caso, si producevano fra le specie). Qui ovviamente non è possibile andare oltre un rapido cenno a quest’argomento, straordinariamente vasto, complesso e tale fra l’altro da coincidere solo in parte con il tema che ci siamo dati. Poiché però esso, almeno in alcuni suoi aspetti, investe in pieno quel “rapporto profondo” fra terapeuta e paziente il quale permea di sé, assai più che quella verbale, la “comunicazione non verbale” (e che è pertanto oggetto precipuo del presente discorso), occorrerà pur farvi un cenno. Basterà ricordare brevemente, al riguardo, tre punti:
1) l’esplorazione freudiana dell’inconscio, avviata proprio tramite l’analisi di elementi psichici e/o comportamentali non strettamente verbali quali i sogni o i lapsus, partiva essenzialmente da un’idea: quella che le “forze ancestrali” della biologia (per Freud, essenzialmente quelle aggressive e sessuali), “forze” le quali sarebbero presenti, nella psiche di ciascun essere umano, allo stato inconscio in quanto “represso” dalle proibizioni genitoriali e/o sociali (o più genericamente, dalla “cultura”), condizionassero in senso profondo il comportamento palese degli individui, lo deformassero e lo rendessero, in taluni casi, “patologico”, cioè più o meno discostante sia dalla norma sociale che dalle aspettative dell’individuo stesso. Una tale idea freudiana, dunque, era per definizione “dinamica”, poiché implicava l’ipotesi che tali “istanze psichiche inconsce” (i cosiddetti “derivati dell’inconscio”, un’entità quest’ultima che per definizione non era direttamente conoscibile) fossero comunque di derivazione biologica, e proprio in quanto tali (quindi collocate ben oltre la pura e semplice dimensione “cognitiva”) conservassero una loro incoercibile “forza” a livello mentale, e dovessero di conseguenza trovare comunque un qualche “sfogo”: ciò dapprima nell’ambito intrapsichico, poi nel comportamento esterno. Quest’idea grosso modo “idraulica” della struttura della mente umana condusse a poco a poco il suo autore ad una seconda idea, perfettamente consequenziale alla prima: quella che la “presa di coscienza” dei contenuti inconsci corrispondenti a tali “forze”, ovvero il loro “prender forma” sotto la specie di idee coscienti, ed il loro conseguente “sfogo ideativo” (uno “sfogo” fino ad allora negato dalla censura operata dalla coscienza, nonché dalla repressione istintuale operata dall’Io), fosse di per sé terapeutica: ciò essenzialmente in quanto una tale “presa di coscienza” sarebbe stata in grado di “dirigerle altrove”, aggirando così le barriere della censura ed operando una sorta di “decongestionamento dell’inconscio”. Di più, la “presa di coscienza”, con l’aiuto del terapeuta, avrebbe consentito di “sublimare” tali forze “dinamiche” di derivazione biologico-istintuale, ovvero di trasformarle, rendendole in qualche modo “immateriali” (si veda il significato letterale del termine “sublimazione”) ed indirizzandole a finalità più costruttive e conformi alle aspettative sociali. Ora, nella “vulgata corrente”, specie dei “non addetti ai lavori”, quest’idea di “normalizzazione” del comportamento patologico del paziente tramite la “presa di coscienza”, poi largamente smentita dai fatti, accanto a quella circa la presunta “onnipotenza della sessualità” nelle dinamiche psichiche profonde, è tuttora rimasta come l’emblema stesso della Psicoanalisi. Ma al di là di ciò, il concetto “dinamico” di “presa di coscienza terapeutica”, anche dopo l’affermarsi della cosiddetta “seconda topica” freudiana (quella che alla triade “conscio-inconscio-preconscio” sostituiva l’altra, di carattere più “strutturale”, “Io-Es-Super Io”, e concentrava in gran parte, in quella struttura psichica che era chiamata Es, i contenuti “repressi” e le stesse “forze dinamiche” dell’inconscio, facendoli così divenire ancor più chiaramente delle forze biologiche “compresse” dall’Io e bisognose di “sfogo”), permase effettivamente inalterato, ed anzi diede luogo a quel famoso e super-ottimistico programma terapeutico freudiano, relativo alla “bonifica dell’inconscio”, che suonava più o meno così: per mezzo della terapia psicoanalitica “Là dov’era l’Es (luogo principale delle “pulsioni aggressive e non immediatamente socializzabili risiedenti nell’Inconscio”) sarà l’Io” (struttura che per Freud era per l’organo eccellenza del “rapporto con la realtà”);
2) l’evoluzione successiva della Psicoanalisi freudiana portò tuttavia ad uno sviluppo assai diverso; essa condusse gli psicoanalisti ad incentrare sempre più l’attenzione, in alternativa alla pura e semplice “presa di coscienza”, su un “luogo particolare” che poi era il solo nel quale, come si vide ben presto, una tale “presa di coscienza” nonché “bonifica dell’inconscio” potevano dare un qualche frutto terapeutico: quello della cosiddetta “relazione transferale-controtransferale” che si instaurava fra paziente e terapeuta. Una tale relazione, in un’ottica psicanalitica tradizionale, non era altro che l’insieme delle proiezioni reciproche del paziente sul terapeuta e di quest’ultimo sul paziente, effettuate sulla base delle loro reciproche modalità di “relazione oggettuale” e poi accompagnate dalla loro analisi; quest’ultima poi era effettuata essenzialmente dal terapeuta e/o dal supervisore di quest’ultimo. Ora, questa vera e propria “scoperta clinica”, frutto più che di speculazioni teoriche d’una pluri-decennale esperienza pratica, era d’indubbio valore, poiché concerneva il dato di fatto, fino allora largamente misconosciuto e/o trascurato, che una qualsivoglia psicoterapia del “profondo” non poteva essere solo “cognitiva” e limitata al paziente (come i primi analisti erano inclini a credere), ma doveva necessariamente investire, per l’appunto, il rapporto terapeuta-paziente nei suoi aspetti “inconsci”, “biologici” e “dinamici”, ed insomma in qualcosa che andava, per definizione, ben al di là dei contenuti “verbali” emergenti in terapia. Il limite di questa scoperta, però, fu rappresentato dal fatto che il rapporto terapeuta-paziente veniva visto come un gioco di reciproche proiezioni di immagini infantili e/o ancestrali, a loro volta formatesi tramite lo sviluppo psichico, l’apprendimento e l’interazione ugualmente “oggettuale” fra genitori e figli: insomma, anche il rapporto terapeuta-paziente veniva visto, esattamente come la “presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci” risalenti al passato, come un fatto in prevalenza “cognitivo” (si veda in proposito la “teoria delle relazioni oggettuali” inaugurata da Melanie Klein e poi sviluppata da autori come Margareth Mahler, Donald Winnicott, William Fairbairn, Otto Kernberg), mentre gli aspetti più propriamente biologici e “dinamici” di detto scambio restavano ancora una volta in ombra. Comunque sia, in base a questo radicale mutamento di prospettiva le terapie psicoanalitiche si allungarono di molto (dai pochi mesi iniziali a molti anni), e presero ad assomigliare sempre più ad un “addestramento etico” e quasi para-religioso ottenuto proprio tramite il rapporto con il terapeuta: un autentico “percorso di maturazione a due”, volto principalmente a fronteggiare le pulsioni distruttive; si veda, in proposito, la sempre maggiore importanza via via acquistata, in Psicoanalisi, dal concetto freudiano di “Istinto di morte” o “coazione a ripetere”, inteso quale segno di “resistenza al cambiamento”, “scelta colpevole della soluzione più semplice” (o meglio, affine alla “semplicità dell’inorganico”) e “rifiuto della complessità del reale”, da cui deriverebbe la “difficoltà nel guarire”. Il ritmo delle sedute, dunque, crebbe parallelamente a tale evoluzione, giungendo fino a quattro alla settimana, mentre l’”analisi del tranfert” divenne, com’è ovvio, assolutamente centrale non solo per la terapia, ma per la vita stessa del paziente: quest’ultima infatti, a poco a poco, essendo sempre più intesa come un “ri-percorrimento” (ovviamente guidato dall’analista) del proprio tragitto di maturazione infantile, doveva di necessità essere “rivissuta in analisi” nonché “risolta”, nei suoi snodi essenziali, nell’ambito della relazione, spesso conflittuale, con il proprio terapeuta. Su quest’ultimo infatti, come già accennato, il paziente “proiettava” i propri arcaici fantasmi ed i vissuti infantili verso le proprie figure genitoriali (la parola “transfert”, letteralmente, significa proprio “proiezione”), ed il terapeuta doveva fornire adeguate “interpretazioni” di tali proiezioni e convincerne il paziente. Le “resistenze” del paziente a fare tutto ciò, venivano infine liquidate semplicemente con la considerazione che in questo caso prevaleva, in lui, assieme ad un’insolitamente pervicace “fissazione” agli stadi più precoci e pre-genitali dello sviluppo psichico, l’“istinto”, ovvero la “pulsione”, di “morte”. All’inverso, nei casi più favorevoli si supponeva che i “nodi irrisolti” dello sviluppo infantile e del rapporto con i genitori (donde erano derivate le sue famose “fissazioni orali, anali e falliche”, già postulate da Freud), fino ad allora rimasti inconsci ma tali da condizionare in senso patologico sia il comportamento cosciente che la situazione inconscia del paziente, si fossero andati a poco a poco “sciogliendo” grazie all’azione congiunta della “presa di coscienza” e dell’”analisi del transfert”, rendendo possibile quella radicale trasformazione della personalità che era il presupposto della “guarigione”. Non tutto, naturalmente, era così semplice: già lo stesso Freud, per la verità, iniziò sul finire della sua vita a nutrire seri dubbi su questo “ottimismo teorico” coniugato ad una sorta di “massimalismo terapeutico”, ed in “Analisi terminabile ed interminabile” (1937), pose il problema dei limiti intrinseci dell’azione analitica e della frequente necessità di porvi fine pur senza aver raggiunto i risultati per essa “strategici” (il mutamento strutturale della personalità), mentre già nel 1925 aveva ipotizzato che l’importanza della Psicoanalisi sul piano culturale e scientifico oltrepassasse di gran lunga quella terapeutica.
3) E’ in conclusione evidente che un “campo terapeutico” quale quello psicoanalitico, proprio in quanto così ambiziosamente concepito, conteneva un numero di variabili, sia soggettive che oggettive, talmente elevato (il paziente, il terapeuta, i loro rispettivi passati e personalità, la loro interazione umana profonda e la loro relazione terapeutica, il loro rispettivo percorso di maturazione “cognitiva” ed “oggettuale”, il loro giudizio non necessariamente coincidente sull’andamento della terapia, ecc.) da rendere difficilissima una “verifica oggettiva” dei reali progressi terapeutici, ed anche una “falsificazione popperiana”, sul piano scientifico, circa la veridicità degli assunti teorici della Psicoanalisi (cosa ampiamente notata, peraltro, da illustri filosofi della scienza quali appunto Karl Popper, o Adolf Grunbaum). Ancora, questo limite era aggravato dal fatto che l’obiettivo della terapia, con una siffatta ultra-complessa metodica, si spostava necessariamente dai sintomi più o meno specifici d’un determinato disturbo ad una generica, assai più insondabile e scarsamente definibile “maturazione della personalità”, della quale era davvero arduo fornire “evidenze” sia “in positivo” che “a contrario”: se ad esempio si riteneva che un paziente in qualche modo “progredisse”, si supponeva che ciò avvenisse in quanto l’analisi del tranfert gli aveva fatto correttamente rivivere degli “snodi” infantili essenziali, sui quali però non era ovviamente possibile alcuna verifica (tanto meno extra-analitica); se invece “non progrediva”, veniva invocato come causa di ciò, come già accennato, il prevalere in lui dell’“l’istinto di morte”, ovvero d’un qualcosa che corrispondeva ad un concetto ancora meno soggetto a verifiche (o per lo meno, a verifiche scientifiche). Ebbene, a queste aporie di base del pensiero psicoanalitico di derivazione freudiana, derivanti dalla complessità e non verificabilità dell’oggetto della “terapia” analitica, non sembrano certo aver posto rimedio quegli autori più recenti ed alla moda i quali alla Psicoanalisi aderiscono o s’ispirano proprio in chiave “relazionale” (ossia in un’ottica che è la più complessa e la meno verificabile possibile), vuoi dal punto di vista dello studio delle funzioni mentali, vuoi da quello della “teoria dell’attaccamento”: Stephen Mitchell (Psicoanalisi relazionale), Peter Fonagy (“Teoria della mentalizzazione”), Philip Bromberg (Psicoanalisi relazionale), David Wallin (Psicoanalisi relazionale), Allan Shore (“Teoria dell’attaccamento”), o l’ormai classico Wilfred Bion (“Teoria delle funzioni”). Questi autori, infatti, per l’appunto in quanto fatalmente portati ad enfatizzare il ruolo attribuibile, nella terapia e nello stesso sviluppo psichico infantile del paziente, alla “relazione”, non hanno potuto far altro che rendere ancora più evidenti queste difficoltà.
Ora, proprio su una tale colossale “falla d’origine”, anche metodologica, della Psicoanalisi, ovvero di quella che potremmo definire la prima psicoterapia sistematicamente incentrata su elementi psichici “profondi” e soprattutto inerenti la ultra-complessa relazione fra gli uomini, quindi per definizione non immediatamente visibili (e spesso, “non verbali”), si è successivamente innestata, come vedremo, la proposta proveniente da un approccio psicoterapeutico completamente alternativo.
I possibili meccanismi d’azione delle psicoterapie sono stati rivisitati in una prospettiva radicalmente nuova, in particolare, ad opera dell’approccio cognititivo-comportamentale, un orientamento nato negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck. Quest’orientamento s’imperniava su una radicale rivalutazione del ruolo esercitato, sia nella patogenesi dei disturbi mentali che nella loro terapia, proprio dai pensieri consci: in particolare, Beck si accorse che esisteva un nesso preciso fra alcuni dei pensieri consci che attraversavano la mente dei pazienti e le loro sofferenze, e si rese conto che, entro certi limiti, si potevano correggere le seconde influenzando i primi. In base a ciò, questo metodo s’imperniava su una riflessione del paziente, effettuata sotto la guida del terapeuta, sulle proprie emozioni e pensieri coscienti, nonché su un vero e proprio, sistematico “addestramento” per superarli e/o per prescinderne: insomma, esso rappresentava un metodo specularmente opposto a quello psicoanalitico, il quale era invece imperniato, come abbiamo visto, sull’esplorazione (“libera” e fondata sulle associazioni mentali del paziente, sui suoi lapsus ed i suoi sogni) di pensieri ed emozioni inconsce del paziente, esplorazione effettuata essenzialmente dal terapeuta in prima persona tramite l’interpretazione. Perciò il nome che Beck diede alla sua metodica fu quello di “Psicoterapia Cognitiva”. Oggi s’intende il modello terapeutico originario di Beck come “Terapia Cognitiva Standard”, in quanto la sua successiva denominazione di “Terapia Cognitivo-Comportamentale” fa riferimento all’innesto, sul suddetto “modello standard” di tipo cognitivo, di tecniche di derivazione behaviorista, ovvero appartenenti all’indirizzo comportamentista inaugurato da John Watson già agli inizi del Novecento (tecniche in gran parte basate sul cosiddetto “condizionamento operante” di Burnus Skinner). La terapia cognitivo-comportamentale fa poi riferimento anche all’acquisizione, da parte della Psicoanalisi, delle più recenti scoperte sulla psico-biologia dello sviluppo animale ed umano, e di quelle inerenti le cosiddette “tematiche di dipendenza”, quali ad esempio quelle sistematicamente esplorate nella ponderosa opera in tre volumi dello psicoanalista freudiano inglese “dissidente” John Bowlby, intitolata “Attaccamento e Perdita” e scritta fra il 1969 ed il 1980. Occorre anche sottolineare, a proposito di quest’approccio psicoterapeutico, che esso è l’unico, allo stato attuale, ad essere riconosciuto come realmente efficace dalla Psichiatria, in quanto è il solo ad essere stato validato scientificamente ed in base ad “evidenze” circa la sua reale efficacia; occorre però anche dire che, secondo le suddette “evidenze”, l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, pur essendo reale, si espleta al suo meglio in associazione con le terapie psico-farmacologiche (e queste ultime, viceversa, acquisiscono una maggiore efficacia in associazione con la psicoterapia cognitivo-comportamentale). In Italia, questo approccio si è scisso nei due filoni della “terapia cognitivo-comportamentale” propriamente detta (Giovanni Liotti ed altri), e della cosiddetta terapia “post-razionalista” (Vittorio Guidano).
Nel complesso pur senza addentrarci, anche qui, nei dettagli ma mantenendo uno specifico riferimento al tema principale del nostro discorso, possiamo dire che le terapie cognitivo-comportamentali, sul piano concettuale e teorico, hanno “rivoluzionato” l’approccio psicoanalitico nel senso più letterale del termine, ossia lo hanno “rovesciato di 180 gradi”: 1) laddove, infatti, in Psicoanalisi si parte da contenuti psichici “dinamici” e per definizione non verificabili quali quelli “inconsci”, e si assume che il renderli consci (o più specificamente, il rendere consci i contenuti del transfert) sia la chiave di volta della terapia, in ambito cognitivo-comportamentale si parte da contenuti psichici non già “dinamici” ma ideativi e prettamente “cognitivi”, ed inoltre perfettamente consci (per la precisione, quei pensieri che hanno a che fare con la sofferenza, ad esempio con il lutto, con il distacco e con la perdita); 2) In secondo luogo si assume che su di essi si debba “lavorare per correggerli” e per sostituirli con altri, anziché per farli “emergere alla coscienza”, dal momento che essi, alla coscienza, già per proprio conto sono fin troppo “emersi”; 3) in terzo luogo questo “lavoro terapeutico” deve essere effettuato, più che dalla coppia terapeuta-paziente, dal paziente in prima persona (seppure “addestrato” dal terapeuta a farlo progressivamente sempre più per proprio conto); 4) in quarto luogo, laddove il “contratto psicoterapeutico” iniziale, in Psicoanalisi, è vago ed allo stesso tempo super-ambizioso, o quanto meno complesso e poco verificabile, in ambito cognitivo-comportamentale esso è molto più chiaro e delimitato, poiché si parte da un progetto estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio; insomma, laddove in Psicoanalisi si perseguono obbiettivi d’incredibile vastità ed indefinitezza, quali la “maturazione e/o la trasformazione della personalità”, anzi il suo “mutamento strutturale”, nonché il conseguente radicale scioglimento di modi di essere e di comportarsi inveterati in quanto basati sulle esperienze infantili e sull’inconscio (si ricordi l’ambiziosissimo aforisma freudiano “Là dove era l’Es sarà l’Io”), in ambito cognitivo-comportamentale si persegue, al contrario, un obbiettivo estremamente semplice e modesto: eliminare i sintomi; 5) ancora, laddove la verifica dell’efficacia d’una terapia, in Psicoanalisi, è praticamente inesistente e/o affidata esclusivamente al giudizio dell’analista (o al massimo, della coppia analista-paziente), in una terapia cognitivo-comportamentale essa è affidata a degli standard oggettivi relativi ai sintomi (che poi sono le stesse scale di valutazione usate in Psichiatria per giudicare della loro maggiore o minore gravità); 6) laddove la terapia psicoanalitica comporta un fortissimo investimento in termini di tempo e di denaro, nonché una vera e propria “mutazione” nella vita del paziente (come si è detto, il ritmo delle sedute, assai spesso, è pluri-settimanale, vige la cosiddetta “regola dell’astinenza” da particolari comportamenti durante la terapia, e la stessa dura per molti anni), in ambito cognitivo-comportamentale tutto ciò non è richiesto, le terapie hanno un ritmo ed una durata assai più limitati, non vigono “astinenze” che vadano al di là del lavoro sui sintomi, ecc. ecc.
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A questo punto, però, occorre che ci fermiamo un attimo, anzi che facciamo un passo indietro e che ci dedichiamo ad una riflessione d’ordine più generale; dobbiamo infatti ricordarci che il punto fondamentale da cui eravamo partiti è un altro, ben diverso rispetto alle questioni relative all’efficacia delle psicoterapie sui sintomi ed alla verificabilità/falsificabilità dei loro risultati: esso, per la precisione, è quello relativo all’oggetto stesso d’una qualsivoglia “psicoterapia”, oggetto che poi coincide con il suo profondo “modo di funzionare”. E questo “modo profondo di funzionare”, a sua volta, non può essere altro che l’influenza, benefica o non benefica, che una mente può in qualche modo avere, a determinate condizioni, su di un’altra mente.
Ora, posta in tal modo la questione, il discorso, occorre dirlo, cambia profondamente: infatti in Psicoanalisi, o almeno in molti dei suoi sviluppi post-freudiani (ma già nel Freud più tardo!), ogni tipo di sofferenza viene curato, in pratica, proprio attraverso il rapporto terapeuta-paziente e la sua analisi (la cosiddetta “analisi del tranfert”, ossia della proiezione sul terapeuta dei contenuti psichici inconsci del paziente). Perciò di fatto, nell’ambito di questa metodica si lavora davvero, o almeno ci si propone e ci si sforza di lavorare (bisogna dirlo, con una percentuale di successi assai dubbia), su ciò che “transita” o si ritiene “transiti”, a livello profondo, fra paziente e terapeuta, ossia su quello che si presume possa costituire il “meccanismo di base” delle psicoterapie: ciò anche se poi, con il suo mantener fermo anche nell’analisi del transfert, come terapeuticamente strategico, il concetto della “presa di coscienza”, con quel tanto di “smaterializzazione” e “sublimazione” delle forze di derivazione istintuale che tale concetto comporta, la Psicoanalisi finisce anch’essa con il ritenere essenzialmente “cognitivo” un interscambio relazionale il quale, proprio in quanto di natura biologica non può che rimanere, al contrario, in larga misura “inconscio”.
In ambito cognitivo-comportamentale, invece, questo punto (di per sé importantissimo, in quanto investe il modo di interagire degli esseri umani, ma tale da essere giudicato non del tutto a torto come “poco verificabile”), viene messo completamente da parte: il rapporto terapeuta-paziente è praticamente scomparso dall’orizzonte teorico di quest’impostazione (anche se, forse non da quello pratico), e ci si è concentrati invece sui sintomi del paziente e sui suoi differenti “stili” mentali di viverli, di produrli e di eliminarli. Insomma, al fine, senz’altro encomiabile, di rendere la terapia verificabile” sul piano scientifico “, e su quello pratico la più “efficace”, “economica” e “meno auto-referenziale” possibile, si è scelto di concentrarsi sui dati puramente “oggettivi” del percorso terapeutico, ed in particolare su quelli riguardanti il solo paziente (anzi la parte più superficiale e visibile del suo modo di “stare al mondo”): ciò, di fatto, comportandosi come se il rapporto terapeuta-paziente (o ancor meglio, il rapporto fra la personalità del terapeuta e quella del paziente) non esistesse, non avesse alcun ruolo e/o non “pesasse” nella terapia medesima. Oppure, qualora il rapporto terapeuta-paziente, in un’ottica cognitivo-comportamentale, venga preso in considerazione, esso lo è, a parte la questione dei possibili “errori tecnici”, al di fuori di canoni scientifici codificati, quindi “privatamente” e quasi “di soppiatto”.
Ora, mi sembra che quest’ultima caratteristica, pur fatte salve le sopra citate positive qualità della metodica cognitivo-comportamentale (efficacia rispetto all’obiettivo iniziale, brevità, economicità, verificabilità scientifica e “non-autoreferenzialità”), precluda a questo approccio ogni possibilità di comprensione profonda dei meccanismi generali d’azione delle psicoterapie. E’ infatti da osservare che, pur essendo le terapie cognitivo-comportamentali le uniche, come sopra accennato, la cui “efficacia” può dirsi “scientificamente provata”, essa lo è proprio in quanto tali terapie limitano fortemente e volutamente il proprio raggio d’azione ed i propri obbiettivi; d’altro canto, moltissime altre tecniche psicoterapeutiche continuano a prosperare, ed anche se si giungesse ad equipararle tutte quante a forme più o meno ciarlatanesche di “suggestione”, resterebbe pur sempre da spiegare come una tale “suggestione” sia così diffusa e possa in definitiva “funzionare”, almeno in determinati contesti, avvalendosi di profondi e misteriosi meccanismi. Insomma, è ovvio che laddove ci si avvicini con modalità fortemente “riduzionistiche” ad un oggetto così complesso qual è una psicoterapia (o più semplicemente, qual è l’interazione “a scopo d’aiuto” fra due menti), e di conseguenza si limiti all’estremo l’obiettivo strategico di quest’ultima, circoscrivendolo a finalità nettamente delimitate ed immediatamente “misurabili” (e viceversa si escluda “a priori”, dall’indagine teorica, proprio quel campo più complesso e ricco di variabili, ma anche più promettente di sviluppi teorici e conoscitivi, che è il rapporto terapeuta-paziente), si raggiungono certamente dei risultati più “efficaci” e “falsificabili” nel senso delle scienze sperimentali, però ci si allontana irrimediabilmente dalla possibilità d’esplorare in profondità una tale “complessità” e d’influire su di essa.
Esplorare e modificare ciò che è alla base dell’interazione fra gli esseri umani, però, ha da sempre costituito una delle implicazioni e finalità (anche se forse non la principale) d’ogni psicoterapia. Anzi, una tale esplorazione, prima dell’avvento dell’approccio cognitivo-comportamentale, era stata al centro, praticamente, di tutti gli orientamenti psicoterapeutici conosciuti: ad esempio, oltre che dell’approccio psicoanalitico, anche di quello relazionale-sistemico, il quale anzi, come abbiamo visto brevemente sopra, aveva preso ad effettuarla, seppure in polemica con la Psicoanalisi, in una forma sua propria ed originale.
6
Concludo questo mio intervento facendo riferimento ad una proposta teorica a mio avviso interessante, cui almeno in parte aderisco, la quale proviene da uno psicoanalista italiano d’estrazione freudiana ma fortemente “eterodosso”, Ignazio Majore: uno studioso che per mezzo secolo ha posto al centro del suo lavoro i meccanismi profondi ( quindi anche quelli “non verbali”) del rapporto terapeuta-paziente, ossia ciò che a livello biologico si presume avvenga, “al di là delle parole”, in una psicoterapia.
Secondo Ignazio Majore, dunque, l’essenza del disturbo mentale, la sua “causa prima”, non è affatto quell’”istinto di morte” di freudiana memoria che tanto spazio ha trovato e trova fra alcune speculazioni teoriche tott’oggi in voga fra gli psicoanalisti: un qualsivoglia essere vivente, infatti, la cui mente ospitasse al proprio interno, in qualità di “istinto” (ovvero di “forza dinamica” organizzata in forma istintuale), qualcosa che per sua stessa natura tende alla morte, all’”entropia” ed al ritorno all’inorganico (laddove ogni tipo d’istinto inclusa l’aggressività, al contrario, si forma in natura per difendere la vita!), sarebbe un assoluto controsenso biologico.
La causa dei disturbi psichici, per Majore, è piuttosto il contatto con quella “morte effettuale” (sia fisica che mentale) che fatalmente proviene, ad ogni essere vivente, sia dall’ambiente che dal proprio stesso organismo, mentre ciò che decide dell’esito dei disturbi mentali è il grado di “reazione vitale” che un dato soggetto può produrre, a livello mentale, nei confronti della morte medesima.
Infatti, essendo le leggi che regolano l’interazione fra esseri umani di natura essenzialmente biologica (com’è ovvio che avvenga in esseri viventi quali noi siamo, a prescindere dal nostro appartenere ad una specie cosciente e dotata di linguaggio), e posto che tali leggi non possono non perseguire, in qualsivoglia specie vivente, l’obiettivo prioritario di consentire la sopravvivenza, Majore ipotizza che ciò che sta alla base delle possibilità di comunicazione reciproca, in senso generale come in senso psicoterapeutico, fra gli esseri umani, sia qualcosa che ha a che fare, anche qui, con la possibilità di fronteggiare, o d’aiutare altri a fronteggiare, la morte: ossia, che la comunicazione inter-umana abbia anch’essa a che fare con quel “problema comune” che costantemente ed in varie forme costituisce l’oggetto prioritario della percezione d’ogni essere vivente (e dell’essere umano in particolare!), anzi il solo che conferisce ad una tale percezione un qualche senso.
Dopo aver formulata quest’ipotesi di base, ed averla correlata con l’osservazione, altrettanto indiscutibile, che l’essere umano è l’unico a “conoscere” la realtà della propria morte in forma cosciente, quindi a “percepirla” di continuo ed anche a “prevederla”, Majore fa due ulteriori ipotesi: 1) quella che quest’ingente presenza della morte nella mente umana possa essere la causa principale dei più svariati disturbi mentali (la realtà delle malattie mentali è presente soprattutto, anche se non solamente, nella specie umana!); 2) quella, conseguente alla prima, che nel rapporto terapeuta-paziente, essenzialmente, al di là delle “parole” proferite da entrambi, ed anche al di là del loro “pensiero cosciente”, agisca la capacità profonda del terapeuta (una capacità essenzialmente “non verbale”!) di sopportare la morte mentale di cui il paziente è “pieno” (e talora, “selettivamente portatore”), e soprattutto di “reagirvi in forma vitale”, fornendo così al paziente stesso un “modello”, per così dire, di “reazione vitale alla morte”: un modello, naturalmente, che quest’ultimo potrà essere in grado di far proprio oppure no.
Di più, Majore ipotizza che nelle terapie molto lunghe si formi a poco a poco, sia nel paziente che nello stesso terapeuta, una sorta di “livello mentale intermedio terapeuta-paziente”, ovvero un autentico “figlio mentale della terapia”, il quale costituisce il fine d’ogni psicoterapia), lo fa in quanto “prende sulle proprie spalle”, in qualche modo (Majore fa l’ipotesi della sessualità, ma se ne potrebbero fare anche altre, forse ancora più plausibili!) il carico di morte mentale di quest’ultimo e lo smaltisce al suo posto, o meglio “gli insegna” a smaltirlo in prima persona dandogli l’esempio di “come si fa”, ebbene, allora questo meccanismo potrebbe rappresentare una spiegazione semplice, elegante e di grande potenza dell’indubbia efficacia, seppure con alcune differenze, di tutte le tecniche psicoterapeutiche: ciò in quanto riporterebbe una tale efficacia ad un’unica “variabile” veramente significativa che va ben oltre i contenuti specifici delle tecniche impiegate, ovvero quella rappresentata dalle rispettive personalità del terapeuta e del paziente. Quest’ipotesi, poi, sembra a maggior ragione degna d’interesse ove si consideri che nella stessa terapia cognitivo-comportamentale si danno frequenti casi d’insuccesso i quali non possono essere sempre ricondotti a puri e semplici “errori tecnici”, e dunque almeno in parte derivano, con ogni evidenza (ed a dispetto della relativa semplicità e meccanicità di questa metodica!) da variabili assai più difficili da valutare: presumibilmente, da quelle inerenti la qualità dell’interazione umana terapeuta-paziente.
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Noi riteniamo assolutamente valida l’ipotesi di Majore che la “malattia” e la “cura” siano da porsi in relazione, rispettivamente, con il contatto e con la “reazione” nei confronti della morte (e più precisamente d’una morte intesa come realtà effettuale, di per sé bruta e “passiva”, e non già, alla maniera freudiana, come “forza attiva interiore” e vagamente intenzionale, ovvero come “istinto” e “pulsione”); tuttavia pensiamo che esistano possibilità complementari o alternative, rispetto all’ipotesi “sessuale”, circa il meccanismo specifico dell’ipotetica “reazione vitale” alla morte che, in terapia come nei più comuni rapporti umani, verrebbe mobilitato: potrebbe trattarsi ad esempio d’un meccanismo basato, assai più che sulla sessualità, sulla socialità.
Aggiungiamo ora che esiste anche la possibilità di specificare meglio ed in maniera più precisa la natura della “morte” di cui parla Majore.
Credo in particolare che una tale “morte” in grado di generare “malattia mentale” non sia nella maggior parte dei casi riferibile al mondo fisico (esterno o interiore che esso sia), bensì a ciò che all’inizio del nostro discorso abbiamo visto essere la effettiva “pragmatica della comunicazione umana”, ossia quella parte della comunicazione medesima (essenzialmente “non verbale”!) presente anche in tutti gli altri animali e che nell’uomo riguarda, in maniera specifica, le relazioni sociali e le loro possibili implicazioni “mortifere”.
Io ritengo, ad esempio, fortemente sospetto, e comunque e bisognoso di spiegazione, il fatto che ogni forma di sofferenza mentale d’interesse psicopatologico, al di là delle motivazioni esplicite, coscienti e “verbali” che spesso il paziente ne da, sia caratterizzata dalla presenza d’una insopprimibile componente persecutoria: ne sono pervasi, ad esempio, gli stati deliranti ed allucinatori schizofrenici, ma anche gli stati maniacali, i disturbi bipolari, le sindromi fobiche ed ossessivo-compulsive, le sindromi anoressico-bulimiche, le psicopatie e sociopatie d’ogni tipo, le perversioni sessuali, i disturbi da attacco di panico, le sindromi ipocondriache, e persino il “mare magnum” delle cosiddette “sindromi depressive” (nelle quali la persecuzione esiste eccome, ma prende la forma della colpa, o al massimo “proviene da dentro” nella forma d’un misterioso “svuotamento di energie”, anch’esso d’origine chiaramente conflittuale). Di più: chiari aspetti persecutori emergono puntualmente persino nelle demenze senili, nelle epilessie psicomotorie, nelle insufficienze mentali, e praticamente in tutte le forme di disturbo mentale su base organica, quasi che quello persecutorio fosse un “pattern di reazione” universalmente presente in quanto “necessario” e finalizzato ad un qualche misterioso scopo.
Ora, alla luce di tutto ciò, l’ipotesi di Majore potrebbe essere modificata come segue: forse la “morte” che intasa di sé, in particolare, la mente umana, e di cui parla così insistentemente quest’autore (morte la quale, concordiamo con lui, non può essere immaginata in senso freudiano, come un assurdo e controproducente “istinto” teso all’auto-distruzione, ovvero come “pulsione di morte” interna, bensì solamente come il risultato d’una serie di attacchi che subiamo sia dall’ambiente che dall’interno dell’organismo, e dalle leggi stesse della vita), proviene semplicemente dall’essere, l’uomo, un soggetto in costante pericolo di predazione da parte dei propri simili: questa condizione ancestrale, peraltro riconfermata costantemente da imponenti fenomeni di violenza di massa che sono rari fra le altre specie, quali la guerra, la schiavitù e lo sfruttamento, lo ha infatti costretto, a differenza di altri animali ugualmente oggetto di predazione, a “rimanere perennemente avvinghiato” al proprio predatore (un predatore così simile a sé stesso) anziché porre in essere, come gli altri animali, solo comportamenti di fuga/immobilizzazione o di attacco, ed alla fine lo ha spinto ad identificarsi mentalmente con lui, oltre che a “prendere coscienza della sua costante ed incombente presenza”; ma ciò ha anche spinto l’uomo ad auto-osservarsi “con sospetto”, quale potenziale predatore egli stesso, quindi ad interiorizzare il predatore medesimo, e conseguentemente a dilatare gli spazi “coscienti” ed adibiti alla “vigilanza antipredatoria” (volta sia all’esterno che all’interno) della propria mente.
L’altro lato della medaglia, però, sarebbe stato, in questo caso, “l’intasarsi di morte” della mente umana nel suo complesso, e la conseguente necessità di relegare questa “morte predatoria in sovrappiù”, in una zona differente dall’apparato percettivo, ovvero in una sorta di suo “serbatoio” (forse l’inconscio?): ciò al semplice fine di consentire a quel vero e proprio “sensore volto verso l’esterno” che è la percezione, di rimanerne “sgombra” e di poter “funzionare”, seppure in forma “dissociata” dal resto della mente, nel suo fondamentale ruolo d’allarme antimortifero volto al mondo fisico, e comunque extra-specifico. Di più: quest’ultimo “tradizionale” aspetto dell’apparato percettivo, proprio in ragione della “nascita dell’inconscio” (una struttura, secondo la nostra ipotesi, via via sempre più adibita a svolgere i compiti, ingenti nella specie umana, dell’allarme antipredatorio ed antipersecutorio volto ai rapporti con membri della propria stessa specie), ha forse potuto specializzarsi in maniera spettacolare sul piano astratto e matematico, logico-informativo e linguistico-semantico, quindi ha potuto affinare in una misura fino ad allora inedita proprio quei compiti di ricerca selettiva, di manipolazione e di neutralizzazione, più che della morte predatoria, della morte intesa nel suo senso più generale (ossia di quella morte che tutti gli esseri viventi debbono affrontate).
Tuttavia, pur ammettendo che l’inconscio abbia reso possibile questo processo evolutivo della mente percettiva in mente “cosciente”, che cosa la ha spinta, in concreto, a questa ulteriore “specializzazione”? Ebbene, noi riteniamo che la mente dell’uomo potrebbe avere imparato a manipolare simbolicamente e per via logico-matematica le “cose” appartenenti al mondo fisico, ossia a padroneggiarle, per analogia, ovvero proprio perché in precedenza aveva dovuto imparare a manipolare simbolicamente e per via linguistica (ossia in un modo molto affine a quello logico-matematico ed astratto), quindi a padroneggiare i maniera efficace, le ultra-complesse relazioni che era costretta ad intrattenere con predatori sommamente “pericolosi” quali quelli che appartenevano alla propria stessa specie.
Ora, una bipartizione conscio/inconscio così concepita (ossia, ove venga vista come una “complicazione casuale di carattere strutturale-formale”, nonché “emersa all’improvviso”, secondo la già illustrata ipotesi evoluzionistica detta “Evo-Devo”, d’una originaria, più semplice e più “primitiva” funzione antipredatoria), potrebbe spiegare, per l’appunto, il “mistero” rappresentato dall’inopinata e sovrabbondante presenza, nella nostra specie, di un’intelligenza simbolica, oltre che di tipo linguistico, anche di tipo logico-matematico ed “astratto”: un tipo d’intelligenza, insomma, altamente complessa, sofisticata e “ridondante” della quale, nelle primitive condizioni di vita dei primi ominidi, non si intravede altrimenti alcuna possibile spiegazione o “necessità”.
Questo passato ancestrale (e questo presente!) di predazione intra-specifica proprio dell’uomo, dunque, da un lato spiegherebbe la suddetta onnipresenza di componenti persecutorie, sia consce che inconsce, nelle “malattie mentali” d’ogni livello e grado; dall’altro spiegherebbe la singolare ipertrofia, presente proprio nell’uomo e solo in lui, ed insieme l’efficacia in funzione “terapeutica” ed antimortifera, di strumenti di “pacificazione” e di “socializzazione” con il proprio avversario che possono ovviamente funzionare solo all’interno d’una stessa specie: la sessualità (l’uomo, per inciso, è il solo animale dotato di sessualità perenne!), il linguaggio simbolico e logico-astratto (l’uomo è l’unico animale “parlante” in senso simbolico), ed infine la socialità in senso lato (l’uomo non solo è un animale iper-sociale, ma è assai più portato degli altri all’accudimento della prole, nonché dedito come nessun altro all’enfatizzazione di tipiche “formazioni reattive” nei confronti della predazione quali la religione e l’amore, la compassione e l’empatia, ecc.).
Se questa modifica e/o integrazione apportata alla teoria di Majore fosse veritiera, si spiegherebbe meglio anche l’efficacia, in psicoterapia, di quella manipolazione più o meno sapiente del rapporto terapeuta-paziente (e della morte che vi transita) la quale ha luogo, classicamente, nell’analisi freudiana del tranfert: in tale manipolazione infatti, a fungere da arma antimortifera decisiva ed in senso lato “terapeutica”, accanto alla sessualità (che gioca peraltro un preciso suo ruolo “difensivo” solo in ambiti clinici molto circoscritti e limitati quali le perversioni), avremmo anche la socialità ed i suoi derivati (ad esempio le varie forme di comunicazione verbale ed extra-verbale); ed infatti è la socialità, il gruppo, il numero, a ben vedere, non la sessualità, l’unico vero presidio antimortifero, ed anche antipredatorio, che tutte le specie viventi hanno in comune, dalla più elementare (e “non sessuata”!) alla più complessa.
Insomma, sarebbe la socialità (in un linguaggio più familiare, la benevola, rassicurante e protettiva “alleanza terapeuta-paziente”), seppure ben nascosta dietro la “tecnica”, l’arma decisiva la quale, al netto di eventuali fattori transferali negativi, renderebbe efficace la maggior parte delle psicoterapie, inclusa la stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale con la sua focalizzazione sull’obiettivo limitato del “sintomo”. Quest’ultima, anzi, potrebbe essere più efficace delle altre proprio in quanto, a livello di “non detto”, d’”inconscio” e dunque di “non verbale”, rassicurerebbe il paziente (proprio in ragione della limitatezza dei suoi obiettivi “dichiarati”) di non voler mirare ad una destrutturazione profonda, virtualmente ostile, minacciosa e predatoria (o che può essere percepita come tale!) della sua personalità e delle sue difese, ma di volerle rispettare insieme con la personalità nel suo complesso (elemento, quest’ultimo, che confessiamo di credere non sia molto modificabile in terapia, per lo meno dopo la conclusione dello sviluppo psico-fisico).
Il meccanismo “profondo” delle psicoterapie, pertanto, potrebbe essere semplicemente, da parte del terapeuta, il prendere per lo meno in parte su di sé i fantasmi persecutori del proprio paziente (quelli che per lo più animano il cosiddetto “transfert”), e contemporaneamente il mostrargli che chi lo aiuta non è, a sua volta, un suo “persecutore nascosto”, ma anzi è capace, entro certi limiti, di sopportare la sua aggressività (il che fa parte del cosiddetto “contro-transfert positivo”).
In questo senso, il ruolo del terapeuta appare secondo me assai diverso sia da quella sorta di “attivatore d’una reazione simil-sessuale alla morte” cui pensa Ignazio Majore, sia da quel “ruolo genitoriale” cui pure esso, esteriormente, assomiglia parecchio: tale ruolo, infatti, va ben oltre (e contemporaneamente, resta ben al di qua!) rispetto a quel “ruolo protettivo e d’incentivazione alla maturazione della personalità” che con la funzione genitoriale è connaturato.
Il “ruolo terapeutico”, secondo me, ha a che fare con degli individui che sono letteralmente invasi e dominati dai propri fantasmi persecutori, e contemporaneamente, che sono fuoriusciti in via definitiva dallo sviluppo psico-fisico, quindi sono ormai molto meno capaci di “reagire alla morte” di quanto non lo siano i bambini e gli adolescenti, avendo ormai dato fondo, in gran parte, alle loro potenzialità e risorse strutturali.
I pazienti dunque, più ancora che capaci di “creare nuove strutture mentali”, sono bisognosi di riattivare quelle che già hanno, o meglio quelle “funzioni vicarianti” che già posseggono e che sole sono in grado di sostituire quelle ormai intasate di morte che li hanno portati al “disturbo”; quindi debbono solo essere alleggeriti e messi in condizioni, attraverso l’alleanza terapeutica, di sperimentare, con pazienza e tenacia, siffatte, e già preesistenti, funzioni vicarianti.
Insomma, più che essere condotti a scoprire in sé stessi, in quanto individui, chissà quali tenebrosi ed inaccessibili segreti e cattiverie (come vorrebbe la Psicoanalisi), o viceversa limitarsi a focalizzare il sintomo e la tecnica per affrontarlo (come vorrebbero le terapie cognitivo-comportamentali), i pazienti vanno resi edotti, semplicemente, del loro appartenere alla specie umana: ovvero, ad una “specie combattente” nella quale ogni individuo teme più d’ogni altra cosa il proprio simile e le sue tendenze predatorie, quindi ha imparato a temerle anche in sé stesso, ed ha anche ipertrofizzato la propria sessualità, il proprio linguaggio e la propria mente appositamente allo scopo di fronteggiarle. Da ciò deriva la “sofferenza psichica” ed il “senso di allarme” in tutte le sue forme, le ansie di tipo “panico” e “senza oggetto”, le paure persecutorie anche di tipo delirante (che invece, un oggetto persecutorio lo vedono in qualunque cosa), le fobie (nelle quali l’oggetto persecutorio è spostato su qualcosa di circoscritto e di meno ansiogeno), le depressioni ed i sensi di colpa (in cui l’oggetto persecutorio è divenuto interiore), i rituali ossessivo-compulsivi “tesi a controllare qualcosa d’inquietante e sconosciuto”, i disturbi anoressico-bulimici tesi a manipolare lo scambio metabolico con i propri simili e renderlo meno tossico, le tossicodipendenze tese a stordire il senso del pericolo proveniente dagli altri e da sé stessi, le perversioni sessuali e le psicopatie criminali, tese a padroneggiare il pericolo proveniente dagli altri tramite il piacere, il più delle volte sado-masochistico, e la riduzione dell’altro medesimo (o di sé stessi!) ad oggetto inoffensivo, ecc.
Per fare poi degli esempi di ciò che a mio avviso in terapia, nella pratica, bisognerebbe fare:
1) i pazienti dovrebbero essere aiutati ad accettare l’idea che una certa quota di aggressività, in loro, è sana e vitale e non è da temere, in quanto è in buona parte un’aggressività reattiva a quella altrui (e che comunque, anche l’aggressività “endogena” e non reattiva è un prezioso lascito dello sviluppo della nostra specie, di per sé assolutamente necessario alla nostra sopravvivenza); però contemporaneamente debbono essere aiutati a sperimentare canali diversi, più socialmente accettati e meno distruttivi (o auto-distruttivi!) di quelli loro abituali, al fine di esprimere una tale sacrosanta esigenza d’auto-difesa;
2) debbono venire indotti a sapere d’essere in gran parte “invadibili”, quindi vulnerabili, da parte dell’aggressività altrui, e che a ciò non c’è rimedio (dato che l’uomo è un animale sociale, e da solo non può sopravvivere), se non quello di riconoscere precocemente l’aggressività “degli altri” ed allo stesso tempo accettarne la necessità, quindi mettersi in posizione di evitarla, però in modo consapevole e se possibile senza implicazioni di tipo fobico;
3) debbono venire istruiti del fatto che un certo grado di “dipendenza”, e quindi di sofferenza per le perdite ed i “lutti” di tutti i tipi, ed in particolare nei confronti di coloro sui quali si è investito di affettività e parti delle nostre stesse strutture, è inevitabile e fa parte anche della vita da adulti: quindi tutto ciò non equivale né ad una “malattia”, né ad un “essere rimasti in uno stato infantile”, né ad una totale mancanza di autonomia, ma semplicemente all’essere, il dolore, la sofferenza e la perdita (un dolore, una sofferenza ed una perdita, peraltro, assolutamente “normali”), delle realtà necessarie e connaturate all’uomo;
4) debbono venire a sapere, dal terapeuta, che l’altro lato di quella “dipendenza dagli altri” che è in parte universalmente necessaria, è l’accettare la prospettiva di dover subire da questi “altri” una qualche quota di predazione (quindi di attentato alla nostra autonomia), e che ciò fa parte di quella vera e propria “lotta per la vita e per la morte” nella quale si svolge, a tutti i livelli, l’esistenza associata, ivi inclusa quella familiare; ecc. ecc.
I pazienti, in definitiva, possono essere solo aiutati a “ripulirsi” dalle invasioni predatorie che hanno subito, reali o fantasmatiche che siano, ed a riattivare funzioni di autodifesa che già posseggono (se le posseggono!), non già a “crearne di nuove”. E tale “aiuto”, assai più che dalle “parole”, proviene dalla sensibilità e dal comportamento concreto (e “non verbale”) in terapia, da parte del terapeuta, oltre che, naturalmente, dalle caratteristiche del paziente.
Come si vede, l’indagine sulla singolare dissociazione, presente nell’uomo, fra aspetti “verbali” e “coscienti” della propria comunicazione ed aspetti “non verbali” ed “inconsci”, porta ad affrontare, seppure in via ipotetica, problematiche che scendono assai in profondità nella natura umana.
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il Prof. Massimo Cotroneo, docente del corso di Ipnosi Ericksoniana si racconta agli studenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche, – al Prof. Massimo Cotroneo, Psicologo, Psicoterapeuta, Docente di Ipnosi Ericksoniana
Roma, 3 aprile 2015
Il 15 ed il 16 Maggio 2015, la Scuola Di Psicoterapia Erich Fromm, ospiterà il corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana. L’approccio centrato sulla combinazione della psicoanalisi neofreudiana di Fromm con i più recenti sviluppi della psicoterapia, della clinica, della psicopatologia e della psicologia della salute è da sempre l’obiettivo primario della Scuola Erich Fromm; si tratta di una forma di terapia che vuole indagare, in primis, l’area della relazione paziente-terapeuta che nell’indagine dell’inconscio è collaborante e paritetica (center-to-center come la definiva lo stesso Fromm) per consentire al paziente di prendersi cura del proprio sviluppo favorendo il processo di autorealizzazione del Sé.
Analogo fine e simile approccio è quello dell’Ipnosi Ericksoniana, ma di cosa si tratta e come si distingue da altre forme di ipnosi? L’abbiamo chiesto al docente del corso, il Prof. Massimo Cotroneo che ci spiega come abbia incontrato l’ipnosi clinica la prima volta e perché ha poi deciso di renderla parte integrante della propria pratica professionale.
L’ipnosi è una tecnica che promette di accedere alla dimensione inconscia del paziente. Seppur nota (e controversa) fin dai tempi di Franz Anton Mesmer (1734-1815), è nel 1954 che nella XIV edizione dell’Enciclopedia Britannica, venne pubblicata una delle prime definizioni di ipnosi su base scientifica a cura di Milton H. Erickson. Egli definiva l’ipnosi come un tipo di comportamento complesso ed insolito, ma del tutto normale e che in condizioni opportune può essere sviluppato potenzialmente da chiunque. In tale “stato” o “condizione” psicologica e neuro-fisiologica, le persone funzionerebbero in un modo speciale, pensando, agendo e comportandosi come farebbero in un normale stato di coscienza ma, grazie alla focalizzazione dell’attenzione favorita dalla riduzione delle distrazioni, anche meglio.
Fra i pregiudizi diffusi sull’ipnosi vi è quello secondo cui essa consentirebbe all'”ipnotista” il controllo della mente dell'”ipnotizzato” il quale si troverebbe in un totale stato di perdita di coscienza. Questa idea, che corrisponde all’immagine più romanzesca e mediatica dell’ipnosi è del tutto fuorviante, soprattutto nella formulazione clinica di Erickson, in quanto, già a partire dal rapporto terapeuta-paziente l’ipnosi clinica ridefinisce completamente il rapporto terapeuta-paziente: non più asimmetrico, ma assecondato ad una relazione di reciproco rispetto e collaborazione.
E proprio questo, è uno degli aspetti che agli inizi del 2000 ha affascinato il Prof. Cotroneo, che dice:
“mi colpì profondamente il lavoro clinico di quell’uomo, così come la sua storia e la straordinarie capacità che aveva di aiutare i pazienti. Milton veniva da una storia personale di profonda sofferenza fisica dovuta ad un attacco di poliomielite da adolescente che mise in pericolo la sua vita ma egli seppe volgere e trasformare questa sconvolgente esperienza di malattia in risorse di grande valore per i pazienti attraverso ciò che ne imparò personalmente. Le prime interessanti idee sul rapporto tra mente, corpo e le risorse psichiche utilizzabili vennero da lui maturate proprio in questo difficile frangente.
Prof. Cotroneo, in che modo le teorie di questo autore l’hanno spinta ad approfondire le sue conoscenze?
“Il primo libro che mi avvicinò al modello ericksoniano” risponde “fu ‘La mia voce ti accompagnerà’, testo straordinario che narra di un approccio apparentemente magico alla psicoterapia in quanto ad efficacia. Ciò che mi apparve davvero speciale, in particolare, fu la capacità di Milton di ottenere risultati davvero rilevanti trasformare la vecchia ipnosi in qualcosa di rivoluzionario, al servizio della salute mentale. La tecnica ericksoniana, infatti, ribalta l’antico modello ipnotico asimmetrico restituendo al paziente la sua unicità, adattando la terapia al paziente e non viceversa, ritagliando cioè le tecniche sulle specifiche caratteristiche di questo. L’assunto di base, infatti, è l’osservazione minuziosa di come la persona si muove nel mondo, utilizzare le sue caratteristiche e modalità di interagire come chiavi di accesso al suo mondo interiore e relazionale. Se un paziente entrasse nello studio di psicoterapia iniziando a camminare senza sedersi, dice il padre della nuova ipnosi, piuttosto che suggerirgli il comportamento sociale atteso potremmo camminare nella stanza con lui introducendogli la presenza della poltrona dove più tardi si siederà (caso clinico raccontato dallo stesso Erickson). Le tecniche di utilizzazione, per l’appunto, sono quelle tecniche che riprendono i comportamenti del paziente utilizzandoli sapientemente; tale scambio, tuttavia, avviene attraverso uno speciale stato di attenzione che viene evocata nel paziente per creare i presupposti di un significativo imprinting emotivo. Lo stato della trance indotta, dunque, serve per dissociare e riorientare in nuove catene associative più funzionali e utili ai processi mentali ed emotivi del soggetto.”
Il Prof. Cotroneo, a Maggio sarà docente del corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana, ma che aspettative aveva da discente, durante gli anni di formazione e come ha integrato queste nuove conoscenze con la propria pratica clinica?
“Come spesso accade”, risponde, “la formazione è una fase avvincente e di grande stimolo per il lavoro che avverrà successivamente, ma, al contempo povera di quell’esperienza clinica che verrà poi creando i presupposti per mettere a frutto e affinare le competenze psicoterapeutiche acquisite. In altri termini, l’esperienza ti aiuta ad esprimere le tue caratteristiche e sviluppare il tuo modo di fare terapia, giacché l’unicità del paziente è complementare all’unicità del terapeuta. Ognuno deve trovare il proprio modo di fare psicoterapia, ossia di esprimere in essa l’apprendimento di modelli e tecniche calati sulla propria personalità.”
E le aspettative maturate durante gli anni di formazione, sono state poi ripagate pienamente?
Massimo Cotroneo replica: “Mi consenta di risponderle con una domanda provocatoria. Lei ritiene che gli allievi in formazione di psicoterapia siano solitamente soddisfatti? Non di rado gli allievi in formazione terminano con un senso di insoddisfazione mentre altri si ritengono maggiormente contenti. Cosa differenzia gli uni dagli altri? Al di là di ragionevoli argomentazioni sul piano sostanziale ed organizzativo, possiamo individuare nelle forti aspettative individuali una delega che mai è pienamente soddisfatta. Le aspettative vanno integrate nell’essere proattivi, nella propria ricerca personale, questo ritengo sia essenziale.”
E allora, certi che “sostanzialmente ed organizzativamente” questo corso in tecniche avanzate di ipnosi ericksoniana sia valido, cosa ha dato a lei l’ipnosi clinica, fin dalle prime applicazioni in ambito clinico da farla ritenere soddisfatto della sua formazione?
“L’ipnosi ericksoniana ha delle enormi potenzialità e applicazioni pratiche.” Incalza il Prof. Cotroneo, “In primo luogo, offre l’opportunità di attivare le risorse mentali, l’immaginazione e differenti prospettive sperimentate come fossero reali. La possibilità di realizzare una ‘realtà inventata’ per così dire, consente di lavorare in modo efficace sulle emozioni, sui correlati fisiologici e mentali. Questa opportunità, naturalmente, può essere sperimentata in modo diretto con procedure di autoipnosi che possono essere di grande aiuto nelle esperienze personali oltre che cliniche. Tali esperienze consentono di lavorare tanto su esperienze pregresse quanto su esperienze future, attraverso la rappresentazione mentale che può anticiparle riducendo l’entità della tensione conseguente alla prestazione sportiva per esempio. Mi è capitato in ambito clinico, ad esempio, di utilizzare tali procedure per ridimensionare l’entità di un distacco affettivo antico, o per interrompere dipendenze come per esempio nel tabagismo.”
Quello che ogni professionista in continua formazione si aspetta non è solo di acquisire nuove tecniche, pratiche o modi di pensare, di inquadrare un problema, una situazione e di intervenirvi, ma soprattutto di integrare ogni nuovo apprendimento con i precedenti. E Massimo Cotroneo? Ha mai cambiato il suo modo di utilizzare l’ipnosi ericksoniana?
“Come si sente spesso dire ‘l’esperienza insegna’ e per me il detto non fa eccezione.” Dice Cotroneo. “La pratica clinica, l’osservazione, la velocità nel riconoscere le informazioni centrali, la sensibilità clinica e così via, possono aumentare nel tempo incrementando le proprie competenze e la personale efficacia terapeutica. Notoriamente la qualità del rapporto terapeutico è un elemento centrale nell’efficacia della psicoterapia e trasversale ai diversi approcci clinici. Nel tempo le mie modalità di approccio sono divenute maggiormente elastiche adattandosi al paziente, spesso direttive e talvolta impattanti. Adattare la terapia al cliente significa utilizzare le sue chiavi di accesso, il suo modo di rapportarsi. Se un paziente arriva nello studio del clinico con atteggiamento sprezzante e di sfida, utilizzeremo queste modalità per avere efficacia terapeutica, viceversa perderemmo la presa sul soggetto. Utilizzare lo stesso modo del paziente gli consente di rispecchiarsi in noi e riconoscersi per poi seguirci come guida autorevole.”
Cosa devono aspettarsi dunque al corso di tecniche avanzate d’ipnosi ericksoniana il 15 e 16 Maggio?
Il Prof. Cotroneo risponde: “L’esperienza clinica pone di fronte ad una grossa eterogeneità di pazienti e ad una necessità di aumentare gli strumenti clinici a propria disposizione. L’integrazione di altre tecniche può consentire di acquisire strumenti efficaci in ambito clinico che possono essere integrati nel proprio approccio psicoterapeutico. Apprendere tecniche di base ed evolute d’ipnosi ericksoniana consente di incrementare ed integrare nel proprio modello utilissimi strumenti pratici d’intervento. Sperimentare personalmente il valore e l’utilità della trance indotta dalle procedure ipnotiche può essere, a mio avviso, un’occasione molto interessante di ampliamento formativo attraverso un corso fortemente esperienziale.”
Per informazioni ed iscrizioni al corso Tecniche Avanzate in Ipnosi Ericksoniana il 15 e 16 Maggio, scrivi a: segreteria@polopsicodinamiche.com oppure TEL. 0574.603222
È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia. Napoleone Bonaparte2
Il sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto addietro. F. Kafka3
Mi dispongo a scrivere intorno al saggio che abbiamo l’onore di presentare alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, con l’idea che carta e penna siano gli strumenti principali di un critico, nell’esercizio espressivo del suo compito: raccolti i materiali, annotati gli snodi concettuali, altro non resta che far emergere le parole a definire, intorno ai pensieri, quei confini alfabetici che il logos trasforma in canali di comunicazione. Tuttavia proprio in questo momento sono attratta dalla notizia che il Lander Philae sta “agganciando” la Cometa 67/P Churyumov Gersimenko. “Tanta scienza nostra”, ribadisce la giornalista, con la voce irrimediabilmente rotta da un pianto che le si chiude, contratto, in gola: un pianto che non si sente più, sfumato in coda al servizio, ma che tuttavia continuo ad avvertire, come se un po’ mi appartenesse.
Questa emozione, ho pensato subito, è la ragione ultima di dieci anni di attesa, cui sono preceduti altrettanti anni di investimenti, di speranze, di ricerche e di studi. Una scommessa in cui nessuno più sembrava credere, approdare sulla superficie di un brandello di universo mai raggiunto prima: una incursione nell’inconscio geofisico del mondo. Philae ha avuto soltanto due giorni per la raccolta di elementi dagli archeostrati della cometa, che è vecchia quattro miliardi di anni. Due soli giorni per offrire un senso al viaggio prometeico di Philae. Perché Philae non può essere soltanto quel simpatico robottino che nell’arco di 48 ore morirà di freddo, disintegrandosi sulla superficie di quella creatura titanica e spaventosa che nessuno ha mai davvero visto da vicino, a parte lui? Può essere ridotto a strumentario, laboratorio spaziale, in un contesto che in lunga teoria è replicabile e, dunque, falsificabile. Eppure Philae è “mondo vissuto”, in senso husserliano, è una estensione dell’Io del mondo, una figura eroica in grado di esprimere il desiderio più profondo e atavico dell’Uomo: possedere il mondo, controllarne ogni possibile manifestazione, penetrarne il cuore e contarne i battiti, colonizzarlo, abitarlo, desiderandolo al punto da ucciderlo. Questi ultimi assunti sono evidentemente indimostrabili. Indimostrabili se a misurarli è il parametro del logos. La filosofia, e lo dice Maurizio Zani al capitolo, 12.Antropologia filosofica: scarso affetto per le emozioni, si è occupata quasi esclusivamente della ragione, facendo assurgere a metodo il proprio oggetto di studio, in una sorta di narcisismo metodologico retroattivo. Sostiene Adriana Gloria Marigo a questo proposito:4
Il campo d’indagine è ovviamente l’uomo, meglio l’ESSERE: fin dai più lontani presocratici si diede come assunto per il giusto ragionare la logica, poiché il “logos” era individuato come il più alto e sacro elemento per collocare l’uomo entro ilrapporto con il mondo e con dio. Tutto quanto per essere in dignità di vero e buono doveva rientrare entro i perimetri squisitamente della logica, ma non solo: come ben esprime Zani, alcuni elementi costitutivi l’essere – pur individuati e dichiarati appartenenti all’uomo – non sono ritenuti decisivi d’indagine in quanto non rispondenti al progetto della ragione, e ascrivibili a espressioni ”minori” dell’umano pensare e agire.
Lungo la storia della filosofia non si è usciti da questo percorso, salvo alcuni noti tentativi che restano una eccezione e non cambiano il percorso, non sono riusciti ad affrancare la logica dal suo strapotere, a integrarla con un “discorso funzionale alle Emozioni”, non hanno compensato la “logica” con un metodo proprio e intrinsecamente corrispondente alla tanta materia delle emozioni. Le emozioni restano appannaggio della letteratura – poesia in particolare (e sulla poesia è interessante il dialogo Jone di Platone dal quale discende la concezione negativa che il filosofo ha per l’espressione poetica)- la quale non indaga sulle “ragioni delle emozioni” e solo con l’avvento della psicologia si inizia a considerare il cosmo delle emozioni nella loro nascita e struttura:
Dunque, psicologia e psicoanalisi si appropriano di quell’ambito che filosofia non ha indagato, o solo indagato in modo approssimativo in quanto inficiata da pregiudizio originale: credo, al riguardo (è un pensiero mio, questo), che all’inizio dell’indagine filosofica il pensiero fosse strutturato per giungere su quell’orizzonte grandioso della logica, desse i risultati altrettanto grandiosi che conosciamo e più tardi, per una sorta
di “narcisismo” del metodo, non si sia fatto il salto, non si sia fondato – entro la filosofia stessa – il regno d’indagine sulle emozioni. La Logica è lo studio del retto ragionare, quale nome possiamo coniare per il retto indagare le Emozioni nell’ambito di Filosofia? Voglio citare qui proprio una lettura di ieri e riguarda l’incontro di Martin Heidegger con Paul Celan: il filosofo e il poeta ritenuto da Heidegger eccelso. Alla baita nella
Selva Nera l’incontro fu disastroso: il dialogo tanto atteso tra i due grandissimi non avvenne, fu delusione e disillusione.
Che la struttura stessa della Filosofia sia dunque inadatta, inficiata di una anomalia per la quale le è impossibile scendere nel magma delle emozioni, oppure sia attraversata tutta dalla sua stessa ombra di cui può parlare solo la Psicoanalisi che di
Filosofia sembra la sorella dai caratteri personalissimi, inconfondibili, la testimonianza di una individualità precisissima e non ancillare?
A mio umile parere non è necessario fare appello da una categoria uguale e contraria al logos, per “valutare” le emozioni che ci hanno investito alla vista del Lander Philae. Chiamiamo per questo in causa Pathos, l’Eros e, ho ragione di credere, Thanatos. Il campo semantico di Logos diventa insufficiente, e così la sua metodologia di procedere per antitesi anziché per qualità delle passioni e grandi movimenti del cuore e del pensiero; dei due peccati rimproverati a Freud, la passione e il riduzionismo; la passione come ragionare del cuore, il ragionare col cuore, è sicuramente il più dolce e meno esecrabile; e forse oggi con Damasio e le recenti frontiere dell’Epigenetica, possiamo pensare che quel peccato fu, probabilmente, un peccato di visione: aver visto prima, aver saputo con anticipo, aver intuito e fatto del sentire del cuore, del sogno e dell’idea, un dogma. Con Massimo Recalcati:
In questo senso Lacan ci ricorda che il peccato commesso, da Freud è consistito non soltanto nell’aver razionalizzato quello che fino a quel momento aveva resistito alla razionalizzazione, ma anche nell’aver messo in luce una vera e propria ragione ragionante; che ragionava e funzionava secondo una logica, all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo classico dell’irrazionalismo, il campo della passione. È questo che non gli hanno perdonato5.
Perché l’idea è cuore, è prevalentemente pensiero di immagine. Crick, all’indomani della “scoperta” della doppia elica, emette una sorta di editto, che di fatto resta un dogma scolpito nella pietra della scienza per molto tempo: i geni possiedono i codici di inscrizione delle successive sintesi proteiche cui danno luogo. Il tema è scottante e delicato al tempo stesso.
Con Bottaccioli:
Nel 1970, dopo che erano emersi alcuni fatti che mettevano in discussione il “dogma centrale”, Crick torna sulla questione ribadendo la validità del dogma secondo cui ogni gene codifica per una proteina, seguendo una logica programmata e cioè non essendo condizionato da effetti di retroazione degli altri componenti della vita della cellula. Ciò che conta – ribadisce lo scienziato inglese – sono le informazioni contenute nel DNA che verranno trasmesse fedelmente al messaggero RNA che le tradurrà in proteina (Crick, 1970). Inquesto modello, la vita è l’assemblaggio di molecole prodotte punto a punto (un gene-una proteina), senza alcuna possibilità di retroagire sulle condizioni che l’hanno prodotta.
Dogma che negli stessi anni verrà definito, più laicamente, “uno dei principi fondamentali della biologia moderna” da Jacques Monod, altro premio Nobel per la medicina (assieme al collega François Jacob) proprio per le sue ricerche genetiche. Lo scienziato francese è lapidario. Nel suo best seller mondiale del
1970 Il caso e la necessità, tradotto istantaneamente in italiano e in molte altre lingue, scrive:
«L’unico meccanismo possibile attraverso il quale la struttura e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente, alla discendenza, è quello che deriva da un’alterazione delle istruzioni contenute in un segmento del DNA. Non si può invece
concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione» (p. 103).6
Sono passati soltanto cinquant’anni e l’Epigenetica – trattata da Imbasciati al capitolo 21. Mente–Cervello: epigenetica e transgenerazionalità, può refutare la grande certezza – a tratti ideologica – di Francis Harry Compton Crick, scienziato britannico, premio Nobel per la medicina nel 1962. Una nuova epistemologia mente-corpo rivoluziona gli assunti che volevano ad esempio l’intelligenza sede nelle porzioni della corteccia, o quanto meno nelle
strutture specificamente dedicate nel cervello. Sicuramente sì, vi è dell’assoluto nella specificità organica di certe funzioni. Tuttavia nella vision epigenetica l’intelligenza – intesa come complesso di competenze e conoscenze – non ha sede nel cervello; non ha sede nella mente e neppure nel cuore; non risiede neppure nelle connessioni neurali e nella loro plasticità. È con buona probabilità una espressione del potenziale di tutte queste strutture di organizzarsi in un network multidimensionale (Bottaccioli), in cui trovano posto la citoarchitettonica, la modularità e la biochimica molecolare, tuttavia non senza che eleganti e complessi processi – afferenti all’Epigenetica – in massima parte impliciti, non ancora intercettati, governino l’espressione genica e dunque anche gli aspetti neuropsicologici del comportamento e della percezione del Sé. Naturalmente la potenzialità espressiva dei set genetici non riguarda soltanto la mente o soltanto il corpo; stabilisce e determina il rapporto mente-corpo, o forse è più giusto dire che lo descrive, ce ne offre un taglio, una lettura critica, fortemente influenzata dall’ambiente, dal set di stressor che l’essere umano conosce come la propria famiglia, lo scenario storico ed economico in cui vive, insomma tutte quelle condizioni cosiddette esterne di cui non vorrebbe far parte ma in cui si ritrova, per dirla con Heidegger, gettato obtorto collo. Ed è il ritrovato, futuribile e quasi vergognoso rapporto mente-corpo a rompere il passo sul fronte della nuova epistemologia, per il timore di infrangere gli equilibri del potere all’interno dell’establishment della scienza ideologica. Tuttavia non durerà a lungo, la Rivoluzione auspicata da Bottaccioli7 e preannunciata da Hofer, è appena cominciata. Hofer addirittura parla di trasmissione transgenerazionale del trauma8, raccogliendo sicuramente il consenso di un – forse non ancora ben definito – Lamarckismo di ritorno. Ne parla Marco Bacciagaluppi al capitolo 18. Biologia, evoluzione e psicoanalisi: la funzione ideologica del lamarckismo in Freud.
La psicologia credo debba sempre saper accogliere quelle istanze che a volte il paziente porta con sé non tanto in preda ad un fantasma relazionale, quanto talvolta in risposta ad un richiamo genetico, biologico e atavico che non è sempre ascrivibile ad una posizione analitica. Non si parla di tratti ereditari intesi in senso classico, bensì di meccanismi di retroazione genetica, epigenetici, che influenzano l’organizzazione del network, la risposta organica e l’epifenomenica comportamentale.
A proposito di dogmatismo, Luigi Longhin affronta diffusamente la spinosa questione dell’ideologia, alle parti: 1.Ideologia e utopia: qualità negative della mente, 2.Aspetto sociale della scienza: rapporti tra scienza e società, 8.La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, 14. La violenza: patologia della mente emotiva giustificata con l’ideologia, 19. Il potere–dominio: forma patologica individuale e collettiva, 22. Mente emotiva: come proteggerla dall’ideologia.
La problematizzazione non nasce dalla complessità dei rapporti tra potere, politica e ideologia, quanto dalla matrice interpersonale delle strutture del Sé destinate a controllare i centri psicologici del potere. A questo proposito risulta originale l’apporto di Erich Fromm – notoriamente interpersonalista – proposto da Bacciagaluppi in due capitoli, 9. L’ideologia personale di Fromm e 10. Ideologia e psicoanalisi: alcune “scomuniche”.
Su che cosa sia “veramente” il potere, si aprono scenari che pretendono visioni radicalizzanti. La lettura interpersonalista offre un qualche salvacondotto, non senza infilarsi nella trappola dello psicologismo. Fu il filosofo illuminista Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy9 a coniare il termine ideologia con il significato che a questa parola viene attribuito nella concezione moderna. Il significato originario del termine ideologia creato da Destutt de Tracy nel 1796 nell’opera Mémoire sur la faculté de penser con il significato di un metodo del corretto ragionare, discorso razionale sulle idee, assunse con Napoleone – che non aveva più bisogno di atteggiarsi a sostenitore delle idee illuministe di questi ideologi, progressisti atei e razionalisti, delle quali si era servito agli inizi della sua carriera – un significato peggiorativo. Gli ideologués erano intellettuali che perseguivano ideali politici riformistici, laici e anti-autoritari; contrari al fanatismo e al dispotismo. Orientarono con grande anticipo sulla psicologia le loro ricerche sull’analisi dei fenomeni mentali e sensoriali per la fondazione di una gnoseologia sensista. Dal nostro punto di vista De Tracy fonda una teoria dell’ideologia che pone l’Uomo nella condizione di apprendere il ragionamento critico calandosi in un “mondo vissuto”, ed è questo a renderlo, di fatto, un ideologo umanista in grado di sovvertire ante litteram l’assunto epistemologico contestato alla filosofia da Zani al capitolo 12. È agli Elementi che si ascrive la sua definizione di ideologia come «scienza dell’origine e della formazione delle idee», in contrapposizione ai filosofi illuministi precedenti, i philosophes, per Destutt, autori di grandi teorie che apparivano dei romans, romanzi distaccati dalla realtà. Questo distacco segna il passo della visione bilaterale, la cui linea De Tracy tenta di superare. Partendo dalle teorie sensistiche radicali di Condillac per il quale non esistevano idee innate poiché esse avevano tutte origine dalla sensazione e che
sosteneva che tutte le facoltà umane erano riconducibili a forme di sensibilità e quindi alla fisiologia, Destutt de Tracy si sforzava di creare una scienza esatta della morale, della politica e dell’economia. Di fatto batteva la strada della psicologia, di quella che sarebbe stata una grande psicologia al servizio dell’Uomo. Destutt de Tracy si dedicò anche allo studio di problemi logico-linguistici convincendosi che dalle forme particolari dei vari linguaggi si potesse arrivare a degli elementi strutturali semplici che si ripetono costantemente e che possiamo utilizzare per la formazione di quelle idee che sono alla base della composizione dei segni linguistici. L’analisi del linguaggio, inteso non come costruzione artificiale, ma come organizzazione razionalmente ordinata è il fondamento della conoscenza scientifica. Occorre anche riaffermare il primato della questione antropologica, quando si tratta di strutture radicalmente inscritte nei nostri dispositivi psicosociali. Ci domandiamo con Vinicio Serino,10 a proposito di ideologia e utopia:
Ideologia, nel linguaggio della sociologia e della scienza politica, ha multiformi significati. Una delle interpretazioni più convincenti è quella offerta da Norberto Bobbio che ne propone una denominazione ‘debole’: ossia ideologia è il sistema di idee e di valori che guidano i comportamenti politici – ed aggiungerei anche sociali – di una collettività. Si tratta pertanto di una Idea – con la I maiuscola – che si è imposta e, quindi, attualizzata sulla quale, dunque, si fonda un ordine sociale. Bobbio definisce poi ‘forte’ il concetto di ideologia elaborato da Marx, per il quale, appunto, l’ideologia è una falsa credenza, una mistificazione, che “abbellisce”, col ricorso a valori “alti”, la vera essenza di ogni ordine sociale caratterizzato in realtà dal dominio di una classe sull’altra. Il riferimento è ovviamente alle ideologie ‘borghesi’ che propongono modelli di società apparentemente ispirate ai valori più alti quali la libertà, la giustizia sociale, la lotta all’oppressione mentre, nella realtà, mascherano la loro vera essenza : ossia il dominio di una classe, quella della borghesia produttrice, su di un’altra, quella del proletariato lavoratore. Sintetizzando potremmo allora dire che la ideologia ‘debole’ rimanda ad un ordine che guida, effettivamente, una società, reale, attualizzata. Mentre l’ideologia ‘forte’ esprime un giudizio, una valutazione – starei per dire … ideologica – su società esistenti, ossia formate ed operanti. Diversamente l’Utopia, parola inventata del XVI da Thomas More, rientra nella categoria degli ideali – e non , appunto, delle ideologie – designando un assetto sociale che non esiste nella realtà e che viene proposto come modello di cambiamento: proprio per questo More ha coniato la parola Utopia che, come è noto, significa “in nessun luogo”, ma che può trovare spazio nella mente umana … O forse no … Lascio allo psicologo, o alla psicologa, questo dubbio amletico. Il concetto di ideologia va collegato a quello di potere: si tratta infatti di due categorie molto affini, soprattutto se si considera che il potere politico si sostanzia nel dominio esercitato da uomini su altri uomini e consiste essenzialmente nella sua natura di comando. La caratteristica connotante di questo dominio, che implica la possibilità di imporsi attraverso la forza, è data dalla sua esclusività. Il titolare di questa esclusività, e quindi del potere ad essa connessa è, nelle civiltà moderne lo stato. Potere è dunque, come ci ha insegnato M. Weber, “capacità di influenzare l’agire altrui” senza bisogno dell’uso della forza, “in modo tale che il comando” stesso “sia assunto come massima dell’agire” di chi né il destinatario. In buona sostanza quest’ultimo obbedisce spontaneamente perché trova conveniente farlo: ad esempio, paga le tasse perché sa che in cambio otterrà sicurezza, assistenza, previdenza dall’ordinamento, come nel caso di uno stato di tipo welfare che attua politiche di protezione verso i propri cittadini. Oppure obbedisce passivamente ad un ordinamento oppressivo ed illiberale – come una qualunque dittatura – per evitare l’irrogazione di condanne, sanzioni, punizioni. Nel primo caso l’obbedienza scaturisce da una convenienza socio-economica, nel secondo dalla paura. Va comunque detto che il confine non è così netto perché, ad esempio, in ogni regime dittatoriale vi è chi obbedisce al potere anche per convenienza socio-economica, come nel caso della vecchia “nomenclatura” sovietica. E, d’altra parta, negli ordinamenti welfare – così aperti e liberali – l’obbedienza al potere può discendere anche dal timore di sanzioni, come nel caso del pagamento di imposte ritenute ingiuste ed esose eppure egualmente onorate. Infine il consenso, categoria socio-politica che ne richiama un’altra, la legittimità. Un parte rilevante della popolazione – di norma la maggioranza numerica – esprime il proprio consenso al potere, ossia obbedisce spontaneamente ai suoi comandi, perché lo riconosce legittimo, ovvero ragionevole rispetto ai propri interessi, bisogni, valori. Il consenso presenta diverse gradazioni, dalla adesione entusiastica (la più alta) alla passiva obbedienza (la più bassa), passando attraverso una gamma molto variegata di “risposte”. Ovviamente il consenso può essere indirizzato e persino manipolato con tecniche adeguate di cui la moderna comunicazione di massa è una delle più note ed evidenti11.
In questa novella etate12 dal colore strutturale-umanistico, saussuriano, la soggettività richiede di essere, e di essere nel tempo e nello spazio, forte di alcune certezze. La psicoanalisi può essere non tanto portatrice di logos, quanto un topos del rapporto mente-corpo; si può evincere dal ruolo di ossevatore, per partecipare a pieno titolo alla dinamica e alla dialettica non tra mente e corpo, che ontologicamente riconosciamo oggi essere un continuum, quanto tra quelle istanze scissorie che vorrebbero la menteragionamento e il corpo-emozione. Scegliere la parte dello spettatore porterebbe la fondazione analitica, tra le scienze, ad una posizione kafkiana di rinuncia a vivere…
come il Tonio Kröger di Thomas Mann. Kafka stesso avvertiva la «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere», capiva che «osservare» significa «uscire dalla fila» e raggiungere una visione indipendente, con proprie leggi di sviluppo, «incalcolabile, gioconda, ascendente»; ma non riusciva – e in questo risiede la prova della sua umanità – a sproblematizzare la letteratura da tutti gli assilli e i pungoli che la realtà gli poneva e imponeva.13
Il mio sguardo migliore, mi sia concesso, è quello di studioso di psicologia dell’arte. E la psicologia dell’arte avrebbe chiesto agli autori che ruolo avessero la forma, il conflitto estetico e il rapporto con il mondo del sogno, dell’immagine, del suono, del movimento, in questa eversione epistemologica a favore di una psicoanalisi tutta improntata alle emozioni. In altre parole, per far fronte alla deriva ideologica denunciata da Longhin e Imbasciati, la psicoanalisi può finalmente dar prova, ai livelli epistemologici come nella prassi clinica, di un’etica dell’umanità, affinare gli strumenti di una clinica umanistica, perché non sia luogo di innesco di ideologia, o depotenziamento delle qualità negative della mente in cui questa alberga e si annida in un tema di Ombra.
Citando infine la curatrice Luciana La Stella, un “ritorno al mondo–della–vita come obiettivo obbligato per le scienze, alfine di non perdere il legame con le proprie origini”. Non senza il desiderio di Dio dell’Uomo contemporaneo.
PSICOANALISI, IDEOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA LA MENTE EMOTIVA NELLA SCIENZA E NELLE ISTITUZIONI POLITICHE E SOCIALI
Antonio Imbasciati, Luigi Longhin a cura di Luciana La Stella Aracne 2014 pp. 532 eur 19,00
1«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana. Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento. Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.
*Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
ceo@polopsicodinamiche.com – www.polopsicodinamiche.com – www.scuoladipsicoterapiaerichfromm.it
2 in M. A. Toscano. Introduzione alla sociologia, Franco Angeli ed., 2006, pag.266.
3 Gustav Janouch in Colloqui con Kafka, p. 25.
4 Adriana Gloria Marigo, Luino-Padova. Poeta e critico letterario. Lettere con Irene Battaglini, 2014.
5 Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione. Raffaello Cortina, 2012.
6Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
7 Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
8 Psicoterapia e Scienze umane n. 3/2014.
9 Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (Parigi, 20 luglio 1754 – Parigi, 9 marzo 1836) è stato un filosofo francese appartenente alla corrente filosofica di derivazione illuministica detta degli idéologues.
10 Giurista, Filosofo, Antropologo. È docente di Antropologia all’Università degli Studi di Siena, Scienze Matematiche.
11 Vinicio Serino, Lezioni di Criminologia, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, 2014.
12 “Donna pietosa e di novella etate”, Dante Alighieri, Canzone della Vita Nuova (XXIII 17-28). L’espressione vuole qui sottolineare la rinnovata apertura degli orizzonti epistemici allo strutturalismo, non tanto in contrasto al dominio della soggettività, quanto in relazione alla necessità di favorire la dialettica tra queste polarizzazioni, che hanno in passato dilaniato il dibattito psicoanalitico.
13 Remo Cantoni, Che cosa ha detto veramente Kafka; http://www.rodoni.ch/KAFKA/cantonikafka. htm
A distanza di un anno dalla pubblicazione del libro La psicologia a scuola, esce, sempre nella collana L’immaginale della casa editrice Aracne, il nuovo lavoro del dott. Franco Bruschi. Il Minotauro e il filo di Arianna, questo il titolo dell’opera, è sicuramente un libro più specialistico del precedente, più complesso nell’impostazione generale, ma è legato a questo da una sorta di continuum dovuto al soggetto della trattazione: il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Un mondo che l’autore conosce approfonditamente grazie alla sua trentennale esperienza di lavoro in ambito clinico e scolastico. Se forse non nelle intenzioni dell’autore, dal nostro punto di vista i due libri costituiscono un corpo unico, indispensabile per capire e intervenire nel mondo dell’età dello sviluppo umano.
Franco Bruschi offre, nella sua nuova opera, un quadro completo della pratica psicoanalitica con bambini e ragazzi sia nella terapia individuale sia in quella di gruppo. Egli partendo dalle tecniche di osservazione (madre-bambino) e dalle esperienze terapeutiche arriva gradualmente a descrivere l’articolato lavoro dello psicoterapeuta dell’infanzia e da ciò si pone il problema della necessità di una formazione specifica per coloro che vogliono cimentarsi professionalmente nel difficile lavoro con gli adolescenti soprattutto quando si ha a che fare con le patologie più gravi .
L’autore mette bene in luce che fare lo psicoterapeuta è un mestiere complesso e impegnativo e farlo con un bambino o un adolescente lo è, forse, ancora di più, per tutta una serie di motivi che traspaiono chiaramente tra le righe del libro: innanzitutto perché il piccolo paziente o l’adolescente che si apprestano a lavorare su se stessi non sono sempre facilmente motivati spontaneamente ad affrontare i loro problemi di relazione con l’altro e non sono sempre disponibili a farsi aiutare a uscire dalle difese che impediscono la crescita. E ancora, chi si occupa di questa fascia d’età sa benissimo che, quando si prende in carico un bambino è inevitabile occuparsi anche dei genitori che lo hanno portato e della sua famiglia, con le dinamiche, le difese, le ansie e le preoccupazioni che, anche quando i membri della famiglia non sono presenti nella stanza di terapia, risultano essere una presenza psichica forte nel mondo interno del paziente. Quello che emerge dai casi riportati nell’opera è come questa presenza possa talvolta frenare la terapia, soprattutto se non si sono poste all’inizio delle basi solide (alleanza terapeutica) con i genitori.
Il percorso narrativo che il dott. Bruschi ci propone è, come sempre nei suoi lavori, a tutto tondo e tiene conto di tutti gli attori coinvolti nel processo: il bambino, la famiglia e il terapeuta. Con la consueta chiarezza e ricchezza di riferimenti teorici e pratici, sotto gli occhi del lettore Franco Bruschi, pone l’accento a come questi riferimenti costituiscano una guida per il terapeuta. È un percorso non solo “tecnico-scientifico” (ci sono tra l’altro importanti citazioni alle ultime ricerche delle neuroscienze, che fanno del libro un testo estremamente aggiornato), ma anche “umano” poiché fa emergere la figura del terapeuta, non come una professionista che si nasconde dietro le “teorie e metodologie” per affrontare il proprio lavoro e i rischi che questo comporta, ma che usa se stesso come uno strumento per mettersi in gioco e per affrontare con coraggio assieme al proprio paziente (e alla sua famiglia) un viaggio di cura e di conoscenza che è anche e soprattutto scoperta e crescita: proprio come il filo di Arianna che aiutò Teseo a uscire dal labirinto del Minotauro.
Se tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito, si lavora più serenamente. Vincent Van Gogh
Colui che è maestro nell’arte della vita, non distingue tra il suo lavoro ed il suo tempo libero, ma semplicemente persegue la sua visione dell’eccellenza, qualsiasi cosa stia facendo. Lasciando agli altri decidere, se sta lavorando, o semplicemente giocando. Koan Zen
Abstract. Lo psicologo, il terapeuta, colui che lavora con l’Altro e definisce se stesso e la relazione come strumento principe nell’intervento, applica strumenti, regolamenti, codici, talvolta in modo privo di un pensare riflessivo, ma in modo unicamente pratico. Questa modalità è prima di tutto sintomo di una posizione dipendente, e non di una posizione di autonomia di pensiero, non già perché l’autonomia è data dalla rottura dei codici, ma perché l’autonomia è data dalla consapevolezza dei codici, e quindi dal loro rispetto e non dal loro subirli, quindi dalla capacità di ridiscuterli all’interno del sistema valoriale. Secondariamente, questa modalità è indicativa di una condizione nevrotica all’interno della professione, che ha a che fare con l’identità e con l’etica del lavoro, poiché produce un conflitto dovuto al fare senza comprendere, all’interno di una dinamica finalizzata alla produttività della conoscenza dell’Altro, ad esempio a livello diagnostico, e non finalizzata all’esperienza dell’Altro nel Lavoro.L’oggetto della riflessione non è l’etica, ma la prospettiva psicologica della posizione etica ed esistenziale del professionista, che è anche ermeneuta delle produzioni del suo lavoro e delle opere della sua comunità.E in estensione, di come l’applicare in modo inconsapevole una deontologia abbia connotazioni morali e non permetta così di assumere una posizione etica; creando il presupposto di una impossibilità individuativa a livello del Sé, professionale e personale, generando stress fino a determinare una perdita di senso rispetto alle scelte che il professionista ha fatto un tempo e che, qualche volta, non è più in grado di riconfermare.
Questo lavoro è il primo di una serie di Appunti di politica e di etica del lavoro che Frontiera di Pagine e Polimnia Professioni ospitano per tutto il 2013, con l’intento di aprire la strada ad un nuovo dibattito all’interno dell’establishment delle professioni vocazionali, di aiuto e di mentoring, e di costruire luoghi di dialogo con le professioni emergenti e con tutte le figure professionali e i tessuti di rete con i quali il libero professionista deve rapportarsi con sempre maggiore frequenza.
Sento di dover anche raccogliere questa “occasione” anche a nome di Polo Psicodinamiche, perché il mio ruolo mi chiama anche ad espormi non solo come portavoce di un gruppo di professionisti (psicologi, psicoterapeuti, mediatori familiari, che trovano spazio nella nostra organizzazione …), ma soprattutto ad elaborare le variabili che orientano il rapporto complesso che nasce tra un’organizzazione privata, che eroga servizi formativi, di progettazione e di consulenza, e la prospettiva dell’etica nel territorio imprenditoriale e sociale in cui opera. Di fatto un’azienda è in grado di incidere, sebbene limitatamente al microcosmo in cui estende la sua efficacia, nella realtà valoriale dei suoi interlocutori, clienti, fornitori, collaboratori, e non si può sottrarre al confronto etico se decide di rispondere appieno alla domanda non solo del mercato ma dell’Uomo, essendone una diretta conseguenza, un’emissione, una declinazione creativa e produttiva della comunità in cui si radica. In altre parole, sono spesso chiamata a decisioni che vanno ben oltre la logica imprenditoriale e che richiedono riflessioni e individuazioni, non diversamente da quello che capita nella vita privata del singolo, con tutto il peso del dover scegliere anche per coloro che in questa realtà trovano appartenenza e certezze, in cui trascorrono molto tempo, cui donano molte delle loro migliori energie. E’ quindi un cantiere sempre aperto da mettere tutti i giorni in condizioni di sicurezza, e non esaurisce mai il suo compito di integrare i fatti dei singoli in una realtà più grande, che vuol tendere all’infinito che è nell’Uomo e cui l’Uomo appartiene. Poiché tutto transita per la nostra soggettività, un articolo sull’etica del lavoro presuppone una prospettiva etica a priori, ed è quindi l’onestà intellettuale che mi porta a dire che questo articolo è di parte poiché esercita la libertà di discutere di alcune tematiche e non di altre. Non possiamo pretendere di essere indifferenti, neutrali, oggettivi, in un contesto in cui le dimensioni dell’umano sono così fortemente accese, in gioco. In un’azienda, ci si pone obiettivi, target, finalità, ma la teleologia e la pensabilità non possono esaurirsi con la programmazione. E la cosa si fa ancora più complessa quando si parla di innovazione, di distruzione creativa, di pensiero divergente e di sistemi emergenti. Nulla di questi assiomi cognitivi avrebbe una fenomenologia senza un passato, un precedente, una stratificazione di un qualche tipo, una costellazione in divenire. In questi ultimi anni di sofferenza politica ed economica, come italiani siamo ancora più sensibili ai problemi delle professioni, dell’espansione, della crescita.
La pensabilità del lavoro, come di tutte le cose che l’uomo costruisce, sta anche nella sua teleologia, e questo ha a che fare con una cronografia non estemporanea, con un dominio del tempo non solo prassico ma anche metaforico, che deve trascendere se stesso, per dirsi degno di arrivare a domani.
Alcune delle riflessioni che seguono si ispirano ai recenti lavori di Sandra Buechler, psicoanalista di orientamento interpersonale dell’Alanson White Institute di New York, e vuole accennare, senza pretesa di esaustività, ad alcuni aspetti dell’etica del lavoro dal punto di vista del professionista impegnato nella relazione d’aiuto e in tutte quelle aree, definite come intellettuali, in cui la costruzione di senso si interseca alla produzione di conoscenza. Ci avvarremo del sostegno di Carl Gustav Jung e Erich Fromm, del cui pensiero Sandra Buechler è studiosa titolata, e che ha sviluppato in alcuni suoi lavori brillanti, come Still Practicing: The Heartaches and Joys of a Clinical Career (2012), Clinical Values: Emotions That Guide Psychoanalytic Treatment (2004) e Making a Difference in Patients’ Lives: Emotional Experience in the Therapeutic Setting(2008), le delicate tematiche dell’empatia e della partecipazione emotiva del terapeuta nel percorso analitico, del suo approccio valoriale, delle sue scelte in relazione ai fattori economici e alle terapie rimborsate dal sistema assicurativo o sanitario.
Il Sé di un professionista dovrebbe essersi formato nella storia, nella tradizione scientifica e filosofica, nella ambivalenze delle scelte teoriche e nei conflitti delle questioni prasseologiche.
Senza l’assunzione di queste dimensioni evolutive, non è attuabile alcun cambiamento delle professioni, poiché le professioni cambiano e superano le “crisi”, soltanto se a cambiare sono anche i professionisti che le abitano.
Rogers nel 1951 ha definito la relazione d’aiuto come «una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L’altro può essere un individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggior possibilità di espressione».
La specificità che la distingue dalle altre relazioni umane è l’aspetto metacognitivo: per competenza d’aiuto si intende infatti la capacità di dare vita ad una relazione umana in modo consapevole, controllato ed intenzionale, padroneggiando razionalmente abilità «che sono un tutt’uno con ciò che si è».
Il professionista della relazione d’aiuto spesso è un medico, uno psicologo, uno psicoterapeuta, un mediatore familiare, ma in alcuni ambiti della sua professione può essere anche un religioso, un infermiere, un veterinario, un avvocato, un genetista e ancora, più indefinitamente, un uomo che, forte delle proprie esperienze e della competenza fornita attraverso una serie di acquisizioni e legittimazioni, metta a disposizione di un altro uomo tali competenze al fine di alleviare un disagio, confortare e ridurre una sofferenza, esprimere una valutazione o apportare una consulenza che apporti elementi che prima non c’erano.
La relazione di aiuto si costella ogni volta che ci siano di mezzo amore e carenza, potere e fragilità, abbondanza e bisogno. Queste variabili dicotomiche concorrono ad alimentare la più grande disparità definita sinteticamente con “asimmetria”, ed è una delle chiavi necessarie per comprendere la tensione tra i due “sistemi valoriali” (quello del paziente e quello del professionista). Prescindere da questa considerazione potrebbe voler dire mettere in atto una negazione se non un diniego, probabilmente per tutta l’angoscia che ci sovrasta quando sentiamo di aver bisogno di aiuto.
Colui che viene aiutato ha solitamente un gran bisogno di quell’aiuto che chiede. E colui che dovrebbe aiutare, il professionista, deve poter pensare non solo al bene del suo cliente, ma anche al proprio ed al sostentamento di sé e della propria famiglia. Vediamo come il lato economico è infinitamente potente nell’informare ciascun sistema valoriale.
Il nostro compito di Knowledge Workers, di “lavoratori della conoscenza”, è di approfondire i temi etici poiché sono il fondamento del nostro dire e del nostro agire, e non sono questioni secondarie che riguardano solo i radicali, i filosofi, i politologi e i giuristi. I problemi etici riguardano tutti noi e contribuiscono a formare il giudizio e l’orientamento delle persone.
Si può obiettare che non c’è tempo, nelle accelerazioni che caratterizzano la società in cui viviamo, per simili riflessioni, e che progettare il futuro nel lavoro e attraverso la cartografia del lavoro, sia inutile dal momento che ci scontriamo con l’imprevedibilità e le incertezze rispetto a ciò che può avvenire, con i contratti a breve termine e con la precarietà. Risulterebbe pertanto più funzionale e meno rischioso restare ben collocati nel presente, sottraendosi all’opportunità di ricomporre la dissonanza che ci è dato sentire.
Se i tempi “cambiano” ad un livello socioculturale, il Tempo non cambia perché è molto più di una rappresentazione fenomenologica. Il Tempo è la coordinata metastorica nella quale si costruisce l’identità, e non può cambiare come non può cambiare la struttura dell’acido nucleico.
Richiamiamoci a Erich Fromm. Dobbiamo restituirci ad una posizione interiore per non far fuori la possibilità di produrre conoscenza realmente nuova.
Ci troviamo di fatti nella condizione dei viaggiatori che dispongono di molte risorse per affrontare i loro spostamenti e di poter scegliere numerosi posti da visitare. Resta il fatto che gli occhi dell’esploratore sono stanchi, le sue membra affaticate, e nonostante tutte le registrazioni e le fotografie, non riesce a sentire il desiderio di andare avanti. Perché sa che non sta cercando una terra promessa, non ha niente altro cui da sognare, per dirla con Fairbairn non ha la possibilità di sviluppare nuovi investimenti oggettuali.
Tutto è già visto, perché visitabile a priori. E’ privo di spinta vocazionale pertanto non produce conoscenza nuova.
Perché conoscenza nuova è visitare con occhi nuovi. Così lo psicologo non può avvalersi solo dei manuali per imparare, ma dovrà attingere dall’esperienza, al rapporto diretto con i suoi interlocutori. E a qualche cos’altro che sta nel rapporto con l’Altro, con il Maestro, con l’Infinito.
Dire quindi che occorre l’esperienza, che occorre essere graduali, presuppone dunque avere coordinate etiche più salde di coloro che sperimentano in modo fine a stesso, per verificare in modo empirico la realtà. Più salde perché sia l’esperienza stessa ad essere in qualche modo informata all’etica e contenuta nell’etica. L’esperienza attraversata dalla prospettiva etica non può essere ridotta a faccenda pratica, ad un “accidente” che pur essendo reale, non appartiene in definitiva alla natura propria di qualche cosa. Questa credo sia il luogo di genesi della frattura cui come vedremo fanno riferimento Erich Fromm e Sandra Buechler.
Che sia organizzativo o individuale, che sia diagnostico o di prevenzione, di trasformazione o di empowerment, l’intervento per la salute è pur sempre una incursione di un “ente” nella soggettività e nel sistema valoriale di un altro “ente”. Non si tratta solo della dinamica tra due “sistemi” individuali, ciascuno ascrivibile a due differenti sistemi valoriali, ma della dinamica propria tra due sistemi valoriali, in quanto ciascun ente è portatore, sino a prova contraria, di una soggettività etica, morale, sociale, spirituale. E ancora non possiamo scusarci con la fenomenologia dell’asimmetria del rapporto tra medico e paziente, che richiede di essere mitigata e lambita continuamente dalla deontologia.
Dunque la deontologia di una professione si esprime quale epifenomeno regolamentato di una morale che ha che fare con l’economia, in cui “doniamo” una cura in cambio di un bene che deriva dal bisogno di cura, nutrimento, conforto (il denaro, il baratto), e solo in minima parte da un processo di interiorizzazione dei valori. In altre parole è il prodotto di una mediazione tra istanze diseguali, che sono costrette a richiamarsi l’una l’altra ad un cammino di reciprocità.
Il processo di interiorizzazione dei valori, dovrebbe essere un processo di elaborazione, per quanto possibile innescato dalla consapevolezza, frutto di una negoziazione tra l’Io e il Sé, e in teoria dovrebbe essere assimilabile ad una integrazione di oggetti dotati di significato etico e non ad un ulteriore aumento delle difese superegoiche.
E’ un processo che genera sofferenza, che richiede Tempo.
La relazione di aiuto si fonda quindi su una domanda di etica, e non il contrario: è mossa dall’etica, possiede potenzialità etiche che stanno nella tensione dell’Uomo verso l’Infinito, tenuto vivo dal sentimento, dal desiderio di essere cosa buona per l’Altro.
A margine di queste riflessioni, a proposito dei valori, prima di addentrarmi nell’argomento centrale, ovvero sull’attualità del pensiero di Fromm sull’etica del lavoro, voglio citare Carl Gustav Jung, quando dice: «La psicologia è l’unica scienza a dover prendere in considerazione il fattore del valore (cioè del sentimento), dal momento che esso costituisce il tramite fra gli eventi psichici e la vita. Spesso si accusa la psicologia di non essere scientifica a questo riguardo; ma i suoi critici non riescono a capire la necessità scientifica e pratica di prendere adeguatamente in considerazione il sentimento».[1]
«Tuttavia rimangono fatti cui almeno lo psicologo medio deve prestare attenzione, poiché i conflitti e l’intervento dell’inconscio sono i tratti caratteristici della sua scienza. Se tratta a fondo un paziente egli si trova a dover fare i conti con questi elementi irrazionali, duri a essere formulati in termini razionali. Perciò è del tutto normale che le persone sprovviste dell’esperienza propria dello psicologo medico riescano difficilmente ad adeguarsi quando la psicologia cessa di essere una tranquilla attività di laboratorio e diventa parte attiva dell’avventura della vita reale. Altro è esercitarsi al bersaglio in un poligono di tiro, altro è partecipare ad una vera battaglia: il medico si trova di fronte a tutta una serie di fattori casuali caratteristici di una guerra autentica. Egli si trova infine ad avere a che fare con realtà psichiche, anche se non è in grado di ridurle in definizioni scientifiche. È per questo motivo che nessun manuale può insegnare la psicologia: si può imparare solo dall’esperienza diretta»[2]
Jung solleva il tema dell’autenticità nella relazione terapeutica, considerando la relazione di cura uno scenario denso di conflitti, sottolinea che per valore si debba intendere sentimento. Il sentimento diventa valore sulla base proprio del fatto che il sentimento mi orienta nella valutazione, nell’attribuzione di valore alle cose che mi capitano: etica infatti deriva da ethos, che vuol dire carattere, comportamento, condotta, costume.
Il lavoro di Sandra Buechler assume uno sguardo antitetico rispetto alle tendenze antistoriche dominanti nelle professioni di aiuto e più in generale nelle professioni intellettuali.
Nel 2005 Buechler presenta l’intervento “Why we need Fromm Today: Fromm’s Work Ethic”, alla Conferenza Internazionale “Orientamento Produttivo e la Salute Mentale”, in occasione del 20° anniversario della Società Internazionale Erich Fromm 29 ottobre-1° novembre 2005, a Lugano. Dalla traduzione di Debora Spini per Rainer Funk:
«Vorrei mettere in primo piano l’etica del lavoro di Fromm, così rilevante per il suo pensiero sulla vita piena. La sua concezione è diametralmente opposta a quella puritana, che oppone il segmento lavorativo della vita ai passatempi non lavorativi. Il pensiero di Fromm sottolinea invece, distanziandosi nettamente, sì l’importanza del lavoro, ma non come oggetto a sé stante o in contrapposizione con altre attività – come analizzeremo ora in breve.
Sono convinta che per noi, come analisti, sia lecito esprimere i valori che più ci appassionano. Non credo che il legame con l’impresa analitica mi richieda di far finta di lasciare i miei valori a casa quando vado a lavorare la mattina. Penso che le applicazioni sbagliate del concetto di neutralità abbiano creato molta confusione sulla questione se si possa ritenere appropriato, per un analista, di esprimere i propri valori più saldi e profondi. Per sottolineare questo tema, organizzerò le mie considerazioni intorno ad una serie di valori a cui tengo in modo profondo».
Marco Bacciagaluppi, studioso di Erich Fromm, sostiene in un suo scritto che “Se dovessimo riassumere ciò che Fromm rappresenta come forza morale, potremmo dire, per usare le sue stesse parole, che egli «ci richiama a noi stessi».”
Fromm è un intellettuale dimenticato. Il dovere di un intellettuale è resistere al potere e alla seduzione della scienza. Romano Biancoli[3] sostenne che «Fromm non si è mai lasciato inquadrare in nessuna scuola di pensiero. A vent’anni dalla sua morte, ancora non riusciamo ad assegnarlo a questa o quella corrente definita. Né si può dire che sia un eclettico, anzi, al contrario, lui esprime una posizione complessiva netta e caratterizzata. Dell’eclettico ha l’attingere a molte fonti, ma poi stringe sintesi personali che superano spesso le fonti da cui prendono e si formulano in modo autonomo e originale. Il tratto più qualificante del pensiero di Fromm, l’umanesimo radicale, è vedere nell’essere umano la radice di tutto. Il presupposto è che esista una natura umana come caratteristica di base della specie umana, comune a tutti gli uomini, i quali presentano non solo una stessa anatomia e una stessa fisiologia, ma anche una medesima struttura psichica. Questo rende il genere umano una unità e spiega la comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane, della loro arte, dei loro miti, dei loro drammi (Fromm, 1962, p.55). E’ una visione teorica che trova applicazione clinica principalmente nella correlazione “center-to-center” tra analista e paziente (Fromm, 1960; Biancoli, 1995): l’analista può comprendere il paziente in quanto sperimenta in se stesso ciò che quest’ultimo sperimenta, secondo la massima di Terenzio: “Nihil humani a me alienum puto”. Ogni individuo, in quanto membro del genere umano, è potenzialmente capace di sperimentare in sé ogni esperienza umana. Il trattamento psicoanalitico ispirato all’umanesimo radicale si propone il mutamento del paziente da un orientamento alla passività interiore e al possedere ad un orientamento all’attività, avviando il cammino dalla modalità dell’avere alla modalità dell’essere.
Egli immette nella cultura del novecento le linee di forza dei grandi maestri di umanità, da Isaia a Socrate, da Meister Eckhart a Spinoza, da Goethe ad Albert Schweitzer, cioè prospettive di pensiero atte ad attraversare tempi lunghi e intere epoche della storia.
Fromm afferma che la natura umana non si può scorgere come tale ma attraverso le sue diverse manifestazioni. E’ nella “situazione umana” che si manifesta la natura umana (1947). Dai testi di Fromm, si può riassumere come segue il suo concetto di “situazione umana”. Nell’evoluzione dei primati risultano due tendenze: la determinazione sempre meno istintiva del comportamento e la crescita del cervello, particolarmente della neocorteccia. Cioè, l’uomo è il primate fornito della minima dotazione istintiva e del massimo sviluppo cerebrale (Fromm, 1973, p. 201). La singolare emersione biologica diventa un dato, intrinsecamente contraddittorio, della situazione umana: far parte della natura e insieme trascenderla, proprio per la debolezza degli istinti e la consapevolezza di sé, estranea ad ogni altro animale. L’armonia dello stato naturale è rotta, il mondo dell’uomo è il mondo del conflitto (Fromm, 1947, pp. 29 e sgg.).
La frattura che vive dentro l’uomo reca una fondamentale “dicotomia esistenziale”: individuarsi o regredire (Fromm, 1941, 1955). Il processo di individuazione è caratterizzato da autonomia e solitudine. Procedendo lungo questa via si arriva a conseguire quei gradi di libertà che consentono di amare. In alternativa, la “fuga dalla libertà” (Fromm, 1941) è la risposta regressiva alla paura della solitudine, inevitabile costo dell’individuazione.
Fromm descrive la contrapposizione tra etica umanistica ed etica autoritaria nell’opera “Dalla parte dell’uomo”, in cui contrappone anche l’autorità razionale a quella irrazionale, la coscienza umanistica a quella autoritaria. La coscienza umanistica è per Fromm “la voce del nostro vero Sé, che ci richiama a noi stessi, per diventare ciò che siamo potenzialmente”.
Egli sostiene inoltre che il carattere cosiddetto produttivo sia il più vicino alla virtù. »
L’etica della virtù si basa sull’assunto che le azioni siano successive alle scelte, e che quindi la moralità non ha a che fare con l’obbligatorietà dell’azione; si guarda alle persone, alle disposizioni del carattere.
I valori proposti da Sandra Buechler per ribadire l’attualità del pensiero di Fromm, sono l’integrità, la realizzazione di Sé, il coraggio, la speranza attiva e il senso di avere uno scopo, la libertà. Ci soffermeremo solo su integrità e realizzazioni di Sé, per ragioni di tempo e di spazio.
Se per la Buechler (2003, 2004) l’integrità umana è uno stato «nel quale le motivazioni profonde, le assunzioni di base e le azioni formano un insieme compatto», Fromm espone la sua concettualizzazione di integrità relativa al lavoro, portando ad esempio l’Artigiano del Duecento e del Trecento.
Per Fromm quell’artigiano vive la vita piena, egli impara il proprio lavoro da altri artigiani, quindi nella relazione, in un contesto strutturato e organizzato. Apprende dal proprio lavoro, in quanto nell’ambiente di lavoro sviluppa relazioni, capacità, abilità, e inoltre ri-progetta continuamente se stesso attraverso l’apprendimento di competenze via via più complesse, in una storia che non è solo sua personale, ma all’interno di un tessuto sociale.
Questa che oggi chiameremmo vision, vision imprenditoriale, si situa come uno dei capisaldi di società “piena e sana” (si noti come il lessico di Fromm rimanda ad un principio di abbondanza e non di scarsità), in cui il lavoratore è incoraggiato a lottare per realizzare il Sé, sviluppando quella che il Premio Nobel per l’economia Amartya Sen[4] ha chiamato capability, capacità di realizzazione di Sé, capacità di felicità possibile: la dimensione professionale o lavorativa, non è alienata dal resto della vita, è integrata nell’esistenza.
Nella società di Erich Fromm, il lavoro è scenario di realizzazione del Sé, e di esperienza del Sé. In questo scenario sociale, nessun uomo può essere il mezzo per i fini di un altro, ma è egli stesso il solo fine di se stesso e del proprio operare. In questa accezione di integrità, l’uomo non può neppure prestare se stesso ai fini di poteri che non siano buoni e produttivi, in altre parole questo uomo non può mercificare il proprio operato in un contesto in cui non può essere libero, in cui le attività politiche ed economiche non siano subordinate al suo sviluppo. La segmentazione e la parcellizzazione delle mansioni (oggi si parla di alta specializzazione), non sono un incentivo al processo di integrazione. Inoltre, Fromm sostiene che: «Non si può separare l’attività di lavoro dall’attività politica, dall’uso del tempo libero e dalla vita personale. Se il lavoro dovesse diventare interessante senza che gli altri settori di vita divenissero umani, non avverrebbe alcun vero cambiamento».[5]
E’ probabile che ciascuno di noi abbia un modo molto personale di chiedere aiuto, di attivare cambiamento, di porsi in modo innovativo verso l’esistenza. Un modo personale di apprendere e di progettarsi. Ciascuno, direbbe il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, possiede personali funzionamenti e capabilities che non sono felicità ma realizzazione, soprattutto immateriale.
Credo che l’etica della conoscenza non posso sottrarsi al confronto e alla riflessione sulle tematiche epistemologiche, poiché sono direttamente connesse al knowledge working e alle sue modificazioni.
Si assiste alla nascita della psichiatria olistica e alla medicina umanistica. Alla computer art e all’economia della felicità. La logica formale non apprende attraverso l’esperienza ma impara dai metodi dell’esperienza; si fa problematizzare dalla soggettività; la psicologia e l’antropologia necessitano di categorie di analisi, manuali con criteri assiomatici, antropometrici.
Questo movimento interno, che potremmo definire ibridazione delle logiche conoscitive, potrebbe essere anche letto come il percorso individuativo della gnosis, un ripristino della sua identità primigenia dopo un lungo inverno di separazioni interne. Un tempo le arti e le scienze erano accorpate nel sapere delle Muse, e non vi era frattura e conflitto tra aree della conoscenza.
Proviamo a leggere questo fenomeno come la risposta inconscia ad un bisogno tutto umano di restituirsi all’unità, all’integrità interna. Di risanarsi di fratture praticate, dal positivismo, dall’integralismo culturale, dalla rigidità che si veste di coerenza.
E’ il tentativo di rispondere in modo individuativo ad una scissione che non comporta salute, ma un forte stress. E il produttore di conoscenza come il professionista della salute sono chiamati a sentire il loro sintomo e ad elaborarlo.
A non soggiacere necessariamente alle regole imposte da un meccanismo largamente nevrotizzante. Sono invitati da Fromm, e non solo da lui, a rivedere le posizioni interiori quando non rispondono più alla pienezza valoriale dell’autenticità che solo l’Uomo può attribuire ed è in grado di attribuire.
Sandra Buechler ce ne porta un esempio che richiede una trattazione a parte: il modello economico della managed care.
Ma ancora un inciso sulla conoscenza. La confusione a livello metodologico, inevitabilmente conduce alla trasfusione dei contenuti, e rende assai complicata se non impossibile la verifica di un risultato.
L’etica della conoscenza deve poter riflettere sulle sistematizzazioni valoriali per procedere ad una possibile revisione. La progettualità didattica cambia in modo radicale, e l’approccio pluridisciplinare deve fare i conti con le trasformazioni metodologiche.
Non solo come psicologi, ma anche come docenti e come formatori siamo tenuti ad interrogarci sulle questioni di fondo, per non correre il rischio di attraversare una crisi identitaria senza essercene accorti. Nelle cose stabili alberga già il seme del cambiamento, come ci insegna Lao-Tse.
Anche se spostiamo il livello di osservazione dal singolo uomo all’organizzazione, dobbiamo interrogarci sulla capacità dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni di leggere e di tradurre il sistema valoriale aziendale a favore del committente.
Il punto di frattura è tra i bisogni psicologici degli utenti e i bisogni psicologi dell’organizzazione, poiché le due finalità non sempre coincidono.
È sempre più difficile ancorarsi al qui ed ora, su questa zattera così fragile. Dobbiamo ritrovarci e costruire ancora, riprovarci, continuare sul sentiero tracciato da Fromm, Jung, Freud, e molti altri studiosi, per non essere afferrati dall’idea che tutto sia inutile. Stabilire una rotta, costruire nuove mappe, anche se sembra tutto molto sfilacciato, incompleto, incompreso.
Nuovi modelli, antiche forme di cooperazione. Immagini fondate sul dono, sulla bellezza.
Appare anche difficile giungere a una qualche conclusione coerente di questo piccolo percorso che, volutamente, è stato frammentario, proprio perché voleva dare l’idea della complessità, e ricchezza, delle relazioni tra queste discipline. Se tuttavia un epilogo si deve trarre da questo rapido viaggio, esso può bene essere espresso da una frase di Karl Popper del 1912: «Se psicoanalisi ed etica rinunzieranno ad ogni disputa nominalistica e a ogni diatriba ideologica, e sapranno collaborare nel futuro, i risultati non potranno che essere eccellenti.»[6] Cento anni dopo non sappiamo ancora se le cose siano andate così.
«Non vi è frattura tra lavoro e gioco, tra lavoro e cultura. Il modo in cui l’artigiano si guadagna da vivere determina e influenza il suo intero sistema di vita».[7]
[4] Amartya Sen nacque nel 1933 a Santiniketan (in Bengala): divenne docente presso l’università di Calcutta, presso il Trinity College di Cambridge, poi a Nuova Deli, alla London School of Economics, a Oxford e, successivamente, all’università di Harvard. Nel 1998, pur mantenendo la sua carica di docente ad Harvard, ha fatto ritorno come rettore al Trinity College. Presidente della Economic Society, della International Economic Association, della Indian Economic Association, a Sen è stato conferito il Premio Nobel per l’economia nel 1998. Egli è autore di numerosissime opere, delle quali meritano sicuramente di essere ricordate Collective Choice and Social Welfare (1971), On Economic Inequality (1973), Commodities and Capabilities (1985), Etica ed Economia (1987), Inequality Reexamined (1992), Lo sviluppo è libertà (1999), Globalizzazione e libertà (2002).
[5] Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, p. 312
[6] Karl Popper: “Never let yourself be goaded into taking seriously problems about words and their meanings. What must be taken seriously are questions of fact, and assertions about facts: theories and hypotheses; the problems they solve; and the problems they raise” (Popper K., 1992, p.16)
[7] C. Wright Mills 1951 p. 220, citato da Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea, p. 175).
in collaborazione con
La libertà individuale non è un bene della civiltà.Era massima prima di ogni civiltà,e però allora era per lo più senza valore, perché l’individuo non era praticamentein grado di difenderla.Sigmund Freud
INTRODUZIONE
Mi hanno sempre colpito i racconti di coloro che, tornando dai paesi del cosiddetto terzo mondo, sono assolutamente meravigliati di come gli abitanti di questi paesi si mostrino sorridenti e solari pur vivendo in baracche, scalzi e senza la sicurezza di un pasto; un commento amico sintetizza al meglio quanto sto cercando di dire: “Non capisco come sia possibile per questi bambini, che per avere una Coca Cola devono fare quattro chilometri a piedi nudi nella foresta, divertirsi e ridere spensierati. Penso ai miei figli col broncio perché non hanno l’ultimo gioco per la playstation o che piangono perché la carne ha troppi “grassini!”.
La definizione terzo mondo afferisce alla sfera economica che per molti aspetti porta con sé anche lo sviluppo sociale (maggiori risorse economiche si traducono spesso in maggiori servizi e quindi alla maggiore vivibilità di un determinato sistema sociale) ma non necessariamente è legato al benesserepsichico inteso come massima libertà percepita nella realizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche.
Nel terzo mondo gli individui vivono in condizioni che ricordano molto quello che noi chiamiamo Uomo Primitivo ma sembra che siano più sereni o quanto meno si può dire, in proporzione, che noi del primo mondo siamo molto meno sereni di quello che dovremmo essere.
Questo lavoro si pone come obiettivo quello di confrontare criticamente lo stile di vita dei nostri progenitori con il nostro del XXI Secolo cercando di capire cosa è cambiato, perché è cambiato e con quali conseguenze per il nostro benessere psichico; per far questo prenderò in considerazione alcuni contributi storici ed altri che danno una lettura della situazione sociale in chiave psicoanalitica.
INIZIAMO DAI PRIMITIVI
CHI ERANO?
Per iniziare penso sia opportuno descrivere brevemente, senza quindi partire da troppo lontano, i passi evolutivi che hanno portato l’uomo ad essere quello che è oggi.
2,4 milioni di anni fa si affacciava l’homo habilis capace già di utilizzare utensili: il suo cervello, ormai, era cresciuto nelle sue dimensioni fino a circa 800 cc e grazie allo sviluppo dell’area di Broca è possibile pensare che fossero in grado di utilizzare una prima forma di linguaggio (Cianti, 2010).
L’Homo Erectus compariva circa 1,8 milioni di anni fa per rimanere in auge circa per un milione e mezzo di anni: i resti fossili ci fanno capire che era un potente guerriero, esploratore, abile cacciatore ed inventore grazie anche ai suoi 1200 cc cerebrali. È stato il primo ad addomesticare il fuoco, sviluppando quindi ulteriormente gli utensili e viaggiando anche fino in Cina e nel sud Est asiatico (Cianti, 2010).
300 mila anni fa l’homo sapiens, con la sua postura retta ed il suo cervello pienamente sviluppato, faceva da ponte verso quello che sarà l’homo sapiens sapiens. Circa 150 mila anni fa compariva l’homo sapiens Neandertalensis che pur avendo un cervello più capiente dell’uomo moderno per circa l’8%, un’altezza di 160 cm ed uno scheletro poderoso, scomparve misteriosamente forse sterminato proprio dall’homo sapiens (Cianti, 2010).
Ecco che 120 mila anni – 180 mila anni fa compare l’uomo moderno, il sapiens sapiens, riconosciuto in due razze il Cro-Magnon ed il Combe Capelle; dall’analisi del DNA non emergono mescolanze con specie di homo più arcaiche: si tratta quindi di un uomo nuovo (Cianti, 2010).
COSA FACEVANO?
Già in questo paragrafo potranno emergere i primi spunti riflessione dettati da un confronto, che viene del resto immediato, con l’homo moderno. I resti fossili avvicinano molto il comportamento dei primitivi con quello degli animali che si muovono in branco: cacciano se hanno fame, una volta saziati si dedicano all’ozio ed alla cura della prole, si accoppiano quando le stagioni e la disponibilità di cibo lo consentono e si ingegnano in nuove scoperte spinti da curiosità; si intuisce subito che è l’individuo con le sue esigenze ad essere al primo posto poiché:
“E’ infatti l’individuo il vertice della evoluzione. È lui che porta dentro di sé i geni da trasmettere, è in lui che avvengono tutte quelle mutazioni casuali delle quali li più idonee serviranno alla specie per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente” (Cianti, 2010, p.121)
Ma per poter garantire al meglio l’evoluzione l’homo deve essere, e sentirsi, libero di muoversi, di spostarsi di pensare e di esprimere al meglio le proprie potenzialità realizzando i suoi intenti: molti esperimenti dimostrano che animali, tra cui l’uomo, privati di questa libertà si ammalano e spesso si lasciano morire. In questo senso Erich Fromm, sociologo e psicoanalista della seconda metà del ‘900, parla chiaro:
“[…] libertà non consiste nel laissez-faire e nell’arbitrio. Gli esseri umani hanno una struttura propria al pari di ogni altra specie e possono crescere soltanto in conformità a tale struttura. Libertà non significa affrancamento da tutti i principi guida, bensì possibilità di crescere secondo le leggi strutturali della esistenza umana, vale a dire secondo restrizioni autonome. Essa comporta l’obbedienza a leggi che governano lo sviluppo umano ottimale; ogni autorità che favorisca tale scopo è un’ “autorità razionale”, a patto che la sua attività promotrice consista nel potenziare il dinamismo, il pensiero critico e la fede nella vita del bambino; è invece un’ “autorità irrazionale” quando imponga al bambino norme eteronome che servono ai propositi dell’autorità, non però agli scopi della struttura specifica del bambino” (Fromm, 1977, p. 95)
La vita in branco, o meglio in tribù, non modificò affatto questa libertà primitiva poiché, essendo stata raggiunta con secoli di evoluzione, era funzionale alla sopravvivenza: avendo perso ormai la capacità di arrampicarsi rapidamente sugli alberi, a causa della postura definitivamente eretta e della scomparsa degli artigli, era necessario unirsi in gruppo (tribù) per fronteggiare i grandi predatori rendendo così la caccia più proficua e funzionale.
COME VIVEVANO?
Queste tribù avevano ancora una struttura relativamente semplice composta da pochi individui e scarse distinzioni sociali. Sulla base della disponibilità di selvaggina si distinguono Società a ritorno immediato (scarsa disponibilità), e Società a ritorno ritardato (maggiore disponibilità) (Cianti, 2010); nella fattispecie nel primo caso le principali caratteristiche sono:
Cibo consumato immediatamente;
Gruppi non stabili e nomadi;
Nessuna istituzione, regole semplici e flessibili, strettamente egualitaria;
Impegni a breve scadenza, individualismo ed indipendenza;
Condivisione del cibo e degli strumenti, sanzioni a chi accumula proprietà personali;
Accesso libero al territorio.
Nel secondo caso invece:
Il cibo in eccesso viene lavorato e conservato;
i gruppi non sono stabili, restano però legati strettamente e sono parzialmente nomadi;
esiste un capo, un consiglio di saggi, regole complesse ed un ordine superiore di legami come i clan, le fratrie e le parti;
Impegni e legami sono considerati importanti;
esiste la proprietà del cibo e delle donne, c’è scarsa condivisione;
il territorio resta libero ma è controllato, nasce la proprietà su alcune risorse.
Anche Fromm (1975) arriva ad affermare che, con molta probabilità, le situazioni di caccia potrebbero aver generato nuovi schemi di comportamento come ad esempio collaborare e condividere altre cose poiché, appunto, la collaborazione fra i membri di una tribù era una condizione fondamentale: se questo fosse vero ne deriverebbe che “l’uomo moderno ha un impulso innato di collaborazione, di compartecipazione, piuttosto che di uccidere e di infliggere crudeltà (Fromm, ibidem, p. 178). M.D. Sahlins (1960) sottolinea che le necessità di adattamento hanno fatto subordinare al primate certe sue inclinazioni come il predominio e la competizione brutale a favore di collaborazione, moralità e solidarietà, elementi che emergono anche nell’arte rupestre dove infatti tra gli episodi di vita raffigurati brillano per loro assenza scene di guerra fra uomini. Tutto ciò entra profondamente in conflitto con il nostro modo di vedersi nel mondo dove della nostra economia ci porta a pensare ad un uomo che naturalmente è incline a trafficare, barattare o accumulare avidamente comprando possibilmente a buon mercato “facendo l’affare” e rivendendo massimizzando il profitto in barba alla solidarietà (Service, 1966).
LE RELAZIONI SOCIALI
Prima di tutto è necessario precisare che, trattandosi di una dimensione di tribù:
“[…] sono le relazioni sociali strette a prevalere, le emozioni dell’amore, il codice della vita familiare, la moralità dettata dalla generosità condizionano tutte insieme l’atteggiamento verso le merci, in modo da ridurre il comportamento economico” (Service, 1966)
Non ci stupisce, quindi, che le relazioni sociali nelle società primitive siano prive di ogni forma di dominanza ed anche coloro che arrivano ad assumere uno status o un prestigio superiori si distinguono per generosità e modestia; gl’unici riconoscimenti che gli spettano sono l’amore ed il rispetto degli altri. Inoltre la struttura sociale non prevede una leadership formalizzata, tipico degli stadi successivi dello sviluppo culturale, quindi la carica di capo non esiste ma passa da una persona ad un’altra a seconda della necessità. Fromm sottolinea come ci sia enorme differenza fra le culture che incoraggiano avidità, invidia e sfruttamento e culture che invece si muovano in senso opposto: se nel primo caso queste caratteristiche andranno a formare il “carattere sociale” e quindi una sorta di sindrome della maggioranza, nel secondo caso invece saranno solo aberrazioni individuali dalla norma con poca influenza sul resto della popolazione (Fromm, 1975). Questa tipologia di rapporti sociali dimostrano che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza- sottomissione (ibidem): ma come si proteggeva quindi dai membri socialmente pericolosi? Gran parte del controllo era raggiunto attraverso le norme e le usanze e qualora non bastassero a prevenire comportamenti socialmente sconvenienti erano previste sanzioni come: isolamento, mostrare minore cortesia, derisione e nei casi limite l’ostracismo, usanza arrivata almeno fino all’Antica Grecia.
In altre società di cacciatori si poteva arrivare anche al duello:
“Quando la disputa è fra un accusatore e un accusato, come succede di solito, l’accusatore ritualmente scaglia le lance dalla distanza prescritta, mentre l’imputato cerca di evitarle. Il pubblico può applaudire la velocità, la forza e la precisione dell’accusatore mentre scaglia le lance, oppure l’abilità con cui l’imputato le schiva. Dopo un certo tempo si raggiunge l’unanimità, dopo che si è delineata l’approvazione per l’uno o per l’altro. Quando l’imputato si rende conto che la comunità lo sta giudicando colpevole, deve lasciarsi ferire (non uccidere, ndr) in qualche parte carnosa del corpo. Viceversa, l’accusatore interrompe semplicemente i suoi lanci quando capisce che l’opinione pubblica è contro di lui (C.,W.,M., Hart, A.,R., Pilling, 1960; corsivo mio)
Ancora M.D. Sahlins ha contestato la premessa su cui è fondata l’aggressività dei cacciatori primitivi ovvero la penuria ed una continua condizione di fame; egli ritiene, al contrario, che quella dei cacciatori fu la prima società affluente ovvero quella società in cui vengono soddisfatti tutti i bisogni. Non dobbiamo, però, leggere questa condizione nell’ottica consumistica della modernità poiché queste popolazioni producevanomolto e desideravanopoco raggiungendo quindi presto la prosperità.
LA RIVOLUZIONE AGRICOLA: L’EVOLUZIONE?
Dopo che l’uomo preistorico ebbe scopertoche era in mano sua – inteso così letteralmente – migliorarela sua sorte sulla Terra, non poté più essergli indifferenteche un altro lavorasse con lui o contro di lui.
Sigmund Freud
Come ci si è arrivati e le conseguenze
Possiamo datare l’inizio della rivoluzione agricola circa 150.000 anni fa, nel momento in cui i sapiens abbandonarono il continente africano per diffondersi sull’intero pianeta iniziando dalla mezzaluna fertile ovvero l’attuale Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano ed Israele. In questa parte del pianeta l’orzo ed il grano selvatico crescevano spontaneamente e questo permise all’uomo di passare da una condizione di nomadismo ad una stanzialità permanente con tutta una serie di conseguenze che cercheremo di vedere nel dettaglio.
La prima di queste è sicuramente che l’uomo, una volta capito che piantando i semi del grano questo ricresceva, iniziò a rendersi indipendente dalla natura producendo qualcosa in più di ciò che la natura stessa gli aveva dato. Quindi da un punto di vista psicologico questi cambiamenti fornirono all’uomo una nuova prospettiva poiché capì che con la sua volontà poteva determinare il corso degli eventi (semino e la pianta cresce) e non soltanto il “caso”. Fromm (ibidem, p.197) arriva a ipotizzare che “la scoperta della agricoltura possa essere alla base di tutto il pensiero scientifico e dei successivi sviluppi tecnologici”.
Altre conseguenze secondarie ma solo in ordine di tempo, portarono all’allargamento degli allevamenti, iniziando ad accumulare cibo e dando così alla popolazione la possibilità di crescere: deriva anche da questo l’esigenza di iniziare a riconoscere e regolamentare la proprietà privata riducendo pian piano sempre più la libertà di cui fino ad allora aveva goduto il primitivo-cacciatore.
Ma quale può essere il motivo di questa svolta epocale? Si sono fatte varie ipotesi:
“Secondo alcuni i cambiamenti climatici conseguenti alle ultime glaciazioni favorirono lo sviluppo massivo di graminacee che indusse gli uomini a nutrirsene, ma questa tesi non tiene conto del fatto che l’agricoltura sorse in ogni clima e già da 200.000 anni l’uomo conosceva e occasionalmente si nutriva dei semi di queste erbe. Secondo altri la rivoluzione dipese dall’estinzione delle grandi prede come i mammouth ad esempio e dall’incremento demografico. Non ci sono però segni di carestie nel Paleolitico e l’incremento della popolazione fu successivo alla agricoltura. altri ipotizzano la nascita di nuovi bisogni come quella della proprietà dei beni o il desiderio di un più elevato status sociale. Ma i preistorici avevano già monili ed ornamenti di ogni genere e la gerarchizzazione sociale fu una conseguenza, non la causa della agricoltura. Più convincente appare la prospettiva biologica teorizzata da Wadley e Martin (1993) se non altro perché spiega l’accettazione delle tristi condizioni della agricoltura. La presenza nel frumento di esorfine, sostanze oppiacee, analgesiche, ansiolitiche, e gratificanti in grado di modificare il tono dell’umore sarebbe servita a mitigare il drastico cambiamento. Le esorfine danno assuefazione e provocano crisi di astinenza, ma la quantità presente nei cereali non comprometteva il lavoro mentre ne compensava le frustrazioni. Sicuramente fu arduo per l’uomo come d’altronde lo è adesso, accettare la promiscuità degli insediamenti, la fatica spesa a beneficio di estranei non consanguinei e la subordinazione imposta.
[…] Se non ci sono state influenze esterne come mai l’agricoltura è nata contemporaneamente e con gli stessi criteri in ogni parte del mondo, da gruppi di umani che non avevano nessun contatto fra di loro?”
(Cianti, 2010, p. 146, corsivo mio)
Riassunti in una breve tabella ecco i pro ed i contro della rivoluzione agricola (Cianti, 2010, p. 155):
PRO
CONTRO
Nascita della civiltà. Molte menti libere dall’affanno del cibo (non food specialists) si dedicano alla produzione di beni e di pensiero;
Cibo per tutto anche se di scarso valore nutritivo;
diminuità mortalità infantile;
Sopravvivenza dei più.
Peggioramento della salute;
inquinamento;
Sviluppo demografico eccessivo;
Cibo ottenuto con grande dispendio di energia. Ritmi naturali stravolti;
Grande riduzione del tempo libero;
Individuo, libertà, famiglia e società perdono il loro valore naturale.
Le prime forme di Civiltà ed il ruolo centrale della Madre
Il surplus di cibo permise ad una ristretta cerchia di persone di non impegnarsi nella caccia rimanendo libera da obblighi per la sopravvivenza e, quindi, nella possibilità di impegnarsi in altri ruoli: non solo artigiani, soldati e burocrati ma anche e soprattutto menti libere di pensare per scoprire ed inventare ovvero gli specialisti non-food fondamento della civiltà (Cianti, 2010).
Dal 1961 in poi scavi archeologici hanno portato alla luce le rovine di Catal Hüyük, una delle città più antiche dell’Anatolia; una delle sue caratteristiche più sorprendenti è il grado di civiltà che vedeva già la presenza di suppellettili di lusso come specchi di ossidiana, pugnali di metallo ma anche recipienti di legno di varie dimensioni e di varia raffinatezza. Nonostante ciò sembra, che le strutture sociali mancassero degli elementi caratteristici degli stadi successivi dell’evoluzione. Mellaart (1967) sottolinea che nonostante l’evidente grado di sviluppo anche dell’artigianato, il lavoro e le sue regole erano pubbliche e derivavano dall’esperienza comunitaria: ancora una volta mancano le premesse per la formazione di una leadership permanente che organizzi, previo ricompensa, l’intera organizzazione economica. Questo si verificherà soltanto in seguito quando il surplus sarà tale da poter essere trasformato in capitale i cui proprietari potranno far lavorare gli altri per loro. Ma intanto, parlando di struttura sociale, una delle caratteristiche fondamentali dei villaggi neolitici è il ruolo centrale della madre: infatti se gli uomini si dedicavano solo alla caccia e le donne alla raccolta delle radici e dei frutti è probabile che l’agricoltura sia stata scoperta dalle donne mentre l’allevamento del bestiame sia stato sviluppato ed organizzato dagli uomini. Automaticamente la capacità di dare la vita, propria della terra e della donna e assente nell’uomo, mise subito la madre in una posizione di supremazia sia sociale che religiosa:
“[…] i misteri della donna come ad esempio la fertilità, costituivano una parte della vita degli uomini neolitici e paleolitici ed erano alla base del potere del matriarcato. Gli uomini primitivi hanno dovuto calcare gli aspetti del matriarcato sui loro manufatti per poter meglio comprendere i suoi poteri e quindi separarsi da esso: il loro compito psicologico è stato quello di recepire i significati in modo da potersi individuare”
(McCully, 1988, corsivo mio)
Altro elemento che testimonia questo ruolo di assoluta centralità della donna è l’arte rupestre: nella sola Catal Hüyük su quarantun sculture affiorate dagli scavi ben trentatré raffiguravano dee sole, o magari con un maschio, o incinte, o mentre partorisce ma mai in subordinazione ad un uomo:
“Spesso la dea-madre è accompagnata da un leopardo, vestita di pelle di leopardo, oppure rappresentata simbolicamente da leopardi, che allora erano gli animali più feroci e pericolosi della regione. Così veniva vista come la signora degli animali selvaggi, e si metteva in luce l suo ruolo di duplice dea della vita e della morte come molte divinità femminili” (Fromm, 1975, p.201)
Ma ciò che più stupisce è il fatto che i dati raccolti dagli scavi ci parlano di società matriarcali assolutamente non-aggressive e pacifiche e ciò, secondo J.J. Bachofen (1949), è dovuto nello spirito di affermazione della vita e nell’essenza di distruttività propria della sfera femminile:
“Il primo rudimento della civiltà umana, il punto di partenza per ogni virtù e per ogni più alto aspetto dell’esistenza, è invece il fascino promanante dal principio materno, il quale, in una vita piena di violenza, dovette apparire come il principio divino dell’amore, dell’unità e della pace. […] Una tale disposizione d’animo propizierà un modo di sentire più alto, propizierà ogni azione benefica, ogni dedizione, ogni disciplina, ogni pietà sui morti. […] Come al principio del paterno è proprio il limite, quello del materno è propria invece l’universalità; come quello implica l’appartenenza ad un’unità determinata, così questo non conosce limitazioni, simili, in ciò, alla vita stessa della natura. […] La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che ritrova nei primordi, a contrassegnare la vita matriarcale di contro a quella superiore dello spirito.”
(Bachofen, 1949)
Questa ipotesi attirò pesanti critiche da parte degli antropologi dell’epoca per due ordini di motivi: il primo perché, ormai inseriti in una società patriarcale, era impossibile per loro stravolgere gli schemi di riferimento sia sociali che mentali ed accettare che la dominanza maschile non fosse la prassi (del resto Freud era figlio di questa società ed arrivo a concepire la donna come unuomo castrato (Fromm, 1975)), ed il secondo perché le prove a sostegno di questa ipotesi si basavano su miti e drammi senza portare niente di concreto e reale come scheletri, vasi, utensili, armi, ecc.
LA RIVOLUZIONE URBANA: L’INVOLUZIONE?
Ci sono singoli uominia cui non manca la venerazione dei loro contemporanei,sebbene la loro grandezza riposi su doti e operedel tutto estranee alle finalità della massa.
Sigmund Freud
Nel quarto e nel terzo millennio lo sviluppo di insediamenti stabili portò ad una centralizzazione dei piccoli villaggi in città sempre più popolose; crebbero, quindi, le esigenze anche da un punto di vista logistico: fu necessario scavare canali per irrigare i campi e drenare le paludi, si costruirono argini e terrapieni per prevenire i disastri di possibili inondazioni, ecc.
Anche la struttura sociale cambiò in virtù del fatto che per questo tipo di lavori occorreva una forza-lavoro specializzata che si preoccupasse solo di quello; a sua volta, quindi, era necessario che altre persone coltivassero la terra anche per loro e che qualcuno, una élite, pianificasse, proteggesse e controllasse che tutto fosse svolto secondo quanto deciso. Questo portò una accumulazione di surplus di gran lunga superiore rispetto a quella dei primi villaggi del neolitico: per la prima volta questo surplus non aveva più il ruolo di riserva per i momenti di bisogno ma diventava capitale per una produzione in espansione. Ma ci fu un altro cambiamento importante:
“La società aveva assunto un eccezionale potere di coartare i suoi membri. La comunità poteva negare ad un membro recalcitrante l’accesso all’acqua chiudendo i canali che passavano per i suoi campi. Questa possibilità di coercizione fu una delle basi sulle quali si fondò il potere dei re, dei sacerdoti e dell’élite dominante, una volta che riuscirono a sostituire o, in prospettiva ideologica, a “rappresentare” la volontà sociale. […] Si scoprì che l’uomo poteva essere usato come strumento economico, che poteva essere sfruttato e reso schiavo”
(Fromm, 1975, pp.207-208)
Come si è già, forse, potuto intuire comparve la suddivisione in classi: una parte privilegiata dirigeva ed organizzava in cambio del mantenimento di un tenore di vita esagerato ed inaccessibile al resto della popolazione ovvero i contadini e gli artigiani. L’ultimo livello nella scala sociale era riservato agli schiavi ed ai prigionieri di guerra.
La scoperta dal capitale portò alla legittimazione del sistema di produzione della conquista come modo per assoggettare popolazione limitrofe guadagnando così anche i loro possedimenti. Lo strumento di conquista per eccellenza fu, ovviamente, la guerra che nasceva dalla contraddizione di fondo di un sistema economico che se da un lato aveva esigenze di unificazione per raggiungere una funzionalità ottimale, dall’altro iniziava a scontrarsi con le separazione politiche e le lotte dinastiche per la gestione del potere:
“La brama di possesso non può non condurre a una guerra di classi senza fine. L’affermazione dei comunisti , che il loro sistema metterà fine alla lotta di classe in quanto abolirà le classi, è pura illusione, dal momento che anche il loro sistema si basa sul principio del consumo illimitato quale scopo dell’esistenza. Finché ciascuno aspira ad avere di più (incrementando quindi il capitale, ndr), non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.
(Fromm, 1977, p. 17)
Quindi l’origine della guerra non si ebbe da fattori psicologici come l’aggressività umana ma in condizioni in cui, a prescindere dalla brama di potere dei burocrati, la guerra era utile e per la quale però, ma solo secondariamente, si vedeva necessario generare e accrescere la distruttività e la crudeltà umane.
Il ruolo non più centrale della Madre: il Patriarcato
Questi cambiamenti socio-economici spostarono il focus dalla creazione della vita e dalla fertilità del suolo al pensiero astratto e meditativo, all’intelletto necessario per nuove invenzioni, per nuove tecniche per le costruzioni e per le guerre. Il mito espresso nell’inno babilonese alla creazione chiarisce bene la portata del cambiamento:
“Questo mito descrive la ribellione vittoriosa degli dei maschili contro Tiamat, la “Grande Madre”, che governava l’universo. Essi formarono un’alleanza contro di lei e scelgono Marduk come Capo. Dopo una lotta durissima, Tiamat viene massacrata, dal suo corpo si formano cielo e terra, e Marduk impera come dio sovrano. […] Il senso della prova è quello di dimostrare che l’uomo ha superato la sua incapacità di creazione naturale – prerogativa della terra e della femmina – con una nuova forma di creazione, la parola (il pensiero). La storia biblica comincia dove finisce il mito babilonese: il dio maschio crea il mondo con la parola” (Fromm, 1975, pp.209-210)
Si passò quindi al principio della norma patriarcale di governo della società in cui è fondamentale l’elemento del controllo: della natura, degli schiavi, delle donne, dei bambini. Quindi un controllo che non si limita alla natura ma l’uomo, e non la donna, arriva a controllare sé stesso e a questo punto la leadership cambia:se prima era accettata volontariamente perché fondata su competenza e quindi razionale (Fromm, 1975), adesso il patriarcato ne impone una basata sulla forza, sul potere, sullo sfruttamento, mediata dalla paura e dalla sottomissione e quindi irrazionale (Fromm, ibidem). Mumford (1963) sottolineò che questo nuovo mondo urbano se da un lato era efficiente, preciso e rigoroso, dall’altro si dimostrava sadico con una inspiegabile, almeno fino ad allora, necessità, da parte dei monarchi, di ostentare monumenti o tavolozze in cui erano raffigurate le loro imprese; Fromm commenta così:
L’esperienza clinica in terapia analitica mi ha portato da parecchio tempo alla convinzione che l’essenza del sadismo è la passione per un controllo illimitato, pseudo-divino su uomini o cose. […] Nella nuova civiltà urbana, oltre al sadismo, si sviluppa la passione per distruggere la vita e l’attrazione per tutto quanto è morto necrofilia (Fromm, 1975, p. 211)
Per concludere Mumford (ibidem) fa anche un’altra considerazione molto pertinente notando che ogni civiltà storica inizia sempre con un nucleo vivo, urbano, frizzante, si pensi alla pòlis, e termina in una fossa comune con necropoli e paesaggi apocalittici.
La rivoluzione industriale
Facendo un enorme passo avanti a livello cronologico arriviamo alla seconda metà del Settecento: fino ad ora l’agricoltura, che ovviamente si è col tempo evoluta affinando le conoscenze e le tecniche di coltivazione, l’ha fatta da padrona anche se si sono susseguiti regni, guerre e carestie. A partire dal 1780 il settore dell’industria crebbe a dismisura e la produzione di beni, che fino a quel momento non era stata in grado di tenere il passo con lo sviluppo demografico, divenne più rapida andando a migliorare alcuni aspetti della vita della gente. La crescita delle possibilità occupazionali data dall’industria portò ad una lenta emigrazione dalla campagne e, quindi, ad un sovraffollamento delle città che non erano ancora in grado gestire una grande mole di persona da un punto di vista alimentare ed igienico sanitario: tutto questo fu aggravato dal fatto che l’impiego di combustibili fossili, carbone e petrolio aggravò pesantemente l’inquinamento ambientale e l’agricoltura che mancava sempre più di forza lavoro fu costretta ad industrializzare la produzione adeguandola ad esigenze strumentali senza rispettare le necessità legate ai terreni che si impoverivano progressivamente.
Da un punto sociale questo nuovo assetto accentuò la frattura sociale fra capitale e forza lavoro e l’industria per alimentarsi iniziò a creare nuovi e superflui bisogni imponendo la domanda per beni non indispensabili.
Riepiloghiamo, quindi, i pro ed i contro della rivoluzione industriale (Cianti, 2010, p. 156):
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Infatti benché le differenze tra gli individui appaiano sotto questo aspetto grandi,ogni società è caratterizzata da un certo livello di individuazioneal di là del quale l’individuo normale non può andare.
Erich Fromm
La critica di Freud alla Civiltà
Credo possa essere opportuno iniziare della definizione che Freud (1949) dà della civiltà ovvero «la somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l’uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra di loro».
L’autore arriva a questa definizione cercando di trovare la fonte della infelicità dell’uomo e ne individua tre: lo strapotere della natura, la fragilità del corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano i rapporti fra uomo e famiglia, fra Stato e Società. A partire da questa insoddisfazione si è creato il terreno da cui poi, in varie occasioni storiche, si è elevata una condanna. La prima è la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni pagane (Freud, ibidem) ma non è questo il contesto per approfondire questo aspetto, la seconda si ebbe con il perfezionarsi dei viaggi di esplorazione che permisero di entrare in contatto con popolazioni e tribù primitive anche se un’interpretazione erronea dei loro usi e costumi portò gli europei a credere che costoro conducessero una vita semplice e felice, con pochi bisogni ma assolutamente irraggiungibile per loro culturalmente superiori, infine, la terza ed ultima occasione, si ebbe con la scoperta del meccanismo della nevrosi: l’uomo iniziò a diventare nevrotico in risposta alla dose di frustrazione che la società gli impose per servire i suoi ideali civili e come immediata e sciagurata reazione si pensò alla possibilità di eliminare o ridurre queste frustrazioni tornando quindi ad essere felici.
Alle tre fonti di infelicità individuate in precedenza dobbiamo aggiungerci anche una profonda delusione per aver preso coscienza del fatto che i progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche non ha aumentato affatto la quantità di piacere, soddisfazione e benessere percepito:
Il raggiungimento del benessere e delle comodità per tutti avrebbe avuto come risultato, così si credeva, la felicità senza restrizioni per tutti. La trinità composta da produzione illimitata, assoluta libertà e felicità senza restrizioni venne così a formare il nucleo di una nuova religione quella del Progresso: una Nuova Città terrena del Progresso si sarebbe sostituita alla Città di Dio. L’imponenza della grande promessa, le stupende realizzazioni materiali ed intellettuali dell’era industriale devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento. […] Il fallimento della Grande Promessa, […] è intimamente connesso al sistema industriale in ragione dei due principali presupposti psicologici della Grande Promessa stessa: 1. che lo scopo della vita sia la felicità, vale a dire il massimo piacere, inteso quale soddisfazione, di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere (edonismo radicale); 2. che l’egotismo, l’egoismo e l’avidità, che il sistema non può fare a meno di generare per poter funzionare, conducono all’armonia ed alla pace.
(Fromm, 1977, pp. 12-13)
Proseguendo nella sua dissertazione Freud si chiede perché non possiamo essere felici di alcuni progressi che, di fatto, sembrano aver migliorato le condizioni di vita umane? Fa riferimento ad invenzioni come il telefono, le ferrovie, le navi che permettono traversate oceaniche, allo sviluppo della medicina preventiva e quindi la riduzione della mortalità infantile, ecc. ma proprio in relazione a questa si chiede, provocatoriamente, in cosa può giovarci se come rovescio della medaglia:
[…] ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell’igiene, sottoponendo d’altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morta come la nostra sola liberatrice? (Freud, 1949 in 2010, p. 112)
La critica alla Civiltà Moderna, da parte dell’autore viennese, continua prendendone in considerazione singoli aspetti secondo lui peculiari come ad esempio la cura per le cose inutili e l’ordine da cui nascono giardini con funzione di serbatoi di ossigeno (Freud, 1949), aiuole fiorite e tutto quanto necessario per onorare la bellezza e la pulizia e si stupisce del fatto che, riconoscendo i vantaggi di una condotta ordinata ed igienica, l’uomo sia vinto, tuttavia, dalla tendenza naturale alla trascuratezza, all’irregolarità ed all’inaffidabilità rendendo necessario un lungo e coercitivo percorso di educazione per essere avvicinato ai modelli celesti (Freud, ibidem): secondo lui il legame pulizia-igiene era conosciuto dall’uomo anche prima dell’era della profilassi scientifica ma l’utilità non spiega la grande importanza che gli riserviamo e per cui deve essere in gioco qualcosa d’altro (Freud, ibidem). Probabilmente qui Freud intende riferirsi ad aspetti nevrotici della psiche dell’uomo che iniziarono ad emergere in coincidenza con i grandi cambiamenti dello stile di vita dettati dalle esigenze di inurbamento. Se ci pensiamo bene questo può essere rintracciato anche ai giorni nostri: l’offerta di prodotti per la pulizia della casa e per l’igiene personale ha raggiunto una varietà tale da far pensare che le industrie produttrici, che decidono di investire a tal punto in marketing e produzione, devono aver colto una qualche forma di debolezza su cui lucrare: ciò non è sicuramente dannoso per noi individui ma se allarghiamo l’attenzione all’impatto ambientale le prospettive cambiano in modo radicale. Personalmente mi hanno sempre colpito gli spot (sia video, sia in cartaceo con immagini talvolta inquietanti) che pubblicizzano prodotti anti-acaro facendoti vivere la inevitabile necessità di proteggerti da questo animale invisibile che minaccia la tua salute: fermo restando che obbiettivamente la presenza dell’acaro è dannosa mi sono sempre chiesto, con approccio totalmente ascientifico, come facessero negli anni ’70 senza questi prodotti e come sia stato possibile che l’uomo sia sopravvissuto per tutto questo tempo ignorando la presenza di questo invisibile nemico. I danni che lui provoca all’uomo credo possano avere pari dignità rispetto a quelli provocati all’uomo dallo smog.
Un’altra caratteristica della nostra Civiltà che Freud prende in considerazione è la regolamentazione dei rapporti fra gli uomini reso necessario dal fatto che, in assenza di una quale regola, finirebbe per vincere il più forte scatenando un regime di lotta intraspecie permanente. Per cui:
La coesistenza umana diventa possibile solo se si trova una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e faccia blocco contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si contrappone poi come “forza bruta”. Questa sostituzione del potere del singolo con quello della comunità è il passo decisivo a favore della civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, laddove il singolo non conosceva restrizioni del genere (o anche la tribù, almeno non in maniera così pesante) (Freud, 1949 in 2010 p. 118)
Ecco da qui nasce l’esigenza della Giustizia cioè la garanzia che l’ordinamento giuridico stabilito non sarà nuovamente infranto a favore di un singolo; col sacrificio di parte dei moti pulsionali di ciascun individuo si avrà la garanzia di non venire surclassati dalla forza bruta.
L’autore inizia qui un confronto fra lo sviluppo della civiltà e lo sviluppo pulsionale del singolo individuo. Il primo è caratterizzato da modificazioni dei moti pulsionali umani, la cui soddisfazione è il compito economico della nostra vita (Freud, ibidem): ma questo, nello sviluppo individuale, è già stato riconosciuto come sublimazione (delle mete pulsionali) ovvero trasferire il soddisfacimento dei moti pulsionali stessi su altri canali. È solo grazie a questo che nella civiltà emergono le attività psichiche superiori, scientifiche, artistiche ed ideologiche. Si ripensi a come sono nati, all’interno delle prime tribù, gli specialisti non food: il surplus alimentare ha permesso ad alcuni individui di cessare la naturale attività mirata a procacciarsi il cibo e concedersi più tempo e più risorse mentali in attività speculative di varia natura.
La natura delle relazioni sociali nella Civiltà
Il numero di Dunbar rappresenta il limite cognitivo entro il quale un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle quali un individuo conosce l’identità di ciascuna persona e come queste persone si relazionano con ognuna delle altre. Secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar un gruppo composto da, approssimativamente, più di 150 individui necessita di regole e leggi più restrittive per rimanere stabile e coeso.
Si pensi, quindi, alle conseguenze del passaggio da piccola tribù di cacciatori/raccoglitori prima e proto agricoltori poi, a grande comunità civile. Fromm, in questo senso spende parole molto importanti:
Le osservazioni dimostrano che, in libertà, i primati sono poco aggressivi, mentre nello zoo sono estremamente distruttivi. Questa distinzione è di importanza fondamentale per la comprensione della aggressività umana, perché, fin’ora nel corso della sua storia, l’uomo non è quasi mai vissuto nel suo “habitat naturale”, ad eccezione dei cacciatori, dei raccoglitori di cibo e dei primi agricoltori fino al quinto millennio a.C. L’uomo “civile”è sempre vissuto negli “zoo”, e cioè secondo una gamma di cattività e di non-libertà, e così vive tuttora, persino nelle società più avanzate (Fromm, E., ibidem, pp. 141-142).
Poco più avanti, sempre Fromm, continua:
È importante rilevare che, come dimostrano le prove, un ampio rifornimento di cibo non impedisce l’aumento di aggressività in condizioni di affollamento. Gli animali dello zoo londinese erano ben nutriti, eppure l’aggressività saliva a causa dell’affollamento. […] Dagli studi sull’aumentata aggressività dei primati in cattività […] l’affollamento è la condizione principale per il dilagare della violenza. […] Esiste forse una esigenza “naturale” per un minimo di spazio privato? Forse l’affollamento impedisce all’animale di esercitare il suo bisogno innato di esplorazione e libero movimento? Forse l’affollamento è sentito come una minaccia al corpo dell’animale che reagisce con l’aggressione? […] L’animale “privato-dello-spazio” può sentirsi minacciato da questa riduzione delle sue funzioni vitali e reagire con l’aggressione. Ma, secondo Southwich, la demolizione della struttura sociale di un gruppo animale costituisce una minaccia ancora peggiore. Ciascuna specie animale vive all’interno di una struttura sociale caratteristica. Gerarchico o no, è lo schema di riferimento cui si è adattato il comportamento animale. Condizione necessaria per la usa esistenza è un equilibrio sociale tollerabile, che, se distrutto dell’affollamento, rappresenta una forte minaccia per l’animale. […] Per chi è convinto che la soddisfazione di tutti i bisogni fisiologici debba bastare per instillare un senso di benessere nell’animale (e nell’uomo), questo tipo di vita (anche in uno zoo non affollato, ndr)dovrebbe essere l’optimum. Ma tale esistenza parassitaria li priva di quegli stimoli che permetterebbero un’espressione attiva delle loro facoltà fisiche e mentali; perciò spesso si annoiano, diventano apatici e depressi. (Fromm, E., ibidem, pp. 144-145)
Circa cinquanta anni prima di Fromm, Freud (1949) aveva sottolineato che è oramai inutile continuare a considerare l’uomo come un essere mite negando nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Egli ha sottolineato come quest’ultima sia un grande fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e come costringa la Civiltà ad un grande dispendio di forze per controllarla spingendo gli uomini in “identificazioni e rapporti amorosi con meta inibita, di qui le limitazioni della vita sessuale e di qui anche il precetto di amare il prossimo come se stessi” (ibidem). Più avanti nello scritto lo psicoanalista viennese legherà l’aggressività con la proprietà privata affermando che “il possesso di beni privati dà il potere, e quindi la tentazione di maltrattare il prossimo” (ibidem): ritorna quindi quanto scritto in precedenza in merito alla nascita delle prime forme di capitale e quindi della necessità di istituire la guerra non tanto per trovare un adeguato sfogo alla istintiva natura aggressiva umana (Fromm, 1975), quanto piuttosto per conquistare il capitale della vicina tribù.
Per concludere vorrei approfondire uno dei precetti ideali dei nostri tempi citato in precedenza: ama il tuo prossimo come te stesso. A questo punto è chiaro che la via dettata dal Cristianesimo non è praticabile dall’uomo se non a prezzo di grandissime frustrazioni. Si pensi, ancora, a come può vivere un individuo frustrato fino a tal punto oppure un individuo che avendo contravvenuto a questo precetto è costretto a convivere col senso di colpa per essere stato cattivo in un contesto storico-culturale che millanta buonismo in ogni dove. Freud (1949) si dilunga nello spiegare perché secondo lui il Cristianesimo pone una condizione utopica: egli ne fa una questione di merito, “se amo qualcuno questo qualcuno se lo deve in qualche modo meritare” (Freud, ibidem, p.131), ed inoltre considera anche l’amore in chiave narcisistica, “Lo merita se in cose importanti mi assomiglia tanto da far si che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me che io possa amare in lui l’ideale che ho di me stesso (Freud, ibidem, p.131). Quindi dà una lettura interpersonale di questo precetto sostenendo che non solo l’altro non merita il mio amore ma merita piuttosto il mio disprezzo poiché non pare avere il minimo riguardo nei miei confronti anzi non perde occasione per danneggiarmi e arrivando a dire che sarebbe più opportuno “[…] se quel grandioso precetto suonasse: ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te stesso”.
Personalmente ritengo che quanto indicato dal Cristianesimo sia destinato al fallimento perché fin dagli albori della sua esistenza l’essere umano ha sempre considerato prioritaria la sua sopravvivenza e quanto può sembrare dettato dall’altruismo a mio parere, e qui mi sento molto vicino a quanto sostenuto da Freud in precedenza, non è altro che una soddisfazione narcisistica dei propri moti pulsionali: da cacciatore solitario sento l’esigenza di unirmi in piccoli gruppi non tanto per sim-patia verso gli altri quanto perché, come abbiamo visto, gli adattamenti evolutivi rendevano per un singolo individuo più difficoltoso affrontare gli animali feroci: in gruppo avevo maggiori probabilità di raggiungere l’obiettivo di caccia, sfamarmi e quindi stare meglio; arrivando ai giorni nostri, sento la necessità di aiutare una persona in difficoltà perché la sua difficoltà risuona in me e mi provoca un tale stato di disagio che solo aiutandola riesco anche io a stare meglio (e per questo affronto anche un faticoso cammino formativo finalizzato ad utilizzare il mio disagio per aiutarla, arrivando a farne una professione).
Mi rendo conto che questa riflessione potrebbe congelare gli slanci caritatevoli dei benefattori del XXI secolo ma non mi si fraintenda, non sto affermando che non esistono fenomeni di solidarietà ai giorni nostri, sto solo dando a questi una lettura che si spinga oltre il fin troppo comune “lui/lei è sempre disponibile per tutti perché è proprio una brava persona”: ai miei occhi continua ad essere una brava persona ma la causa della sua disposizione d’animo la leggo, appunto, altrove.
Un caro amico una volta ebbe a dire: “Di consapevolezza non è mai morto nessuno!”
CONCLUSIONI
Alla fine di questa breve rassegna mi rendo conto di aver lasciato poco spazio alla speranza; del resto, però, l’esigenza di approfondire queste tematiche nasce, prima di tutto, dall’inevitabile confronto con la quotidianità che vede un incredibile escalation di aggressività agita intraspecie e poi dal fatto che gli individui che busseranno alla porta del nostro Studio proveranno proprio da questa Civiltà.
La speranza la può dare il cambiamento. Fromm, in Avere o Essere? (1977), si è posto il problema chiedendosi se è necessario prima cambiare la struttura economica e quindi la mente umana o viceversa, dandosi questa risposta:
“Partendo dal presupposto che la premessa risponda al vero, che cioè soltanto un mutamento sostanziale del carattere umano, vale a dire il passaggio dalla preponderanza della modalità dell’avere a una preponderanza della modalità dell’essere, possa salvarci dalla catastrofe psicologica ed economica, bisogna chiedersi: è davvero possibile una trasformazione caratteriologica su larga scala? E in caso affermativo, come fare a produrla? A mio giudizio, il carattere umano può mutare a patto che sussistano le seguenti condizioni:
Che si sia consapevoli dello stato di sofferenza in cui versiamo;
Che si riconosca l’origine del nostro malessere;
Che si ammetta che esiste un modo per superare il malessere stesso
Che si accetti l’idea che, per superare il nostro malessere, si devono far nostre certe norme di vita e mutare il modi di vivere attuale.
(Fromm, 1977, p 185)
Personalmente ritengo che, con molta lentezza, la nostra Civiltà si stia avvicinando alla piena consapevolezza di quello che Fromm mette al punto 1.
La strada quindi è molto lunga ma c’è speranza: nulla cambia se niente cambia.
Bibliografia:
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Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975;
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Hart C. W. M., Pilling A.R., “The Tiwi of North Australia, 1960, in: Case Histories in Cultural Anthropology, Holt, Rinehart & Wilston, New York 1960;
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