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2020.03.11 Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

11 marzo 2020

leggi in pdf 2020.03.11 MOPP

Il mondo infetto (non infettato, badate bene) ci guarda di sbieco, pronto a colpirci.
Noi umani adulti, per la gran parte involuti, porgiamo la difesa estrema di cui siamo capaci:
torniamo bambini.

Tutti regrediti, ci scansiamo coi lucciconi, ci rivolgiamo al babbo clemente, che sia il capo o il direttore, il professore o il proprietario, ci atteniamo, ci attendiamo, timidi e rossi, indifesi, tremanti.
La fila davanti alla farmacia, le mani spellate dal disinfettante; la mascherina? Forse no, non lo sappiamo.

Quando eravamo in mania, presi dal fremito del carrierismo, finalizzato alla spesa senza filtri della domenica commerciale, serviva realizzare la prospettiva hollywoodiana della pandemia
zombificante, per compiere, da manuale, l’atto masochistico sintomatico.
Dall’inconscio collettivo giungeva un messaggio chiaro: “tornate a credere in me, invece di reificarvi in bozzoli illusori” ma non lo ascoltavamo difendendoci, razionalizzando e nascondendo,
rimuovendo e negando: “la psiche è una sciocca trovata novecentesca, facciamo finta che sia l’antagonista del pensiero scientifico e lasciamo alla pellicola la traccia intuìta!”

Però, qui ed ora, se torniamo tutti piccoli, disconfermare Freud diventa fastidiosamente difficile.
Dire che Jung o Toni Wolff, che parlavano di scienza collocandola su un punto qualsiasi dell’asse natura-cultura, erano sciocchi visionari, sembra eretico.

La psiche, cioè pensiero e non-pensiero (chiamarli conscio e inconscio mi pare ancora potenzialmente traumatico), torna alla ribalta e ci dice che la carne è una parte, ma solo una.

Presi dalla regalità del nuovo, nessuno ha dato nome al vecchio morbo appena descritto, perché al microscopio non si vede; voglio darglielo adesso io, “Mania Ossessivo-Paranoidea dell’atto Pratico”, MOPP.

Non mi interessa indugiare sul fatto che il MOPP abbia trovato terreno fertile in categorie di individui specifiche, con netta prevalenza nella fascia d’età che va dai 14 ai 60 anni circa; magari su
questo potremmo discutere in separata sede.

Vorrei invece focalizzare sulle categorie immuni da MOPP, scremando i bambini e i ragazzi, che pur non presentando sintomi, sono divenuti portatori sani.

Rimane una sola opzione.

Riflettiamo su una cosa: dell’umanità, ora confusa e manipolata da sé stessa, fa parte (e rimane in disparte) una categoria illustre, insignita e meritoria del più alto grado possibile: gli anziani.

Eroi, nemici della superficialità, pochi detentori dei valori non ancora liquefatti, lenti, sapienti, ricolmi di vita, ricchi, preziosi, scuotitori compulsivi di testa nel guardare l’operato dei nuovi arrivati.

Anziani.

Gli artefici più inoperanti.

L’immagine presente del futuro auspicabile.

Nelle culture ancestrali una barba bianca ha sempre destato rispetto ed è sempre stata capace di indurre la calma-consapevolezza, qualità ben nota ai seguaci taoisti. Il grembo della grande
vecchia è sempre stata la sede per la più grande elaborazione, figlia dell’abbandono conferito e necessario: non possiamo aver perso del tutto il significato più intimo di “rispetto”.

Il MOPP, all’acme della sua corsa, pochi mesi fa ha eseguito ciò che l’assioma di natura gli imponeva, cioè ha mutato per adattarsi: se qualcosa lo separava dal dominio totale, ha pensato di eliminarlo.

Rieccoci al Covid, al suo tocco mortifero sugli over 60, alla possibilità d’intervento che ci è data.

Sono forti, i grandi vecchi, hanno dalla loro la pratica della non-azione, ma non sono indistruttibili: se ci risvegliamo presto, possiamo aiutarli e subito dopo ritrovarli nella loro splendente totalità.

Non è solo per loro che va fatto, ma per ciò che rappresentano: la chiave!

Dato che la svista del MOPP, non contemplata dalla sua mutazione, è l’induzione nella regressione allo stato infantile, sfruttiamo questo mezzo e rivolgiamoci ai nostri nonni (non fisicamente, per
l’amor di Dio: che gli abbracci vengano tenuti per il futuro!).

Tra le altre cose, loro l’inconscio non l’hanno mai perduto: l’hanno conservato per noi nelle soffitte che ci meravigliano, piene di magnifiche cianfrusaglie ed oggetti sublimi, nell’attesa che
avessimo l’età per prendere la scala e raggiungerle. Non tentennano se chiamati all’atto d’amore, poiché ne comprendono l’abissale essenza.

La vita apocalittica di questi giorni, per chi alla carne bada decisamente poco (poiché ne percepirebbe meglio gli acciacchi) vede questi illustri esseri umani come presenze fantasmatiche: i
più, come ogni maestro di vita, si sentono in colpa per inadempienza. Niente nipoti, niente fatiche per i figli, niente possibilità di elargire borse traboccanti di cibo e di beni necessari a inverni che
per quanto infiniti verrebbero sconfitti.

Che un elogio dell’anzianità, capace di diventare auspicio di ritrovata profondità psicologica per ognuno di noi, ci pervada come un fluido e ci renda capaci di prendere, a questo bivio, la strada giusta

2020.03.08 Il pensiero del giorno Nel maelström

di Irene Battaglini

8 marzo 2020

leggi in pdf Il pensiero del giorno. 2020.03.08 Nel maelstrom

…di tante fiamme tutta risplendea

l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea…

Lo maggior corno de la fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui vento affatica…

 

“Li miei compagni fec’io sì aguti,

con questa orazion picciola, al cammino,

che a pena poscia li avrei ritenuti…”

(Inf.XXVI)

Une descente dans le Maelström

EDGAR ALLAN POE

Ho amato ciò che ha toccato il mio fondo

PASQUALE PANELLA

La psiche collettiva si trova ora totalmente catturata dalle forze più profonde che governano l’agire degli istinti ciechi, quegli stessi abissi nei quali la nostra vita ha avuto la protervia di nascere. Ci troviamo al centro di un vortice sociale ed economico che ha la forma di una V, come sostengono gli analisti finanziari, e ci stiamo avvicinando al luogo critico in cui per oltrepassare il  maelström è necessario smettere di navigare, ed occorre lasciarsi domare dalle forze solo apparentemente contrarie. Lasciarsi attraversare dal tremendum è vivere la paura di “perdere” quel che abbiamo percepito, forse incautamente, nostro. Navigare in questo punto del mare è sostanzialmente impensato, poiché è come voler aver ragione sulle leggi dell’ universo e come Odisseo finire nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, colpevoli della loro improvvida tracotanza. Il “sentimento del sangue del mondo” perpetua la sua egemonia sulla povera Anima del Mondo.

 

2020.02.25 – Il pensiero del giorno

di Guido Rutili

25 febbraio 2020

leggi in pdf Il pensiero del giorno

Se questo virus fosse più “nostro” di quanto pensiamo?

Nostro, umano, dimenticando l’informazione (non la formazione, mi raccomando), che lo racconta nato in seno ad un’altra specie.

Fermiamoci a riflettere, nel panico che imperversa; facciamo un profondo respiro senza considerare che potrebbe ucciderci, bensì confortandoci col fatto che tra i miliardi di respiri fatti, a partire dal primo vagito, sono più quelli che ci hanno regalato la vita.

Guardiamo lontano, con gli occhi persi in un punto all’infinito, messo lì per dare suggerimenti importanti: certo, la mucosa delle orbite è l’altra frontiera con il mondo virulento, ma non per questo togliamoci la luce.

Anche le apnee e il buio possono uccidere, mentre l’idea illuminata è sempre figlia di un arresto.

Fermiamoci, pensiamo e sentiamo, come fece Sigmund Freud quando intuì che buona parte dell’esistenza si nascondeva nell’inconscio, complemento divino della mente.

Abbiamo creato il virus per sabotare qualcosa. Se è stato un laboratorio a farlo, pensava di sabotare il mondo eppure, siccome Freud aveva ragione, sotto l’egida dell’inconscio, non ha fatto che privilegiare la vita totale, quella che ci costringe a vedere anche nell’ombra dell’iceberg sommerso.

Per questa minaccia assistiamo al crollo dei somatismi sociali, e scopriamo, nello sconforto, che elencarli tutti sarebbe troppo oneroso: il mercato forte, il benessere perpetuo, la vita garantita, il posto di lavoro fisso, la famiglia perfetta, l’auto che guida da sola, i politici capaci, il caffè al bar, la corsa di un’ora al giorno per mantenersi in forma, la dieta chetogenica, le stette lauree bimestrali (che farebbero un terzo di una vecchia laurea quinquennale), lo stage alla NASA per fotocopiare foto lunari.

Arriva una sigla, COVID-19, e torna la protagonista del disturbo somatogeno di questa società indebolita: l’angoscia. E con essa torna, ahimé, la luce su un mondo interno trascurato, negato, rimosso, evitato, rabbiosamente cancellato.

Angoscia.

Nominarla è doloroso, perché non volevamo farlo.

Ci siamo abbracciati stretti fino a ieri per non sentirne la presenza, sostenuti da valori liquidi con cui ci rassicuravamo, dimenticandoceli un attimo dopo e coniandone di nuovamente instabili; ma ora gli abbracci sono banditi.

Una bella fetta di noi potrebbe approdare alla chemioterapia psicofarmacologica o potenziare quella in essere: diciamo che può funzionare, almeno fino all’arrivo di un COVID-20, poi dovremmo tornare sulle parole precedenti.

Allora cosa ci resta?

Soli, senza saperci stare, senza poter contare su supermercati con gli scaffali ineluttabilmente straripanti, paranoici, perché chi ci faceva coraggio adesso è potenziale nemico, immaturi, perché non abbiamo mai pensato che la psiche potesse essere una risorsa nel periodo del benessere digitale, ci crediamo perduti.

Vanno riesumati psicologi e psicoterapeuti, dinosauri cultori dell’anima, che l’angoscia la conoscono bene e possono indossare la veste druidica per riorientarci ed invocare su di essa una magia.

Perché c’è una formula magica che ne parla, che se rammentata la trasforma finalmente in carrozza e che suona all’incirca così: l’angoscia è mortifera finché non le si trova un nome.

Ora che tutte quelle manifestazioni psico-socio-somatiche sono passate e che la causa scatenante è riapparsa all’orizzonte, ognuno può fermarsi, riflettere, dare un nome alla propria angoscia, contenerla senza più sintomi.

Certo che serve coraggio, ma l’alternativa, qui alla resa dei conti, è la perdizione.

Non è certo un processo indolore, gli effetti collaterali sono molti, ma impareremo a sopportarli: dal giorno dopo non saremo più manager (o lasceremo tale identificativo ad una voce sulla job description), i selfie con la famiglia non infonderanno automaticamente l’amore sempiterno tra i suoi membri, per dimagrire dovremo solo mangiare meno, sarà meglio sapere tante cose che mostrare di non saperle con sette lauree, rifiuteremo stage finalizzati alla fotocopia, sapremo che ogni cosa “fissa” è impossibile per forme di vita evolutive e transitorie e riscopriremo il piacere di andare in bicicletta, che da sola non fa le curve e neanche riesce ad avanzare: soprattutto non avremo più l’illusione dell’immunità.

Non saremo immuni, dall’angoscia, dai malanni (soprattutto quelli della psiche), dalla morte.

Come in ogni vaso di Pandora che si rispetti, tuttavia, troveremo sul fondo la più grande speranza possibile: la consapevolezza.

 

Rivoluzioni frommiane #4

di Guido Rutili 9 giugno 2019

PARTE QUARTA

leggi in pdf RIVOLUZIONI 4 

“Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche sé stesso; se può amare

solo gli altri, non può amare completamente.

Se l’amore per sé stessi non è disgiunto dall’amore per gli altri come ci spieghiamo l’egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per altri?

L’egoista s’interessa solo di sé stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che sé stesso; giudica tutto e tutti dall’utilità che gliene deriva; è fondamentalmente incapace d’amare.

Questo non prova che l’interesse per gli altri e l’interesse per sé stessi sono alternative inevitabili?

Sarebbe così se l’egoismo e l’amore per sé stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l’errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema.

Egoismo e amore per sé stessi, anziché essere uguali, sono opposti”[1].

Archimede, con una leva fisica, prometteva di sollevare un mondo particolarmente retrogrado rispetto alla propria capacità inventiva.

Erich Fromm, 1700 anni più tardi, costruiva una leva diversa, sociale, che avrebbe sollevato non solo il suo ma molti altri mondi a venire; negli anni ’60 del secolo scorso ridefinì l’amore per sé stessi.

Un’alternativa e non un sinonimo di egoismo, qualcosa di sovrapponibile all’amore per gli altri: principio fatto di una sostanza biofila capace di portarlo all’interno dell’individuo e veicolarlo verso gli altri con la medesima, sana, modalità propulsiva.

Una forma erotica produttiva che, al tempo in cui veniva pubblicato “L’Arte di Amare”, pareva presentare lacune importanti dovute a fattori sociali ed ambientali che rendevano difficile l’espressione lineare di una tendenza altruistica.

C’era forte necessità di rivendicare o rafforzare diritti umani a malapena sopravvissuti all’organizzazione precedente, belligerante, ormai superata.

L’individualità (intesa come attributo della persona, dello stato etc.), in un contesto in cui il mutuo aiuto era stato per duri anni rimpiazzato dall’aridità dell’affermazione individuale, aveva preso le sembianze di un’istanza potenzialmente pericolosa.

Ecco che l’egoista diveniva lo stereotipo del distruttore, dell’aggressore, di colui che cresceva nutrendosi dei frammenti di nemici onnipresenti, anche fantasmatici, anche ingiustamente investiti di questo ruolo.

Nel turbine di un tale stato reattivo, non c’era terreno che consentisse il fiorire di un amor proprio virtuoso, privo di effetti collaterali.

La consapevolezza che per dare in modo significativo è prima necessario essere, e che un’autenticità dell’essere presuppone la coscienza della centralità del Sé, non riusciva ad attecchire.

Eppure un Sé pienamente espressivo, capace di armonizzarsi alla comunità, abile ad erogare verso l’esterno in termini energeticamente positivi, non può esercitare nessuna funzione senza la contemplazione del proprio, solido centro.

Oggi le condizioni al contorno non sono le stesse: i valori conquistati e radicati dalle generazioni precedenti tremano sotto il peso di una coscienza collettiva annoiata, che li dà per scontati.

Non c’è belligeranza manifesta, ma solo aggressività velata.

Non si corrono pericoli e l’unica cosa che fa provare un brivido alle masse è l’horror vacui da assenza di saggi da seguire e nemici da debellare.

L’egoismo contemporaneo ha le spoglie del narcisismo maligno; non dunque quello che nutre il nucleo pulsante del singolo per permetterne la crescita, ma quello “fine a sé stesso”, che svaluta e appiattisce tutto ciò che lo circonda, al solo scopo di rivalutare la propria, neutra planarità.

Se l’egoismo di Fromm confliggeva con l’amore per sé stessi, l’odierno narcisismo cozza con l’individuazione dell’Io, aggravando la profondità del problema.

L’Io senza una casa non è più capace di amare, né in modo centrifugo né in modo centripeto, può solo illudersi di farlo, fraintendendo l’amore con una spinta di diversa origine.

La curiosa manifestazione sintomatica consiste nell’attribuzione di colpa verso un fantomatico neo-egoista dai tratti troppo tenui per godere del beneficio della rendicontazione verso la società.

La figura in luce, quella a lui contrapposta, è altresì l’enfatico promotore di un’affettività marcatissima, visibile anche ai miopi.

Ecco che torna il testo del maestro Fromm, che spiega bene questo neo-altruista nella metafora della “madre troppo premurosa”: “Mentre lei crede di essere particolarmente attaccata al suo bambino, in realtà ha una profonda, repressa ostilità per l’oggetto del proprio interesse.

È eccessivamente premurosa, non perché ami troppo il proprio figlio, ma perché deve compensare la sua incapacità d’amarlo[2].

Eccoci al punto.

Il problema non è più discernere tra egoismo e amore per sé stessi ma riuscire a salvare l’amore per sé stessi (fonte d’altruismo sano) dal falso altruismo (lampante ma caustico divoratore d’eros relazionale).

L’etero-tendenza spuria è infatti il fattore sociale dell’eccessiva (ma inautentica) preoccupazione per il bene di chi ci pare dipendente o richiedente: figlio adottivo di una collettività purtroppo incapace di concedersi eros ego-diretto.

Cogliendo la metafora della madre troppo premurosa, scoviamo così l’ombra motrice dell’accoglienza cieca: puro odio per il prossimo.

Abbiamo il vecchio problema del Super-Io inflativo, che taccia d’egotismo ogni faticoso moto auto-centrante, senza considerare il paradosso sotteso ad ogni intervento di castrazione: la rivoluzione del bene nel male e viceversa.

D’altra parte in psicoanalisi ogni atto positivo eccessivamente palesato è campanello d’allarme, poiché tende a cercare l’assoluto nel buono, esperienza soggettiva per eccellenza.

L’atto compiuto correttamente rende l’agente soddisfatto, la necessità di rimarcare il proprio operato lascia invece trasparire l’insoddisfazione strisciante e dolorosa di chi non ha tratto alcun piacere dalle proprie condotte.

La tendenza altruistica di oggi fa esplodere fragorosamente all’esterno un vuoto interiore incolmabile, nella falsa illusione che possa essere il fragore del botto a creare sostanza.

“L’egoista non ama troppo sé stesso, ma troppo poco; in realtà odia sé stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un’espressione di mancanza di produttività, lo lascia vuoto e frustrato.  È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a sé stesso di raggiungere.  Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compensare la mancanza di amore per sé.  […] È più facile capire l’egoismo se lo si paragona ad un morboso interesse per gli altri”[3].

Si torna alla madre che enfatizza moti d’amore e cela l’odio, scambiando in definitiva l’autentico col falso.

L’obiettivo è morboso, come dice il sociologo tedesco, e porta ad un aggressivo interesse per l’altrui mondo, deformato dall’inflazione di elementi che non aveva e -probabilmente- neanche voleva.

Non c’è nulla di catartico, solo prodotti di scarto.

Quale tra tutti?

Frustrazione.

è sorpresa scoprire che (l’individuo), ad onta del proprio altruismo, è assai infelice e che i suoi rapporti con coloro che lo circondano non l’appagano[4]

La frustrazione è il primo stato psicologico a dominare il singolo e le masse che non nutrono il proprio nucleo narcisistico primario, secondo una sana ricetta a base di amore autentico per sé stessi.

Tale elemento, centralmente radicato nella struttura di personalità, è il sale della vita biologica, tanto da essere innato, bio-innestato.

È il successore della scossa coatta che porta lo spermatozoo a dimenarsi in modo tale da andare in una direzione ed un verso: dritto, avanti.

È il pronipote della forza che muove il primo respiro e il vagito liberatorio.

È la fame, la sete, la ricerca evolutiva.

Possiamo pensare che certi fattori, favorevoli alla vita, possano essere efficaci se presenti soltanto nel prossimo contestuale e non in noi?

No, assolutamente!

Ecco che compaiono dunque i casi particolarissimi di cui ci stiamo occupando: al “buon egoismo”, sfiorando l’ossimoro, accostiamo il “buon altruismo”, che si ottiene in primis dalla negazione dei luoghi comuni, passando dall’amore per sé stessi.

Oggi è un amore per sé stessi delicatamente ricodificato nei meandri di qualcosa di antico e primitivo, concesso dagli dei all’uomo per la virtù d’essere sceso dal paradiso terreste: la libertà di elargire amore, purché continui ad esistere, senza badare al luogo in cui lo si ripone, poiché più lo si usa, più si è capaci di generarne.

Come il Meister Eckhart citato nell’Arte di amare, siamo quindi capaci di affermare che “Se ami te stesso, ami gli altri come te stesso. Finché amerai un’altra persona meno di te stesso, non riuscirai mai ad amare te stesso, ma se ami tutti nello stesso modo, compreso te stesso, li amerai come una persona e quella persona è sia Dio sia l’uomo.

È grande e giusto chi, amando sé stesso, ama in egual modo il suo prossimo.”[5]

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem

[5] Ibidem

 

LEGGI LE TRE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane #3

 

Rivoluzioni frommiane

 

La salute mentale dei migranti in restrizione di libertà

di Ezio Benelli e Nicoletta Nicastro 8 gennaio 2019

leggi in pdf La salute mentale dei migranti in restrizione di libertà

Nei nostri Istituti penitenziari è presente un elevato numero di migranti e tale dato è purtroppo in costante crescita. Facendo riferimento alle statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), in data 30 aprile 2018 erano presenti 58.285 detenuti, di cui 19.844 stranieri. Le maggiori presenze riguardano persone provenienti dal Marocco, Romania, Albania e Nigeria. Soltanto in Toscana sono presenti circa 3.300 detenuti, numero che evidenzia un importante sovraffollamento. In particolare, sempre per ciò che concerne la regione Toscana, nella casa circondariale di Grosseto è presente un sovraffollamento del 180 %; nella Casa di reclusione di San Gimignano il 155,3 %; infine presso Sollicciano a Firenze è del 141 %.

Gli Istituti penitenziari Toscani sono soprattutto maschili, solo 3 strutture su 18 ospitano reclusi di sesso femminile (Sollicciano, Pisa ed Empoli).

Effettuando un maggiore focus sugli aspetti socio-demografici possiamo evidenziare che la popolazione di riferimento è composta prevalentemente da uomini (N=2,973; 96 %). L’età media dei detenuti rispetto alla popolazione libera si aggira fra i 40,6 anni – 52,9 anni. I detenuti stranieri in Toscana sono pari al 48,4 % rispetto al totale della media nazionale del 34 %.  La suddivisione per Paese di provenienza non mostra, invece, particolari differenze.

Il livello culturale appare ancora molto basso con ben l’80% che non supera il diploma di scuola secondaria di I grado (49% registrato nella popolazione libera). Fra gli stranieri detenuti, il 40% ha conseguito soltanto la licenza elementare.

L’OMS promuove una lotta alle «disuguaglianze di salute» che risulta necessaria poiché la maggior parte dei detenuti provengono da contesti di forte svantaggio socio-economico. Sono cittadini i cui molteplici fattori, distali e prossimali, favoriscono l’insorgenza di gravi patologie croniche. Tutto questo rende particolarmente importanti gli interventi di prevenzione e di cura dei migranti.

Oltre agli aspetti suddetti, la tutela e la cura della loro salute rappresenta un criterio di civiltà che non solo protegge il singolo individuo ma l’intera società, nella quale essi rientreranno dopo l’allontanamento più o meno lungo in ragione del reato commesso.

Alla base dell’Ordinamento Penitenziario vige il principio di individualizzazione del trattamento con l’obiettivo di supportare e rieducare il detenuto attraverso non solo figure professionali esperte ma anche attraverso il mantenimento di elementi essenziali al benessere della persona quali la famiglia, l’istruzione, il lavoro, la professione del proprio culto, i rapporti con l’ambiente esterno ed attività ricreative sportive e culturali.

Sulla base di quanto appena detto, il Ministero della Giustizia e la Regione Toscana si impegnano nel porre iniziative che rendano concreto il principio della parità del trattamento penitenziario tra cittadini italiani e stranieri, nomadi ed apolidi, sia adulti che minorenni. Lo stesso Ordinamento Penitenziario all’art. 1 recita che il trattamento è improntato sul principio di uguaglianza e deve essere privo di discriminazioni e prevede inoltre che il trattamento sia attuato in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.

Al fine di un efficace trattamento bisogna tenere conto del disagio e della sofferenza psichica che caratterizza la storia personale di ogni migrante. La separazione dagli affetti e dalle proprie origini, la partenza, il viaggio, l’arrivo e l’incognito, creano situazioni di ansia e producono la rottura di equilibri prestabiliti.

La migrazione rimane un enigma per i clinici perché non tutti i migranti attraversano le stesse esperienze, o si situano in contesti sociali simili. Essi non preparano il loro viaggio allo stesso modo e non sono mossi dalle stesse ragioni. È il processo migratorio stesso e i conseguenti aggiustamenti culturali e sociali ad avere un ruolo sulla salute mentale dell’individuo.

Il viaggio del migrante è qualcosa che viene preparato molto tempo prima. Inoltre il soggetto migrante è scelto dalla famiglia secondo qualità di forza e resistenza. Sarà dunque il più forte della famiglia a partire per il viaggio.

Le variabili psicologiche del migrante secondo il viaggio sono principalmente di tre tipi:

  • variabili di origine, di partenza (pre-migratorie) tra cui la personalità dell’individuo, la cultura di provenienza;
  • variabili di percorso, di tragitto (migratorie) tra cui la transizione fisica da un paese all’altro, l’attraversamento, lo stress;
  • variabili di conclusione, di integrazione (post-migratorie) variabili connesse con l’integrazione, la differenza culturale, la ricerca del lavoro.

La migrazione sottopone individui e gruppi ad una diminuzione dei sistemi di compensazione e di difesa. Essa agisce sulle strutture psichiche e poi su quelle identitarie, come un evento plasmante.

La fase del processo migratorio che ha un maggiore impatto sulla salute mentale del soggetto è proprio l’arrivo. Poiché, per quanto la partenza e il viaggio siano stati dolorosi, l’arrivo è nell’immaginario del migrante la salvezza, la ricompensa al sacrificio e al rischio affrontato. A causa di questo, il momento dell’arrivo delude il migrante, che verrà a trovarsi in una condizione di disadattamento, povertà e solitudine. Probabilmente è proprio in questa fase che si delineano le prime predisposizioni al reato.

L’impatto doloroso dell’arrivo si evince anche dai risultati ottenuti al test LimFs, un questionario utilizzato per valutare le esperienze traumatiche e le difficoltà di vita in contesti migratori suddivise in tre momenti: prima della partenza, durante il viaggio e all’arrivo in Italia. Ciò che emerge, è che l’arrivo in Italia sembra essere il momento più traumatico per loro.

Tutto questo, infatti, rappresenta un momento contraddittorio di sofferenza e di aspettative. L’emigrante si trova a dover ridefinire il proprio progetto di vita e molto spesso anche la propria identità. Inoltre, viene esposto al lutto della separazione dalle proprie origini, dai legami affettivi interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva, sofferenze queste che sono molto complesse da elaborare.

Un altro momento delicato da prendere in considerazione come abbiamo detto è la partenza, le condizioni nelle quali è avvenuta, i motivi che sottostanno a tale scelta e che condizionano tutta la traiettoria del migrante. Per traiettoria non si intende soltanto una condizione geografica ma anche mentale ed emotiva. Altrettanto rilevanti sono le aspettative e le condizioni dell’arrivo poiché soprattutto se deludenti o sofferte possono condizionare tutto il percorso futuro.

Una volta giunto l’immigrato si trova nello stesso tempo a dovere riorganizzare la sua vita e ricostruire il senso della sua esistenza.

Possiamo comprendere come essi si ritrovano così a vivere un enorme disagio che può manifestarsi attraverso varie forme di somatizzazione; la sofferenza dell’essere escluso, del sentirsi di troppo diventa talvolta insopportabile. Tahar Ben Jelloun nell’”Estreme solitudine” ha messo in risalto l’importanza del corpo nelle manifestazioni del disagio e nella percezione di sé in relazione con la società. Situazioni quali la solitudine, l’esclusione sociale, le condizioni lavorative pesanti, l’assenza di una rete familiare di supporto possono portare a un “vuoto affettivo” nell’immigrato che corre il rischio di divenire straniero a sé stesso. Il grande antropologo Ernesto De Martino, parlava di “crisi della presenza” per spiegare i processi di alienazione e di depersonalizzazione nelle situazioni di crisi psichica. Il non esserci nel mondo e col mondo, sono vissuti che possono rappresentare molti immigrati.

E’ evidente dunque come l’intervento sul disagio del migrante sia un processo particolarmente delicato. Inoltre, se come già detto il trattamento penitenziario si basa anche sul mantenimento dei rapporti familiari, lavorativi, scolastici, religiosi e sociali, è abbastanza evidente come tali elementi siano più complessi da restaurare nel migrante detenuto. Si corre così il rischio che la misura restrittiva perda il suo valore rieducativo e diventi un ulteriore esperienza di emarginazione, solitudine e sofferenza.

La maggioranza degli stranieri in detenzione ha una elevata fragilità sia dal punto di vista fisico che psichico, spesso sono malate a causa delle trascuratezze sanitarie e con rilevanti disagi psichici pertanto il carcere diventa così un luogo materiale di contenimento, così da rendere complessa la comprensione critica del reato commesso. Il migrante all’interno della comunità detentiva è di frequente oggetto di emarginazione e di inferiorità sociale.

Al momento dell’ingresso in regime di restrizione, così come i detenuti italiani, i migranti effettuano non senza difficoltà di genere linguistico, dei colloqui con lo Psichiatra, lo Psicologo ed altri esperti del Servizio Nuovi Giunti per rilevare i disagi della persona e individuare la presenza di un rischio autolesionistico e suicidario. I vissuti di emarginazione, solitudine e lontananza dagli affetti, sono elementi importanti da tenere in considerazione per il monitoraggio del rischio di suicidio.

Cosi come l’ingresso, anche il momento della scarcerazione è particolarmente critico, molto spesso con l’assenza di punti fermi e di supporto la persona straniera può facilmente tornare a delinquere.

Uno dei principali ostacoli è la lingua e che si manifesta sin dall’ingresso in Istituto. Le difficoltà linguistiche incidono notevolmente sul senso di emarginazione e isolamento rispetto agli operatori, agli altri detenuti, al personale di polizia penitenziaria e diventa più complesso osservare le regole di vita dell’istituto penitenziario, registrando così rapporti disciplinari in cui l’interessato non ne comprende a pieno il valore rieducativo. Un importante aiuto potrebbe essere rappresentato da corsi linguistici all’interno del penitenziario.

I colloqui in carcere rappresentano una ulteriore criticità, poiché la lontananza delle famiglie e le estreme difficoltà di collegarsi con loro anche attraverso vie postali e telefoniche risulta difficile in relazione alle distanze geografiche e comunque sono meno efficaci di un contatto diretto.

La religione, come detto pocanzi è uno degli elementi essenziali alla base del trattamento rieducativo penitenziario. I dati statistici sopra riportati evidenziano la prevalenza della componente di persone appartenenti alla religione islamica. A tale proposito, l’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario, sancisce la libertà di professare la propria fede religiosa praticandone i riti con la possibilità di richiedere l’assistenza dei ministri del proprio culto. I Ministri del culto possono dunque accedere agli istituti anche senza particolari verifiche da parte della Direzione del carcere, contrariamente avviene per alcune religioni tra cui quella dell’Islam, le quali sono praticate da ministri di culto attraverso una disciplina più complessa.

Una tematica che richiede particolare attenzione professionale, soprattutto in termini preventivi, è quella dell’autolesionismo, di cui si è già accennato sopra. Essa costituisce spesso un mezzo per comunicare la propria sofferenza, la propria alienazione.

Alcuni esperti Psicologi, sostengono che la solitudine dello straniero in carcere è probabilmente causata dalla sua assenza di ruolo e di funzione. Inoltre, il migrante trovandosi in una terra differente dalle sue origini non riuscendo ha delle difficoltà nell’introiettare il disvalore e la necessità di rispetto delle regole proprio perché appartengono a un Paese a cui non appartiene.

Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Un ulteriore importante intervento è sicuramente di tipo preventivo che possiamo distinguere in prevenzione primaria, secondaria e terziaria. La prima è volta ad eliminare o comunque ridurre le condizioni criminogene presenti in un contesto fisico o sociale, quando ancora non si sono manifestati segnali di pericolo. La seconda è costituita da misure rivolte a gruppi a rischio di criminalità; la terza interviene quando l’azione criminale è stata già commessa, per prevenire ulteriori recidive. Analizzando la relazione tra stress post-immigrazione e salute mentale (Li S.S. et al, 2016) è stato confermato che i rifugiati dimostrano elevati tassi di PTSD e di altri disturbi psicologici. I risultati indicano fattori socioeconomici, sociali e interpersonali nonché relativi al processo di asilo e alla politica di immigrazione. Una ricerca (Guardia D., 2016) ha cercato di fornire l’incidenza di disturbi mentali nei migranti di prima, seconda e terza generazione ed ha confermato che la migrazione costituisce un elemento di rischio psicopatologico. Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa; risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana.

I dati di tutte le ricerche esaminate confermano che i fattori di stress post-migratori o legati all’ambientamento e all’integrazione sono stati i principali correlati della salute mentale negli immigrati umanitari.

Diventa necessario quindi programmare interventi di prevenzione e di riduzione del danno (programmi di assistenza psicosociale e psicologica).

Risulta importante creare appartenenza. Attraverso l’istruzione, la buona pratica religiosa, la formazione professionale e la possibilità di accedere al lavoro anche esterno si può favorire una risposta incisiva volta a promuovere un processo di integrazione che favorisca una conoscenza della nuova società a cui il migrante si trova ad appartenere.

Per un intervento quanto più efficace a livello di prevenzione, sostegno, cura e riabilitazione del disagio psichico del migrante è importante impegnarsi professionalmente in una dimensione multidisciplinare che possa condurre al benessere del soggetto e del contesto sociale in cui è inserito.

In conclusione, è opportuno sottolineare che alla luce di tutti questi fattori di rischio e di fragilità che espongono maggiormente i migranti alla possibilità di sviluppare disturbi mentali è necessario realizzare percorsi strutturati che coinvolgono equipe multidisciplinari (etnopsichiatri ed etnopsicologi, medici, mediatori linguistico culturali) che possano affrontare un fenomeno tanto complesso quanto collettivo.

I beneficiari di questi interventi non possono essere solo i diretti interessati nella migrazione ma anche le generazioni successive poiché i fattori di rischio per il disagio psichico non si esauriscono alla prima generazione ma possono avere ripercussioni fino alla terza generazione.

 

Fonti bibliografiche e sitografia:

 

Abye Tasse… et al., Culture a confronto. La gestione della diversità. Roma, Fondazione Silvano Andolfi, 2000.

Alain Goussot, Disagio psichico e immigrazione.

Ambrosini Maurizio, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia. Bologna, Il Mulino, 2001.

Cianconi P., Psicologia e Psicopatologia delle migrazioni, 2018.

Di Rosa G., Le solitudini in carcere. il detenuto malato e il detenuto straniero: dialogo a tre voci, 2018.

  1. Grinberg, R. Grinberg, Psicoanalisi della emigrazione e dell’esilio. Edizioni Franco Angeli collana Serie di psicologia, 1990.
  2. Lavanco, C. Novara, Psicologia della notizia: Migrando da sé stessi, 2005.

Tahar Ben Jelloun, L’estrema solitudine. Edizioni Bompiani, 1999.

www.consecutio.org/2016/10/presenza-e-crisi-della-presenza-tra-filosofia-e-psicologia/

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_7_1.page?contentId=SCA144231&previsiousPage=mg_14_7

http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/op/opitaliano.htm

Rivoluzioni frommiane #3

di Guido Rutili 30 settembre 2018

PARTE TERZA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane #3 

Il tema di padre e madre è estremamente attuale e  si configura come argomento centrale nell’ambito della letteratura a carattere psicologico.

Anche troppo.

Difficilmente se ne esce e difficilmente se ne fa a meno: è un argomento che non tollera imprecisioni, oppure diventa commerciale, banale, inflazionato.

Nel momento socio-antropologico dei valori che vacillano, della liquidità relazionale e della labilità dell’elemento che vorremmo a tutti i costi stabile, è cosa normale che s’ingeneri la spinta verso la riscoperta dei principi interni di genere, nella speranza che divengano segnali portanti di un’auspicabile restaurazione della personalità.

Quello sulla personalità (ed i relativi disturbi, di conseguenza) è un dibattito vivo, poiché tratta dell’elemento maggiormente responsivo quando si parla di intensi mutamenti ambientali.

In poche righe, cercando di visualizzare la struttura dell’ente espressivo dell’individuo, potremmo schematizzarlo come un insieme di oggetti autonomi e connessi tra loro; oggetti che potremmo definire “caratterizzanti”, ovvero portatori e promotori d’indoli diverse, la cui assonanza sinergica determina infine la gestalt della fisionomia individuale del Sé.
Viene da sé che padre e madre interni, nello schematismo appena proposto, occupino il ruolo dei sovrintendenti del gioco delle parti: essi dispongono, richiamano, stabiliscono le quote dei contributi, avvertono il sintomo, forniscono l’imprinting alla figura d’insieme.

Sulla base di tali premesse, una risposta alla trasformazione continua dei fattori al contorno basata sul rafforzamento della matrice nucleare interiore, diviene lecita: il lavoro sulla personalità è la contromisura efficace e l’investimento più coerente con il trend ambientale dell’epoca contemporanea.

Anche in questo caso, leggere tra le righe dell’Arte di amare ci fa compiere la rivoluzione a cui Fromm ci ha abituato, attraverso la quale uscire finalmente dal coro.
Padre e madre compaiono in forma inedita: pur ricontattando la propria connotazione originale, variano la “staticità dirigenziale” che li connota e maturano sulla base di una legge di moto che li arricchisce di un’insolita energia cinetico-evolutiva.

Insieme con la nostra consueta “lettura degli spazi vuoti” dell’opera frommiana, cresce l’universo delle riflessioni possibili e degli insegnamenti da cogliere.

Nel passaggio in rassegna dell’ente paterno e materno, lo psicoterapeuta tedesco conduce ad un’arte nell’arte: quella dell’esercizio genitoriale.

“l’atteggiamento materno e quello paterno corrispondono ai bisogni propri del bambino” [1]

Dentro la dimensione nella quale ci proietta il rapido estratto, l’atteggiamento si spoglia della veste del marginale e calza quella più centrale di “terreno di coltura psico-catalitico”.
Crolla l’assioma secondo il quale all’individuo appena venuto al mondo servano il padre e la madre in quanto esseri materici fisicamente prossimi e si rende necessario estrapolarne l’attitudine, per renderla (prima d’altro) oggetto d’attaccamento e di formazione.
I principi di genere emergono con forza proprio perché epurati dalla corporeità, quindi già pronti alla fruizione interna come elementi edificanti la fisionomia dei nuovi signori del Sé.

Ciò risulta rivoluzionario, non tanto perché nuovo rispetto alla teoria psicologico – scientifica, nata con enfasi freudiana sull’evento percepito ancor prima che esperito (non dimentichiamo la teoria sul trauma) o cresciuta sulla metafora di seni idealizzanti del tutto privi di materia, quanto poiché monito alla prassi razionale atavica che porta i genitori a fare la propria comparsa nella dimensione tangibile, nella veste di vello accogliente sul quale aggrapparsi, serrando la presa.

La prospettiva etologica a cui l’immagine riporta, dà indizi che avvicinano all’intuizione frommiana: l’atteggiamento del genitore è ciò che si riflette sul figlio, stimolandone la metamorfosi verso l’essere “individuato”.
Non a caso l’erede del predatore cede all’istinto (o mandato?) “predatorio” e quello della preda realizza l’attitudine alla fuga, usando il materiale genitoriale non come elemento condizionante ma come “attivatore” di una personalità probabilmente costellata a priori (seppure in potenza) da fattori biologici.

La disquisizione sull’influenza dell’atteggiamento del genitore sul piccolo, solleva una questione di importanza crescente: quali sono le modalità per ottenere la sua libera espressione, alla riscoperta di una specifica quota dell’Io che assolve la funzione desiderante?

Tornando all’osservazione diretta del regno animale, che in definitiva significa demolire le pesanti sovrastrutture psicologiche progredite, non possiamo non accorgerci di quanto il desiderio abbia una doppia valenza: da una parte di connettersi al centro pulsionale del genitore e gestirne la pressione interna e dall’altra di riconoscere l’istinto biologico del piccolo. Il tutto si risolve in una sinergia virtuosa, evolutiva per eccellenza.

Non c’è leone che contemplerebbe di privarsi dell’attrazione per la caccia, in nome di un presunto beneficio a carico dei suoi cuccioli; questo ancora prima di considerare che se lo facesse,  morirebbero di fame!
Ciò insegna che se il flusso pulsionale genitoriale è naturalmente espresso in una forma plausibile, si finisce per agevolare (e non per ostacolare) l’individuazione della prole.

Nella dimensione umana, assai più complessa, probabilmente non si assiste ad un collegamento altrettanto lineare ma il dilemma sulla rinuncia del genitore assume forme inaspettate.

Ciò che può apparire potenzialmente dannoso per i figli, non fa che compromettere l’attivazione di alcuni elementi tipici nella personalità di quei discendenti, falsamente tutelati da elucubrazioni che trovano appoggio più nel giudizio morale e nell’aberrazione socio-culturale che nell’assioma di natura.

Un ipotetico oppositore di questa teoria, potrebbe avvalersi della clausola teorica psicoanalitica di base, magari estrapolata dal preciso contesto di appartenenza, chiamando in causa sguardi sbagliati, seni buoni e cattivi, bontà insufficienti, desideri incestuosi, che nella storia hanno corso il rischio di sminuire l’Io desiderante del genitore, promuovendone aspetti per nulla autentici.

È importante allora che venga enfatizzato un concetto: desiderio e privazione non sono le due facce della stessa medaglia. Un desiderio autentico rappresenta la modalità espressiva estrovertita per antonomasia, l’intuito “portato a terra”, la comprensione della propria natura e, a mezzo di questa, della natura collettiva.

 

Se vogliamo essere degni depositari del fuoco di Prometeo, dovremo divenire consapevoli di quanto l’attitudine, forgiata in primis dall’Io desiderante, sia il fertilizzante delle vite in divenire, possibile vettore di crescita.

Il genitore desiderante è la radice del figlio capace di compiere una sana individuazione. Fromm, senza fare esplicitamente questa premessa, continua dicendo che “la persona matura è arrivata al punto in cui è madre e padre di sé stessa”[2].

Questo riporta alle considerazioni effettuate nella parte iniziale: individuarsi è costellare il Sé sotto l’egida delle istanze materna e paterna che siamo riusciti a radicare al centro della personalità.

L’individuo, per avere la possibilità di compiere un simile radicamento, deve avere gestito ed ancor prima elaborato certe forze; solo dopo può avere inizio l’esercizio della funzione integrata, la cui fisionomia è finemente rappresentata da lineamenti mutuati dall’azione sul materiale presente a priori da parte degli antichi atteggiamenti esperiti.

A valle di certe considerazioni emerge nuovamente un grande coraggio nel pensiero frommiano: sterilizzare senza divagazioni due figure di riferimento come padre e madre, di cui non è contemplata l’esistenza narcisistica idealizzante, bensì l’equazione di condotta, paradossalmente formulata sull’inedito asse desiderio – virtù.

L’audace passaggio, oltre ad equilibrare le posizioni reciproche tra genitori e figli come esseri umani anziché pedine gerarchicamente disposte da retrogradi principi moralizzanti, definisce un modello fisio-psicologico “buono” di attaccamento: distanza ed esempio fuori, integrazione e presenza dentro, all’insegna di un’azione integrante della personalità in formazione e non portatrice di repliche proiettive disarmonizzanti.

Un vero e proprio esorcismo del complesso di generazione che riconduce sempre ed irrimediabilmente alle figure genitoriali: un assioma secondo il quale la presunzione di creare sfocia nel narcisismo di ritorno, apparentemente maturo come ineluttabilmente regressivo.

Che si voglia o no, Fromm mette i primi parenti in panchina e cala la scure sulla loro importanza: l’arte è quella di amare, per amare bisogna essere trasportati (senza deroga, per i greci) e per essere trasportati serve un veicolo. Non c’è spazio per figure pesantissime che rallenterebbero la corsa coatta e magnifica verso l’oggetto pulsionalmente ricercato. Soprattutto non c’è spazio “autocelebrativo” al quale padre e madre reali possano fare riferimento per giustificare la propria rinuncia ed il proprio desiderio vittimistico.

Rieccoci al punto iniziale: il veicolo è il motivo per cui Fromm dona ai genitori interni una legge di moto del tutto coerente con i principi della dinamica, sull’onda del terzo enunciato di Newton, quello di azione e reazione, per il quale l’impulso (etimologicamente “spinta”), è la forza capace, anche in tempi minimi, di generare grandi variazioni nella quantità di moto.

Padre e madre corporei sono elementi statici per la dinamica psichica del loro prodotto, eppure il loro atteggiamento è impulso puro, volto ad evitare alla nuova vita complessa una “partenza da fermi”.

Tanto ci viene detto in poche, essenziali parole: un doppio preludio, all’arte di esercitare la genitorialità ed all’arte della controparte di compierla come funzione interna portante, tutto sotto il comun denominatore costituito da un concetto di amore pieno, multiforme, completo.

[1]  Erich Fromm, L’arte di amare

[2] Erich Fromm, L’arte di amare

LEGGI LE DUE SEZIONI PRECEDENTI

Rivoluzioni frommiane

Rivoluzioni frommiane

di Guido Rutili 8 maggio 2018

PARTE PRIMA

leggi in pdf Rivoluzioni frommiane

Erich Fromm evidenzia una dimensione dell’amore che fa riflettere:

la responsabilità, nel vero senso della parola, è un atto strettamente volontario; è la mia risposta al bisogno, espresso o inespresso, di un altro essere umano.

Essere “responsabile” significa essere pronti e capaci di “rispondere”. […] Come Caino, domandare: -Sono il custode di mio fratello?-. La persona che ama risponde. La vita di suo fratello non è solo affare di suo fratello, ma suo. Si sente responsabile dei suoi simili così come si sente responsabile di sé stesso[1]

Il miracolo che l’autore compie nell’Arte di amare non è solo quello di celebrare l’amore, non solo quello di elevarlo a insegnamento e contemplarne la composizione sminuzzandone il principio-guida in tanti sub-elementi costituenti; non si limita neanche ad effettuare una semplice riformulazione del concetto di “responsabilità”.

Egli opera sottilmente nell’inversione di polarità.

La responsabilità, da elemento occludente e passivo che era, diviene innesco attivo ed apre inediti scenari.

Da baluardo del Super-ego aggressivo e onnipresente, prende i connotati di costituente redentore dell’istanza castrante per antonomasia.

Eppure, dice Fromm, si tratta di punti di vista.

Siamo alle solite, si torna alla storia di Saturno e Urano.

Non ci fermiamo, però alla prima lettura del mito, nella quale l’immagine feroce è del Titano che evira il genitore.

Procediamo alla seconda, la terza, la quarta, fino a fare onore al bacino di ricchezza che solo certe scritture riescono a rappresentare: una sorgente perpetua e sacra, che non genera solo acqua ma ogni sorta di manna nutritiva.

Nell’altra lettura, Saturno lo libera di qualcosa; prima di tutto da un’aggressività tanto spiccata da indurlo a dare in pasto i propri figli e confinarli (in preda alla nevrosi di controllo) nel Tartaro viscerale della moglie.

L’atto del taglio non è solo menomazione del padre. È affrancamento, nella sterilità, da un altrettanto sterile complesso di dominio eterno.

Con l’evirazione, atto dinamico, ha fine anche l’obbligo di generare lignaggi, che quasi è un paradosso.

Fromm voleva che notassimo questo tipo di sfumatura.

Il sovvertimento del punto di vista, il vero “mezzo pieno” che costituisce il nucleo stesso del pensiero produttivo.

In un’ottica archetipica: – Liberate il Senex dalle proprie vesti di agente saccente e frustrante e godete della saggezza e del “senso del tempo” di cui è portatore, facendone motore attivo per una virtuosa capacità (quantomeno) di rendervi “opportuni” in ogni contesto-.

Nel prodigio della rivoluzione di vedute acquista significato anche il nome greco di Saturno, ovvero Crono, nella virtù di colui che “porta il tempo”.

La divinità che continuo a citare è quella che sovrintende, per diritto quesito, l’istanza Freudiana super-egoica; non possiamo pensare che nelle castrazioni continue che è chiamata ad effettuare eserciti solo un’azione negativa e mai una volta agisca a beneficio dei tanti tesori che si pone la missione proteggere.

Il Super-Io positivo-frommiano è la nuova frontiera della consapevolezza; l’esercizio e la rivoluzione di vedute possono renderlo attivo e, in senso lato, positivo.

Quando mai avevamo assistito ad una rivalutazione tanto feconda ed esplicita di un elemento in ombra come il “senso di responsabilità”?

Di quante cose ulteriori diverremmo capaci, nel momento in cui il Super-Io si mettesse a remare all’unisono con le altre istanze, raddoppiandone la spinta propulsiva?

Avremmo un Io capace di accogliere i suggerimenti dell’Es nella stessa modalità fluttuante ad acritica di cui sono fatte le libere associazioni.

Avremmo la disinibizione della saggezza, la sfacciataggine della cognizione, la fluidità della libertà in ogni campo dell’esistenza, la calma dello “stare nel tempo”.

In ogni sacca di vita quotidiana sapremmo, in poche parole, quale strada intraprendere, senza fretta né esitazione, forti del proprio solido e proattivo Super-Ego.

E l’azione non avrebbe fine nell’istanza, perché essa è dimora di una nostra vecchia ed illustre conoscenza.

Il padre.

Reale, interiore, vivo o defunto, presente o assente, idealizzato o svalutato e chi più ne ha più ne metta; l’oggetto padre, insomma.

Un altro importante elemento assolto, libero di vestire panni meno severi, nelle sue versioni intrapsichica e relazionale, felice della castrazione saturnina prosciogliente.

Proprio così: Fromm riesce a restituire energia propulsiva alla figura paterna, cosa che non aveva trovato (apparentemente) dipanamento nelle due o tre generazione che ormai ci separano da lui!

Il re e il maschile, un fondamentale costituente del nostro Io dicotomico ermafrodito, affrancato in un solo passaggio.

La ricetta frommiana ritrovata pare trovare i propri equilibri non tanto nell’ingrediente ma nel suo stato di “attivazione”.

Volendo rendere produttiva la responsabilità dovremo prima renderla attiva da passiva che era, motrice da subìta, eterodiretta da auto-imposta, mai più lasciata giacere nel bacino della stasi.

Se non ci fosse attivazione, non potrebbero essere gettate le basi per configurare un’arte.

Dell’ultimo termine, difatti, colpisce una definizione, semplicemente ricavabile dalla prima ricerca sul web: “qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva”.

Esprimersi è fornire alla domanda interna una risposta che può permettersi di essere dilagante nel mondo esterno.

L’arte di amare, in poche parole, è imparare a conferire all’ente interno, incorporeo e desiderante (totipotente, ancora latente) la fluidità materiale necessaria per espandersi a macchia d’olio.

Sui corpi, le cose, le istanze del mondo che prima di tale operazione sentiamo estraneo.

Allora amiamo per esprimerci, renderci progressivamente consapevoli, individuarci.

Amiamo per esistere.

Pensiamo che tutto questo sia rivoluzionario? Eppure la responsabilità non è che uno dei quattro principi che l’autore dell’Arte di amare riconfigura e ri-attiva, rendendoli colonne portanti dell’essere capace di “essere”.

Premura, responsabilità e comprensione sono strettamente legate tra loro. Sono un complesso di virtù che fanno parte di una personalità matura, di una persona che sviluppa proficuamente i suoi poteri, che sa quello che vuole, che ha abbandonato sogni narcisistici di onniscienza e onnipotenza, che ha acquisito l’umiltà fondata sulla forza intima che solo l’attività produttiva può dare[2]

 La premura è il secondo elemento.

Questa volta parla di madre eppure, al contempo, cessa di farlo, perché anche questo costituirebbe la prima lettura, quella più immediata e, di conseguenza, più banale.

L’amore è premura soprattutto nell’amore della madre per il bambino. Noi non avremmo nessuna prova di questo amore se la vedessimo trascurare il suo piccolo. […] Amore è interesse attivo per la vita e la crescita di ciò che amiamo. Là dove manca questo interesse, non esiste amore[3]

 Siamo ancora in presenza di qualcosa che fisiologicamente appare statico e per rendersi mobile presuppone “lavoro”.

Lavoro concepito come nella mente del matematico francese Gaspard Gustave de Coriolis: variazione di energia cinetica.

Lavoro rendicontato.

In altre parole: forza trasformativa.

Non possiamo pensare di imparare un’arte giacendo inerti sul divano o attendendo che la genetica evolva senza premesse darwiniane.

Come dire: è l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza![4]

La premura, oltre che essere presente, rende il proprio palesamento quota costituente imprescindibile.

Non è strano, è semplicemente eterodiretto.

Come l’amore di Fromm; come l’arte di esprimerlo e, nel farlo, di provarlo.

Nel libro di Giona, che l’autore cita, perfino Dio decide di rimarcarlo: -Tu hai avuto pietà sotto la pianta per la cui crescita tu non hai lavorato. Essa è cresciuta in una notte, ed è morta in una notte!-[5]

Ed anche questo Dio è Super-ego, ancora una volta presente nella propria accezione positiva e proattiva: una sfaccettatura che comincia ad essere non più soltanto enfatizzata, ma divinizzata!

La madre, dicevo, scompare.

Scompare perché, una volta compiuto il prodigio della mobilitazione di principi inizialmente passivi, il maternage può lasciare posto ad altro.

Essi si compiono, quindi la madre, che esercita bene la premura, afferma sé stessa e completa l’oggetto delle proprie cure, poi lo affranca dalla propria presenza.

Due parole hanno reso liberi due genitori: responsabilità ha elaborato il padre e premura la madre.

Semplice. Come la scrittura dell’autore. Cristallino.

Ora che l’Io è ri-composto con due presenze di genere e pare completo, cos’altro potrebbe suggerire Fromm che non ha già detto?

Rispetto e conoscenza.

In buona parte “parenti”, l’uno della responsabilità, l’altra della premura.

Essere responsabili implica rispetto, premurosi conoscenza.

Però queste due nuove parole servono a tracciare qualcosa che non era emerso.

La distanza.

Essere premurosi ha una distanza non nota, ma esserlo conoscendo profondamente l’oggetto della propria premura rende inevitabilmente prossimi.

[…] per conoscere pienamente nell’atto d’amore, devo conoscere psicologicamente la persona amata  e me stesso, obiettivamente, devo vederla qual è in realtà, abbandonare le illusioni, il quadro contorto che ho di lei[6]

 Essere responsabili ha un raggio ampio ma esserlo rispettando l’oggetto verso il quale si è responsabili, porta vis à vis con l’altro.

Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità[7]

 Le rivoluzioni Di Erich Fromm sono dinamicamente frontali, center to center.

Per questo convince, per questo innova.

 

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] ibidem

[3] ibidem

[4] Così ha inizio l’opera di Erich Fromm, L’arte di amare.

[5] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[6] ibidem

[7] ibidem

PARTE SECONDA

21 maggio 2018

leggi in pdf  Rivoluzioni frommiane – Seconda Parte

La psicologia come scienza ha i suoi limiti, e come la conseguenza logica della teologia è il misticismo, così la conseguenza diretta della psicologia è l’amore[1]

L’amore è inizialmente trattato da Fromm come effetto di una solitudine esistenziale, che riesce a trasformarsi in atto compiuto soltanto attraverso l’unione universale.

L’universale appartiene a Dio, così come “quel” tipo di unione nucleare col creato e col trascendente. L’unione immanente la rispecchia da quaggiù (allo stesso modo in cui la generazione di un figlio rispecchia la creazione) attraverso la congiunzione tra maschile e femminile.

L’unione universale poggia sull’amore universale, quella umana sull’amore polare inteso come campo gravitazionale che spinge il principio femminile verso quello maschile; se in ambedue i casi l’amore è arte, si passa da “arte dell’Anima” (di subodorare l’eterno) a “arte della mente” (di riconoscere l’altro prossimo idoneo).

In ogni caso abbiamo redenzione: guarigione mistica da una parte, trattamento psicoterapeutico dall’altra.

Pace dell’anima o benessere psicofisico.

Ancora una volta semplice, ancora una volta sorprendente.

Fromm parla quando tace, nel riverbero delle parole appena pronunciate. Così facendo, definisce.

La conseguenza del logos del soffio vitale (psicologia, perché le parole pesano), o chiave di traduzione dalla lingua degli angeli a quella con cui noi non-divini possiamo comunicare, è l’attrazione polare.

Cos’ha da invidiare, tale speculazione umanistica, alla recente scoperta della parentela tra gravità e tempo, ultima frontiera della fisica quantistica, acme della ricerca dissecante-analitica, reiterata all’infinito da refusi nevrotico-mercuriali ormai connaturati nell’uomo moderno?

Amore: attrazione tra istanze.

Gravità: attrazione tra corpi.

Misticismo: attrazione verso Dio.

Tempo: attrazione tra eventi quantistici.

Assiomi equivalenti che si ripetono in diverse dimensioni?

Con la domanda ancora sospesa abbassiamoci di quota, torniamo nel solo dominio dell’uomo e parliamo di princìpi, di biologia e, al limite, di psicologia.

“[…]si leva un bisogno più immediato, più biologico: il desiderio di unione tra il polo maschile e quello femminile. Il concetto di questa polarizzazione è espresso in modo efficace nel mito che in origine l’uomo e la donna erano un unico essere, che furono tagliati a metà, e da allora ogni maschio è alla ricerca della parte femminile di sé stesso, in modo da potersi riunire con essa.

[…] La polarizzazione sessuale porta l’uomo a cercare l’unione in modo preciso: quello della fusione con l’altro sesso. La polarità tra maschio e femmina esiste anche “tra” ogni uomo ed ogni donna. Così come fisiologicamente l’uomo e la donna hanno in sé gli ormoni del sesso opposto, essi sono anche bisessuali in senso psicologico. Portano in sé stessi il principio del ricevere e del dare, della materia e dello spirito”[2]

Difficile scappare dalla riflessione, leggendo certi pensieri.

C’è un motivo.

Fromm è un cannocchiale.

Lo stesso con cui Galileo ebbe l’occasione e la fortuna di diventare eretico e lo stesso che permise a Copernico di ribaltare gli schemi antropocentrici, rendendoli “principio-centrici”.

Se osserviamo da fuori lo “strumento ottico” Fromm possiamo bearci della scorrevolezza della sua scrittura, della bellezza formale e del messaggio costante e fluido, ma guardandoci dentro, rischieremo di comprendere!

Dall’inizio: difficile pensare all’amore senza considerare l’attrazione di genere, perché si riforma il tao, prende anima la matrioska della vita in cui, alla Ficino, il piccolo è come il grande e il grande come il piccolo.

Tale dinamica di seduzione agganciamento e sintesi, avviene tra princìpi prima ancora che tra generi.

Ed ecco che prende corpo la psicologia; sebbene l’Arte di amare non abbia alcuna pretesa di essere uno strumento tra le mani del professionista psicologo, si innalza a trattato fondamentale per tale figura.

Dice in questi passaggi che l’ermafrodito psichico che abita il nucleo di ognuno rappresenta già il luogo di convivenza taoista e gravitazionale tra due energie di genere e che l’attrazione maschio-femmina “somatici” semplicemente lo ricorda, senza tuttavia rappresentare l’elemento causale.

Dice che l’accoppiamento sessuale e sessuato che reca la nuova vita biologica rispecchia la morula psichica che porta all’integrità dell’Io.

Dice che l’equilibrio tra maschile e femminile determina l’uomo più di quanto altri equilibri corollari possano fare, poiché il mysterium coniunctionis è tra re e regina, nord e sud, padre e madre, positivo e negativo, non tra altre polarità, ammesso che esistano.

Forgia l’uomo dall’Anima androgina, ricavandolo da una pietra che al suo interno già l’ospitava, come un novello Michelangelo, dimostrandoci che il maschio senza femmina e la femmina senza maschio non creano il campo e proprio per questo ogni essere, seppure caratterizzato più dall’uno che dall’altro, non può negare che l’altra parte lo costituisca.

Nella prassi terapeutica ritengo che questo sia un caposaldo.

Per ogni professionista: partire dal nucleo, dall’istanza più interna alla più esterna, dagli equilibri archetipici dell’Io, prima di curarsi di ciò che gli gravita attorno.

Difficilmente avremo la comparsa del disagio in una persona che ha ben presente l’istanza di padre e quella di madre nucleari; perché dunque curare i processi nevrotici ignorando che, alla loro base, qualcosa lavora seguendo asimmetrie non fisiologiche?

L’Io bisessuato. Fresco di conio frommiano: rivoluzione numero 2!

E se Fromm, anch’esso umano e dunque fallace, afferma che il padre della psicoanalisi sbagli (scrivendo: Egli [Freud, N.d.A.] espresse questa teoria nel volume “tre saggi sulla sessualità”, sostenendo che la libido ha una natura maschile, senza nemmeno considerare che ci sia una libido anche nella donna[3]), perdoneremo facilmente la svista: alla base sta la contestazione che gli fu contemporanea e che domina ogni altra epoca. In ogni momento storico, homo homini lupus, tendiamo inevitabilmente a disconfermare i giganti che ci portano sulle loro spalle!

Freud ed i suoi successori, tra cui l’autore di cui stiamo parlando, hanno linguaggi del tutto affini, consapevolmente o meno.

Esaminando le parole riportate in Fromm che cita Freud, la connotazione maschile della libido intende delinearne la fisionomia

Attiva e non passiva: maschile in questo senso.

Penetrante e non accogliente: maschile in questo senso.

Esplosiva e non implosiva: maschile in questo senso.

Dunque del tutto conforme agli assiomi dell’Arte di amare.

A questo va associato un corollario. Difficilmente, in psicologia, qualcuno ha aggiunto elementi sostanziali e veramente rilevanti al pensiero di Freud: questa frase divide chi lo ha letto da chi lo ha compreso.

Possiamo lasciare ai posteri l’onore di avere approfondito magistralmente la sua teoria.

Possiamo lasciare a tutti noi la capacità di decrittare e scompattare ciò che un uomo non poteva dire in una sola vita.

Fromm, certamente illustre tra i discenti, con l’Arte di amare accompagna il terapeuta, accompagna l’uomo, accompagna la sintesi nell’Io e porta giustizia all’essenza dell’amore.

[1] Erich Fromm, L’arte di amare, Mondadori editore, 1986 Milano

[2] Ibidem

[3] Ibidem

Fromm e l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari

Lettura di Irene Battaglini e Giorgio Risari 15 giugno 2017

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gustave_moreau_-_oedipus_and_the_sphinx_-_wga16201Dalla mano l’autunno mi bruca la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
il tempo ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca parla vero.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo alla finestra abbracciati, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra si degni di fiorire,
che l’affanno cresca un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Paul Celan

Non possiamo identificarci con le nostre idee. Le idee hanno importanza, ma una importanza relativa. Chi non sa superare la dicotomia tra l’essere e il pensare, tra ciò che uno è e ciò che uno pensa, diventa schiavo del proprio pensiero e in ultimo termine perde il senso cristiano dell’esistenza.

Raimon Panikkar

Come Edipo, viviamo inconsapevoli dei desideri che offendono la morale, di quei desideri che ci sono stati imposti dalla natura; quando ci vengono svelati, probabilmente noi tutti vorremmo distogliere lo sguardo dalle scene dell’infanzia.

Sigmund Freud

L’Anti-Edipo è un’opera complessa, la cui collocazione nel periodo intorno al Sessantotto ha innescato filoni critici in contraddizione: risulterebbe, con le parole dello stesso Deleuze, da una parte il frutto azzardato e controverso di un pensiero anarcoide, che Deleuze definisce parafrasando Kant: «una specie di Critica della ragion pura al livello dell’inconscio»[1] e, dall’altra, uno «spinozismo dell’inconscio».[2]

Così prosegue Deleuze in uno scritto fondamentale[3] in cui accoglie l’idea di Spinoza ad assumere come “modello” di conoscenza (come vera e propria mappa psicologica esperienziale) il corpo:

Si tratta di mostrare che il corpo va oltre la conoscenza che se ne ha, e che nondimeno il pensiero oltrepassa la coscienza che se ne ha. Non vi sono meno cose nella mente che oltrepassano la nostra coscienza che cose nel corpo che sorpassano la nostra conoscenza. E dunque per un solo e medesimo movimento che arriveremo ad afferrare la potenza del corpo al di là delle condizioni date della nostra conoscenza a cogliere la potenza della mente al di là delle condizioni date della nostra coscienza. Si cerca di acquisire una conoscenza delle potenze del corpo per scoprire parallelamente le capacità della mente che sfuggono alla coscienza, per poter comparare le potenze. In breve, il corpo, secondo Spinoza, non implica alcuna svalorizzazione del pensiero in rapporto all’estensione, ma cosa assai più importante, una svalorizzazione della coscienza in rapporto al pensiero, e una scoperta dell’inconscio, e di un inconscio del pensiero, non meno profondo che I’ignoto del corpo.[4]

L’inconscio del corpo sottende, in questa esperienza di conoscenza, alla nascita di un «Io» corporeo, il quale deve evidentemente trovare la sua condizione privilegiata per esprimersi, proprio attraverso il corpo: e come, se non attraverso il «desiderio»? Il tema del desiderio è propriamente centrale all’Edipo, come si legge nella letteratura psicoanalitica classica. Scrive Freud:

Già da piccolo, il figlio comincia a sviluppare un’affettuosità particolare per la madre, che considera come cosa propria, e ad avvertire nel padre un rivale che gli contrasta questo possesso esclusivo; e, allo stesso modo, la figlioletta vede nella madre una persona che disturba il suo affettuoso rapporto con il padre e che tiene un posto che lei stessa potrebbe occupare molto bene.

Apprendiamo dall’osservazione quanto sia precoce l’età cui risalgono questi atteggiamenti.

Li designiamo col nome di “complesso edipico”, perché la leggenda di Edipo realizza con un’attenuazione minima i due desideri estremi risultanti dalla situazione del figlio: uccidere il padre e prendere in moglie la madre. (Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-32).

Poggiandosi sull’idea di fondo che:

Nel complesso di Edipo si ritrovano i principi insieme della religione, della morale, della società e dell’arte, e ciò in piena conformità coi dati della psicoanalisi che vede in questo complesso la sostanza di tutte le nevrosi, per ciò che della loro natura siamo finora riusciti a penetrare. (Sigmund Freud, Totem e tabù, 1913)

La tesi fondamentale di Deleuze e Guattari, sostenuta nell’opera L‘Anti-Edipo, è che l’obiettivo – non riuscito- della psicoanalisi sia la liberazione dal desiderio degli oggetti parentali della famiglia, obiettivo nel quale la stessa psicoanalisi freudiana rimane invischiata: il complesso di Edipo teorizzato da Freud, colpevolizza e imbriglia il “desiderio” che, intrappolato dai e nei legami familiari, viene poi dato, reso disponibile con la sua energia immensa alle forze della riproduzione sociale. Sostiene il filosofo Treppiedi nella rivista «La Deleuziana»:

Appaiono ancora rilanciabili tre domande dell’Anti-Edipo: I) Quali le traiettorie della psicanalisi dopo la scoperta freudiana di un principio di produzione inconscia? II) Perché il disagio psichico è vissuto con un certo imbarazzo nell’ambito di diversi saperi e di diverse istituzioni? III)

In che modo l’inconscio incide sulle contraddizioni del presente, dunque, sui conflitti tra realtà differenti e sempre più estese quali società, gruppi, schieramenti?

Il noto attacco dell’Anti-Edipo alla psicoanalisi non si separa dal tentativo, sviluppato nel corso dell’intero libro, di fondare una politica del desiderio.

Tentativo, questo, che Deleuze e Guattari articolano sui due piani strettamente connessi di una critica alle letture «edipizzanti» del sociale e di un’analisi dei modi di riproduzione del capitalismo.

Ponendo le questioni nel segno di questa duplice tensione, Deleuze e Guattari concepiscono la «schizoanalisi» come una pratica mediante cui rilevare criticamente, nel loro contesto, i limiti di psicoanalisi e marxismo nelle loro stesse capacità di lettura e trasformazione della realtà e della storia. [5]

Scrive Deleuze: «La psicoanalisi parla parecchio di inconscio ma poi in pratica lo fa per ridurlo, distruggerlo, emarginarlo. L’inconscio viene visto come un negativo, è il nemico». Continua il filosofo francese:

Che errore aver detto l'(es). Ovunque sono macchine, per niente metaforicamente: macchine di macchine, coi loro accoppiamenti, colle loro connessioni. Una macchina-organo è innestata su una macchina-sorgente: l’una emette un flusso, che l’altra interrompe. Il seno è una macchina che produce latte, e la bocca una macchina accoppiata a quella. La bocca dell’anoressico oscilla tra una macchina da mangiare, una macchina anale, una macchina da parlare, una macchina da respirare (crisi d’asma). Così si è tutti bricoleurs; a ciascuno le sue macchinette. Una macchina-organo per una macchina-energia, sempre flussi e interruzioni.[6]

Il “vuoto edipico” sarà riempito di “merci” e “macchine sociali”, questa è la sintesi meno improbabile che avrebbe dato Erich Fromm, che dedicò al tema il saggio Il complesso di Edipo e il mito di Edipo (1949), per esplorarlo ulteriormente all’interno del più ampio Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti del 1962.

La critica di Deleuze e Guattari è che la psicoanalisi freudiana è solidale con la famiglia e con l’assetto sociale tradizionale conservatore se non reazionario, rifiutando trasformazioni politiche e sociali.

Si pone comunque una questione a priori legata al significato che nella società contemporanea si attribuisce all’ideologia, e che posto l’idea di ideologia con il suo campo semantico, abbia avuto nella psicoanalisi, il cui è establishment è radicato nella società occidentale.

Sappiamo che Fromm coltivò una sua “personale” ideologia,[7] come sostiene Marco Bacciagaluppi, tuttavia fuggì sempre una modalità centralizzante, basata sul suo pensiero, restando sempre in una posizione mobile e a-dogmatica, senza mai imporre ad una scuola di costituirsi in nome di una ortodossia della tecnica. Possiamo ipotizzare che Fromm immaginò una psicoanalisi forte di una carica umanistica sorretta dall’ortoprassi, verosimilmente nel senso in cui la intende Panikkar, in risposta all’adesione al binomio ortopoiesi-ortodossia.[8]

Se per Freud l’inconscio è da produrre, per Fromm il “desiderio” dev’essere costruito e mantenuto libero dai legami familiari, verso la società e la storia ma in senso rivoluzionario, dato che il desiderio, da un punto di vista umanistico -sempre buono e naturale – è libertà dell’individuo al di là della storia e della società, al limite persino la libertà assoluta della e nella schizofrenia.

Nella lettura deleuziana, l’Edipo e l’Anti-Edipo sembrano due polarizzazioni, o almeno rischiano di diventarlo, in questo modo di procedere, non tenendo conto della dimensione esperienziale in cui è possibile sfiorare il desiderio senza esserne abitati, accettare un livello edipico in cui sia inclusa la transizione, la capacità di stare in equilibrio, di guadare la palude vorticosa dell’abbraccio. Sostiene Roland Barthes nei Frammenti di un Discorso Amoroso:

  1. Oltre all’accoppiamento (e al diavolo l’Immaginario), vi è quest’altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell’addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (nell’amorosa quiete delle tue braccia, dice una poesia musicata da Duparc). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
  2. Tuttavia nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l’indistinta sensualità dell’abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l’adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L’innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).[9]

Vediamo i nodi critici della teoria di Guattari alla luce della psicoanalisi umanistica di Erich Fromm e della sua revisione dialettica:

Innanzitutto il “complesso di Edipo” non è universale ma è tipico della società occidentale “patricentrica”: esistono infatti tribù extraeuropee australiane (isole Tobriand) dove il ruolo paterno è svolto dallo zio o dalla zia. L’universalità, stigmatizzata da Freud in Totem e Tabù, del complesso edipico, risulterebbe eccessivamente generalizzata. Con lo stile amabile e persuasivo, allo stesso tempo rigoroso e piano, che contraddistingue i suoi scritti, Freud (da L’interpretazione dei sogni, 1900):

Se Edipo Re è in grado di scuotere l’uomo moderno come ha scosso i greci suoi contemporanei, ciò non può che significare che l’effetto della tragedia greca non è basato sul contrasto tra destino e volontà umana, ma sulla particolarità della materia sulla quale questo contrasto viene mostrato. Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere nell’Edipo la forza coercitiva del destino, mentre soggetti come quello della Bisavola o di altre simili tragedie del destino ci fanno un’impressione di arbitrarietà, e non ci toccano. Ed effettivamente nella storia di Re Edipo è contenuto un tale motivo. Il suo destino ci scuote soltanto perché avrebbe potuto diventare anche il nostro, perché prima della nostra nascita l’oracolo ha pronunciato ai nostri riguardi la stessa maledizione. Forse è stato destinato a noi tutti di provare il primo impulso sessuale per nostra madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza per nostro padre; i nostri sogni ce ne convincono. Re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e che ha sposato sua madre Giocasta, è soltanto l’adempimento di un desiderio della nostra infanzia. Ma a noi, più felici di lui, è stato possibile, a meno che non siamo diventati psiconevrotici, di staccare i nostri impulsi sessuali dalla nostra madre, e dimenticare la nostra invidia per nostro padre. Davanti a quel personaggio che è stato costretto a realizzare quel primordiale desiderio infantile, proviamo un orrore profondo, nutrito da tutta la forza della rimozione che da allora in poi hanno subito i nostri desideri. Il poeta, portando alla luce la colpa di Edipo, ci costringe a conoscere il nostro proprio intimo, dove, anche se repressi, questi impulsi pur tuttavia esistono. Il canto, con il quale il coro ci lascia: …”Vedete, questo è Edipo, i cittadini tutti decantavano e invidiavano la sua felicità; ha risolto l’alto enigma ed era il primo in potenza, guardate in quali orribili flutti di sventura è precipitato!” – è un’ammonizione che colpisce noi stessi e il nostro orgoglio, noi che a parer nostro siamo diventati cosi saggi e così potenti, dall’epoca dell’infanzia in poi.

Gli fa eco Erich Fromm, con altrettanta autorevolezza:

II mito di Edipo offre un eccellente esempio dell’applicazione del metodo freudiano e allo stesso tempo un’ottima occasione per considerare il problema sotto una prospettiva diversa, secondo la quale non i desideri sessuali, ma uno degli aspetti fondamentali delle relazioni tra varie persone, cioè l’atteggiamento verso le autorità, è considerato il tema centrale del mito. Ed è allo stesso tempo una illustrazione delle distorsioni e dei cambiamenti che i ricordi di forme sociali e di idee più antiche subiscono nella formazione del testo evidente del mito. […]

Il concetto del complesso di Edipo, che Freud ha così efficacemente espresso, divenne una delle pietre angolari del suo sistema psicologico. Egli credeva che esso fosse la chiave per comprendere la storia e l’evoluzione della religione e della morale e che costituisse il meccanismo fondamentale dello sviluppo del bambino. Sosteneva inoltre che il complesso di Edipo è la causa dello sviluppo psicopatologico e il «nocciolo della nevrosi».

Freud si riferiva al mito di Edipo secondo la versione contenuta nell’Edipo Re di Sofocle. La tragedia ci racconta che un oracolo aveva predetto a Laio, Re di Tebe, e a sua moglie Giocasta, che se essi avessero avuto un figlio, questi avrebbe ucciso il padre e sposato la propria madre. Quando nacque Edipo, Giocasta decise di sfuggire alla predizione dell’oracolo, uccidendo il neonato. Ella consegnò Edipo a un pastore, perché lo abbandonasse nei boschi con i piedi legati e lo lasciasse morire. Ma il pastore, mosso a pietà per il bambino, lo consegnò a un uomo che era a servizio del Re di Corinto, il quale a sua volta lo consegnò al padrone. Il Re adotta il bambino e il giovane principe cresce a Corinto senza sapere di non essere il vero figlio del Re di Corinto. Gli viene predetto dall’oracolo di Delfi che è suo destino uccidere il proprio padre e sposare la propria madre e decide quindi di evitare questa sorte non ritornando più dai suoi presunti genitori. Tornando a Delfi egli ha una violenta lite con un vecchio che viaggia su un carro, perde il controllo e uccide l’uomo e il suo servo senza sapere di aver ucciso suo padre, il Re di Tebe.

Le sue peregrinazioni lo conducono a Tebe. In questa città la Sfinge divora i giovinetti e le giovinette del luogo e non cesserà finché qualcuno non avrà trovato la soluzione dell’enigma che essa propone. L’enigma dice: «Che cos’è che dapprima cammina su quattro, poi su due e infine su tre?» La città di Tebe ha promesso che chiunque lo risolva e liberi la città dalla Sfinge sarà fatto Re e gli sarà data in sposa la vedova di Laio. Edipo tenta la sorte. Trova la soluzione all’enigma cioè l’uomo che da bambino cammina su quattro gambe, da adulto su due e da vecchio su tre (col bastone). La Sfinge si getta in mare urlando, Tebe è salvata dalla calamità, Edipo diviene Re e sposa Giocasta, sua madre.

Dopo che Edipo ha regnato felicemente per un certo tempo, la città viene decimata dalla peste che uccide molti cittadini. L’indovino Tiresia rivela che l’epidemia è la punizione del duplice delitto commesso da Edipo, parricidio e incesto. Edipo, dopo aver disperatamente tentato di ignorare la verità, si acceca quando è costretto a vederla e Giocasta si toglie la vita. La tragedia termina nel punto in cui Edipo ha pagato il fio di un delitto che ha commesso a sua insaputa, nonostante i suoi consapevoli sforzi per evitarlo.[10]

Fromm gerarchizza il tabù dell’incesto in termini socialmente funzionali rispetto al problema, più ampio dal punto di vista della gestione del potere, del parricidio: l’incesto sarebbe quindi «uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto del padre e con questo tutti i suoi privilegi»,[11] collocando la rivalsa di Edipo su un piano simbolico, quasi volesse essere l’espressione del desiderio madre-figlio come forza rivoluzionaria in grado di dare potere alla società matriarcale rispetto a quella di discendenza paterna, prendendo spunto dalla tesi di J.J. Bachofen, il cui saggio del 1861 Mutterrecht [= Diritto Materno],[12] viene esplicitamente citato da Fromm.[13]

Il complesso edipico è quindi inteso in senso umanistico come situazione psicologica di protezione, sicurezza, affetto, cibo, ovvero come ricerca di unità e di fusione fra il bambino e il mondo esterno, mediata dai genitori o altre figure parentali. Scrive Fromm, approfittando del discorso su Freud per esercitare una lettura del mito:

È giustificata la conclusione di Freud secondo la quale questo mito conferma la sua teoria che inconsci impulsi incestuosi e il conseguente odio contro il padre-rivale sono riscontrabili in tutti i bambini di sesso maschile? Invero sembra di sì, per cui il complesso di Edipo a buon diritto porta questo nome. Tuttavia, se esaminiamo più da vicino questo mito, nascono questioni che fanno sorgere dei dubbi sull’esattezza di tale teoria. La domanda più logica è questa: se l’interpretazione freudiana fosse giusta, il mito avrebbe dovuto narrare che Edipo incontrò Giocasta senza sapere di essere suo figlio, si innamorò di lei e poi uccise suo padre, sempre inconsapevolmente. Ma nel mito non vi è indizio alcuno che Edipo sia attratto o si innamori di Giocasta. L’unica ragione che viene data del loro matrimonio è che esso comporta la successione al trono. Dovremmo forse credere che un mito, il cui tema è costituito da una relazione incestuosa fra madre e figlio, ometterebbe completamente l’elemento di attrazione fra i due? Questa obiezione diventa ancora più valida se si considera che la profezia del matrimonio con la madre è ricordata una sola volta da Nicola di Damasco, che secondo Cari Robert attinge a una fonte relativamente tarda.[14]

L’umanista tedesco mette l’accento sul contrasto generazionale, spostando la collocazione intrapsichica dell’incesto ad un’area psicodinamica interpersonale, mediando il passaggio attraverso un acuto salto di paradigma sulla sponda socio-antropologica. Puntualizza Fromm, ampliando la lettura del mito ad una domanda di senso metastorico e filologico:

Come possiamo concepire che Edipo, descritto come il coraggioso e saggio eroe che diviene il benefattore di Tebe, abbia commesso un delitto considerato orrendo agli occhi dei suoi contemporanei? A questa domanda si è talvolta risposto, facendo notare che per i greci il concetto stesso di tragedia stava nel fatto che il potente e forte venisse improvvisamente colpito da sciagura. Rimane da vedere se una tale risposta sia sufficiente o se ne esista un’altra più soddisfacente.

Questi problemi sorgono dall’analisi di Edipo Re. Se consideriamo soltanto questa tragedia senza tenere conto delle altre due parti della trilogia, Edipo a Colono e Antigone, non è possibile dare una risposta definitiva. Ma siamo almeno in grado di formulare una ipotesi e cioè: che il mito può essere inteso come simbolo non dell’amore incestuoso fra madre e figlio, ma della ribellione del figlio contro l’autorità del padre nella famiglia patriarcale; che il matrimonio fra Edipo e Giocasta è soltanto un elemento secondario, soltanto uno dei simboli della vittoria del figlio che prende il posto di suo padre e con questo tutti i suoi privilegi.

La validità di questa ipotesi può essere verificata coll’esame del mito di Edipo nel suo complesso, specialmente nella versione di Sofocle contenuta nelle altre due parti della sua trilogia, Edipo a Colono e Antigone.[15]

Non dimentichiamo che uno de più agguerriti contestatori di Freud fu lo studioso della mitologia greca Jean-Pierre Vernant, che scrive:

Come può un’opera letteraria che appartiene alla civiltà ateniese del V sec. a.C. e che traspone essa stessa in maniera molto libera una leggenda tebana molto più antica, anteriore al regime della polis, confermare le osservazioni di un medico degli inizi del XX secolo sulla clientela di malati che frequentano il suo studio?[16]

Il “desiderio”, categoria centrale di Deleuze inteso come libertà del soggetto e sua espansione continua autoindotta in una spirale sempre più stringente, per Fromm è sottoposto alla relazione soggetto umano-legge di realtà, libertà-necessità, io-Mondo: non è desiderio e libertà assoluta ma impulso congenito a “essere ciò che io sono” in base alla natura umana che si esprime nel mondo e grazie al mondo” (qui la società può assumere una funzione favorevole o ostile riguardo a tale attività di realizzazione della personalità e della natura umana). La ricerca di libertà assoluta del desiderio che si “desidera” è una fuga inconscia dalla realtà e dalle sue leggi. In questa direzione, di negazione e non accettazione della necessità della realtà, culmina nella malattia mentale e quindi nel delirio schizofrenico.

Il “desiderio” vuoto ma assoluto, senza contenuto e valori etici umani discriminanti, è invece secondo Fromm interno al dinamismo della natura umana intesa come insieme di poteri e facoltà autenticamente umane: amore, pensiero, libertà, immaginazione “produttiva”, capaci di portare l’essere umano al miglior sviluppo in relazione al mondo e alla società. Tale sviluppo umano è aiutato da valori umani positivi che sono combinati con lo sviluppo dei tratti caratteriali, da quelli dipendenti orali, a quelli accumulatori anali, a quelli sfruttanti orali sadici aggressivi, a quelli genitali” produttivi”. Tale perfezionamento dei poteri e facoltà umane producono “gioia della funzione”, vale a dire l’uomo gode della e nella propria attività, provando piacere e felicità intesa come vita ben vissuta.

Per Deleuze, l’inconscio è al servizio e in funzione del desiderio sempre “buono e naturale”, per Fromm, al contrario, il desiderio è al servizio dell’inconscio umanistico dell’essere umano – inconscio che può avere un valore positivo ma anche negativo –, insomma il desiderio non sempre è buono e “desiderabile” ai fini della felicità e anche della salute mentale dell’individuo. (Basti pensare a un carattere sadico o masochistico che prova desiderio e piacere nell’infliggere o subire dolore a sé o agli altri). Il desiderio insomma va vincolato a valori umani positivi e “umanistici”, etici e spirituali, nonché sociali ed interpersonali. Per dirla con Fromm bisogna essere “responsabili del proprio inconscio”, quindi del proprio “desiderio”.

L’energia liberata grazie alla terapia analitica dalle dissociazioni e dal complesso edipico o meglio dalla fase preedipica secondo Fromm, serve a emancipare l’individuo dai propri complessi psicologici, blocchi ostruttivi ed inibizioni caratteriali che gli impediscono di essere se stesso in modo originale, autentico e creativo, perfezionando se stesso e in modo “produttivo” la società “alienata” ed alienante: così si riduce la “patologia della normalità” ed accedendo ad un più alto livello di coscienza di sé (eliminando dissociazioni e distorsioni paratattiche intrapsichiche) di intuizione dell’Essere della Realtà Umana, raggiungendo una condizione di Ben-essere, di “illuminazione” e di vita ben-vissuta cioè in armonia con se stesso e con il mondo circostante.

Restando in contatto con Erich Fromm, con il suo modo di concepire l’Essere, incontriamo il pensiero di Leopardi, che ha conosciuto il desiderio e percorso il sentiero dell’insolvibilità nel gorgo muto di una poesia estrema eppure vitale:

Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana.[17]

Umanizzare l’uomo e “de-patologizzare la società” (anche con riforme politiche sociali economiche) vanno di pari passo.

Una società migliore consente un migliore sviluppo umano e inversamente un umanità migliore, in senso psicologico etico spirituale, realizza una migliore organizzazione e funzionamento della società.

Insomma secondo Fromm la psicoanalisi è una teoria e pratica terapeutica al servizio della salute mentale come pure dell’umanesimo, nel senso più alto del termine, cioè come perfezionamento della vita del soggetto umano realizzando la sua identità soggettiva in relazione alla natura umana che gli inerisce e alle condizioni sociali economiche esistenziali in cui è situato.

Nasce, intorno alla soggettività, una domanda tutta interpersonale. Che cosa sarebbe l’Uomo, senza un Edipo? Senza sperimentare il desiderio e senza conoscere il significato che si esperisce per il tramite della limitazione? Scriveva Karen Blixen:

Fino ad oggi […] nessuno ha veduto gli uccelli migratori dirigersi verso sfere più calde che non esistono, o i fiumi dirottare attraverso rocce e pianure per correre in un oceano che non può essere trovato. Perché Dio non crea una brama [un desiderio] o una speranza senza aver pronta una realtà che le esaudisca. La nostra brama [il nostro desiderio] è la nostra certezza, e beati siano i nostalgici, perché torneranno a casa.[18]

Edipo e anti-Edipo, dovranno abbracciarsi nella psicologia dell’adulto, nell’affermazione della sua soggettività. D’altro canto, la psicoanalisi è uno scenario di discussione lacerato, in alcuni casi, dallo scontro ideologico. È necessario ricondurre il confronto, come avrebbe voluto lo stesso Fromm, ad una dialettica dei saperi, dei punti di vista, e non ad un conflitto di potere tra ortodossia e invidia del potere. Con la brillante sintesi di Luigi Longhin:

Il problema dell’ortodossia è presente fin dagli inizi della storia della psicoanalisi. Intorno agli anni cinquanta dello scorso secolo si iniziò a ritenere che la metapsichica di Freud non era sostenibile, pur essendo ritenuta una dottrina sacra. Nascono nuove metapsichiche, ma in modo celato, perché l’ortodossia deve essere rispettata. Sorge il problema epistemologico che permette di indicare quando una disciplina può dirsi scientifica con la concezione analogica di scienza e la precisazione dei pilastri fondamentali di ogni scienza, ivi compresa la psicoanalisi. Da qui l’importanza dell’approfondimento scientifico: una delle conquiste più qualificanti dell’epistemologia attuale per poter distinguere la scienza dall’ideologia.[19]

La dirompente rivolta anti-ideologica tout court, non mediata da una morbidezza interpretativa, rischia di essere distruttiva, e di tradire se stessa, aderendo ad un nuovo, più temibile e cieco potere furioso, invidioso, a qualche livello strettamente edipico. L’adesione alla teoria fondazionale che si regge sull’Edipo, «sull’eccessivo spostamento di accento sul Super-Io paterno»[20], rischia invece di costruire una tecnica schiacciante, inglobante, facendo della psicoanalisi una sorta di madre-cattiva, e disconoscendo quindi il fondamento maschile su cui millantava di reggersi. Non è possibile, quindi, affermare conclusioni mature restando intrappolati nella paura della polarizzazione: occorrerà stare in questa tensione, accogliere e nello stesso tempo archiviare tutte le voci contrastanti, ammettere che la psicoanalisi “buona”, dipende da chi la esercita, e da come l’Edipo – in qualità di struttura interna, di modello operativo – si debba rapportare alle spinte anti-edipiche interne, che pure devono esistere, poiché ci permettono di vigilare sull’abuso di potere, di evitare la tremenda deriva delle letture unipolari, monoculari, senza profondità. Riconoscere il mito, quale che sia, che è in grado di utilizzare il nostro mondo emotivo, di abitarlo. Scrive Hillman:

Se abbiamo una grande inquietudine e dei problemi, il primo passo per uscire dal problema è capire che al centro del problema in questione c’ è un mito. Allora capiamo che non siamo solo noi come individui la causa di quella inquietudine. È il perdurare di una strutturazione mitica del comportamento umano a operare in me.[21]

D’altro canto, ad un certo punto si sancisce il passaggio da un mito paterno ad un mito “materno”, inteso come prospettiva interpersonale, proprio nella psicoanalisi.

Grotstein (1981) parla di una rivoluzione epistemologica nella psicoanalisi, che è insita nello spostamento «dai meccanismi di rimozione ai meccanismi di scissione e di identificazione proiettiva».[22]

La materia della tragedia, il tessuto del mito, le fasi della psicodinamica, allora si intrecciano, come piani che si incrociano, a ricordare Escher, e il suo gioco metafisico di scale.

Concludiamo con Roland Barthes, sempre dall’Abbraccio nei Frammenti:

  1. Momento dell’affermazione, per un po’, anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l’appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione, la contrazione, dei due abbracci.[23]

 

[1]  G. Deleuze (1975-1995), Due regimi di folli e altri scritti, Einaudi, Torino 2010, p. 255.

[2] G. Deleuze (1972-1990), Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 192.

[3] Cfr. G. Deleuze, Spinoza e il problema dell’espressione (1968), Spinoza (1970), Spinoza. Filosofia pratica (1981).

[4] G. Deleuze (1981), Spinoza: filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 29

[5]  ladeleuziana.org

[6] G. Deleuze, F. Guattari (1972), L’Anti-Edipo. Capitalismo e Schizofrenia, Einaudi, Torino 1975, p. 3.

[7] Cfr.: M. Bacciagaluppi, L’ideologia personale di Erich Fromm, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 253-258.

[8] Panikkar (1996) fa ricorso ad un nuovo concetto, ortoprassi, per parlare di due espressioni della fede e della credenza che non possono né essere mescolate né si escludono a vicenda: dottrina e morale. La prima identifica la fede con l’ortodossia, adesione ad una giusta dottrina, ma identificare la fede con l’ortodossia può portare al “dogmatismo” (che mette in risalto rigidamente il valore di una determinata formulazione intellettuale della fede). «La formulazione della fede non può essere essenzialmente legata al suo contenuto perché ciò ne violerebbe il carattere trascendente. La fede è un mistero che non può essere vincolato a una forma di espressione definitiva né riferito univocamente ad alcuna formulazione» (La nuova innocenza). La seconda insiste sul carattere morale dell’atto religioso, supremazia del bene, tendendo ad identificare la fede con un determinato comportamento morale corretto (ortopoiesis). Identificare però la fede con la rettitudine morale porta al “moralismo” (esasperazione dell’atto di fede); quindi “si distrugge il fondamento stesso della religione che pretende essere ben più che un mero perfezionismo”. Panikkar propone, come superamento di entrambi gli estremi, il concetto di fede quale ortoprassi. L’uomo è più che semplice spettatore e interprete del mondo, è prima di tutto un attore; l’ortoprassi vuole essere un autentico cammino di salvezza, “divinizzazione”. La fede dunque non è tanto una dottrina o una morale, quanto “un atto fondamentale che ci apre alla possibilità di perfezione” (L’homme qui devient Dios, Paris 1970).

[9] R. Barthes (1977), Frammenti di un discorso amoroso, p. 13, «Abbraccio», Einaudi, Torino 2014.

[10] E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, pp. 188-193.

[11]  E. Fromm, ibidem, pp. 193 e segg.

[12] Cfr. Bachofen, in E. Fromm (1962), Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1995, p. 196.

[13] Bachofen sostiene che agli albori della società prevalessero le organizzazioni matriarcali, anche per la necessità di verificare l’attendibilità della discendenza. Giocasta protende verso il marito Laio, consentendo un ulteriore rinforzo della forma patriarcale.

[14] E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1962, pp. 188-193.

[15] E. Fromm, ibidem.

[16] J.P. Vernant (1967), Edipo senza complesso, Mimesis, Milano 1996, p. 33.

[17] G. Leopardi (1831-1835), Poesie e prose, «Pensieri» LXVIII, Mondadori, Milano 1980, v.II, p. 321.

[18] K. Blixen (1958), Capricci del destino, Feltrinelli, Milano 2003, p. 40.

[19] L. Longhin, La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, in A. Imbasciati, L. Longhin, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, a cura di L. La Stella, Aracne, Roma 2014, pp. 233-252.

[20] F. Fornari, La lezione freudiana, Feltrinelli, Milano 1983, p. 213.

[21] J. Hillman, L’anima del mondo. Conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 1999.

[22] L. Longhin, ibidem.

[23] R. Barthes, op. cit., p. 13 e segg.

LA GRAVIDANZA COME “GESTAZIONE ONIRICA” – l’arte (collettiva) dell’attesa –

di Giovanna Nicolò 3 febbraio 2017

leggi in pdf La gravidanza come gestazione onirica – l’arte (collettiva) dell’attesa

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Dreamers Meeting Place di Duy Huynh

SOMMARIO

  • La gravidanza: gestazioni psichiche
  • Una “gestazione onirica”

La culla onirica originaria e la funzione di rêverie

  • Nuove prospettive di sostegno alla genitorialità in gravidanza

La formazione per una rêverie sociale

 

La gravidanza: gestazioni psichiche

Paul-Claude Racamier (1986) ha coniato il termine maternalità – condensando i termini materno, maternità e natalità – per indicare quell’insieme di peculiari processi psicoaffettivi che costituiscono una vera e propria crisi esistenziale, corrispondente al tempo della gravidanza e al periodo postnatale.

Si può parlare, in altri termini, di una “gestazione psichica”, cioè del formarsi di un grembo psichico, che accompagna la “gestazione biologica”, anche se va detto che «lo sviluppo dell’embrione-feto-bambino nel pensiero della madre non segue sempre il ritmo fisiologico» (Marinopoulos, 2005, p. 138), e lo stesso vale per le rappresentazioni di sé come madre: non è scontato   che   la   donna   incinta   sia   psicologicamente   pronta   a   diventare   madre.     Proprio

«l’accompagnamento del concepimento mentale al concepimento biologico mette la donna in condizione di sviluppare la capacità di tenere e di contenere permettendo lo sviluppo armonico della relazione madre-bambino» (Ferrara Mori, 2008, p. 111).

 A sua volta, il padre è chiamato a costruire uno spazio intrapsichico che gli consenta di immaginare il bambino che la partner porta in grembo, la partner come madre, sé come padre, in modo da poter assolvere, già in gravidanza, la sua funzione di contenimento e sostegno, relazionandosi con la diade madre-bambino: anche per l’uomo la gravidanza comporta una serie di processi psicoaffettivi che può determinare una vera crisi (potremmo parlare di “paternalità”), un lavoro che, al pari di quello della donna incinta, implica processi di rielaborazione e anticipazione che fondano tanto i necessari rimaneggiamenti identificatori quanto gli scambi interattivi che si vengono ad instaurare in gravidanza e dopo la nascita del figlio (sul piano immaginario come su quello reale).

Di fronte al lavoro psichico che i “genitori in divenire” intraprendono, e alla luce dello stato di particolare sensibilità psicosomatica che essi sperimentano, possiamo affermare che entrambi sono “gravidi”: tanto per la madre quanto per il padre, la gestazione psichica configura la dimensione nella quale poter rielaborare i fantasmi originari che si riattualizzano, potersi riorganizzare a livello identitario, poter riconoscere il bambino come il frutto creativo di un progetto di coppia, in modo da accoglierlo come figlio – altro da sé e soggetto in divenire – e preparare il suo “arrivo nel mondo”. Tutto questo corrisponde a fantasie caleidoscopiche, che possono essere “di transizione” (evolutive- trasformative) o “senza ritorno” (regressive-coattive), idealmente collocabili lungo un continuum, trattandosi di dimensioni non mutualmente escludentesi, comunque compresenti (Ferraro, Nunziante Cesàro, 1985).

Non possiamo sottovalutare i «segni di prevenzione genitoriale» (Missonnier, 2003) e le potenzialità “virtualmente” insite nella fase d’attesa. Non va dimenticato che è «la qualità strutturale della riemergenza conflittuale, indotta dalla trasparenza psichica del periodo prenatale, che sarà messa alla prova dalla realtà del parto e dalla presenza del neonato in carne ed ossa. La sfumatura più o meno traumatica della transizione alla genitorialità postnatale dipenderà in parte dalla qualità della maturazione dell’anticipazione della genitorialità nel periodo prenatale» (ibidem, p. 50) […] «la storia individuale e intergenerazionale di ognuno dei genitori e la storia della loro coniugalità danno un profilo singolare all’anticipazione perinatale individuale e coniugale» (ibidem, p.73). Riconoscere tutto ciò significa anche, dunque, fare prevenzione.

Una “gestazione onirica”

Le differenti funzioni genitoriali corrispondono a rappresentazioni in parte analoghe ma in gran parte peculiari. La riflessione sulla relazione tra sogno e gravidanza mi ha dato modo di sottolineare come questa peculiarità sia profondamente fondata – oltre che su una dimensione mitica culturalmente connotata, a sua volta radicata nella differenza biologica tra donna e uomo – su fantasie preconsce ed inconsce, “antiche” e/o “in costruzione”, ad occhi aperti e/o oniriche.

Il feto è un «oggetto virtuale» (Missonnier, 2003), è sentito come parte di sé eppure non si vede, c’è e non c’è, e per questo la sua rappresentazione implica uno sforzo notevole. Se il sogno è il primo stato nella formazione del pensiero, che dà forma alle esperienze emozionali e tesse legami tra la vita fantasmatica e la realtà esterna (Bion, 1962), sognare il bambino significa accoglierlo e ri- conoscerlo in uno spazio transizionale, significa costruire un involucro contenitivo e trasformativo dell’esperienza interiore della gravidanza, un’esperienza comune e condivisa. La gravidanza può allora essere pensata come sogno, come “gestazione onirica”: i processi di rielaborazione ed anticipazione immaginativa implicano attività di legame e trasformazione in funzione della costituzione di un grembo psichico che contenga il feto-bambino.

 Come sappiamo per Freud il sogno ha essenzialmente tre funzioni: preservare il sonno; realizzare il desiderio inconscio mediante allucinazione; consentire, attraverso l’interpretazione, l’accesso all’inconscio. Gli psicoanalisti moderni e contemporanei hanno ripreso e parzialmente sviluppato queste tesi, in particolare «I modelli psicoanalitici attuali vedono nello strumento clinico dell’interpretazione una costruzione di senso e non uno svelamento di significato, spostando chiaramente in primo piano i processi comunicativi, il modo di agire il racconto del sogno, il testo relazionale rispetto a processi come la rimozione, la censura. (…) Nello stesso processo analitico, il sogno è ricondotto a una modalità di narrazione-racconto nell’ambito della privilegiata relazione duale paziente-analista» (Margherita, 2009, pp. 45-47).

La culla onirica originaria e la funzione di rêverie

 Kaës (2002) afferma che «il lavoro del sogno, a monte per quanto riguarda le possibilità, e a valle per quanto riguarda il suo racconto, avviene nel rapporto con altri sognatori» (ibidem, p. 38). A valle, l’utilizzazione del sogno nel legame intersoggettivo e nello spazio psichico comune può avere diverse funzioni: principalmente quelle di appoggio e holding onirico, di messaggio, di elaborazione terapeutica e di restaurazione del Preconscio; a monte, la formazione dello spazio psichico comune e condiviso deriva da quella dello spazio onirico originario: una dimensione «pre-onirica» che realizza il desiderio inconscio di un’identità magica con l’oggetto e ne è, al contempo, il «prodotto incestuoso».

La rêverie materna costituisce il presupposto della costituzione dell’apparato per sognare e per pensare (Bion, 1962): i riflessi trasformativi che la madre, sin dalla gravidanza, restituisce al bambino costituiscono la fonte, la materia e il processo della «culla onirica originaria», definita da Kaës (2002) come «il luogo primo dello spazio psichico comune e condiviso». Secondo Kaës la psiche dell’infans nasce dal sogno della madre, dalla sua funzione di rêverie, dalla culla che i pensieri onirici in gravidanza – pensieri di un altro e di più di un altro – vengono a formare. Questo involucro onirico originario protegge dagli stimoli perturbatori che renderebbero irraggiungibile lo scopo del sogno, ossia la realizzazione allucinatoria del fantasma di desiderio inconscio: «Sognare è prima di tutto tentare di mantenere l’impossibile unione con la madre, preservare una totalità indivisa, muoversi in uno spazio di prima dei tempi» (Pontalis, 1972). Costituendo il sonno una «riattivazione del soggiorno nel grembo materno» (Freud, 1915, p. 176), il disinvestimento richiesto dal sogno ha come correlato l’investimento dello spazio materno: «Il corpo proprio non ha solo uno statuto di contenitore e di fonte dello spazio del sogno (…) il corpo e la psiche materni assicurano le condizioni del sogno, lo albergano e forse lo lavorano» (Kaës, 2002, p 40).

 Kaës (2002) sottolinea anche che se la funzione sognante materna è compromessa, la ricostituzione nella madre della funzione di para-eccitazione – e del rapporto simbolico con il bambino – richiede un’attività trasformativa sostitutiva che il padre è chiamato a svolgere, assumendo una funzione “materna” di holding onirico: se il padre – o chi per lui – non riconoscesse, contenesse e trasformasse l’esperienza traumatica, svolgendo una funzione sognante che contiene e garantisce la rêverie materna, gli elementi sensoriali grezzi – elementi beta – (Bion, 1962) andrebbero a contaminare lo spazio psichico comune della diade – lo «spazio psichico comune e condiviso» di cui parla Kaës, trovando vie di espulsione nell’agire e nella somatizzazione, con effetti disorganizzanti, devastanti sulla relazione con il feto-bambino, sulla sua esperienza e sulla formazione del suo apparato per sognare e pensare. Il padre è chiamato a farsi «primo nemico» per bonificare dal male, garantendo la simbiosi madre-bambino e, quindi, la sopravvivenza di entrambi (Fornari, 1981): sembra che il padre faccia un po’ da tramite, che la sua rêverie funzioni come dispositivo transizionale, come una sorta di sogno-crocevia. Il grembo psichico che si viene a formare in gravidanza porta in sé, quindi, non solo il bambino che nascerà ma anche il divenire di una madre e di un padre.

Nuove prospettive di sostegno alla genitorialità in gravidanza

Dunque, con la nascita viene alla luce, sottoponibile all’esame di realtà, tutto ciò che nell’attesa i genitori hanno trasformato dentro di sé, attraverso sogni che tessono legami e ne elaborano le dinamiche. È soprattutto per questo che la fase dell’attesa non va sottovalutata, nel bene e nel male, ed è necessario sviluppare nuove prospettive e pratiche di sostegno alla genitorialità in gravidanza. A tal proposito, altrove (tesi di laurea magistrale) ho fatto riferimento a sguardi ed interventi che possono andare incontro ai bisogni e ai desideri dei genitori in divenire, offrendo dimensioni di accoglienza ed elaborazione: la pre-infant observation, i corsi di preparazione ah hoc rivolti a padri in attesa, la formazione specialistica per una rêverie sociale.

La riorganizzazione necessaria affinché la gravidanza si configuri quale progetto creativo ed evolutivo di coppia è un lavoro, principalmente psichico, che chiama in causa non solo i genitori ma anche gli operatori che li incontrano e che dovrebbero offrire un adeguato contenimento e supporto, nonché la società in senso più ampio, con il suo piano istituzionale da non tralasciare. Il sogno parentale, che tesse e trasforma fantasie polifoniche, dovrebbe infatti poter essere elaborato in una enveloppe che fornisca ulteriore holding, onirico e narrativo, dando modo ai genitori di integrare l’attesa nella propria storia, personale, familiare e transgenerazionale. Definisco “rêverie sociale” quella funzione elaborativa che si distribuisce e realizza attraverso il lavoro di “corpi sociali concentrici”, un lavoro di riconoscimento, accoglienza, contenimento e trasformazione.

La formazione per una rêverie sociale

«C’è una storia biologica, genetica, gravidanza-parto-nascita, che necessita di attenzioni mediche, ma c’è soprattutto una storia relazionale, che necessita di un’attenzione empatica e rigorosa» (Ferrara Mori, 2008, p. 150): sembrerebbe quasi un fatto scontato, ma in realtà questa storia relazionale, in quanto tale ambivalente, può passare “inosservata”, può essere “oscurata” o “distorta” per evitare il conflitto o difendersi da esso, e non soltanto da parte dei protagonisti della storia – i genitori – ma anche da parte di tutti i professionisti chiamati a “gestire” anzitutto l’evento biologico, con il rischio di tecnicizzare quel peculiare, imprevedibile e caleidoscopico microcosmo che l’esperienza interiore della gravidanza crea, mette in moto, trasforma.

È dunque di fondamentale importanza una preparazione psicologica alla maternità, un accompagnamento   nell’ambito   del   quale   «La   psicologa   ha   una   funzione   di  accudimento dell’esperienza gestazionale» (ibidem, p. 69), insomma un ascolto che in primis possa riconoscere l’ambivalenza, più o meno polarizzata, insita nella gravidanza, «teatro di luci e ombre» (Marinopoulos, 2005). Ciò rende altrettanto fondamentale formare all’ascolto, in primo luogo tutti gli operatori che assistono la gravidanza e la nascita.

L’ascolto a cui faccio riferimento si costella di parole sensibilmente scelte e condivise, che fanno da filo conduttore. «Curare le future madri richiede tecnica, sorveglianza, garanzie mediche. Ma per prendersi cura di loro è indispensabile aggiungere a tutto questo la parola. Parlare alle madri, sostenerle nell’espressione di un dire emotivo nuovo, a volte perturbante, è indispensabile nella nostra presa in carico. È uno strumento al tempo stesso terapeutico e di prevenzione» (Marinopoulos, 2005, p.157). Deve trattarsi – e qualcuno potrebbe pensare ad un paradosso – di una parola che presta ascolto, che si presta ad esprimere quanto risuona nella comunicazione empatica, non sempre conscia, non sempre detta, non sempre dicibile, affinché l’esperienza emotiva vissuta possa farsi narrazione, e trovare il proprio posto in una storia rappresentabile ed elaborabile, costruita attorno all’evento gravidanza, ma proiettata oltre. L’ascolto partecipe diviene così un incontro che concilia, in modo da disporre un altro incontro, l’Incontro tra il genitore e suo figlio.

Allargando lo sguardo, possiamo, infatti, trovarci d’accordo sul fatto che «la difficile e complessa convivenza dei codici lavorativo, femminile e materno necessita di un contenitore sociale e sanitario» (Ferrara Mori, 2008, p. 144). Ed aggiungo che anche il padre in attesa – a maggior ragione, alla luce dei profondi cambiamenti socio-culturali che negli ultimi cinquant’anni hanno investito le funzioni genitoriali – ha bisogno di una “rete” di contenimento e sostegno, di “rêverie sociale”.

Purtroppo nella società odierna, sempre più individualistica, si tende a vivere anche la maternità e la paternità come questioni private, e ciò annulla o, comunque, compromette quella funzione sognante di holding sociale che dovrebbe essere a monte e a garanzia della rêverie materna e paterna. Vorrei concludere con una riflessione di “apertura”. Apertura a nuove prospettive e pratiche che partano dalla formazione di tutti gli operatori sociali che, in diversi modi e tempi, si trovano ad incontrare la gravidanza e la nascita.

«Operare per la nascita alla vita significa lavorare per la nascita dei padri, delle madri e dei bambini. Significa prendersi cura della nascita della famiglia. Se capissimo questo, se provassimo a elaborare un “involucro empatico sociale non giudicante”, sapremmo prestare un’attenzione autentica a tutte queste nascite. Se la cura psichica è di competenza dello psicologo, l’accoglienza delle emozioni dei futuri genitori è di competenza di tutti1. Innanzitutto naturalmente del personale che li accoglie nel reparto, che però è impotente senza un pensiero collettivo che lo sostenga. (…) La maternità [come la paternità – aggiungo] è un’iniziazione rituale al divenire genitore, è un luogo di passaggio che deve essere pensato e contenuto dalla nostra società, come fa una madre con il figlio. Questo sarà possibile solo se viene accettata la dimensione simbolica dell’incontro del feto-bambino con i suoi genitori (…) Dobbiamo esserci per tutte le madri [e i padri]» (Marinopoulos, 2005, p. 170).

Il «corpo sociale» può e deve farsi «madre delle madri» (Ferrara Mori, 2008), e dei padri. Farsi involucro onirico.

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1  Il corsivo è mio.

BIBLIOGRAFIA

Bion W. R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando Editore, 1972.

Ferrara Mori G. (2008). Un tempo per la maternità interiore. Gli albori della relazione madre- bambino. Roma: Borla.

Ferraro F., Nunziante Cesàro A. (1985). Lo spazio cavo e il corpo saturato. La gravidanza come “agire” tra fusione e separazione. Milano: Franco Angeli.

Fornari F. (1981). Il codice vivente. Femminilità e maternità nei sogni delle madri in gravidanza. Torino: Bollato Boringhieri.

Freud S. (1915). Metapsicologia. In S. Freud (1979) La teoria psicoanalitica. Torino: Bollato Boringhieri, 2004.

Kaës, R. (2002). La polifonia del sogno. Roma: Borla, (tr. it.) 2004.

Margherita G. V. (2009). Narrazione e rappresentazione nella psicodinamica di gruppo. Teorie e tecniche. Milano: Franco Angeli.

Marinopoulos S. (2005). Nell’intimo delle madri. Luci ed ombre sulla maternità. Milano: Feltrinelli, 2006.

Missonnier S. (2003). La consultazione terapeutica perinatale. Psicologia della genitorialità, della gravidanza e della nascita. Tr.it. Milano: Raffaello Cortina, 2005.

Pontalis J.-B. (1972). La pénétration du rêve, Nouvelle revue de psychanalyse, 5, 257-271.

Racamier P. C., Taccani S. (1986). Il lavoro incerto, ovvero la psicodinamica del processo di crisi. Pisa: Edizioni del Cerro.

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Miracle of Birth di Vladimir Kush

 

Bambini e tecnologia: quanto tempo davanti allo schermo?

di Paola Serio 7 gennaio 2017

leggi in pdf Bambini e tecnologia: quanto tempo davanti allo schermo

foto-paola-serioUna mamma si addormenta con accanto il suo iphone e la sua bambina, Ashlynd.

Ashlynd ne approfitta per fare da sé un’azione che ha visto compiere alla mamma decine di volte: va su Amazon e fa acquisti per un valore di 250 dollari; tredici giocattoli e gadget di Pokemon, i suoi preferiti.

NATIVI DIGITALI E GENITORI PRIMITIVI. Il mondo è cambiato radicalmente negli ultimi dieci anni. È più facile ammirare un cielo stellato attraverso uno schermo che vederlo alzando il naso in su. Possiamo trascorrere il tempo a disquisire di quanto questo sia fantastico o aberrante e di quanto abbia risolto o complicato la nostra vita da adulti; ma non possiamo esimerci dal prendere in considerazione quello che la scienza ci dice sull’argomento quando siamo genitori.
Un bambino nasce in un mondo che gli adulti hanno costruito e pensato non certo a sua misura e può solo cercare di adattarsi ad esso per sopravvivere. Quando qualche giorno fa sui social si è diffusa la notizia di Ashlynd che a 6 anni ha ben pensato di fare spese online con il dito della madre, qualcuno avrà riso sotto i baffi confermando la sua scelta di non voler per nessuna ragione al mondo procreare. Forse qualcuno ha pensato che ai suoi tempi queste cose non succedevano e qualcun altro ancora avrà addirittura rimpianto i giganteschi telefoni fissi, oggi molto vintage, tenuti ancora come arredamento negli appartamenti. Quelli che, per comporre il numero, dovevi infilare il dito in un miniscolo buchino e girare!
Sicuramente, però, qualche genitore, a cui proprio non importa stabilire in quale epoca sarebbe stato il caso nascesse suo figlio, si sarà semplicemente chiesto: ma quanto tempo è bene che i bambini trascorrano davanti ad uno schermo? Domanda top one dei genitori dei bambini 2000.

RACCOMANDAZIONI PER GENITORI. Nel 2011, l’American Academy of Pediatrics (AAP) raccomandava che i bambini di età inferiore a 2 non dovessero guardare qualsiasi televisione. I ragazzi un po’ più grandi avrebbero dovuto limitare al massimo a 2 ore al giorno il tempo sullo schermo.

Dall’Ottobre del 2016, di fronte alla ormai massiccia diffusione di iphone e ipad queste direttive sono cambiate: un cambiamento che probabilmente riflette la realtà che gli schermi sono diventati parte della vita quotidiana anche dei nostri figli.

Tra le raccomandazioni AAP troviamo:

  • Per i bambini di età inferiore ai 18 mesi, evitare l’uso dei mezzi di comunicazione con schermo diverso rispetto alle video-chat (con i nonni, zii o genitori lontani).
  • I genitori di bambini dai 18 ai 24 mesi di età che vogliono introdurre i media digitali dovrebbe scegliere una programmazione di qualità, e guardare con i loro figli i programmi per aiutarli a capire quello che stanno vedendo.
  • Per bambini dai 2 ai 5 anni è bene limitare l’uso dello schermo a 1 ora al giorno di programmi di alta qualità. Anche in questo caso i genitori dovrebbero guardare con i bambini programmi o giochi per aiutarli a capire ciò che stanno vedendo e applicarlo al mondo che li circonda.
  • Per bambini dai 6 anni in su, porre limiti coerenti circa il tempo trascorso con i media e assicurarsi che il supporto non prenda il posto di sonno adeguato, l’attività fisica e altri comportamenti essenziali per la salute.

Inoltre è bene ricordare che:

  • I bambini, per loro natura, spesso fanno chiasso, sporcano, litigano, vogliono attenzioni. Se non possono fare almeno parte di questo cercheranno di trovare un’alternativa e spesso aumentano significativamente lo screen time.
  • Spesso la televisione è un suono in sottofondo della casa, una sorta di “compagnia”. Questo però può distrarre i bambini da loro attività come giocare con i giocattoli o parlare con i genitori. Così, se il bambino non è specificamente seduto a guardare qualcosa, è meglio lasciare il televisore spento.
  • Internet o lo schermo non potrà mai insegnare ai nostri figli più di quanto potremmo fare noi. Inoltre non è detto che, nonostante la buona qualità di un contenuto, un bambino sia in grado di comprenderlo e gestirlo emotivamente. Quindi non smettiamo mai di sederci, parlare, spiegare e, soprattutto, essere d’esempio.
  • Interessiamoci sempre e nel particolare del contenuto. Data la presenza di innumerevoli spettacoli didattici e applicazioni per i bambini, non vi è alcun motivo per cui dovrebbero guardare la programmazione per adulti, in particolare la programmazione che contiene violenza.
  • Prendiamoci del tempo per capire le caratteristiche tecniche dello strumento e come i nostri figli lo utilizzano. Verifichiamo la politica che applicazioni e social hanno sulla privacy e la conservazione dei dati. Dobbiamo assolutamente sapere chi ha accesso al materiale audio video prodotto dai nostri figli ( solo i loro amichetti di scuola o tutto il popolo del web??). Talvolta inconsapevolmente potrebbero condividere informazioni sensibili come la loro posizione. La nostra età/ignoranza della tecnologia/mancanza di tempo non sono una scusa: siamo noi gli adulti e gli unici responsabili dell’incolumità dei nostri figli.
  • Ricordiamoci sempre che, come per tutto, tenderanno a seguire, più che le nostre parole, il nostro esempio: occhio innanzitutto a come noi gestiamo il nostro screen time.

Con queste piccole e semplici accortezze lo screen time smetterà di essere una preoccupazione ma solo un’altra cosa di cui parlare, certe volte da concordare e spesso da condividere.