Questo libro, curato da me, è stato pubblicato in Inghilterra nel 2013, e ora la FrancoAngeli ha pubblicato la traduzione italiana, con la Prefazione di Antonio Imbasciati. Esso contiene due inediti: un seminario tenuto da Bowlby a Milano nell’aprile 1985, e la sua corrispondenza con me, durata otto anni, dal 1982 al 1990. Bowlby è famoso come autore della teoria dell’attaccamento, ma nel seminario dimostra anche di essere un grande clinico, e nella corrispondenza con me un grande maestro.
La teoria dell’attaccamento
Dopo avere lavorato sui bambini privi di cure materne per l’OMS (L’Organizzazione Mondiale della Sanità), Bowlby cercò una base teorica per spiegare la sofferenza di questi bambini. La trovò nell’etologia ed elaborò quindi la teoria dell’attaccamento nella trilogia di Attachment, Separation and Loss (Attaccamento, separazione e perdita), che venne pubblicata in un periodo di dodici anni, dal 1969 al 1980. Secondo questa teoria, il bambino tende a stabilire un rapporto di attaccamento con la madre, la quale risponde con il comportamento complementare di cura parentale (“caregiving”). La madre fornisce “una base sicura da cui esplorare”. Questa formula racchiude due bisogni fondamentali e successivi: la base sicura fornisce la sicurezza, che permette poi di esplorare, ossia di raggiungere gradualmente l’autonomia.
La teoria è partita dallo studio empirico degli effetti di una situazione traumatica per un bambino, cioè la separazione dalla madre dovuta ad un ricovero ospedaliero. La reazione del bambino segue tre fasi: dapprima il bambino protesta, per richiamare la madre; se la separazione si prolunga, segue una fase di disperazione; infine, il bambino rinuncia ed assume un atteggiamento distaccato. Il ricovero ospedaliero è una situazione impersonale, dovuta a motivi medici, e prescinde dagli atteggiamenti della madre. La separazione fisica si presta allo studio quantitativo, ma gli stessi effetti vengono provocati da una separazione emotiva dovuta ad atteggiamenti negativi da parte della madre.
I vari tipi di attaccamento si possono osservare all’età di un anno in una situazione sperimentale, la Strange Situation, ideata da Mary Ainsworth, che consiste in una separazione breve, quindi non traumatizzante, di circa venti minuti, dopo avere osservato gli atteggiamenti della madre a casa nei mesi precedenti. Il bambino viene osservato in una stanza con dei giuochi, in varie combinazioni: con la madre, con una persona estranea, e quando la madre ritorna, ed è questo il momento più importante. La Ainsworth ha descritto l’attaccamento sicuro (il bambino accoglie la madre, poi torna a giocare), e due tipi di attaccamento insicuro, il resistente (il bambino va in braccio alla madre, poi si divincola), e l’evitante (il bambino non guarda la madre). Il bambino sicuro ha avuto una madre sensibile ai suoi segnali, il bambino resistente ha avuto una madre insensibile, il bambino evitante ha avuto una madre rifiutante, oltre che insensibile. Mary Main ha aggiunto il tipo di attaccamento più grave, quello di tipo D, disorganizzato/disorientato (il bambino va verso la madre, ma guardando da un’altra parte). La Main ha anche studiato le madri attraverso l’AAI (Adult Attachment Inventory), e ha visto che l’attaccamento di tipo D è correlato con traumi non risolti della madre (spesso, un lutto), che impauriscono il bambino.
Bowlby afferma che il comportamento di attaccamento è stato selezionato nel corso dell’evoluzione a causa del suo valore di sopravvivenza, che consiste nella difesa dai predatori. Lo abbiamo in comune con tutti i mammiferi e con molti uccelli. La dimensione temporale di questo confronto tra specie e classi diversi è di molti milioni di anni. Considero pertanto la teoria dell’attaccamento, basata sull’etologia e sulla teoria dell’evoluzione, come lo strumento concettuale di gran lunga più potente a nostra disposizione in psicoanalisi.
Il bisogno di attaccamento va tenuto distinto da quello di nutrimento. I due bisogni coincidono quando una madre allatta il bambino, ma si possono vedere distinti quando i pulcini seguono la chioccia. Essi non lo fanno per esserne nutriti, perché sono capaci di beccarsi il cibo da soli, bensì per la difesa dai predatori. I due bisogni si vedono distinti anche nell’esperimento di Harlow: le scimmiette rhesus a contatto con due madri artificiali di fil di ferro, una con la bottiglia del latte, l’altra coperta di pelo, si rivolgono dapprima alla prima per esserne nutriti, poi alla seconda per avere il conforto del contatto.
Bowlby pensa che le manifestazioni psicopatologiche siano il risultato di traumi relazionali che si verificano quando l’ambiente si discosta troppo da quello al quale siamo stati adattati nel corso dell’evoluzione (quello che lui chiama EEA: Environment of Evolutionary Adaptedness), ossia quando viviamo in una società fortemente innaturale come quella attuale.
Nella preistoria i nostri antenati vivevano in piccole bande di cacciatori-raccoglitrici (erano le donne a raccogliere i frutti, attività compatibile col portare un bambino in braccio od in un marsupio), nomadi, con pochi figli (grazie all’anticoncettivo naturale dell’allattamento prolungato, che inibisce l’ovulazione).
Si ebbe una forte discontinuità rispetto a questo passato con la rivoluzione agricola. Invece di prendere ciò che la natura offriva spontaneamente, gli esseri umani si misero a modificarla. I contadini divennero stanziali, con molti figli, i maschi per lavorare nei campi, le femmine più grandi per badare ai figli più piccoli. La famiglia non fu più una base sicura da cui esplorare. L’esplorazione doveva essere scoraggiata da vari meccanismi di legame (l’attaccamento insicuro e gli abusi fisici e sessuali), cioè da esperienze traumatiche, al servizio dell’inversione dei ruoli, per cui il bambino deve gratificare dei bisogni dei genitori anziché essere libero di raggiungere l’autonomia.
Bowlby si era sempre differenziato dalla negazione del trauma operata da Freud nel 1897 a favore delle fantasie, ulteriormente accentuate dalla Klein. Bowlby descriveva la separazione e la perdita, di cui aveva studiato gli effetti, come “real-life events” (avvenimenti della vita reale). Ma verso la fine della sua vita rimase colpito dall’ampia letteratura sul trauma, che aveva portato all’incorporazione del PTSD (il disturbo da stress post-traumatico, osservato nei reduci del Vietnam) nel DSM-III (il manuale statistico-diagnostico dei disturbi mentali) nel 1980. Nel 1984 Bowlby pubblicò un lavoro su “La violenza nella famiglia”, poi ristampato come il Capitolo 5 in Una base sicura, in cui parla del “voltafaccia disastroso” di Freud nel 1897.
Il seminario
Come esempio dell’acume clinico di Bowlby e dell’importanza da lui data agli avvenimenti traumatici, citerò ora i suoi commenti ai tre casi clinici presentati nel seminario di Milano nell’aprile 1985. I testi registrati sono stati trascritti e tradotti da me. A ciascuno dei tre colleghi ho poi chiesto la catamnesi del caso. Nel libro, dopo i casi ci sono le testimonianze degli altri colleghi che hanno contribuito al seminario, ospitando Bowlby e facendo le registrazioni. Alla fine del libro vi è un lungo caso di terapia breve, improntato alla teoria dell’attaccamento, presentato da Ferruccio Osimo, che aveva presieduto il seminario e fatto da traduttore.
All’inizio del seminario, prima dei casi, vi è un’introduzione teorica di Bowlby su “Processi difensivi alla luce della teoria dell’attaccamento”, dove Bowlby applica la teoria dell’informazione, col concetto di disattivazione del sistema di comportamento a scopo difensivo. In circostanze normali, il comportamento di attaccamento del bambino serve a mantenere la vicinanza alla madre. In seguito ad esperienze traumatiche, vi è un’esclusione selettiva dei segnali, quali la lontananza, che porterebbero al comportamento di attaccamento, e il bambino mostra un atteggiamento distaccato.
Poi si parla di alcuni problemi circoscritti come la tossicodipendenza e l’autismo. Ad un certo punto uno dei partecipanti chiede se le idee di Bowlby sono simili a quelle della Klein. Bowlby (che conosceva bene la Klein perché aveva fatto la supervisione con lei) risponde, molto decisamente, che la Klein credeva nell’istinto di morte, e che lui lo considera “rubbish”, che vuole dire “spazzatura”, e, in senso traslato, “sciocchezze”.
Infine si passa alla presentazione dei tre casi.
Caso 1. La paziente, che da piccola aveva riportato delle ustioni al viso, dice di se stessa che era “una bambina diversa, più matura degli altri”. Era molto orgogliosa del fatto che riusciva a fare stare meglio i genitori. Da grande aderisce ad un gruppo rivoluzionario. Diventa la compagna di uno dei capi. Con lui assume il ruolo di quella che fa tutto. Poi essa vuole un bambino, il marito è contrario, essa lo obbliga, resta incinta, nasce una bambina, che all’epoca del seminario ha 7 anni. Essa ricorda il suo rapporto con la bambina neonata come il periodo più felice della sua vita. Sorgono dei problemi quando la bambina comincia ad essere più autonoma e va all’asilo. La paziente comincia a stare male. Il suo bisogno di essere curata era in contrasto con la parte di lei che voleva fare tutto e non chiedeva nulla. Il marito la critica. Essa tenta il suicidio ingerendo molte pillole. Per la prima volta in vita sua si rivolge ad uno psichiatra, che consiglia l’analisi.
Nel rapporto terapeutico emerge il suo bisogno di essere curata. Allo stesso tempo, essa nega questo bisogno, per paura di affidarsi a qualcuno che la può lasciare e farla soffrire. Comincia a saltare le sedute e ad avere idee di suicidio. Ha anche degli episodi di eccitamento maniacale. In una seduta telefonica dice che si sente aiutata dalla terapeuta. Ricorda di essere stata ustionata dall’acqua bollente quando era bambina. In ospedale venne immersa in una soluzione fisiologica. Dopo di allora non ha più pianto. Commento di Bowlby. Anzitutto, egli si congratula con la terapeuta per l’indirizzo terapeutico adottato e per i progressi che la paziente ha già fatto. Pensa che questa paziente sia un esempio classico di quello che Winnicott chiamerebbe “falso Sé”. Pensando all’anamnesi, gli sembra molto evidente che la paziente divenne autosufficiente in modo compulsivo. Pensa che i genitori volessero che lei sembrasse una bambina contenta, e che a loro non piacesse che lei fosse sofferente e infelice. Quindi, essa diventa una bambina prematuramente adulta, autosufficiente, brava a scuola. Sono i rapporti personali che attivano tutti i suoi sentimenti rimossi. Ricorda il rapporto con la sua bambina come il migliore della sua vita. Ora, per la prima volta, si è permessa di provare affetto e attaccamento. Bowlby pensa che essa abbia invertito il rapporto con sua figlia. Questa è un’ipotesi, suggerita dalla sua sofferenza quando la figlia va all’asilo. Quando la paziente cerca di rilassarsi, e vorrebbe che gli altri si prendessero cura di lei, allora naturalmente si sente vulnerabile, specialmente quando vuole che gli altri le vogliano bene. La seduta telefonica gli sembra molto utile. La paziente non si aspettava che la terapeuta fosse d’accordo. Il modello interno di una figura di attaccamento che la paziente porta nel rapporto terapeutico disapprova il pianto, la sofferenza, e si aspetta da lei che sia felice e indipendente Catamnesi. Risulta che la paziente continuò l’analisi ancora per tre anni. La terapeuta ricorda in particolare un episodio indimenticabile. “La paziente si è alzata urlando e piangendo disperatamente, si è accasciata per terra e io mi sono alzata e l’ho abbracciata, cercando di calmarla con l’abbraccio e non con le interpretazioni”. Successivamente sono comparsi all’orizzonte progetti vitali. La paziente si è innamorata di un uomo. L’analisi è terminata in un quadro di accettazione dei suoi desideri di essere amata.
Caso 2. Il paziente è un uomo di trent’anni. A cinque anni, subito dopo la nascita di un fratello, venne mandato in collegio. Una delle sue sorelle maggiori morì di cancro quando il paziente aveva sedici anni. La sorella tornò a casa un anno prima di morire. Era solita aiutarlo coi compiti.
Una volta, il paziente perdette delle sedute. Era molto arrabbiato perché voleva recuperare le sedute mancate, ma ciò non era possibile per il terapeuta. Il paziente associò la separazione dalla famiglia perché veniva mandato in collegio. Nella seduta successiva aveva dimenticato tutto. Quando era arrabbiato, il paziente aveva fantasie omicide. Fece un sogno, provocato da un film, in cui dei soldati delle SS tenevano un bambino per i piedi e gli picchiavano la testa contro un muro. Tornato a casa, la sua bambina stava piangendo, ed egli temette di fare lo stesso a lei. La madre compare di rado nelle comunicazioni del paziente. A questo proposito il paziente riferì un altro sogno. “Sto camminando tenendo per mano la mia bambina quando un cane si mette a corrermi dietro fino quasi a mordermi. A questo punto, una donna prende la bocca del cane con le due mani e gliela torce, e il cane smette.” Orbene, il paziente ha associato che la madre gli torceva veramente la bocca per impedirgli di piangere. Commento di Bowlby. Egli dice: “Colpisce che quando la sua bambina stava piangendo gli veniva voglia di aggredirla. Questo mi fa pensare che quest’uomo sia stato picchiato da bambino quando piangeva”. Nota che la madre compare di rado nelle comunicazioni del paziente. Pensa che questa omissione sia significativa, e che i problemi del paziente dipendano soprattutto dalla madre. Ciò è confermato dal contenuto del secondo sogno. Bowlby pensa che nel sogno il cane sia la parte del paziente arrabbiata perché veniva mandato in collegio. Poiché la madre non sopportava il suo pianto, doveva impedirgli di piangere tenendogli la bocca. Bowlby pensa anche che la sorella maggiore possa essere stata una madre sostitutiva, e che la sua morte possa essere stata un’esperienza traumatica. Bowlby nota che i bambini piccoli separati dai genitori diventano sofferenti e arrabbiati. Orbene, come si sviluppano queste reazioni nella prima infanzia? Molto dipende dalla reazione del genitore a questi comportamenti. Se il genitore punisce il bambino, è a questo punto che le manifestazioni psicopatologiche diventano radicate. Il sogno del cane è un indizio chiaro che, se il bambino protestava, veniva punito. Un indizio indiretto è costituito dagli impulsi omicidi nei confronti della bambina quando piangeva. Con questo, il paziente si identificava con la madre che lo aggrediva. Bowlby nota che nelle comunicazioni del paziente mancano i suoi sentimenti. Qui cita l’articolo di Fraiberg, Adelson e Shapiro del 1975, in cui le autrici fanno la catarsi mediata alle loro pazienti. Bowlby nota che il paziente riusciva ad esprimere la rabbia per la separazione ma non la sofferenza. A questo punto Bowlby fa un’autocritica. “Ritengo che noi professionisti siamo stati di un’ignoranza e ingenuità deplorevoli nei riguardi di ciò che accade nelle famiglie disturbate. Si tratta di cose molto peggiori di quanto si pensi”. Cita il libro di Helfer e Kempe (1968) sui bambini maltrattati. Catamnesi. Risulta che, dopo la supervisione con Bowlby al seminario, il terapeuta cercò di evitare l’atmosfera polemica. La terapia continuò per altri quattro mesi e si arrivò ad una conclusione concordata. Vi sono due riserve da fare: (1) la data della fine della terapia venne decisa a causa di un avvenimento esterno, cioè il trasferimento del paziente con la famiglia in un’altra città; (2) il terapeuta aveva la sensazione che il paziente non avesse del tutto rinunciato al suo atteggiamento fondamentalmente diffidente.
Caso 3. I genitori della paziente avevano sei figli, tre maschi e tre femmine. Per la paziente erano particolarmente importanti il fratello maggiore e il minore, anch’esso un maschio. La paziente era una dei figli intermedi. Essa venne abusata sessualmente dal fratello maggiore fra i tre e i quindici anni. Quando era un’adolescente, i genitori si separarono. Essa poi oscillò tra lo stare con la madre e con amici, mentre il fratello continuò a vivere col padre. Questo fratello venne ricoverato diverse volte con la diagnosi di schizofrenia. Nel 1978 in Italia venne approvata la legge Basaglia per chiudere gli ospedali psichiatrici e sostituirli con Centri territoriali. Dopo la chiusura, il fratello si rifiutò di andare al Centro Psico Sociale e di prendere psicofarmaci. Il padre prese contatto col CPS, e vennero concordate delle visite domiciliari. “Io sono psicoterapeuta e andavo a visitare il paziente a domicilio assieme ad una psichiatra. Queste visite ci mettevano ansia. Egli era verbalmente aggressivo, estremamente prolisso e rivendicativo. A volte ci auguravamo che non aprisse la porta”.
Egli finì col suicidarsi gettandosi da una finestra. Dopo il suicidio, la paziente andò a vivere col padre e cominciò a frequentare il CPS. Aveva circa trent’anni. Al CPS anche a lei venne fatta la diagnosi di schizofrenia e le venne prescritto l’Aloperidolo. Aveva colloqui psicologici settimanali con la terapeuta. Tanto il fratello aveva avuto atteggiamenti respingenti, tanto la paziente era affettuosa e coinvolgente. Il suo comportamento era molto impulsivo e comprendeva tentati suicidi, incontri occasionali con uomini, aborti, cambiamenti repentini. La paziente era molto bella. Consapevole di esserlo, usava la seduttività per attirare gli uomini. Essa stava cercando un attaccamento sicuro, ma in realtà diventava facile preda di uomini senza scrupoli o si legava ad individui ancora più fragili di lei. Una volta, durante le vacanze della terapeuta, la paziente reagì con disorganizzazione e deliri erotici. Un’altra volta, dopo essere stata rifiutata da un uomo, la paziente andò al cimitero dove era sepolto il fratello, portandosi dietro vari tipi di farmaci. Alla chiusura, sfuggì all’attenzione, rimase nel cimitero e prese tutti i farmaci. Il mattino dopo venne trovata in stato di coma. Essa sopravvisse perché era inverno ed il freddo aveva indotto ipotermia cerebrale. Commento di Bowlby. Egli dice che la terapeuta è molto coraggiosa nell’affrontare questa paziente. Nota che, dopo la prima separazione, la paziente era caduta in una situazione psicologica caotica. Nella seconda occasione, si trattava di un tentativo perfettamente organizzato. Pensa che, paradossalmente, questo possa essere visto come un progresso. Bowlby si chiede come si tratta una paziente del genere: se è possibile trattare questa paziente a livello ambulatoriale, o se la terapia sarebbe più efficace in un ambiente protetto. “C’è un grave rischio che questa donna si suicidi”. “Per quanto riguarda i cambiamenti repentini, può darsi che si tratti di un disturbo affettivo”. Catamnesi. Piuttosto che pensare ad un disturbo affettivo, attualmente la terapeuta farebbe diagnosi di disturbo schizoaffettivo, per via della presenza di sintomi psicotici positivi (allucinazioni, deliri). Il concetto di disturbo schizoaffettivo venne introdotto nel DSM soltanto nel 1980, e può darsi che Bowlby non ne fosse a conoscenza. Purtroppo, il pessimismo di Bowlby era giustificato. Alcuni anni dopo il seminario, la paziente si è suicidata, gettandosi dalla stessa finestra da cui si era defenestrato otto anni prima il fratello. Nei giorni precedenti, aveva avuto una notizia indiretta del fatto che il fratello minore, convivente con la madre – che lei in passato aveva cercato di proteggere, senza riuscirci, dalla tossicità relazionale della loro famiglia – aveva avuto il suo primo ricovero in psichiatria. Forse questo evento le fece pensare ad un destino cui non poteva sfuggire. Questo caso ha spinto la terapeuta a fare un training familiare sistemico e a seguire i casi gravi con interventi congiunti individuali e familiari.
Dopo i contributi degli altri colleghi, vi è un lungo capitolo di Ferruccio Osimo. Attualmente Osimo applica la teoria dell’attaccamento con un suo sistema di terapia breve, la psicoterapia dinamico-esperienziale intensiva (IE-DP). L’IE-DP viene esemplificata con un caso clinico, seguito da una catamnesi di 14 mesi.
La corrispondenza
Nella mia corrispondenza con Bowlby abbiamo parlato di molti argomenti. Nella mia prima lettera mettevo in rapporto il suo lavoro con quello di Margaret Mahler, e lui mi ha corretto, dicendo che lui e la Mahler seguivano teorie inconciliabili (p. 22). Poi parliamo di Arieti, morto di recente (p. 23), dei problemi edipici (pp. 24-25), dei fattori psicologici nei tumori (pp. 27-29), dell’uso del termine “simbiosi” (p. 30). Nel 1985 Bowlby mi segnalò il libro di Greenberg e Mitchell, Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, uscito nel 1983, in cui gli autori distinguono tra il modello pulsionale di Freud e quello relazionale, al quale appartengono molti autori, tra cui Fromm e lo stesso Bowlby (p. 32). Nello stesso anno, a mia volta gli parlai del libro di Masson, Assalto alla verità, sull’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud nel 1897 (p. 31). Poi gli dico che, leggendo Anatomia della distruttività umana di Fromm, ho scoperto l’esistenza di un libro di Bowlby del 1939 sulla guerra (pp. 36-39). Me ne mandò una copia con dedica, ed io scrissi un saggio su questo libro. Il culmine di questa corrispondenza è stato un mio lavoro su “La teoria dell’attaccamento come base alternativa della psicoanalisi”, che ho concordato con Bowlby, anche con un incontro a Londra, e che ho presentato a Zurigo nel 1985, poco dopo il seminario (p. 30 e pp. 34-36). Questo articolo verrà ristampato in inglese su Attachment, la rivista del Bowlby Center di Londra, e la traduzione italiana di questo articolo, con aggiornamenti, uscirà prossimamente su Ricerca Psicoanalitica, la rivista della SIPRe.
Nella corrispondenza risulta che Bowlby non conosceva l’opera di Fromm. Fromm, invece, condivideva il concetto di attaccamento, e nell’Archivio Fromm di Tübingen vi è una copia di Attachment con annotazioni di Fromm.
I miei commenti
Anzitutto faccio i miei commenti ai tre casi.
Nel caso 1 (la donna rivoluzionaria), aggiungerei che c’era una trasmissione transgenerazionale dell’inversione dei ruoli, perché, come alla paziente è dispiaciuto quando la figlia ha cominciato ad andare all’asilo, così i genitori si aspettavano che lei li tirasse su di morale.
Nel caso 2 (il bambino mandato in collegio), un esempio dell’intuito clinico di Bowlby è dato dai suoi commenti al secondo sogno del paziente (il sogno del cane), che rivela la presenza di una madre maltrattante, altrimenti assente dalle comunicazioni del paziente, e dalla sua ipotesi che la sorella maggiore del paziente potesse essere stata un sostituto materno, per cui la sua morte è stata per il paziente un’ulteriore esperienza traumatica.
Anche nel caso 3 (la donna che ha finito col suicidarsi), Bowlby dimostra le sue doti di clinico quando esprime i suoi timori riguardo alla paziente, che vennero purtroppo confermati. Posso aggiungere che in questo caso vi è un importante collegamento con la teoria dell’attaccamento. Sia il tentativo di suicidio al cimitero che il suicidio finale rivelano un attaccamento patologico al fratello abusante, che la paziente ha dovuto seguire anche nella morte. Vi è un collegamento col fratello anche nelle relazioni con gli uomini, che o la sfruttavano, o erano più deboli di lei. Bowlby (1969, pp. 215-216 dell’edizione originale; 1973, p. 91 dell’edizione originale) fece notare che, quando c’è un pericolo, il bambino si aggrappa di più alla figura di attaccamento, e che, quando la figura di attaccamento è anche quella che suscita paura, il bambino, paradossalmente, si aggrappa ancora di più, così come la paziente si è aggrappata al fratello.
Vorrei aggiungere altri commenti miei su Bowlby e la teoria dell’attaccamento.
1. Le radici autobiografiche. In primo luogo, può darsi che l’interesse molto empatico mostrato da Bowlby per l’impatto della separazione sui bambini piccoli abbia radici autobiografiche. Bowlby apparteneva ad una famiglia molto altolocata. Suo padre era il medico del Re ed aveva il titolo di baronetto. Faceva parte dello stile distaccato della famiglia il fatto che la madre ricevesse i suoi bambini, come in udienza, per un’ora al giorno. E’ quindi naturale che Bowlby si sia molto affezionato alla sua bambinaia, che però, secondo la biografia di Bowlby scritta da Van Dijken (1998, p. 26), lasciò la casa quando lui aveva 4 anni. In questa esperienza Bowlby fu preceduto da Freud. Nella sua lettera 242 a Fliess dell’ottobre 1897 Freud (1986, p. 292) rivela il suo attaccamento alla sua bambinaia e la sua disperazione per la sua partenza. E’ istruttivo fare un confronto tra Bowlby e Freud. Partendo da un’esperienza simile, essi hanno avuto reazioni opposte. Bowlby diventò una persona calda e affettuosa, mentre Freud diventò una persona distaccata ed autoritaria, che consigliava agli analisti di “prendersi a modello … il chirurgo, il quale mette da parte tutti i suoi affetti” (Freud, 1912e, p 115 della SE, 12, e p. 536 delle OSF, 6; si tratta dei “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”).
2. La dissociazione. In secondo luogo, come abbiamo visto, negli ultimi anni della sua vita Bowlby era molto più consapevole della natura traumatica dell’esperienza di molti bambini. Ciò solleva il problema della reazione dei bambini ai traumi, caratterizzata non dalla rimozione bensì dalla dissociazione. Bowlby continua ad usare il termine di rimozione, però, a livello teorico, egli aderiva all’orientamento “neodissociativo” di Hilgard (Bowlby, 1980, p. 58 dell’edizione originale), che si rifà esplicitamente a Pierre Janet, il primo ad introdurre nell’Ottocento il concetto di dissociazione. All’interno della letteratura sull’attaccamento è pertinente la descrizione fatta da Mary Main dell’attaccamento di tipo D, che sembra corrispondere alla dissociazione di Janet.
3. Il livello storico-sociale. In terzo luogo, ad un livello sistemico superiore, la diffusione di una struttura di carattere distaccata richiede un riferimento alla dimensione storico-sociale. Tale livello è implicito in Bowlby quando dice che, se l’ambiente differisce troppo da quello preistorico ne deriveranno conseguenze psicopatologiche. Egli parla di questo argomento nel capitolo 4 di Attachment (Bowlby, 1969). Nel suo lavoro c’è poca critica sociale. In confronto, nella letteratura psicoanalitica è molto più forte la critica sociale di Erich Fromm. Può darsi che il carattere distaccato sia il più adatto a funzionare nell’attuale società competitiva, però, alla lunga, come dice Alice Miller, il distacco dalle emozioni può dare luogo a gravi sintomi somatici.
XVII Congresso Mondiale di Psichiatria Dinamica, San Pietroburgo 2014
LECTURER
Professor Ezio Benelli (Florence, 1947) is Chairman of the Italian Branch for the 17th World Congress of the World Association for Dynamic Psychiatry WADP – XXXth International Symposium of the German Academy for Psychoanalysis (DAP) eV; degree in psychology at the University of Padua and then in Florence who specialized in psychotherapy at the Institute of Psychotherapy HS Sullivan, is actually Psychoanalyst in neo-Freudian, interpersonal and humanistic paradigm. He is currently Director of the School of Psychotherapy Erich Fromm di Prato (recognized by the Italian Ministry of University and Research), for which he is supervisor training analyst; and Professor of Clinical Psychology and Psychoanalysis Theory and Techniques of individual and group. He is President of the International Erich Fromm Foundation, scientific and cultural institution based in Palazzo Vecchio in Florence, and director of the editorial series “L’Immaginale”, for publishing Aracne, Rome. Judge at the Court of Florence for children, and vice president of the Order of Psychologists of Tuscany Region, has now been re-elected councilor of the Order of Psychologists of Tuscany, and regional contact for the Penitentiary Psychology and Criminology. Ezio Benelli is also coordinator of the Center for Mediation and Family Resources at the Polo Psicodinamiche- Training Agency accredited by the Region of Tuscany, site in Prato.
Italian Branch
Chairman Doctor Ezio Benelli, International Foundation Erich Fromm, Florence
Abstract
The article deals the issue of new dependencies: in particular those from Internet and social networks. Having distinguished between “dependent” (dependence from substances) and “addicted” (psychological dependence), the article refers to some neuroscience researches that confirm the empirical data. Then, it is stated how psychodrama, as it is practiced at the Pole Psychodynamics of Prato in Italy, can be an effective and powerful tool also for the treatment of new dependencies and reasons of it are explained. At last, after providing a brief history about the birth of psychodrama and its inventor, J.L. Moreno, the article describes building blocks, basic steps and different ways of interaction of psychodramatic practice.
Summary
The article, first, distinguishes between the concepts and terms of English language “dependent” and “addicted”: in the first case it is an addiction to substances such as alcohol, drugs or tobacco; in the second, addiction is psychological and the subject depends on behaviors, practices and situations, it is the case of the dependence on new technologies and on Internet. Erich Fromm, in his book Escape from freedom, he highlighted how the human beings become slaves to addictions because they can not accept the emptiness, that feeling of “not being”, which lead them to give up the freedom and to isolate more and more from society. Fromm had somehow foreseen practices and effects of new dependencies, those from excessive exposure to Internet and to social networks. And then in the article it is stated that Psychodrama analytical, as is practiced at the Polo Psychodynamic of Prato in Italy, may represent an innovative approach in the treatment of addictions from new technologies. For its being a cure through the action, the dramatic action (and not just through words), for being a group therapy and for being very close to the patient’s daily life, psychodrama, more than others care systems, can achieve stable and lasting outcomes. Subsequently, the article recounts the experience, made in person by the writer in the summer 2013 at the Hotel Byron in Forte dei Marmi (Lucca) in Italy, that is the use of psychodrama in the treatment of psychological dependency. Empirical data and conclusions of this experience are similar to those which have come neuroscientific studies on new dependencies. And in the article are cited two of these studies: that one of Diana Tamir and Jason Mitchell of Harvard University and that one of Dar Meshi at the Freie Institut of Berlin. Then the discourse moves on to analyzing from a historical point of view the birth of psychodrama: its being rooted in some phenomena of the history of theatre and the human and cultural formation of its inventor, Jakob Levi Moreno, an eclectic and complex figure, which has been able to put together and summarized ideas, suggestions, contributions coming from different fields. Then briefly it is mentioned some reworkings of psychodrama practice occurred in the twentieth century and it is underlined that psychodrama has assumed over time not only a therapeutic value, but also educational and social. Finally, it is described basic components of psychodramatic practice: the four key characters (therapist, patient or protagonist, auxiliary-ego, group), the three different steps in which is subdivided the dynamics (warm-up, scene or action, return) and main modalities of interaction (the double, the mirror and the role reversal).
Non sarò io a vincere ma il discorso di cui sono servo.
J. LACAN
Per gli inglesi il termine dipendenza si traduce in due modi. Nel primo: “Dependent”, il soggetto è fisiologicamente dipendente, come avviene per sostanze quali alcool, droga, tabacco; nel secondo: “Addicted”, la dipendenza è psicologica.
Addicted viene dal latino addictio, addicere che vuol dire “rendere schiavo a causa di un debito”.
Quale debito devono pagare i nuovi “dipendenti“? O meglio: quale condizione di inferiorità li porta ad essere dipendenti?
I debiti, va da sé, hanno da sempre condizionato l’essere umano a vivere una condizione d’inferiorità rispetto al proprio debitore, il quale può essere, di volta in volta, rappresentato da una persona, un oggetto, un ideale di comportamento ecc.
Secondo Erich Fromm, il vero problema della società moderna è la mancanza di autonomia: l’uomo dipende patologicamente da un’entità considerata superiore, che lo condiziona ad essere uno schiavo; è un essere mancante che, non potendo accettare la condizione di “assenza” e condividerla con gli altri, ricerca disperatamente qualcosa che possa compensare il proprio vuoto.
Fromm è morto negli anni ’80, quando le nuove dipendenze iniziavano ad essere visibili solo negli USA, ma in questi ultimi anni il fenomeno si è diffuso rapidamente in tutte le nazioni, influenzando velocemente ogni strato sociale, dai giovani agli anziani, dai ricchi ai più poveri.
Nel suo libro Fuga dalla libertà, Fromm evidenziava come il fuggire da se stessi e dagli altri, sentirsi completamente isolati e solitari, porta alla disgregazione mentale.
La questione del “non essere”, del non sentire di avere un’identità, quindi, sfocia e si risolve nell’evasione, nella fuga dalla realtà.
Pensiamo all’isolamento dei dipendenti da internet e dai social network, pensiamo agli acquisti solitari dei compulsive buyer, al giocatore d’azzardo che incatena lo sguardo solo sul risultato del suo gioco.
Questo è quello che appare, ma se approfondiamo il “dipendere da chi e da cosa”, la realtà cambia.
Le new addictions portano le persone ad essere dipendenti da esperienze e situazioni che possono in qualche modo modificare l’umore e le sensazioni; quelle stesse esperienze e situazioni sono costantemente create e favorite dalla nostra società, in quanto sottostanno alle leggi economiche del guadagno ma, rispetto alle dipendenze da sostanze, possiedono, paradossalmente, una caratteristica: rispondono illusoriamente al bisogno profondo di essere parte di… considerati da…
Quando il dipendente accetta di curarsi, accetta anche di riconoscere l’impossibilità di essere ciò che Lacan chiamava “essere il desiderio dell’altro”1, accetta l’angoscia della sua condizione infantile e subordinata, sperimenta il buio, privo di false certezze, di chi non riceve l’approvazione necessaria per sentirsi “necessario”.
Lo Psicodramma Analitico, svolto abitualmente al Polo Psicodinamiche di Prato e praticato anche durante l’estate 2013 presso l’Hotel Byron di Forte dei Marmi, è stato da noi sperimentato anche nelle dipendenze psicologiche, offrendo un innovativo approccio per le new addictions.
Ma che cosa è lo psicodramma? E perché proprio lo psicodramma per la cura delle dipendenze da Internet?
La parola “psicodramma”, formata dal greco antico psiche, cioè anima, e drama, a sua volta proveniente dal verbo drao, draomai che vuol dire agire e rappresentare sulla scena, significa dunque “l’azione della psiche”, o se volete “il teatro della psiche”.
Si può dire che se la psicanalisi di Freud fu definita “la cura attraverso la parola”, lo psicodramma può essere definito come “la cura attraverso l’azione”, l’azione scenica e teatrale.
E con questo ho già dato una definizione di massima dello psicodramma: si tratta essenzialmente di un metodo di cura, una tecnica terapeutica, un sistema per curare i disturbi e i disagi psicologici ed emotivi. Tuttavia lo psicodramma può avere valenze ed utilità non solo terapeutiche, ma anche educative, formative, istruttive, sociali ecc.
Per rimanere nel nostro ambito, lo psicodramma è dunque un metodo di cura che si serve essenzialmente del Teatro per raggiungere i suoi scopi, cioè consiste nella messa in scena diretta, nella rappresentazione, per così dire, “dal vivo” dei conflitti e dei problemi psichici del paziente, al fine di fargli prendere consapevolezza di essi e il più possibile liberarlo dai loro effetti negativi. Nello psicodramma non si parla dei problemi del paziente, ma si agiscono quei problemi, si rappresentano, si dà vita sulla scena all’interiorità del paziente, si conferisce spazio, tempo, corpo, parola e suono reali e materiali a ciò che altrimenti rimarrebbe confinato e rinchiuso dentro la psiche del paziente. In breve: con lo psicodramma si cerca di dare il massimo di oggettività alla soggettività. Il paziente tira fuori da se stesso i suoi vissuti e, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo, li mette sul palcoscenico e così li rende oggetti, cioè qualcosa fuori da sé, li pone a distanza da se stesso, cominciando quel lavoro di presa di coscienza che è l’inizio di una liberazione.
Altra caratteristica importante: lo psicodramma è una tecnica terapeutica di gruppo. Ed è già molto significativo, a mio avviso, che per combattere l’Io solitario, isolato, solipsistico, disperso, decostruito e frammentato di coloro che sono dipendenti da internet, possa essere utile quella tecnica terapeutica che è una delle più “sociali” che esista, lo psicodramma, appunto. Sociale come lo era e lo è ancora a volte il Teatro. Sociale perché lo psicodramma è possibile solo se esiste un gruppo, una comunità di persone che fa da testimone, da contenitore e da contenuto alla scena psicodrammatica.
A questo punto occorre una precisazione: il teatro che vediamo nello psicodramma non è quello che nella maggior parte dei casi vediamo sui palcoscenici dei teatri: è teatro d’improvvisazione, o se volete il teatro della spontaneità, un teatro, cioè, creato e inventato lì per lì, all’impronta. Nello psicodramma non ci sono copioni scritti da memorizzare e recitare, ma tutto succede momento per momento e tutto può cambiare da un momento all’altro: nello psicodramma si lavora su quello che emerge via via, attimo dopo attimo.
Come è noto, lo psicodramma, nella sua prima forma, è stato messo a punto da Jacob Levi Moreno, medico, psichiatra, sociologo, filosofo, studioso di matematica… una straordinaria figura che ha messo in relazione, con la sua concreta ricerca, discipline e idee diverse e lontane fra loro. Rumeno di nascita, ma proveniente da una famiglia di origine ebraica, Moreno si formò in gioventù nella Vienna di inizio Novecento, una realtà multietnica e multilinguistica, un ambito culturale e artistico vivo e vitalissimo che, si può dire, è alla base della nostra cultura contemporanea. Moreno conobbe Freud, Adler e Schnitzler. Studiò Bergson, Rousseau, Pestalozzi, Nietzsche, Kierkegaard e Marx. E in quegli anni inventò “Il Teatro della Spontaneità” e “Il Giornale Vivente”, forme di teatro di improvvisazione, in cui gli stessi spettatori venivano chiamati a partecipare alla messinscena come personaggi.
Uno dei meriti di Moreno fu anche quello di raccogliere e fare sintesi di una serie di elementi tratti dalla tradizione teatrale, per costruire la sua grande invenzione. Se si guarda, infatti, alla storia del teatro occidentale, molti sono gli elementi che hanno favorito la nascita dello psicodramma. Accenno molto brevemente qui di seguito ad alcuni:
• il concetto di catarsi, cioè l’effetto che, secondo i greci antichi e Aristotele, doveva avere la rappresentazione teatrale sugli spettatori. Catarsi vuol dire purificazione, vale a dire in sostanza la liberazione dalle passioni e dalle emozioni negative;
• il cosiddetto Teatro nel Teatro (chiamato anche Metateatro), cioè quell’artificio drammaturgico che si afferma nel teatro del Rinascimento e che consiste nel dare vita a una rappresentazione teatrale dentro un’altra rappresentazione teatrale. Così, in questa modalità, i personaggi di una commedia o di una tragedia si trovano a essere a loro volta spettatori di un’altra e diversa rappresentazione, e quindi si trovano ad identificarsi più o meno con la rappresentazione a cui assistono, un po’ come succede, appunto, al gruppo nello psicodramma. Un genere di teatro, quello del teatro nel teatro, che ha avuto molta fortuna nel corso dei secolo: pensiamo all’Amleto di Shakespeare fino ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello…
• la Commedia dell’Arte, con il suo essere un genere di teatro di improvvisazione, costruito su una struttura di ruoli fissi (le Maschere), può essere considerata un illustre precedente dello psicodramma;
• lo stesso sistema stanislavskijano per la recitazione, perché no? con il suo fare appello alla introspezione psicologica, alla reviviscenza delle emozioni, all’autenticità dell’arte dell’attore, può essere considerato un elemento che ha favorito la nascita dello psicodramma.
Alla metà degli anni Venti Moreno emigra negli Stati Uniti ed è là che mette a punto la sua grande intuizione: la fa diventare una tecnica tearapeutica, una scuola, un apparato teorico, una modalità di ricerca sociale, un metodo formativo ed educativo.
Nel corso del Ventesimo Secolo la tecnica psicodrammatica ha incontrato altri orientamenti e approcci teorico-pratici, dando vita a tanti e diversi modi di praticare e utilizzare l’invenzione moreniana. Particolarmente fecondo è stato l’incontro con la psicoanalisi, e soprattutto con la psicoanalisi neofreudiana che discende da Erich Fromm…
A questo punto una domanda è rimasta sullo sfondo: perché proprio lo psicodramma? Ci sono molte buone ragioni. Per non dilungarmi troppo, mi limito ad indicarne tre:
a) Perché lo psicodramma è un metodo esperienziale, che si basa, cioè, sull’esperienza, sull’azione agita e vissuta. Nello psicodramma l’insight, l’apprendimento, il progresso terapeutico possono avvenire solo se si è agito e rappresentato le dinamiche, i conflitti e i problemi del paziente. Ed è ormai risaputo che l’apprendimento e la consapevolezza attraverso il “fare” sono più durevoli e stabili di quelli attraverso semplicemente il “dire”.
b) Perché lo psicodramma è la tecnica terapeutica che più si avvicina alla cosiddetta vita reale; lo psicodramma è straordinariamente prossimo e affine alle situazioni, alle relazioni, alle dinamiche del paziente nella sua vita di ogni giorno. E quindi più facilmente e direttamente può incidere su di esse.
c) Lo psicodramma è “specchio di vita” non solo per il singolo paziente che mette in scena le sue dinamiche emotive, ma anche per tutto il gruppo partecipante, che può identificarsi in parte o del tutto con le dinamiche del singolo paziente. Il gruppo può mettere in comune esperienze, ricordi, racconti, emozioni che abbiano a che fare con quanto vissuto dal singolo paziente. O per meglio dire: il gruppo entra in risonanza emotiva con il singolo e il singolo, a sua volta, con il gruppo.
Ma torniamo al racconto di quanto abbiamo fatto nell’estate del 2013 all’Hotel Byron di Forte dei Marmi…
I partecipanti venivano sottoposti ad un test di entrata, composto dalle seguenti domande:
1. Vi ritrovate su Facebook più a lungo e più spesso di quanto previsto? 2. Avete rinunciato o ridotto il vostro coinvolgimento in attività sociali, lavorative o ricreative a causa di Facebook? 3. Avete trascurato la famiglia?
4. Avete fatto uno sforzo cosciente, ma senza successo per ridurre l’uso di Facebook?
Attraverso il test volevamo indagare su questa nuova dipendenza, non più su chi usa sostanze quali alcool, eroina o cocaina. Ciò ha creato non pochi problemi sull’efficacia dei criteri diagnostici abitualmente usati per chi fa uso di sostanze: tali criteri, infatti, sono risultati difficilmente adattabili alla dipendenza da un sito di social media.
Interessante fu vedere la trasformazione dell’ “affect facial expression” dei partecipanti quando spiegavano e raccontavano di quanto la funzione “mi piace” sui post pubblicati poteva renderli irritati e ansiosi, se non otteneva il successo auspicato, oppure appagati e soddisfatti se i post ottenevano consensi. Abbiamo notato nei soggetti che partecipavano al gruppo di studio un aumento dell’ansia al pensiero di non poter attuare il web feed.
Abbiamo notato, invece, piacere e gratificazione nei partecipanti al pensiero di parlare di se stessi, di pubblicare proprie foto e nel comunicare i propri pensieri. La nostra indagine empirica ha confermato alcuni studi fatti da ricercatori che hanno utilizzato metodi neuroscientifici.
Diana Tamir e Jason Mitchell ad Harvard,2 hanno sottoposto ad un esperimento di neuroscienze alcuni abituali utilizzatori di Facebook. In una pagina programmata hanno proposto loro tre opzioni: (1) parlare delle proprie opinioni e atteggiamenti; (2) giudicare l’atteggiamento di un’altra persona; (3) rispondere a domande frivole. Durante l’esperimento hanno misurato l’attività cerebrale dei partecipanti. Ogni scelta è stata associata ad un payoff monetario; ciò ha permesso agli scienziati di testare se gli individui sono stati sostanzialmente disposti a dare i soldi per parlare di sé.
In media, i partecipanti hanno perso una media del 17% dei potenziali guadagni per parlare di se stessi! Perché qualcuno dovrebbe rinunciare a dei soldi per fare questo? Ciò non è dissimile dal comportamento di quelle persone che rinunciano alle proprie responsabilità lavorative e familiari, a causa della dipendenza da droga e da gioco. Durante la self-disclosure, questi partecipanti hanno attivato il nucleo accumbens. Il nucleo accumbens è integrato nelle vie del sistema limbico e riceve afferenze dalla corteccia prefrontale e dai neuroni dopamminergici dell’area tegmentale ventrale (regione mediobasale del mesencefalo). Svolge un ruolo di rilievo nei circuiti di rinforzo, legati all’assunzione di sostanze d’abuso, che provocano un aumento della concentrazione di dopammina nella parte esterna del nucleo accumbens; quest’area è coinvolta anche nell’effetto e nella percezione gustativa.
In un secondo studio fatto da Dar Meshi e colleghi presso l’Istituto Freie di Berlino3 si è misurato l’attività cerebrale dei volontari mentre hanno ricevuto molti feedback positivi. La ricerca, simile allo studio di Harvard, ha anche rilevato che in alcuni individui il nucleo accumbens è diventato più attivo quando hanno ricevuto feedback gratificanti. I ricercatori inoltre hanno fatto compilare ai partecipanti un questionario che ha determinato un punteggio “Facebook intensità”, che includeva il numero di amici di Facebook e la quantità di tempo al giorno che si passa su Facebook. (Il punteggio max in questo caso era > 3 ore per giorno). Quando il tempo passato su FB era correlato con un attività piacevole e gratificante, il nucleo accumbens era intensamente più attivo. Da ciò si deduce che le due variabili, tempo passato su FB e attività gratificante, rende il nucleo accumbens intensamente più attivo.
Tutto questo dal punto di vista delle neuroscienze. Ma se riprendiamo il tema del “dipendere da chi e da che cosa”, scopriamo qualcosa di più…
Nessun dipendente da sostanze ritiene che soddisfacendo le proprie necessità sarà più integrato nella società, mentre il “nuovo dipendente”, quando eccede nel comprare, nel lavorare, nel comunicare sul web, etc., pur con un senso di disagio e di colpa per il suo comportamento, spera che “l’altro” possa riconoscerlo proprio nel suo essere come “l’altro”, anche se questo può avvenire attraverso azioni solitarie e compulsioni nascoste. Spera di essere visto diversamente da come lui stesso si vede, spera infine di essere considerato per quello che vorrebbe essere e non per quello che realmente è.
La risposta può arrivare dal computer, dagli oggetti acquistati ed ammirati dal contesto sociale, oppure dalla falsa certezza di vincere ed essere ammirati.
La differenza tra le vecchie e le nuove dipendenze, dunque, si esprime attraverso due poli: l’individuale ed il sociale. L’assunzione di sostanze deve arrecare benessere alla persona, meglio se nessuno vede; le new addictions sottendono alla realizzazione di quel sogno che ci accompagna fin dalla nascita, il già citato lacaniano “essere il desiderio dell’altro”.
Nel gioco psicodrammatico la visione diventa l’elemento fondamentale: il soggetto parlante, cioè il partecipante che esprime se stesso, guarda e viene guardato in una dimensione di verità e di riconoscimento. Il nuovo dipendente, così desideroso di una conferma sociale, si rende conto del suo “non sé”, cioè del non poter diventare qualcosa per qualcuno, attraverso comportamenti distruttivi ed alienanti.
Il gruppo diventa così il contesto nel quale è possibile analizzare le relazioni e le loro implicazioni, le dinamiche e le conseguenti reazioni.
In Francia, Kaes e Anzieu, riprendendo alcuni concetti espressi da K. Lewin e sviluppando le teorie espresse precedentemente dagli altri studiosi che si erano serviti di loro come supporto pedagogico, svolsero un accurato lavoro analitico e proseguirono l’opera di cambiamento della psicoterapia di gruppo. Essi si concentrarono sugli atteggiamenti interni più profondi, sulle istanze inconsce.
Quanto sopra descritto consente di comprendere meglio la funzione che lo psicodramma analitico esercita sui partecipanti. Lo psicodramma contiene in sé due funzioni: una sociopedagogica e l’altra analitica.
Le ragioni che promuovono questa duplicità vengono evidenziate nella collocazione spaziale e nella azione che si svolge nel setting dello psicodramma.
La tecnica utilizzata nello psicodramma è quella di Moreno, pertanto l’azione o il gioco acquistano un valore significativo all’interno della seduta analitica.
Il gioco “diretto”, ossia immediato e guidato dal terapeuta, mette in luce le pulsioni individuali del “qui e ora”, riferite a un contesto e ad una situazione già vissuta nel “là ed allora”.
Lo psicodramma diventa, quindi, il gioco del disvelamento, dove ogni partecipante si riconosce come soggetto non più nascosto, ed il gruppo, inteso come entità altra, rivela continuamente l’inganno di ognuno.
Sempre nello psicodramma avviene la messa in gioco di un accadimento o di una situazione concreta che il soggetto evidenzia durante la seduta.
Per comprendere cosa e come avviene nello psicodramma, conviene ricordare le componenti, la struttura e le modalità fondamentali della tecnica psicodrammatica. Innanzitutto quattro sono i personaggi fondamentali:
• Il Direttore o Regista o Psicodrammatista o più semplicemente Terapeuta: cioè colui che conduce il gioco psicodrammatico, colui che consente ai materiali e ai vissuti emotivi dei componenti del gruppo di uscire fuori, colui che cura la messa in scena di quei contenuti emotivi e delle situazioni concrete a essi legati.
• Il Paziente o Protagonista: la persona che in un determinato momento è al centro della scena psicodrammatica, la persona che racconta e descrive conflitti e problemi emotivi e di cui si mette in scena una situazione, un evento o un ricordo che è la rappresentazione concreta di quei contenuti emotivi.
• L’Io ausiliario: possono essere anche più di uno e sono quei componenti del gruppo chiamati a incarnare sulla scena psicodrammatica i personaggi fondamentali della scena del Protagonista: possono impersonare di volta in volta genitori, mogli, mariti, amanti, figli, colleghi e datori di lavoro, personaggi immaginari ecc.
• Il Gruppo: il resto del gruppo che assiste allo psicodramma. Ha le funzioni di testimonianza, accoglienza e sostegno delle emozioni del Protagonista; può identificarsi più o meno con la scena del Protagonista e al finale può condividere le proprie esperienze con quelle del Protagonista.
Lo psicodramma si articola e si svolge in 3 fasi successive:
• Riscaldamento: in essa dapprima il Protagonista racconta e descrive liberamente il suo vissuto emotivo, poi, con l’aiuto del Terapeuta e del Gruppo individua un tema, particolarmente importante per il Protagonista, e una situazione concreta legata al tema, che sarà poi oggetto della Scena.
• Scena o Azione: consiste nella rappresentazione della situazione concreta precedentemente scelta. E’ interpretata dal Protagonista nel ruolo di se stesso e dai diversi Io Ausiliari che incarnano gli altri personaggi fondamentali della scena.
• Discussione o Dibattito o Restituzione: è la fase in cui si interpreta ciò che è venuto fuori in precedenza, è la fase in cui il Gruppo esprime quanto e come è stato coinvolto nella scena del Protagonista, attraverso il racconto di pensieri, emozioni, ricordi, sogni, eventi legati più o meno a quella stessa Scena.
E infine nel corso dello psicodramma possono essere utilizzate le seguenti tre modalità di azione o interazione:
• Il Doppio: è quella modalità che consente a un qualunque componente del Gruppo, anche un Io Ausiliario, di dar voce e corpo a emozioni e sentimenti che il Protagonista immagina e prova e che però non riesce ad esprimere. Ha dunque una funzione di chiarificazione e di sostegno.
• Lo Specchio: è quella modalità per cui, nel caso il Protagonista abbia difficoltà ad autopresentarsi, un Io Ausiliario può “imitare” lo stesso Protagonista. Egli dunque può vedersi riflesso, come in uno specchio, come gli altri lo vedono.
• L’Inversione di ruolo: si può attuare quando il Protagonista è profondamente implicato in una relazione duale. Allora il Protagonista assume il ruolo, la funzione e il posto dell’Altro, si mette “nei panni dell’altro”, calandosi in una nuova realtà e scoprendo emozioni, sentimenti e punti di vista del soggetto con cui è in conflitto e in relazione.
È quasi inutile aggiungere che il tutto avviene in un clima di grande partecipazione emotiva…
1 J. LACAN: «Il desiderio è sempre il desiderio dell’altro». In Il seminario, vol. I, in Gli scritti tecnici di Freud (1953-1954), traduzione di Giacomo Contri, Einaudi 1978).
2 D. TAMIR and J.P. MITCHELL, Disclosing information about the self is intrinsically rewarding. Department of Psychology, Harvard University, Cambridge, MA, 2012. http://www.pnas.org/content/109/21/8038.full.pdf
3 D. MESHI, C. MORAWETZ, and H. HEEKEREN: Nucleus accumbens response to gains in reputation for the self relative to gains for others predicts social media use, in: Frontiers in Human Neurosience, DOI: 10.3389/fnhum.2013.00439.
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Ezio Benelli, 2014 ezio.benelli@gmail.com
I contenuti di questo articolo sono parte integrante e sono pubblicati in versione tradotta sul Dynamic Psychiatry Intl. Journal, Pinel Verlag Human Psychiatrie, Berlin.
Per gentile concessione della Prof.ssa Maria Ammon, Dap, Berlino, sono stati pubblicati on line in:
Frontiera di Pagine, Prato www.polimniaprofessioni.com/rivista/ e Psicoanalisi Neofreudiana, Prato www.ifefromm.it/rivista.php
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Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 24 Giugno 2015
Durante la presentazione della Scuola, Ezio Benelli, Direttore e docente e Giuseppe Rombolà Corsini, Vice-Direttore e docente, hanno presentato l’offerta formativa attraverso un excursus professionale e personale, farcito di aneddoti personali non necessariamente autocelebrativi, piuttosto sottolineando lo sforzo e la dedizione di creare un Centro di Psicoterapia che destinasse una proposta formativa all’avanguardia, pur rispettando i principi della Psicoanalisi di Erich Fromm.
Il valore aggiunto della presentazione è certamente dato dal vissuto diretto degli studenti in corso i quali hanno saputo ampiamente argomentare il loro percorso verso la psicoterapia, dove l’individuazione e l’emancipazione dal docente vengono vissute con una doppia gradualità: quella che deriva dall’apprendimento teorico e quella che si matura con un percorso emotivo personale.
“Non si è mai soli; terapia personale, supervisione, gruppi…c’è sempre la possibilità di avere uno scambio; sei da solo, ma insieme al gruppo” dice il Dr. Lino Arnone, medico e specializzando presso la SPEF.
La Dr.ssa Giuditta Perri invece, riporta delle proprie esperienze durante il tirocinio e sottolinea l’importanza di aver imparato a gestire le proprie emozioni, contemporaneamente alle tecniche terapeutiche del paziente: “una formazione di questo tipo, permette che non prevalga la paura del terapeuta nel momento in cui deve essere più presente al proprio paziente”.
Poiché è da Fromm che si parte, nel documentario-intervista mostrato in sala, vediamo che l’approccio center-to-center, da uomo a uomo, è uno dei presupposti fondamentali della SPEF; il terapeuta non è il Super Io del paziente, come Rombolà Corsini sottolinea, abbiamo già avuto un padre che ci ha detto cosa fare, non abbiamo bisogno di un terapeuta che faccia lo stesso; il terapeuta è una persona che ha fatto il proprio cammino ed in quanto tale, conosce quello che il paziente sta provando e con la dovuta preparazione tecnica, lo sostiene nel suo percorso terapeutico.
Lo stesso Erich Fromm si definisce un nevrotico, cresciuto in una famiglia nevrotica con padre ossessivo e madre ambivalente: se si comportava correttamente era un Krause [nome da nubile della madre], se invece avesse avuto una condotta non consona ai precetti materni era un Fromm.
È grazie a questa esperienza “universale” di essere uomo che viene inquadrato il futuro terapeuta.
L’Open Day della SPEF ha poi esplorato brevemente i temi principali della teoria di base: l’amore, come forza che unisce tutto; la fuga dalla libertà; il tema dell’autorità.
L’esperienza formativa è esperienza in senso stretto, con attività non soltanto didattiche frontali, ma simulate di casi, role playing, tirocini, esperienze di gruppi dinamici dove, Benelli dice: “si elaborano e si esprimono i propri vissuti fino a sviluppare la capacità di cogliere i segni che l’inconscio dei futuri terapeuti manda loro durante il lavoro sul campo.” La SPEF offre Gruppi di Supervisione alla Balint, Gruppi Psicodinamici e Gruppi di Psicodramma; di quest’ultimo dopo lapresentazione della Scuola, Corsini Rombolà, con l’aiuto degli studenti al terzo e quarto anno ha “messo in scena” lo psicodramma, facendo vivere un’esperienza intensa, seppur solo come rappresentazione e non momento di terapia.
Sullo Psicodramma, la Dr.ssa Linda Gargelli, una delle persone che ha partecipato attivamente alla dimostrazione pratica dice: “Lo psicodramma psicodinamico è un processo naturale, tutti hanno in testa un dramma che necessita di diventare storia. I conflitti intrapsichici, che vengono verbalizzati nelle sedute con il proprio terapeuta, possono nella scena psicodrammatica prendere forma e sostanza. Accade così che le persone del gruppo, tramiti meccanismi proiettivi (ma non solo), possono diventare i personaggi della propria storia interiore, una madre o un padre simbolici ai quale si può dire finalmente tutto. Lo psicodramma che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso formativo, grazie ai miei maestri, il Dott. Giuseppe Rombolà Corsini e il Dott. Ezio Benelli, è un metodo per entrare in contatto con i propri nuclei emotivi in un contesto protetto e altamente contenitivo“.
Chiediamo a Irene Battaglini, CEO di Polo Psicodinamiche, qual era la sua idea formativa e come è riuscita a svilupparla:
“Il mio compito è coagulare ogni giorno le energie del team di didatti, docenti e allievi affinché si raggiungano gli obiettivi formativi a breve e medio periodo. Le strategie devono contemplare traiettorie molto più estese: l’orizzonte di ciascun professionista non si esaurisce in quattro anni, e la scuola rappresenta un investimento che darà frutti lungo tutto l’arco della vita, con ricadute a cascata nella vita dei pazienti e delle loro famiglie. Dunque è una grossa responsabilità. Se gli obiettivi sono suggeriti dall’analisi della domanda, la strategia di approccio alla psicoterapia – parafrasando Nietzsche nella Gaia scienza – deve tenere accesa una fiaccola, come nel passaggio della torcia olimpica, traendo il fuoco da un incendio che fu acceso da Freud, Jung, Adler, Fromm, Ferenczi, e molti altri grandi psicoanalisti, ormai più di un secolo fa, i quali lo hanno tratto a propria volta dalla psicologia, dalla medicina, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e dalle scienze naturali. Questo non è un compito, bensì una chiamata: il mio ruolo è promuovere una strategia che contribuisca a tenere viva questa energia“.
Conclude così Irene Battaglini: “La sfida, oggi, è mantenere credibile la luce di questa storia bellissima, che molti di noi hanno dimenticato precipitando in una diatriba tra metafisica e neopositivismo. Noi abbiamo una storia vera da raccontare, ma anche da vivere e trasmettere alle successive generazioni: questo è necessario trasmettere agli allievi e ai docenti, questa forma di amore“.
Relativamente ai Gruppi di Supervisione alla Balint, la Scuola offre un altro Open Day gratuito Mercoledì 1 Luglio 2015
L’Open Day alla SPEF è stato Open in tutti i sensi, mostrando i locali, l’offerta formativa, i metodi, i docenti ed i colleghi specializzandi per quello che sono nella realtà dei fatti.
Quello che certamente si respira entrando alla SPEF è un clima di reciprocità e rispetto, ma ancor prima di quello dovuto come colleghi, indipendentemente dal ruolo o dal grado di preparazione che ognuno riveste, si coglie la sincera attenzione verso la persona, ciascuna con la propria storia di vita.
L’analisi del “comportamento non verbale” degli esseri umani, oggi assai impiegata in criminologia ed in ambito poliziesco-giudiziario (in specie in alcuni paesi), è in realtà nata nel campo della ricerca psicologica relativa a contesti diagnostico-terapeutici: essa si è rivolta sin dall’inizio all’intento di scoprire le emozioni “non palesi” dei pazienti in psicoterapia, quindi i loro eventuali “meccanismi di difesa”, e di conseguenza è stata applicata anche allo scopo di gestire gli interventi del terapeuta e le sue stesse reazioni emotive al paziente, nonché d’investigare le modalità profonde della relazione psicoterapeutica presa in sé stessa.
Ciò è avvenuto principalmente in ragione del fatto che la nostra specie, in quanto l’unica dotata d’un linguaggio “parlato” altamente simbolico (e dunque capace di veicolare significati e contenuti informativi estremamente complessi), è anche l’unica che presenta, nella sua comunicazione, una vasta e clamorosa discrepanza, ovvero una particolarissima “dissociazione”.
In particolare, la comunicazione umana presenta da un lato degli aspetti di tipo “semantico” relativi, appunto, ai numerosissimi “significati” ed informazioni presenti nelle comunicazioni verbali umane: ora questi significati, di per sé, sono assai sovente astratti e relativamente “neutri”, in quanto riferibili alle caratteristiche del mondo fisico circostante (si pensi agli aspetti matematici), e sono anche concatenati fra loro in rigorose architetture formali di grande pregnanza gerarchica e di grande complessità (si vedano gli aspetti sintattici e logico-formali dei vari costrutti linguistici, in gran parte basati sui concetti di “soggetto”, “predicato” e “complemento oggetto” nonché su quelli di “attività/passività” e di “qualità/relazione”, e soprattutto sulle loro pressoché infinite possibilità di combinazione).
Dall’altro lato, la comunicazione umana presenta degli aspetti di tipo “pragmatico”, cioè relativi all’uso pratico ed immediato che della comunicazione stessa viene fatto nell’ambito della più elementare relazione interindividuale e collettiva (in particolare, in relazione alle sue finalità d’influenzamento, d’intimidazione, di amicizia, di ostilità, di pacificazione, di profferta di alleanza, ecc.), ovvero nell’ambito d’un tipo di comunicazione che in genere, dal punto di vista strutturale, è assai più semplice della prima e si avvale di elementi comunicativi non strettamente e non necessariamente verbali o formalmente codificati in strutture complesse, ma che pure comunicano qualcosa di assai preciso: il tono della voce, l’espressione del viso, la postura corporea, la gestualità, e quant’altro.
Ora, il punto è che questi ultimi elementi (quelli “pragmatici”) sono assai spesso in contrapposizione anche diametrale con i primi (quelli “semantici”), o quanto meno si pongono su piani assai diversi rispetto ad essi, il che genera puntualmente, riguardo all’essere umano, l’impressione d’una singolare “ambiguità” espressiva.
Perciò, nel suo volere andare “al di là delle apparenze” ed investigare più in profondità la relazione medico-paziente, lo studio del “comportamento non verbale” dell’uomo, nato come si è detto in ambito psicoterapeutico, sembra avere ubbidito a queste caratteristiche assolutamente peculiari e “dissociate” della natura umana, ed avere voluto decifrare ciò che fra gli uomini, “al di là delle parole” e dei loro significati, transita di amichevole oppure di ostile, di fiducioso oppure di diffidente, di vitale oppure di mortifero, d’improntato alla sicurezza di sé e degli altri oppure alla paura, ecc.
Per tale insieme di ragioni, un tale studio sembra essere stato singolarmente simile, sin dai suoi esordi, alle cosiddette “terapie del profondo” di natura psico-dinamica, le quali su altri piani sono da esso quanto di più lontano si possa immaginare. In definitiva, quando si parla sul piano teorico della “comunicazione non verbale” fra gli esseri umani, un riferimento prioritario al campo delle psicoterapie (in primo luogo analitiche), più che legittimo, è d’obbligo.
Chiarisco subito che il nostro livello d’analisi,pur partendo dal “comportamento non verbale”, ossia dall’osservazione del “comportamento di superficie” ed in qualche modo “visibile” del paziente, ed in generale da ciò che potremmo chiamare la “semeiotica del comportamento umano” (nella fattispecie, la semeiotica del comportamento di coloro, terapeuta e paziente, che per definizione rappresentano i due soggetti d’ogni prassi psicoterapeutica), si concluderà con la formulazione di alcune ipotesi di carattere generale circa la natura del rapporto fra gli esseri umani, ed in particolare circa la relazione psicoterapeutica vista nei suoi aspetti più profondi e decisivi, ovvero in quei suoi risvolti “strategici” che per definizione non emergono dai livelli comunicativi più palesi, ma che alla fine fanno sì che essa sia veramente “terapeutica” oppure no.
Parlerò quindi, oltre che della “comunicazione non verbale”, anche dell’argomento, in sé ben più arduo, dello “scambio psichico”, a mio avviso di natura biologica e quasi “metabolica”, che fra terapeuta e paziente, così come fra tutti gli altri esseri umani, si svolge a livello inconscio: uno scambio il quale permea di sé quella sfera della relazione terapeutica che comunemente si denota, nel linguaggio psicoanalitico, con i concetti di “transfert” e di “contro-tranfert”. Un tale scambio, infatti, a mio avviso costituisce il meccanismo stesso d’ogni psicoterapia intesa, in senso letterale, come “pratica d’aiuto” condotta attraverso l’azione di una mente su un’altra mente.
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Facciamo per cominciare alcuni classici esempi di “semeiotica del comportamento non verbale” con particolare riferimento al loro possibile uso in terapia, a mo’ d’introduzione all’argomento ed al fine di capire almeno a grandi linee di cosa stiamo parlando.
Per farne uno che può colpire l’immaginario di ciascuno di noi, si è compreso abbastanza presto il motivo d’un frequente fenomeno transferale negativo, in sé enigmatico (per lo meno all’apparenza) ed assolutamente contro-intuitivo: esso concerne il fatto, ormai accertato, che il sorridere troppo frequentemente, da parte del terapeuta, durante una psicoterapia, anziché “mettere a proprio agio” il paziente e “rassicurarlo”, come di solito ci si aspetta che avvenga, può facilmente ostacolare l’instaurazione d’una buona relazione terapeutica con lui. Ora, è sin troppo facile, se solo si riflette un attimo sulle concrete condizioni dell’interazione psicoterapeutica, comprendere il motivo di questo fenomeno apparentemente paradossale: è evidente, infatti, come non sia il sorriso in sé, bensì una qualsivoglia posizione o atteggiamento “fisso” e stereotipato da parte del terapeuta, l’elemento il quale, nel suo denotare nel terapeuta medesimo una scarsa comprensione ed aderenza alla realtà psichica del proprio paziente (necessariamente cangiante di continuo!), o comunque una scarsa vicinanza ai suoi reali vissuti ed alla sua soggettività, insinua in quest’ultimo il dubbio, e progressivamente, la certezza, di non essere compreso. Ad esempio, il sorridere inizialmente ad un ansioso, ad un fobico o ad una persona per qualunque motivo spaventata, può risultare benefico poiché indica comunque l’intuizione d’un suo stato d’animo; tuttavia il farlo troppo spesso, o ancora più il farlo ad un depresso, può rivelare al contrario un’incolmabile distanza empatica e/o una fatale dissonanza emotiva con lui e con la sua sofferenza, così come il farlo ad uno schizofrenico paranoideo può generare in quest’ultimo il sospetto di essere deriso, ecc. Ed è anche facile intuire come un tale atteggiamento “emotivamente dissonante”, paradossalmente realizzantesi tramite un “sorriso” più o meno sterotipato, possa denotare una precisa “difesa” del terapeuta (fatta essenzialmente di negazione e di anestesia emotiva) dall’angoscia che un dato paziente gli trasmette: il sorridere troppo spesso ad un depresso, ad esempio, può denotare un tentativo di negare e/o di allontanarsi dalla sua sofferenza, mentre il sorridere troppo spesso ad un paranoico o ad un “antisociale” può significare negare la paura che si prova nei suoi confronti, ecc.
Altri esempi “classici” di “semeiotica del comportamento non verbale” sono i seguenti, e sono perfettamente noti ad ogni psicoterapeuta che abbia un minimo d’esperienza: il ruotare il busto in una posizione perpendicolare all’interlocutore, oppure l’incrociare le braccia di fronte a lui, denotano di solito una precisa “resistenza” nei confronti della sua persona e di tutto quanto nell’ambito della comunicazione in corso, proviene da essa; l’inarcare le sopracciglia nel porre una domanda denota in chi la pone supponenza e presunzione di conoscere già la risposta; il porre la punta dei piedi in direzione non dell’interlocutore ma della porta indica desiderio di andarsene il più presto possibile; lo schiarirsi la voce, il respirare rumorosamente, il sospirare, denotano spesso impazienza, o addirittura aggressività; il grattarsi la testa, lo sfregarsi il naso, il fare l’atto di cavarsi qualcosa dall’occhio o dall’orecchio, denotano la percezione di qualcosa di molto molesto presente nella comunicazione. Il mettersi in bocca un dito o la punta d’una penna, viceversa, denota un’accettazione più o meno piena, o quanto meno una curiosità ed “apertura”, nei confronti dell’interlocutore e dei contenuti della comunicazione medesima. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Alcuni comportamenti, poi, specie se psicotici, sono alquanto imprevedibili, e l’unica cosa da fare è usare al loro riguardo una generica “cautela”: personalmente, porto sempre ad esempio la disavventura nella quale incorsi molti anni fa, psichiatra di Manicomio alle prime armi, quando infransi la “tacita regola universale”, valida in qualsiasi tipo di relazione umana non ancora divenuta intima, del mantenimento d’una distanza corporea interpersonale minima e “di sicurezza” con il proprio interlocutore (circa un metro), e la infransi proprio con un paziente psicotico di tipo paranoideo: nella fattispecie, non solo mi avvicinai troppo, ma giunsi a toccarlo amichevolmente con una mano sulla spalla a scopo di rassicurazione; infatti si trattava d’uno schizofrenico apparentemente bonario e benevolo nei miei confronti, il cui pensiero sembrava perennemente vagare “altrove” rispetto alla relazione interpersonale, essendo all’apparenza incentrato principalmente sul sé ed in particolare su tematiche ipocondriache, seppure a carattere delirante; ebbene, ne ricevetti in cambio, all’improvviso e senza alcun segno premonitore, prima un calcio (che riuscii a schivare) e poi uno schiaffo (che presi in pieno).
Alcuni antropologi e studiosi della “comunicazione non verbale” (ad esempio, Edward T. Hall, 1963), sono in proposito molto minuziosi e portati alla classificazione formale: parlano anzitutto di “comunicazione oggettuale” (preferenze, più o meno rivelatrici della personalità d’un soggetto, per oggetti d’uso personale particolari e d’un certo tipo, quali il modello dell’auto, la marca dell’orologio, la tipologia dell’abitazione e degli oggetti di più abituale consumo), e la distinguono dalla “comunicazione non verbale propriamente detta” (modalità comunicativa ottenuta invece attraverso le espressioni più dirette e gestuali del proprio corpo). Poi, per quanto riguarda le forme di “comunicazione non verbale”, essi distinguono fra comunicazione non verbale “statica” (ad esempio il modo di vestirsi e/o di modellare il proprio corpo, ad esempio con i tatuaggi o andando in palestra) e “comunicazione non verbale dinamica” (il modo fisico di atteggiarsi tramite i gesti). Distinguono infine, nell’ambito della “comunicazione non verbale dinamica”, a) la comunicazione cosiddetta “prossemica” (riguardante la gestione degli spazi e delle distanze fisiche fra le persone, le quali in media si aggirano, appunto, attorno ad un metro, ma che a seconda delle circostanze possono allungarsi o accorciarsi fino ad azzerarsi); b) la comunicazione “cinesica” (l’insieme delle comunicazioni gestuali di tipo non verbale quali, come già accennato, il grattarsi il naso o gli occhi o la testa, l’incrociare le braccia davanti al busto, il mettersi di traverso rispetto all’interlocutore, ecc.); c) la comunicazione “para-linguistica” (gli aspetti non verbali delle comunicazioni verbali, quali il tono, il volume, la prosodia ed il ritmo della voce, ma anche i borborigmi intestinali involontari prodotti mentre si parla, il raschiarsi la gola, il calo “involontario” della voce, il sospirare e lo sbuffare mentre si parla); d) la comunicazione “digitale” (tutte le caratteristiche e soprattutto le variazioni che si registrano nel contatto corporeo intenzionale, quali il brusco ed inopinato toccamento, o al contrario l’improvviso sottrarsi ad un contatto fisico magari in precedenza abituale ed accettato); infine, e) la comunicazione “olfattiva” (l’emissione non consciamente intenzionale sia di odori provenienti dalle ghiandole apocrine che di ferormoni ad effetto sub-liminale, emissioni le quali nel loro complesso regolano una buona parte delle interazioni inconsce fra individui). Ora, è evidente, ad esempio, come la cinesica e la para-linguistica siano modalità comunicative solo “indirette”, in quanto concernono atteggiamenti che il soggetto si limita ad assumere più o meno consapevolmente e senza coinvolgere direttamente gli altri (quindi sono assimilabili a delle “comunicazioni pure”), mentre la digitale e l’olfattiva (ed in parte anche la prossemica) rappresentano delle modalità comunicative assai più “dirette”, poiché implicano una qualche forma di “scambio fisico” che in qualche modo “si impone” agli altri, può richiedere più o meno imperiosamente una loro reazione e comunque va ben oltre la semplice “comunicazione”. Ma come abbiamo già detto, non è scopo della nostra trattazione l’addentrarci in un’analisi sistematica di tutte queste forme di “comunicazione non verbale”, e basterà qui avervi fatto questo breve cenno.
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Facciamo, a questo punto, una breve ricognizione storico-critica circa il “linguaggio non verbale”: anzitutto occorre dire che gli studi scientifici sul “comportamento non verbale” nella pratica psicoterapeutica sono tutti relativamente recenti. La ricerca empirica sull’argomento è invece più antica: essa si è basata, per molti anni, soprattutto sui resoconti delle sedute di psicoterapia (i cosiddetti “self report”), reperibili già nelle opere di Sigmund Freud.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento però, a poco a poco, un nuovo approccio cominciò a farsi strada: esso fu aperto dal classico saggio “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., pubblicato per la prima volta in italiano, a Roma, da Astrolabio, nel 1971. L’assunto di base, anzi il vero e proprio “paradigma” del libro sopra citato era quello che comunque ci si ponga rispetto agli altri, di fatto, volenti o nolenti, in quanto esseri umani, anzi in quanto esseri viventi che per definizione inter-agiscono, “non possiamo non comunicare in qualche modo fra noi”, per cui le forme concrete di tale comunicazione, in sé essenzialmente “pragmatiche”, possono, anzi debbono, venir “studiate”. L’importanza d’un tale concetto, solo apparentemente banale e scontato, era che esso richiamava l’attenzione sul fatto che la relazione fra tutti gli esseri viventi senza eccezione alcuna (specie ove studiata all’interno di “gruppi”), appare svolgersi nell’ambito d’un “sistema” nel quale avviene comunque un qualche tipo di “scambio comunicativo” avente un valore pratico ed immediato.
Ora, questo “scambio” è universalmente “non verbale”, e se nel caso degli esseri umani esso è anche (ma non solamente!) “verbale”, appare comunque tale da presentare, al di sotto della superficie, numerose e preponderanti forme di comunicazione “alternative” a quella verbale, le quali spesso addirittura la contraddicono: forme che, ad esempio, pur salvaguardando la comunicazione del gruppo nel suo insieme, possono escluderne o sacrificarne alcuni membri, cosiddetti “designati”, i quali ne divengono ad un certo punto i “capri espiatori”. Insomma, questo “scambio comunicativo profondo” di carattere non verbale, per desiderato o non desiderato, sociale o predatorio, “tossico” o “nutritivo” che sia, appare venire assai prima ed andare ben oltre rispetto agli aspetti verbali che caratterizzano “in superficie” l’essere umano.
Gli aspetti “verbali” della comunicazione, poi, a differenza di quelli “non verbali”, ci appaiono sempre e comunque come “volontari” e “coscienti”, oltre che caratterizzati da un’apparentemente assoluta preponderanza della loro parte semantico-informativa e sintattico-grammaticale su quella “pragmatica”, ovvero d’influenzamento degli altri: in questa loro caratteristica (che per definizione ci sembra in qualche modo “impalpabile” e “dissociata” dalla biologia, in quanto tesa a dominare e manipolare i concetti ed i simboli anziché altri esseri viventi) essi ci appaiono quasi fatti apposta per padroneggiare gli aspetti pragmatici medesimi, ovvero per differire nel tempo la loro azione più o meno brutale di condizionamento sugli altri membri del gruppo e “contrattarla” con essi nei modi più sofisticati, più improntati alla reciprocità e più metaforici possibili, nonché talora per occultarla ai loro occhi sotto forme apparentemente opposte: si pensi, a quest’ultimo proposito ai numerosi termini, circonlocuzioni e concetti “piacevoli” usati per designare realtà sommamente “spiacevoli”, o più semplicemente, alla presentazione “ideologica”, retorica ed accattivante di realtà anche molto tragiche e letali, come avviene ad esempio in guerra con la retorica del “patriottismo”.
Per quanto riguarda invece la “comunicazione non verbale”, occorre osservare come essa, in linea generale, sia assai meno “menzognera” di quella verbale, e comunque più aderente ai fondamenti stessi della comunicazione (che sono di natura biologica): ad esempio, anche restando in silenzio, prima o poi si comunica comunque qualcosa ai nostri simili (anzi qualcosa, di solito, di assai importante!), e lo si fa anche con i propri atteggiamenti corporei, poiché essi molto spesso riaffermano gerarchie, rapporti di potere, reazioni emotive profonde, ecc.
In definitiva, si può affermare che tanto più si comunica in forma “veritiera” quanto più si mettono in atto quelle innumerevoli forme di “comunicazione non verbale”, proprie della nostra specie come delle altre, di cui siamo ormai bene a conoscenza ed alle quali abbiamo fatto sopra cenno.
Ancora, con il tempo si è capito che tutte queste forme di “meta-comunicazione”, le quali vanno largamente al di là degli aspetti verbali e vengono mediate sia dalla gestualità corporea che dal silenzio, nonché da alcuni aspetti inconsci, ideologici e/o “sotterranei” della comunicazione verbale stessa, possono essere studiate più agevolmente, rispetto all’ambito della comunicazione duale, in sistemi strutturati collettivi quali il gruppo o la famiglia: in questi ultimi infatti, da un lato i livelli individuali di auto-controllo, proprio perché “diluiti” nel gruppo, fatalmente si allentano; dall’altro, la posizione del terapeuta, in quanto divenuto a sua volta più “esterno” alla “relazione duale”, quindi anche meno “immerso nella relazione terapeutica”, e di conseguenza molto più libero dai suoi condizionamenti (per certi versi più cogenti), diviene sempre di più quella d’un “osservatore del comportamento”. Da ciò l’affermarsi progressivo, per un verso, delle “terapie di gruppo”, per un altro di quella cosiddetta “terapia relazionale-sistemica” altrimenti nota come “terapia familiare”, e soprattutto il crescere della loro importanza in quanto “luoghi privilegiati” e relativamente più “neutrali” per un’osservazione del comportamento non verbale e delle suddette “meta-comunicazioni” nell’ambito delle relazioni umane.
L’altro autore della vera e propria “svolta” che avvenne nell’ambito dello studio della “comunicazione non verbale”, negli anni Sessanta del Novecento, fu Albert Mehrabian. In quegli anni, dunque, questo psicologo statunitense condusse pionieristiche ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione umana nel far recepire all’interlocutore un determinato messaggio. Il risultato, il quale all’epoca apparve rivoluzionario, fu che la frazione “non verbale” della comunicazione umana (in particolare quella legata al corpo ed alla mimica facciale) risultò avere un’influenza del 55% sul totale, mentre la comunicazione paraverbale e/o paralinguistica (tono, volume, ritmo della voce, ecc.) la aveva del 38%, ed il contenuto verbale di tipo propriamente semantico, ossia legato al significato letterale del messaggio ed al suo contenuto informativo più astratto, solo del 7%. Da questi dati, come si vede, risultava che anche sommando insieme gli aspetti della comunicazione direttamente ed indirettamente legati al linguaggio parlato (aspetti verbali più aspetti para-verbali), essi influivano nel loro insieme sul comportamento umano per non più del 45% del totale, mentre gli aspetti “non verbali” risultavano ancora maggioritari, in quanto influivano sul restante 55%.
Ma v’era di più: proprio come gli studi di natura “relazionale” sopra citati, anche quelli di Mehrabian confermavano come la trasmissione dei contenuti semantici delle informazioni verbali (i quali rappresentano la caratteristica comunicativa precipua e più “vistosa” del linguaggio simbolico umano, quella cui siamo soliti dare la maggiore importanza), rappresentasse nella nostra specie solo una parte minima, ovvero la “punta emersa”, d’un enorme “iceberg comunicativo” la cui parte preponderante (del tutto sommersa rispetto alla nostra “percezione cosciente”) era di natura non verbale, in perfetta analogia con quanto avviene negli animali. Questi studi, peraltro condotti con sufficiente rigore metodologico ed equilibrio, furono però “forzati” e travisati da buona parte delle cosiddette “scuole di Programmazione Neuro-Linguistica” (PNL) nate sulla loro scia: esse, proprio sulla base di tali risultati, presero in molti casi a sostenere, semplicisticamente, che ciò che contava in ogni tipo di comunicazione, assai più che il suo contenuto o la sua stessa finalità effettiva, era il modo in cui la comunicazione medesima veniva “offerta”, quindi in definitiva il suo potere suggestivo (anche a fini commerciali). Da ciò derivò il proliferare d’ogni genere di “urlatori della comunicazione”, di “esperti della comunicazione sub-liminale” nonché di scuole di psicoterapia essenzialmente “suggestive” (ad esempio quelle basate sull’abuso più sfacciato del sorriso, quali certe forme estreme di “Patch-Therapy”, oppure sette mistiche e finalizzate al plagio quali “Scienthology”): scuole che a tutt’oggi imperversano ovunque, malgrado sempre più siano smentite, nella loro efficacia e veridicità, dagli studi più seri esistenti in proposito di “comunicazione non verbale”. E’ infatti ovvio che ciò che alla fine conta davvero, in una comunicazione interpersonale la quale può essere “tossica” o “ al contrario “benefica” per chi la intrattiene, al di là della sua forma più o meno accattivante, è proprio il suo contenuto, in sé biologicamente tutt’altro che “indifferente”: in ragione di ciò, la forma con cui tale contenuto viene “offerto” non può affatto essere considerata in maniera astratta e separata rispetto a quest’ultimo, specie in psicoterapia. In altre parole, l’indubbia dissociazione, esistente nella specie umana, delle forme comunicative verbali da quelle non verbali ed anche l’altrettanto indubbia preponderanza quantitativa delle seconde sulle prime, non possono assolutamente essere confuse con una presunta dissociazione delle forme comunicative prese in sé stesse, e nel loro insieme, dai contenuti biologici da esse veicolati, e neppure con l’onnipotenza d’una non meglio precisata “suggestione”: è infatti una considerazione di puro buon senso il ricordare come le forme comunicative prevalentemente “paradossali”, ovvero fortemente discordanti dai loro contenuti biologici (quali quelle, d’impronta nettamente “patologica” e disfunzionale, dette “doppio messaggio”, indagate ad esempio nella “Pragmatica della comunicazione umana” a proposito delle famiglie degli psicotici, oppure quelle proprie delle sette dedite al plagio), sono alla lunga “patogene”, quindi controproducenti, per qualunque specie, in particolare ai fini della sua vita associata, ed in definitiva incompatibili con la sua stessa sopravvivenza; perciò è ovvio che una tale incompatibilità debba emergere, prima o poi, anche e soprattutto nell’ambito d’una attività che si presume “curativa” quale una psico-terapia.
3
Ma vediamo un po’ meglio, adesso, in quali direzioni le ricerche più serie sulla “comunicazione non verbale” si sono nel frattempo sviluppate, nel mentre che questi orientamenti più o meno “ciarlataneschi” dilagavano: ora, occorre dire che in gran parte degli studi della fine degli anni 60 del Novecento, si era indagato prevalentemente sugli aspetti comunicativi legati all’insieme del corpo umano, tralasciando singolarmente il volto. Un orientamento completamente diverso lo si dovette, per la prima volta, a Silvan Tomkins, uno psicologo di Philadelphia il quale indagava le emozioni umane da un punto di vista “innatistico”. I suoi studi, che risalgono al 1965, furono così dirompenti da indurre un altro studioso, Paul Ekman, suo collega di Washington, ad estendere anche lui lo studio del comportamento non verbale (sempre partendo dagli stessi presupposti “innatistici”) proprio alla mimica del volto.
Ekman aveva all’epoca iniziato, per conto della A.R.P.A. (Advanced Research Project Agency), una ricerca sulla “comunicazione non verbale del viso”, anche se in precedenza si era occupato soprattutto di pazienti psichiatrici. Egli per la verità fino ad allora, quanto a quadro teorico di riferimento, si era ispirato in prevalenza a studiosi di approccio “culturalista” quali l’antropologa Margareth Mead o lo studioso della comunicazione Gregory Bateson (appartenente a quella stessa “Scuola di Palo Alto”, o “scuola relazionale-sistemica”, di cui facevano parte anche gli autori della “Pragmatica della comunicazione”): questi autori sostenevano che sia il “linguaggio parlato” sia il “linguaggio non verbale”, in particolare quello del viso, erano costituiti da elementi “appresi” nel corso dello sviluppo, tutti quanti identificabili nella loro origine e sviluppo, tramite un approccio antropologico di tipo appunto “culturalista”, nell’ambito dell’ambiente circostante, quindi della famiglia, dell’educazione ricevuta e della cultura d’appartenenza di ciascun soggetto. Silvan Tomkins, invece, riprendendo i classici concetti già espressi a suo tempo, fin dal secolo XIX, da Charles Darwin (il quale riteneva che le espressioni facciali legate alle emozioni fossero innate e universali in tutto il regno animale ed anche nell’uomo), aveva per primo, almeno per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”, sostenuto il contrario.
Del resto, anche il grande linguista d’approccio “strutturalista” Noam Chomski, da tempo, per quanto riguarda lo stesso “linguaggio verbale”, andava sostenendo tesi analoghe, ovvero l’esatto contrario di quanto affermato anche a tale proposito dall’approccio “culturalista”: egli affermava infatti, sia contro le concezioni ambientalistiche e culturaliste del linguaggio, sia contro il “gradualismo adattivo” proprio d’un certo “darwinismo ortodosso” (quello, per intendersi, di Richard Dawkins, Steven Pinker e Daniel Dennett), che il linguaggio parlato è una proprietà della mente umana “emersa” all’improvviso, quale “struttura formale innata” del cervello, e non già il risultato d’una lenta evoluzione ed interazione della specie con l’ambiente, tanto meno faticosamente raggiunto tramite l’esperienza individuale /o di gruppo, ovvero con modalità lamarckiane e “per tentativi ed errori”. Una tale concezione strutturalistico-formale, peraltro, è stata recentemente sostenuta, anche sul piano dell’evoluzione più generale di tutti gli esseri viventi, dagli studiosi della recente corrente di pensiero evoluzionistico detta “Evo-Devo”, l’acronimo di “Evolution-Development” (Evoluzione-Sviluppo), della quale un importante esponente italiano è lo studioso di biologia del linguaggio Massimo Piattelli-Palmarini. Ora, secondo l’ipotesi “Evo-Devo”, nel mutare delle specie e nel loro acquisire nuovi e complessi tratti, non tutto si ridurrebbe ad “evoluzione per selezione ambientale”, come vogliono gli evoluzionisti cosiddetti “adattamentisti”, “gradualisti” e “darwiniani ortodossi”, poiché una parte cospicua di tali tratti deriverebbe o da fattori puramente casuali ed improvvisamente “emergenti” senza un motivo preciso, dalla struttura precedente (è il caso del numero sempre dispari delle paia di zampe delle oltre tremila specie di chilopodi impropriamente detti “centopiedi”); oppure deriverebbe da fattori che sono gli unici a permettere lo “sviluppo strutturale intrinseco” d’una determinata forma vivente, ovvero i soli a presentare una loro “intrinseca compatibilità formale” con la struttura biologica complessiva all’interno della quale si trovano inseriti. In base a ciò, essendo le caratteristiche “formali” di alcuni tratti le uniche ad essere “intrinsecamente possibili” all’interno d’un determinato quadro di riferimento “strutturale” che sia valido per quei tratti, esse sarebbero anche le sole a far sì che una tale struttura vivente, concretamente, “si regga in piedi” e risulti fisicamente possibile (e ciò a prescindere da ogni eventuale “pressione selettiva ambientale”). Ebbene, il linguaggio, con la sua complessità e con la sua dipendenza stretta, nella sua componente verbale, da certe strutture anatomiche (ad esempio, la particolare conformazione del laringe e del faringe), farebbe parte appunto di questa categoria di tratti “strutturalmente obbligati ad assumere una data forma”, delineata da “Evo-Devo”: tratti in parte “emersi” per puro caso, in parte strutturatisi in forme altamente differenziate nonché “obbligate” dalla loro stessa conformazione intrinseca, ed in ogni caso in larga misura “innate” ed indipendenti dall’ambiente.
Le ricerche che seguirono quelle di Thomkins videro dunque Ekman ed altri psicologi e ricercatori suoi contemporanei sostenere (sulla scia per un verso del Darwin “innatista” che si contrapponeva a Lamarck, e per un altro del Chomski “strutturalista” che si contrapponeva ai linguisti d’orientamento “culturalistico-ambientalista”) che anche il “comportamento non verbale” era un comportamento formale altamente “strutturale” e connaturato alla specie. Essi in tal modo stabilirono la natura innata, accanto alle forme espressive verbali (quelle studiate appunto da Chomski), delle stesse espressioni facciali, a loro volta fortemente condizionate in senso “strutturale” dalla conformazione del cranio facciale umano e della muscolatura del viso. Il viso, dunque, in questa prospettiva cominciò ad essere considerato la parte del corpo più in grado di fornire informazioni attendibili e veritiere nell’ambito della “comunicazione non verbale”. Paul Ekman e Wallace Friesen elaborarono di conseguenza un sistema di codificazione delle espressioni facciali il quale consentiva di classificarle ed identificarle in modo analitico e sistematico a prescindere dalle variabili ambientali e/o culturali, ovvero il F.A.C.S. (“Facial Action Coding System”).
Oggi, ormai, lo studio scientifico del “comportamento non verbale” viene posto in una posizione assolutamente centrale nella ricerca sulle interazioni che hanno luogo nell’ambito della “diade” madre-bambino e, in generale, nell’ambito di tutte quelle relazioni umane in cui i soggetti interessati non sono in grado di verbalizzare adeguatamente le proprie emozioni (ad. nell’autismo, nel ritardo mentale, nel sordo-mutismo, ecc.). Inoltre, il F.A.C.S. e la comunicazione non verbale in genere, vengono usati in studi quali quelli sulle espressioni facciali alterate e/o carenti proprie di alcuni forme psicopatologiche (ad esempio, quelle dei pazienti schizofrenici, bipolari e depressi), o nell’analisi del pianto neonatale (“Neo-natal Action Facial Coding System”, o NFACS), oppure nella dinamica interattiva che ha luogo nell’ambito delle sedute di psicoterapia individuali e di gruppo.
In quest’ultimo settore di ricerca, ci sono lavori che hanno analizzato le dinamiche della “diade” paziente-terapeuta (una “diade” perfettamente parallela ed analoga a quella madre-bambino) in una maniera per quanto possibile “oggettiva”, quindi andando ben oltre l’ultra-soggettivo “self-report” d’epoca freudiana. Autori come Jorg Merten e coll. (1996 e 2005), ad esempio, hanno utilizzato il F.A.C.S. comparando le sedute di terapie nelle quali la relazione terapeutica era efficace con altre in cui invece falliva, ed hanno scoperto che il “punto critico” non era la “scuola di pensiero” cui apparteneva il terapeuta, bensì un dato puramente tecnico, contingente ed in sé banale, consistente nella mancata rilevazione, da parte di quest’ultimo, di alcune espressioni facciali del paziente, quindi il mancato adeguamento del terapeuta stesso a ciò che tali espressioni potevano significare. Altri studi hanno mostrato come un terapeuta il quale, al contrario, sia sufficientemente avveduto di questi fenomeni, possa manovrare la propria componente verbale e quella non verbale, in terapia, non solo in linea generale ma anche nell’ambito d’una leggera situazione di conflitto con il paziente, cosa che concorre fra l’altro a spingere quest’ultimo al cambiamento pur preservando la relazione terapeutica con lui.
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In questa sommaria revisione storico-critica del significato della “comunicazione non verbale”, sia nelle psicoterapie che in generale, abbiamo dunque acquisito un concetto: spesso la suddetta comunicazione appare essere, oltre che quantitativamente preponderante, assai più “veritiera”, rispetto alla “comunicazione verbale”, in quanto più aderente a ciò che potremmo definire lo “scambio biologico di base”, in gran parte a carattere innato, che avviene fra esseri umani nell’ambito della loro interazione comunicativa.
Stabilito questo punto, veniamo ora alla parte più centrale del nostro discorso: essa, come già accennato, verte proprio su ciò che si suppone avvenga in profondità nella relazione terapeutica medesima, ossia su ciò che transiterebbe in profondità tra terapeuta e paziente al di là delle espressioni comunicative più palesi (in particolare di quelle verbali, ma non solo), ed esplicherebbe presumibilmente un’azione “curativa”. Ora, l’ipotesi che facciamo in proposito, lo anticipiamo sin da adesso, è quella, del tutto conforme ai postulati “strutturalisti” ed innatistici di Chomski (per quanto riguarda il “linguaggio verbale”) e di Ekman (per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”), che anche lo scambio comunicativo profondo ed “inconscio” che intercorre tra paziente e psico-terapeuta ubbidisca, assai più che ad elementi culturali “appresi” e/o di superficie, a delle leggi biologiche a carattere permanente, per lo più innate ed indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di volta in volta conseguite dalla nostra specie.
Com’è noto, un’esplorazione pionieristica rivolta non tanto alla “comunicazione non verbale” presa in sé stessa, quanto a quella vita psichica che potremmo definire “collaterale” o sotterranea rispetto alla coscienza, ovvero ai pensieri latenti, nonché alla vita emotiva che, su una precisa base biologica, sta in qualche modo “al di sotto” delle parole, fu quella dell’Inconscio. Quest’esplorazione, nata in realtà assai prima (si veda l’ormai classico saggio “La scoperta dell’inconscio” di Henri F. Ellenberger), ebbe però il suo sviluppo più significativo in Psicologia, com’è noto, con la grandiosa rivoluzione psico-analitica operata da Sigmund Freud oltre cento anni fa. Questa “rivoluzione” nacque sulla base d’una considerazione attenta dell’antropologia e delle scoperte dell’evoluzionismo. Occorre però dire, per amore di precisione, che lo studioso di storia della scienza Frank Sulloway, nel suo saggio “Freud biologo della psiche”, ha sostenuto che il fondatore della Psicoanalisi, assai più che a Charles Darwin, si sarebbe ispirato alle teorie di Ernst Haekel ed al suo cosiddetto “monismo”, ed in particolare al famoso motto di quest’autore “L’Ontogenesi ricapitola la Filogenesi”; quindi, per il tramite d’una tale teoria, in specie nella sua idea del succedersi nello sviluppo psichico delle fasi orale, anale, uretrale e fallica, Freud, per Sulloway, si sarebbe rifatto ad una visione dell’evoluzione che nel complesso era assai più lamarckiana ed “ambientalista” (ossia improntata all’idea di un’incorporazione sistematica ed in qualche modo “finalizzata”, nell’organismo individuale, delle esperienze derivanti dalle sollecitazioni ambientali), che non darwiniana (ovvero volta a quella d’una selezione ambientale delle variazioni che di volta in volta, per puro caso, si producevano fra le specie). Qui ovviamente non è possibile andare oltre un rapido cenno a quest’argomento, straordinariamente vasto, complesso e tale fra l’altro da coincidere solo in parte con il tema che ci siamo dati. Poiché però esso, almeno in alcuni suoi aspetti, investe in pieno quel “rapporto profondo” fra terapeuta e paziente il quale permea di sé, assai più che quella verbale, la “comunicazione non verbale” (e che è pertanto oggetto precipuo del presente discorso), occorrerà pur farvi un cenno. Basterà ricordare brevemente, al riguardo, tre punti:
1) l’esplorazione freudiana dell’inconscio, avviata proprio tramite l’analisi di elementi psichici e/o comportamentali non strettamente verbali quali i sogni o i lapsus, partiva essenzialmente da un’idea: quella che le “forze ancestrali” della biologia (per Freud, essenzialmente quelle aggressive e sessuali), “forze” le quali sarebbero presenti, nella psiche di ciascun essere umano, allo stato inconscio in quanto “represso” dalle proibizioni genitoriali e/o sociali (o più genericamente, dalla “cultura”), condizionassero in senso profondo il comportamento palese degli individui, lo deformassero e lo rendessero, in taluni casi, “patologico”, cioè più o meno discostante sia dalla norma sociale che dalle aspettative dell’individuo stesso. Una tale idea freudiana, dunque, era per definizione “dinamica”, poiché implicava l’ipotesi che tali “istanze psichiche inconsce” (i cosiddetti “derivati dell’inconscio”, un’entità quest’ultima che per definizione non era direttamente conoscibile) fossero comunque di derivazione biologica, e proprio in quanto tali (quindi collocate ben oltre la pura e semplice dimensione “cognitiva”) conservassero una loro incoercibile “forza” a livello mentale, e dovessero di conseguenza trovare comunque un qualche “sfogo”: ciò dapprima nell’ambito intrapsichico, poi nel comportamento esterno. Quest’idea grosso modo “idraulica” della struttura della mente umana condusse a poco a poco il suo autore ad una seconda idea, perfettamente consequenziale alla prima: quella che la “presa di coscienza” dei contenuti inconsci corrispondenti a tali “forze”, ovvero il loro “prender forma” sotto la specie di idee coscienti, ed il loro conseguente “sfogo ideativo” (uno “sfogo” fino ad allora negato dalla censura operata dalla coscienza, nonché dalla repressione istintuale operata dall’Io), fosse di per sé terapeutica: ciò essenzialmente in quanto una tale “presa di coscienza” sarebbe stata in grado di “dirigerle altrove”, aggirando così le barriere della censura ed operando una sorta di “decongestionamento dell’inconscio”. Di più, la “presa di coscienza”, con l’aiuto del terapeuta, avrebbe consentito di “sublimare” tali forze “dinamiche” di derivazione biologico-istintuale, ovvero di trasformarle, rendendole in qualche modo “immateriali” (si veda il significato letterale del termine “sublimazione”) ed indirizzandole a finalità più costruttive e conformi alle aspettative sociali. Ora, nella “vulgata corrente”, specie dei “non addetti ai lavori”, quest’idea di “normalizzazione” del comportamento patologico del paziente tramite la “presa di coscienza”, poi largamente smentita dai fatti, accanto a quella circa la presunta “onnipotenza della sessualità” nelle dinamiche psichiche profonde, è tuttora rimasta come l’emblema stesso della Psicoanalisi. Ma al di là di ciò, il concetto “dinamico” di “presa di coscienza terapeutica”, anche dopo l’affermarsi della cosiddetta “seconda topica” freudiana (quella che alla triade “conscio-inconscio-preconscio” sostituiva l’altra, di carattere più “strutturale”, “Io-Es-Super Io”, e concentrava in gran parte, in quella struttura psichica che era chiamata Es, i contenuti “repressi” e le stesse “forze dinamiche” dell’inconscio, facendoli così divenire ancor più chiaramente delle forze biologiche “compresse” dall’Io e bisognose di “sfogo”), permase effettivamente inalterato, ed anzi diede luogo a quel famoso e super-ottimistico programma terapeutico freudiano, relativo alla “bonifica dell’inconscio”, che suonava più o meno così: per mezzo della terapia psicoanalitica “Là dov’era l’Es (luogo principale delle “pulsioni aggressive e non immediatamente socializzabili risiedenti nell’Inconscio”) sarà l’Io” (struttura che per Freud era per l’organo eccellenza del “rapporto con la realtà”);
2) l’evoluzione successiva della Psicoanalisi freudiana portò tuttavia ad uno sviluppo assai diverso; essa condusse gli psicoanalisti ad incentrare sempre più l’attenzione, in alternativa alla pura e semplice “presa di coscienza”, su un “luogo particolare” che poi era il solo nel quale, come si vide ben presto, una tale “presa di coscienza” nonché “bonifica dell’inconscio” potevano dare un qualche frutto terapeutico: quello della cosiddetta “relazione transferale-controtransferale” che si instaurava fra paziente e terapeuta. Una tale relazione, in un’ottica psicanalitica tradizionale, non era altro che l’insieme delle proiezioni reciproche del paziente sul terapeuta e di quest’ultimo sul paziente, effettuate sulla base delle loro reciproche modalità di “relazione oggettuale” e poi accompagnate dalla loro analisi; quest’ultima poi era effettuata essenzialmente dal terapeuta e/o dal supervisore di quest’ultimo. Ora, questa vera e propria “scoperta clinica”, frutto più che di speculazioni teoriche d’una pluri-decennale esperienza pratica, era d’indubbio valore, poiché concerneva il dato di fatto, fino allora largamente misconosciuto e/o trascurato, che una qualsivoglia psicoterapia del “profondo” non poteva essere solo “cognitiva” e limitata al paziente (come i primi analisti erano inclini a credere), ma doveva necessariamente investire, per l’appunto, il rapporto terapeuta-paziente nei suoi aspetti “inconsci”, “biologici” e “dinamici”, ed insomma in qualcosa che andava, per definizione, ben al di là dei contenuti “verbali” emergenti in terapia. Il limite di questa scoperta, però, fu rappresentato dal fatto che il rapporto terapeuta-paziente veniva visto come un gioco di reciproche proiezioni di immagini infantili e/o ancestrali, a loro volta formatesi tramite lo sviluppo psichico, l’apprendimento e l’interazione ugualmente “oggettuale” fra genitori e figli: insomma, anche il rapporto terapeuta-paziente veniva visto, esattamente come la “presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci” risalenti al passato, come un fatto in prevalenza “cognitivo” (si veda in proposito la “teoria delle relazioni oggettuali” inaugurata da Melanie Klein e poi sviluppata da autori come Margareth Mahler, Donald Winnicott, William Fairbairn, Otto Kernberg), mentre gli aspetti più propriamente biologici e “dinamici” di detto scambio restavano ancora una volta in ombra. Comunque sia, in base a questo radicale mutamento di prospettiva le terapie psicoanalitiche si allungarono di molto (dai pochi mesi iniziali a molti anni), e presero ad assomigliare sempre più ad un “addestramento etico” e quasi para-religioso ottenuto proprio tramite il rapporto con il terapeuta: un autentico “percorso di maturazione a due”, volto principalmente a fronteggiare le pulsioni distruttive; si veda, in proposito, la sempre maggiore importanza via via acquistata, in Psicoanalisi, dal concetto freudiano di “Istinto di morte” o “coazione a ripetere”, inteso quale segno di “resistenza al cambiamento”, “scelta colpevole della soluzione più semplice” (o meglio, affine alla “semplicità dell’inorganico”) e “rifiuto della complessità del reale”, da cui deriverebbe la “difficoltà nel guarire”. Il ritmo delle sedute, dunque, crebbe parallelamente a tale evoluzione, giungendo fino a quattro alla settimana, mentre l’”analisi del tranfert” divenne, com’è ovvio, assolutamente centrale non solo per la terapia, ma per la vita stessa del paziente: quest’ultima infatti, a poco a poco, essendo sempre più intesa come un “ri-percorrimento” (ovviamente guidato dall’analista) del proprio tragitto di maturazione infantile, doveva di necessità essere “rivissuta in analisi” nonché “risolta”, nei suoi snodi essenziali, nell’ambito della relazione, spesso conflittuale, con il proprio terapeuta. Su quest’ultimo infatti, come già accennato, il paziente “proiettava” i propri arcaici fantasmi ed i vissuti infantili verso le proprie figure genitoriali (la parola “transfert”, letteralmente, significa proprio “proiezione”), ed il terapeuta doveva fornire adeguate “interpretazioni” di tali proiezioni e convincerne il paziente. Le “resistenze” del paziente a fare tutto ciò, venivano infine liquidate semplicemente con la considerazione che in questo caso prevaleva, in lui, assieme ad un’insolitamente pervicace “fissazione” agli stadi più precoci e pre-genitali dello sviluppo psichico, l’“istinto”, ovvero la “pulsione”, di “morte”. All’inverso, nei casi più favorevoli si supponeva che i “nodi irrisolti” dello sviluppo infantile e del rapporto con i genitori (donde erano derivate le sue famose “fissazioni orali, anali e falliche”, già postulate da Freud), fino ad allora rimasti inconsci ma tali da condizionare in senso patologico sia il comportamento cosciente che la situazione inconscia del paziente, si fossero andati a poco a poco “sciogliendo” grazie all’azione congiunta della “presa di coscienza” e dell’”analisi del transfert”, rendendo possibile quella radicale trasformazione della personalità che era il presupposto della “guarigione”. Non tutto, naturalmente, era così semplice: già lo stesso Freud, per la verità, iniziò sul finire della sua vita a nutrire seri dubbi su questo “ottimismo teorico” coniugato ad una sorta di “massimalismo terapeutico”, ed in “Analisi terminabile ed interminabile” (1937), pose il problema dei limiti intrinseci dell’azione analitica e della frequente necessità di porvi fine pur senza aver raggiunto i risultati per essa “strategici” (il mutamento strutturale della personalità), mentre già nel 1925 aveva ipotizzato che l’importanza della Psicoanalisi sul piano culturale e scientifico oltrepassasse di gran lunga quella terapeutica.
3) E’ in conclusione evidente che un “campo terapeutico” quale quello psicoanalitico, proprio in quanto così ambiziosamente concepito, conteneva un numero di variabili, sia soggettive che oggettive, talmente elevato (il paziente, il terapeuta, i loro rispettivi passati e personalità, la loro interazione umana profonda e la loro relazione terapeutica, il loro rispettivo percorso di maturazione “cognitiva” ed “oggettuale”, il loro giudizio non necessariamente coincidente sull’andamento della terapia, ecc.) da rendere difficilissima una “verifica oggettiva” dei reali progressi terapeutici, ed anche una “falsificazione popperiana”, sul piano scientifico, circa la veridicità degli assunti teorici della Psicoanalisi (cosa ampiamente notata, peraltro, da illustri filosofi della scienza quali appunto Karl Popper, o Adolf Grunbaum). Ancora, questo limite era aggravato dal fatto che l’obiettivo della terapia, con una siffatta ultra-complessa metodica, si spostava necessariamente dai sintomi più o meno specifici d’un determinato disturbo ad una generica, assai più insondabile e scarsamente definibile “maturazione della personalità”, della quale era davvero arduo fornire “evidenze” sia “in positivo” che “a contrario”: se ad esempio si riteneva che un paziente in qualche modo “progredisse”, si supponeva che ciò avvenisse in quanto l’analisi del tranfert gli aveva fatto correttamente rivivere degli “snodi” infantili essenziali, sui quali però non era ovviamente possibile alcuna verifica (tanto meno extra-analitica); se invece “non progrediva”, veniva invocato come causa di ciò, come già accennato, il prevalere in lui dell’“l’istinto di morte”, ovvero d’un qualcosa che corrispondeva ad un concetto ancora meno soggetto a verifiche (o per lo meno, a verifiche scientifiche). Ebbene, a queste aporie di base del pensiero psicoanalitico di derivazione freudiana, derivanti dalla complessità e non verificabilità dell’oggetto della “terapia” analitica, non sembrano certo aver posto rimedio quegli autori più recenti ed alla moda i quali alla Psicoanalisi aderiscono o s’ispirano proprio in chiave “relazionale” (ossia in un’ottica che è la più complessa e la meno verificabile possibile), vuoi dal punto di vista dello studio delle funzioni mentali, vuoi da quello della “teoria dell’attaccamento”: Stephen Mitchell (Psicoanalisi relazionale), Peter Fonagy (“Teoria della mentalizzazione”), Philip Bromberg (Psicoanalisi relazionale), David Wallin (Psicoanalisi relazionale), Allan Shore (“Teoria dell’attaccamento”), o l’ormai classico Wilfred Bion (“Teoria delle funzioni”). Questi autori, infatti, per l’appunto in quanto fatalmente portati ad enfatizzare il ruolo attribuibile, nella terapia e nello stesso sviluppo psichico infantile del paziente, alla “relazione”, non hanno potuto far altro che rendere ancora più evidenti queste difficoltà.
Ora, proprio su una tale colossale “falla d’origine”, anche metodologica, della Psicoanalisi, ovvero di quella che potremmo definire la prima psicoterapia sistematicamente incentrata su elementi psichici “profondi” e soprattutto inerenti la ultra-complessa relazione fra gli uomini, quindi per definizione non immediatamente visibili (e spesso, “non verbali”), si è successivamente innestata, come vedremo, la proposta proveniente da un approccio psicoterapeutico completamente alternativo.
I possibili meccanismi d’azione delle psicoterapie sono stati rivisitati in una prospettiva radicalmente nuova, in particolare, ad opera dell’approccio cognititivo-comportamentale, un orientamento nato negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck. Quest’orientamento s’imperniava su una radicale rivalutazione del ruolo esercitato, sia nella patogenesi dei disturbi mentali che nella loro terapia, proprio dai pensieri consci: in particolare, Beck si accorse che esisteva un nesso preciso fra alcuni dei pensieri consci che attraversavano la mente dei pazienti e le loro sofferenze, e si rese conto che, entro certi limiti, si potevano correggere le seconde influenzando i primi. In base a ciò, questo metodo s’imperniava su una riflessione del paziente, effettuata sotto la guida del terapeuta, sulle proprie emozioni e pensieri coscienti, nonché su un vero e proprio, sistematico “addestramento” per superarli e/o per prescinderne: insomma, esso rappresentava un metodo specularmente opposto a quello psicoanalitico, il quale era invece imperniato, come abbiamo visto, sull’esplorazione (“libera” e fondata sulle associazioni mentali del paziente, sui suoi lapsus ed i suoi sogni) di pensieri ed emozioni inconsce del paziente, esplorazione effettuata essenzialmente dal terapeuta in prima persona tramite l’interpretazione. Perciò il nome che Beck diede alla sua metodica fu quello di “Psicoterapia Cognitiva”. Oggi s’intende il modello terapeutico originario di Beck come “Terapia Cognitiva Standard”, in quanto la sua successiva denominazione di “Terapia Cognitivo-Comportamentale” fa riferimento all’innesto, sul suddetto “modello standard” di tipo cognitivo, di tecniche di derivazione behaviorista, ovvero appartenenti all’indirizzo comportamentista inaugurato da John Watson già agli inizi del Novecento (tecniche in gran parte basate sul cosiddetto “condizionamento operante” di Burnus Skinner). La terapia cognitivo-comportamentale fa poi riferimento anche all’acquisizione, da parte della Psicoanalisi, delle più recenti scoperte sulla psico-biologia dello sviluppo animale ed umano, e di quelle inerenti le cosiddette “tematiche di dipendenza”, quali ad esempio quelle sistematicamente esplorate nella ponderosa opera in tre volumi dello psicoanalista freudiano inglese “dissidente” John Bowlby, intitolata “Attaccamento e Perdita” e scritta fra il 1969 ed il 1980. Occorre anche sottolineare, a proposito di quest’approccio psicoterapeutico, che esso è l’unico, allo stato attuale, ad essere riconosciuto come realmente efficace dalla Psichiatria, in quanto è il solo ad essere stato validato scientificamente ed in base ad “evidenze” circa la sua reale efficacia; occorre però anche dire che, secondo le suddette “evidenze”, l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, pur essendo reale, si espleta al suo meglio in associazione con le terapie psico-farmacologiche (e queste ultime, viceversa, acquisiscono una maggiore efficacia in associazione con la psicoterapia cognitivo-comportamentale). In Italia, questo approccio si è scisso nei due filoni della “terapia cognitivo-comportamentale” propriamente detta (Giovanni Liotti ed altri), e della cosiddetta terapia “post-razionalista” (Vittorio Guidano).
Nel complesso pur senza addentrarci, anche qui, nei dettagli ma mantenendo uno specifico riferimento al tema principale del nostro discorso, possiamo dire che le terapie cognitivo-comportamentali, sul piano concettuale e teorico, hanno “rivoluzionato” l’approccio psicoanalitico nel senso più letterale del termine, ossia lo hanno “rovesciato di 180 gradi”: 1) laddove, infatti, in Psicoanalisi si parte da contenuti psichici “dinamici” e per definizione non verificabili quali quelli “inconsci”, e si assume che il renderli consci (o più specificamente, il rendere consci i contenuti del transfert) sia la chiave di volta della terapia, in ambito cognitivo-comportamentale si parte da contenuti psichici non già “dinamici” ma ideativi e prettamente “cognitivi”, ed inoltre perfettamente consci (per la precisione, quei pensieri che hanno a che fare con la sofferenza, ad esempio con il lutto, con il distacco e con la perdita); 2) In secondo luogo si assume che su di essi si debba “lavorare per correggerli” e per sostituirli con altri, anziché per farli “emergere alla coscienza”, dal momento che essi, alla coscienza, già per proprio conto sono fin troppo “emersi”; 3) in terzo luogo questo “lavoro terapeutico” deve essere effettuato, più che dalla coppia terapeuta-paziente, dal paziente in prima persona (seppure “addestrato” dal terapeuta a farlo progressivamente sempre più per proprio conto); 4) in quarto luogo, laddove il “contratto psicoterapeutico” iniziale, in Psicoanalisi, è vago ed allo stesso tempo super-ambizioso, o quanto meno complesso e poco verificabile, in ambito cognitivo-comportamentale esso è molto più chiaro e delimitato, poiché si parte da un progetto estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio; insomma, laddove in Psicoanalisi si perseguono obbiettivi d’incredibile vastità ed indefinitezza, quali la “maturazione e/o la trasformazione della personalità”, anzi il suo “mutamento strutturale”, nonché il conseguente radicale scioglimento di modi di essere e di comportarsi inveterati in quanto basati sulle esperienze infantili e sull’inconscio (si ricordi l’ambiziosissimo aforisma freudiano “Là dove era l’Es sarà l’Io”), in ambito cognitivo-comportamentale si persegue, al contrario, un obbiettivo estremamente semplice e modesto: eliminare i sintomi; 5) ancora, laddove la verifica dell’efficacia d’una terapia, in Psicoanalisi, è praticamente inesistente e/o affidata esclusivamente al giudizio dell’analista (o al massimo, della coppia analista-paziente), in una terapia cognitivo-comportamentale essa è affidata a degli standard oggettivi relativi ai sintomi (che poi sono le stesse scale di valutazione usate in Psichiatria per giudicare della loro maggiore o minore gravità); 6) laddove la terapia psicoanalitica comporta un fortissimo investimento in termini di tempo e di denaro, nonché una vera e propria “mutazione” nella vita del paziente (come si è detto, il ritmo delle sedute, assai spesso, è pluri-settimanale, vige la cosiddetta “regola dell’astinenza” da particolari comportamenti durante la terapia, e la stessa dura per molti anni), in ambito cognitivo-comportamentale tutto ciò non è richiesto, le terapie hanno un ritmo ed una durata assai più limitati, non vigono “astinenze” che vadano al di là del lavoro sui sintomi, ecc. ecc.
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A questo punto, però, occorre che ci fermiamo un attimo, anzi che facciamo un passo indietro e che ci dedichiamo ad una riflessione d’ordine più generale; dobbiamo infatti ricordarci che il punto fondamentale da cui eravamo partiti è un altro, ben diverso rispetto alle questioni relative all’efficacia delle psicoterapie sui sintomi ed alla verificabilità/falsificabilità dei loro risultati: esso, per la precisione, è quello relativo all’oggetto stesso d’una qualsivoglia “psicoterapia”, oggetto che poi coincide con il suo profondo “modo di funzionare”. E questo “modo profondo di funzionare”, a sua volta, non può essere altro che l’influenza, benefica o non benefica, che una mente può in qualche modo avere, a determinate condizioni, su di un’altra mente.
Ora, posta in tal modo la questione, il discorso, occorre dirlo, cambia profondamente: infatti in Psicoanalisi, o almeno in molti dei suoi sviluppi post-freudiani (ma già nel Freud più tardo!), ogni tipo di sofferenza viene curato, in pratica, proprio attraverso il rapporto terapeuta-paziente e la sua analisi (la cosiddetta “analisi del tranfert”, ossia della proiezione sul terapeuta dei contenuti psichici inconsci del paziente). Perciò di fatto, nell’ambito di questa metodica si lavora davvero, o almeno ci si propone e ci si sforza di lavorare (bisogna dirlo, con una percentuale di successi assai dubbia), su ciò che “transita” o si ritiene “transiti”, a livello profondo, fra paziente e terapeuta, ossia su quello che si presume possa costituire il “meccanismo di base” delle psicoterapie: ciò anche se poi, con il suo mantener fermo anche nell’analisi del transfert, come terapeuticamente strategico, il concetto della “presa di coscienza”, con quel tanto di “smaterializzazione” e “sublimazione” delle forze di derivazione istintuale che tale concetto comporta, la Psicoanalisi finisce anch’essa con il ritenere essenzialmente “cognitivo” un interscambio relazionale il quale, proprio in quanto di natura biologica non può che rimanere, al contrario, in larga misura “inconscio”.
In ambito cognitivo-comportamentale, invece, questo punto (di per sé importantissimo, in quanto investe il modo di interagire degli esseri umani, ma tale da essere giudicato non del tutto a torto come “poco verificabile”), viene messo completamente da parte: il rapporto terapeuta-paziente è praticamente scomparso dall’orizzonte teorico di quest’impostazione (anche se, forse non da quello pratico), e ci si è concentrati invece sui sintomi del paziente e sui suoi differenti “stili” mentali di viverli, di produrli e di eliminarli. Insomma, al fine, senz’altro encomiabile, di rendere la terapia verificabile” sul piano scientifico “, e su quello pratico la più “efficace”, “economica” e “meno auto-referenziale” possibile, si è scelto di concentrarsi sui dati puramente “oggettivi” del percorso terapeutico, ed in particolare su quelli riguardanti il solo paziente (anzi la parte più superficiale e visibile del suo modo di “stare al mondo”): ciò, di fatto, comportandosi come se il rapporto terapeuta-paziente (o ancor meglio, il rapporto fra la personalità del terapeuta e quella del paziente) non esistesse, non avesse alcun ruolo e/o non “pesasse” nella terapia medesima. Oppure, qualora il rapporto terapeuta-paziente, in un’ottica cognitivo-comportamentale, venga preso in considerazione, esso lo è, a parte la questione dei possibili “errori tecnici”, al di fuori di canoni scientifici codificati, quindi “privatamente” e quasi “di soppiatto”.
Ora, mi sembra che quest’ultima caratteristica, pur fatte salve le sopra citate positive qualità della metodica cognitivo-comportamentale (efficacia rispetto all’obiettivo iniziale, brevità, economicità, verificabilità scientifica e “non-autoreferenzialità”), precluda a questo approccio ogni possibilità di comprensione profonda dei meccanismi generali d’azione delle psicoterapie. E’ infatti da osservare che, pur essendo le terapie cognitivo-comportamentali le uniche, come sopra accennato, la cui “efficacia” può dirsi “scientificamente provata”, essa lo è proprio in quanto tali terapie limitano fortemente e volutamente il proprio raggio d’azione ed i propri obbiettivi; d’altro canto, moltissime altre tecniche psicoterapeutiche continuano a prosperare, ed anche se si giungesse ad equipararle tutte quante a forme più o meno ciarlatanesche di “suggestione”, resterebbe pur sempre da spiegare come una tale “suggestione” sia così diffusa e possa in definitiva “funzionare”, almeno in determinati contesti, avvalendosi di profondi e misteriosi meccanismi. Insomma, è ovvio che laddove ci si avvicini con modalità fortemente “riduzionistiche” ad un oggetto così complesso qual è una psicoterapia (o più semplicemente, qual è l’interazione “a scopo d’aiuto” fra due menti), e di conseguenza si limiti all’estremo l’obiettivo strategico di quest’ultima, circoscrivendolo a finalità nettamente delimitate ed immediatamente “misurabili” (e viceversa si escluda “a priori”, dall’indagine teorica, proprio quel campo più complesso e ricco di variabili, ma anche più promettente di sviluppi teorici e conoscitivi, che è il rapporto terapeuta-paziente), si raggiungono certamente dei risultati più “efficaci” e “falsificabili” nel senso delle scienze sperimentali, però ci si allontana irrimediabilmente dalla possibilità d’esplorare in profondità una tale “complessità” e d’influire su di essa.
Esplorare e modificare ciò che è alla base dell’interazione fra gli esseri umani, però, ha da sempre costituito una delle implicazioni e finalità (anche se forse non la principale) d’ogni psicoterapia. Anzi, una tale esplorazione, prima dell’avvento dell’approccio cognitivo-comportamentale, era stata al centro, praticamente, di tutti gli orientamenti psicoterapeutici conosciuti: ad esempio, oltre che dell’approccio psicoanalitico, anche di quello relazionale-sistemico, il quale anzi, come abbiamo visto brevemente sopra, aveva preso ad effettuarla, seppure in polemica con la Psicoanalisi, in una forma sua propria ed originale.
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Concludo questo mio intervento facendo riferimento ad una proposta teorica a mio avviso interessante, cui almeno in parte aderisco, la quale proviene da uno psicoanalista italiano d’estrazione freudiana ma fortemente “eterodosso”, Ignazio Majore: uno studioso che per mezzo secolo ha posto al centro del suo lavoro i meccanismi profondi ( quindi anche quelli “non verbali”) del rapporto terapeuta-paziente, ossia ciò che a livello biologico si presume avvenga, “al di là delle parole”, in una psicoterapia.
Secondo Ignazio Majore, dunque, l’essenza del disturbo mentale, la sua “causa prima”, non è affatto quell’”istinto di morte” di freudiana memoria che tanto spazio ha trovato e trova fra alcune speculazioni teoriche tott’oggi in voga fra gli psicoanalisti: un qualsivoglia essere vivente, infatti, la cui mente ospitasse al proprio interno, in qualità di “istinto” (ovvero di “forza dinamica” organizzata in forma istintuale), qualcosa che per sua stessa natura tende alla morte, all’”entropia” ed al ritorno all’inorganico (laddove ogni tipo d’istinto inclusa l’aggressività, al contrario, si forma in natura per difendere la vita!), sarebbe un assoluto controsenso biologico.
La causa dei disturbi psichici, per Majore, è piuttosto il contatto con quella “morte effettuale” (sia fisica che mentale) che fatalmente proviene, ad ogni essere vivente, sia dall’ambiente che dal proprio stesso organismo, mentre ciò che decide dell’esito dei disturbi mentali è il grado di “reazione vitale” che un dato soggetto può produrre, a livello mentale, nei confronti della morte medesima.
Infatti, essendo le leggi che regolano l’interazione fra esseri umani di natura essenzialmente biologica (com’è ovvio che avvenga in esseri viventi quali noi siamo, a prescindere dal nostro appartenere ad una specie cosciente e dotata di linguaggio), e posto che tali leggi non possono non perseguire, in qualsivoglia specie vivente, l’obiettivo prioritario di consentire la sopravvivenza, Majore ipotizza che ciò che sta alla base delle possibilità di comunicazione reciproca, in senso generale come in senso psicoterapeutico, fra gli esseri umani, sia qualcosa che ha a che fare, anche qui, con la possibilità di fronteggiare, o d’aiutare altri a fronteggiare, la morte: ossia, che la comunicazione inter-umana abbia anch’essa a che fare con quel “problema comune” che costantemente ed in varie forme costituisce l’oggetto prioritario della percezione d’ogni essere vivente (e dell’essere umano in particolare!), anzi il solo che conferisce ad una tale percezione un qualche senso.
Dopo aver formulata quest’ipotesi di base, ed averla correlata con l’osservazione, altrettanto indiscutibile, che l’essere umano è l’unico a “conoscere” la realtà della propria morte in forma cosciente, quindi a “percepirla” di continuo ed anche a “prevederla”, Majore fa due ulteriori ipotesi: 1) quella che quest’ingente presenza della morte nella mente umana possa essere la causa principale dei più svariati disturbi mentali (la realtà delle malattie mentali è presente soprattutto, anche se non solamente, nella specie umana!); 2) quella, conseguente alla prima, che nel rapporto terapeuta-paziente, essenzialmente, al di là delle “parole” proferite da entrambi, ed anche al di là del loro “pensiero cosciente”, agisca la capacità profonda del terapeuta (una capacità essenzialmente “non verbale”!) di sopportare la morte mentale di cui il paziente è “pieno” (e talora, “selettivamente portatore”), e soprattutto di “reagirvi in forma vitale”, fornendo così al paziente stesso un “modello”, per così dire, di “reazione vitale alla morte”: un modello, naturalmente, che quest’ultimo potrà essere in grado di far proprio oppure no.
Di più, Majore ipotizza che nelle terapie molto lunghe si formi a poco a poco, sia nel paziente che nello stesso terapeuta, una sorta di “livello mentale intermedio terapeuta-paziente”, ovvero un autentico “figlio mentale della terapia”, il quale costituisce il fine d’ogni psicoterapia), lo fa in quanto “prende sulle proprie spalle”, in qualche modo (Majore fa l’ipotesi della sessualità, ma se ne potrebbero fare anche altre, forse ancora più plausibili!) il carico di morte mentale di quest’ultimo e lo smaltisce al suo posto, o meglio “gli insegna” a smaltirlo in prima persona dandogli l’esempio di “come si fa”, ebbene, allora questo meccanismo potrebbe rappresentare una spiegazione semplice, elegante e di grande potenza dell’indubbia efficacia, seppure con alcune differenze, di tutte le tecniche psicoterapeutiche: ciò in quanto riporterebbe una tale efficacia ad un’unica “variabile” veramente significativa che va ben oltre i contenuti specifici delle tecniche impiegate, ovvero quella rappresentata dalle rispettive personalità del terapeuta e del paziente. Quest’ipotesi, poi, sembra a maggior ragione degna d’interesse ove si consideri che nella stessa terapia cognitivo-comportamentale si danno frequenti casi d’insuccesso i quali non possono essere sempre ricondotti a puri e semplici “errori tecnici”, e dunque almeno in parte derivano, con ogni evidenza (ed a dispetto della relativa semplicità e meccanicità di questa metodica!) da variabili assai più difficili da valutare: presumibilmente, da quelle inerenti la qualità dell’interazione umana terapeuta-paziente.
7
Noi riteniamo assolutamente valida l’ipotesi di Majore che la “malattia” e la “cura” siano da porsi in relazione, rispettivamente, con il contatto e con la “reazione” nei confronti della morte (e più precisamente d’una morte intesa come realtà effettuale, di per sé bruta e “passiva”, e non già, alla maniera freudiana, come “forza attiva interiore” e vagamente intenzionale, ovvero come “istinto” e “pulsione”); tuttavia pensiamo che esistano possibilità complementari o alternative, rispetto all’ipotesi “sessuale”, circa il meccanismo specifico dell’ipotetica “reazione vitale” alla morte che, in terapia come nei più comuni rapporti umani, verrebbe mobilitato: potrebbe trattarsi ad esempio d’un meccanismo basato, assai più che sulla sessualità, sulla socialità.
Aggiungiamo ora che esiste anche la possibilità di specificare meglio ed in maniera più precisa la natura della “morte” di cui parla Majore.
Credo in particolare che una tale “morte” in grado di generare “malattia mentale” non sia nella maggior parte dei casi riferibile al mondo fisico (esterno o interiore che esso sia), bensì a ciò che all’inizio del nostro discorso abbiamo visto essere la effettiva “pragmatica della comunicazione umana”, ossia quella parte della comunicazione medesima (essenzialmente “non verbale”!) presente anche in tutti gli altri animali e che nell’uomo riguarda, in maniera specifica, le relazioni sociali e le loro possibili implicazioni “mortifere”.
Io ritengo, ad esempio, fortemente sospetto, e comunque e bisognoso di spiegazione, il fatto che ogni forma di sofferenza mentale d’interesse psicopatologico, al di là delle motivazioni esplicite, coscienti e “verbali” che spesso il paziente ne da, sia caratterizzata dalla presenza d’una insopprimibile componente persecutoria: ne sono pervasi, ad esempio, gli stati deliranti ed allucinatori schizofrenici, ma anche gli stati maniacali, i disturbi bipolari, le sindromi fobiche ed ossessivo-compulsive, le sindromi anoressico-bulimiche, le psicopatie e sociopatie d’ogni tipo, le perversioni sessuali, i disturbi da attacco di panico, le sindromi ipocondriache, e persino il “mare magnum” delle cosiddette “sindromi depressive” (nelle quali la persecuzione esiste eccome, ma prende la forma della colpa, o al massimo “proviene da dentro” nella forma d’un misterioso “svuotamento di energie”, anch’esso d’origine chiaramente conflittuale). Di più: chiari aspetti persecutori emergono puntualmente persino nelle demenze senili, nelle epilessie psicomotorie, nelle insufficienze mentali, e praticamente in tutte le forme di disturbo mentale su base organica, quasi che quello persecutorio fosse un “pattern di reazione” universalmente presente in quanto “necessario” e finalizzato ad un qualche misterioso scopo.
Ora, alla luce di tutto ciò, l’ipotesi di Majore potrebbe essere modificata come segue: forse la “morte” che intasa di sé, in particolare, la mente umana, e di cui parla così insistentemente quest’autore (morte la quale, concordiamo con lui, non può essere immaginata in senso freudiano, come un assurdo e controproducente “istinto” teso all’auto-distruzione, ovvero come “pulsione di morte” interna, bensì solamente come il risultato d’una serie di attacchi che subiamo sia dall’ambiente che dall’interno dell’organismo, e dalle leggi stesse della vita), proviene semplicemente dall’essere, l’uomo, un soggetto in costante pericolo di predazione da parte dei propri simili: questa condizione ancestrale, peraltro riconfermata costantemente da imponenti fenomeni di violenza di massa che sono rari fra le altre specie, quali la guerra, la schiavitù e lo sfruttamento, lo ha infatti costretto, a differenza di altri animali ugualmente oggetto di predazione, a “rimanere perennemente avvinghiato” al proprio predatore (un predatore così simile a sé stesso) anziché porre in essere, come gli altri animali, solo comportamenti di fuga/immobilizzazione o di attacco, ed alla fine lo ha spinto ad identificarsi mentalmente con lui, oltre che a “prendere coscienza della sua costante ed incombente presenza”; ma ciò ha anche spinto l’uomo ad auto-osservarsi “con sospetto”, quale potenziale predatore egli stesso, quindi ad interiorizzare il predatore medesimo, e conseguentemente a dilatare gli spazi “coscienti” ed adibiti alla “vigilanza antipredatoria” (volta sia all’esterno che all’interno) della propria mente.
L’altro lato della medaglia, però, sarebbe stato, in questo caso, “l’intasarsi di morte” della mente umana nel suo complesso, e la conseguente necessità di relegare questa “morte predatoria in sovrappiù”, in una zona differente dall’apparato percettivo, ovvero in una sorta di suo “serbatoio” (forse l’inconscio?): ciò al semplice fine di consentire a quel vero e proprio “sensore volto verso l’esterno” che è la percezione, di rimanerne “sgombra” e di poter “funzionare”, seppure in forma “dissociata” dal resto della mente, nel suo fondamentale ruolo d’allarme antimortifero volto al mondo fisico, e comunque extra-specifico. Di più: quest’ultimo “tradizionale” aspetto dell’apparato percettivo, proprio in ragione della “nascita dell’inconscio” (una struttura, secondo la nostra ipotesi, via via sempre più adibita a svolgere i compiti, ingenti nella specie umana, dell’allarme antipredatorio ed antipersecutorio volto ai rapporti con membri della propria stessa specie), ha forse potuto specializzarsi in maniera spettacolare sul piano astratto e matematico, logico-informativo e linguistico-semantico, quindi ha potuto affinare in una misura fino ad allora inedita proprio quei compiti di ricerca selettiva, di manipolazione e di neutralizzazione, più che della morte predatoria, della morte intesa nel suo senso più generale (ossia di quella morte che tutti gli esseri viventi debbono affrontate).
Tuttavia, pur ammettendo che l’inconscio abbia reso possibile questo processo evolutivo della mente percettiva in mente “cosciente”, che cosa la ha spinta, in concreto, a questa ulteriore “specializzazione”? Ebbene, noi riteniamo che la mente dell’uomo potrebbe avere imparato a manipolare simbolicamente e per via logico-matematica le “cose” appartenenti al mondo fisico, ossia a padroneggiarle, per analogia, ovvero proprio perché in precedenza aveva dovuto imparare a manipolare simbolicamente e per via linguistica (ossia in un modo molto affine a quello logico-matematico ed astratto), quindi a padroneggiare i maniera efficace, le ultra-complesse relazioni che era costretta ad intrattenere con predatori sommamente “pericolosi” quali quelli che appartenevano alla propria stessa specie.
Ora, una bipartizione conscio/inconscio così concepita (ossia, ove venga vista come una “complicazione casuale di carattere strutturale-formale”, nonché “emersa all’improvviso”, secondo la già illustrata ipotesi evoluzionistica detta “Evo-Devo”, d’una originaria, più semplice e più “primitiva” funzione antipredatoria), potrebbe spiegare, per l’appunto, il “mistero” rappresentato dall’inopinata e sovrabbondante presenza, nella nostra specie, di un’intelligenza simbolica, oltre che di tipo linguistico, anche di tipo logico-matematico ed “astratto”: un tipo d’intelligenza, insomma, altamente complessa, sofisticata e “ridondante” della quale, nelle primitive condizioni di vita dei primi ominidi, non si intravede altrimenti alcuna possibile spiegazione o “necessità”.
Questo passato ancestrale (e questo presente!) di predazione intra-specifica proprio dell’uomo, dunque, da un lato spiegherebbe la suddetta onnipresenza di componenti persecutorie, sia consce che inconsce, nelle “malattie mentali” d’ogni livello e grado; dall’altro spiegherebbe la singolare ipertrofia, presente proprio nell’uomo e solo in lui, ed insieme l’efficacia in funzione “terapeutica” ed antimortifera, di strumenti di “pacificazione” e di “socializzazione” con il proprio avversario che possono ovviamente funzionare solo all’interno d’una stessa specie: la sessualità (l’uomo, per inciso, è il solo animale dotato di sessualità perenne!), il linguaggio simbolico e logico-astratto (l’uomo è l’unico animale “parlante” in senso simbolico), ed infine la socialità in senso lato (l’uomo non solo è un animale iper-sociale, ma è assai più portato degli altri all’accudimento della prole, nonché dedito come nessun altro all’enfatizzazione di tipiche “formazioni reattive” nei confronti della predazione quali la religione e l’amore, la compassione e l’empatia, ecc.).
Se questa modifica e/o integrazione apportata alla teoria di Majore fosse veritiera, si spiegherebbe meglio anche l’efficacia, in psicoterapia, di quella manipolazione più o meno sapiente del rapporto terapeuta-paziente (e della morte che vi transita) la quale ha luogo, classicamente, nell’analisi freudiana del tranfert: in tale manipolazione infatti, a fungere da arma antimortifera decisiva ed in senso lato “terapeutica”, accanto alla sessualità (che gioca peraltro un preciso suo ruolo “difensivo” solo in ambiti clinici molto circoscritti e limitati quali le perversioni), avremmo anche la socialità ed i suoi derivati (ad esempio le varie forme di comunicazione verbale ed extra-verbale); ed infatti è la socialità, il gruppo, il numero, a ben vedere, non la sessualità, l’unico vero presidio antimortifero, ed anche antipredatorio, che tutte le specie viventi hanno in comune, dalla più elementare (e “non sessuata”!) alla più complessa.
Insomma, sarebbe la socialità (in un linguaggio più familiare, la benevola, rassicurante e protettiva “alleanza terapeuta-paziente”), seppure ben nascosta dietro la “tecnica”, l’arma decisiva la quale, al netto di eventuali fattori transferali negativi, renderebbe efficace la maggior parte delle psicoterapie, inclusa la stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale con la sua focalizzazione sull’obiettivo limitato del “sintomo”. Quest’ultima, anzi, potrebbe essere più efficace delle altre proprio in quanto, a livello di “non detto”, d’”inconscio” e dunque di “non verbale”, rassicurerebbe il paziente (proprio in ragione della limitatezza dei suoi obiettivi “dichiarati”) di non voler mirare ad una destrutturazione profonda, virtualmente ostile, minacciosa e predatoria (o che può essere percepita come tale!) della sua personalità e delle sue difese, ma di volerle rispettare insieme con la personalità nel suo complesso (elemento, quest’ultimo, che confessiamo di credere non sia molto modificabile in terapia, per lo meno dopo la conclusione dello sviluppo psico-fisico).
Il meccanismo “profondo” delle psicoterapie, pertanto, potrebbe essere semplicemente, da parte del terapeuta, il prendere per lo meno in parte su di sé i fantasmi persecutori del proprio paziente (quelli che per lo più animano il cosiddetto “transfert”), e contemporaneamente il mostrargli che chi lo aiuta non è, a sua volta, un suo “persecutore nascosto”, ma anzi è capace, entro certi limiti, di sopportare la sua aggressività (il che fa parte del cosiddetto “contro-transfert positivo”).
In questo senso, il ruolo del terapeuta appare secondo me assai diverso sia da quella sorta di “attivatore d’una reazione simil-sessuale alla morte” cui pensa Ignazio Majore, sia da quel “ruolo genitoriale” cui pure esso, esteriormente, assomiglia parecchio: tale ruolo, infatti, va ben oltre (e contemporaneamente, resta ben al di qua!) rispetto a quel “ruolo protettivo e d’incentivazione alla maturazione della personalità” che con la funzione genitoriale è connaturato.
Il “ruolo terapeutico”, secondo me, ha a che fare con degli individui che sono letteralmente invasi e dominati dai propri fantasmi persecutori, e contemporaneamente, che sono fuoriusciti in via definitiva dallo sviluppo psico-fisico, quindi sono ormai molto meno capaci di “reagire alla morte” di quanto non lo siano i bambini e gli adolescenti, avendo ormai dato fondo, in gran parte, alle loro potenzialità e risorse strutturali.
I pazienti dunque, più ancora che capaci di “creare nuove strutture mentali”, sono bisognosi di riattivare quelle che già hanno, o meglio quelle “funzioni vicarianti” che già posseggono e che sole sono in grado di sostituire quelle ormai intasate di morte che li hanno portati al “disturbo”; quindi debbono solo essere alleggeriti e messi in condizioni, attraverso l’alleanza terapeutica, di sperimentare, con pazienza e tenacia, siffatte, e già preesistenti, funzioni vicarianti.
Insomma, più che essere condotti a scoprire in sé stessi, in quanto individui, chissà quali tenebrosi ed inaccessibili segreti e cattiverie (come vorrebbe la Psicoanalisi), o viceversa limitarsi a focalizzare il sintomo e la tecnica per affrontarlo (come vorrebbero le terapie cognitivo-comportamentali), i pazienti vanno resi edotti, semplicemente, del loro appartenere alla specie umana: ovvero, ad una “specie combattente” nella quale ogni individuo teme più d’ogni altra cosa il proprio simile e le sue tendenze predatorie, quindi ha imparato a temerle anche in sé stesso, ed ha anche ipertrofizzato la propria sessualità, il proprio linguaggio e la propria mente appositamente allo scopo di fronteggiarle. Da ciò deriva la “sofferenza psichica” ed il “senso di allarme” in tutte le sue forme, le ansie di tipo “panico” e “senza oggetto”, le paure persecutorie anche di tipo delirante (che invece, un oggetto persecutorio lo vedono in qualunque cosa), le fobie (nelle quali l’oggetto persecutorio è spostato su qualcosa di circoscritto e di meno ansiogeno), le depressioni ed i sensi di colpa (in cui l’oggetto persecutorio è divenuto interiore), i rituali ossessivo-compulsivi “tesi a controllare qualcosa d’inquietante e sconosciuto”, i disturbi anoressico-bulimici tesi a manipolare lo scambio metabolico con i propri simili e renderlo meno tossico, le tossicodipendenze tese a stordire il senso del pericolo proveniente dagli altri e da sé stessi, le perversioni sessuali e le psicopatie criminali, tese a padroneggiare il pericolo proveniente dagli altri tramite il piacere, il più delle volte sado-masochistico, e la riduzione dell’altro medesimo (o di sé stessi!) ad oggetto inoffensivo, ecc.
Per fare poi degli esempi di ciò che a mio avviso in terapia, nella pratica, bisognerebbe fare:
1) i pazienti dovrebbero essere aiutati ad accettare l’idea che una certa quota di aggressività, in loro, è sana e vitale e non è da temere, in quanto è in buona parte un’aggressività reattiva a quella altrui (e che comunque, anche l’aggressività “endogena” e non reattiva è un prezioso lascito dello sviluppo della nostra specie, di per sé assolutamente necessario alla nostra sopravvivenza); però contemporaneamente debbono essere aiutati a sperimentare canali diversi, più socialmente accettati e meno distruttivi (o auto-distruttivi!) di quelli loro abituali, al fine di esprimere una tale sacrosanta esigenza d’auto-difesa;
2) debbono venire indotti a sapere d’essere in gran parte “invadibili”, quindi vulnerabili, da parte dell’aggressività altrui, e che a ciò non c’è rimedio (dato che l’uomo è un animale sociale, e da solo non può sopravvivere), se non quello di riconoscere precocemente l’aggressività “degli altri” ed allo stesso tempo accettarne la necessità, quindi mettersi in posizione di evitarla, però in modo consapevole e se possibile senza implicazioni di tipo fobico;
3) debbono venire istruiti del fatto che un certo grado di “dipendenza”, e quindi di sofferenza per le perdite ed i “lutti” di tutti i tipi, ed in particolare nei confronti di coloro sui quali si è investito di affettività e parti delle nostre stesse strutture, è inevitabile e fa parte anche della vita da adulti: quindi tutto ciò non equivale né ad una “malattia”, né ad un “essere rimasti in uno stato infantile”, né ad una totale mancanza di autonomia, ma semplicemente all’essere, il dolore, la sofferenza e la perdita (un dolore, una sofferenza ed una perdita, peraltro, assolutamente “normali”), delle realtà necessarie e connaturate all’uomo;
4) debbono venire a sapere, dal terapeuta, che l’altro lato di quella “dipendenza dagli altri” che è in parte universalmente necessaria, è l’accettare la prospettiva di dover subire da questi “altri” una qualche quota di predazione (quindi di attentato alla nostra autonomia), e che ciò fa parte di quella vera e propria “lotta per la vita e per la morte” nella quale si svolge, a tutti i livelli, l’esistenza associata, ivi inclusa quella familiare; ecc. ecc.
I pazienti, in definitiva, possono essere solo aiutati a “ripulirsi” dalle invasioni predatorie che hanno subito, reali o fantasmatiche che siano, ed a riattivare funzioni di autodifesa che già posseggono (se le posseggono!), non già a “crearne di nuove”. E tale “aiuto”, assai più che dalle “parole”, proviene dalla sensibilità e dal comportamento concreto (e “non verbale”) in terapia, da parte del terapeuta, oltre che, naturalmente, dalle caratteristiche del paziente.
Come si vede, l’indagine sulla singolare dissociazione, presente nell’uomo, fra aspetti “verbali” e “coscienti” della propria comunicazione ed aspetti “non verbali” ed “inconsci”, porta ad affrontare, seppure in via ipotetica, problematiche che scendono assai in profondità nella natura umana.
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È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia. Napoleone Bonaparte2
Il sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto addietro. F. Kafka3
Mi dispongo a scrivere intorno al saggio che abbiamo l’onore di presentare alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, con l’idea che carta e penna siano gli strumenti principali di un critico, nell’esercizio espressivo del suo compito: raccolti i materiali, annotati gli snodi concettuali, altro non resta che far emergere le parole a definire, intorno ai pensieri, quei confini alfabetici che il logos trasforma in canali di comunicazione. Tuttavia proprio in questo momento sono attratta dalla notizia che il Lander Philae sta “agganciando” la Cometa 67/P Churyumov Gersimenko. “Tanta scienza nostra”, ribadisce la giornalista, con la voce irrimediabilmente rotta da un pianto che le si chiude, contratto, in gola: un pianto che non si sente più, sfumato in coda al servizio, ma che tuttavia continuo ad avvertire, come se un po’ mi appartenesse.
Questa emozione, ho pensato subito, è la ragione ultima di dieci anni di attesa, cui sono preceduti altrettanti anni di investimenti, di speranze, di ricerche e di studi. Una scommessa in cui nessuno più sembrava credere, approdare sulla superficie di un brandello di universo mai raggiunto prima: una incursione nell’inconscio geofisico del mondo. Philae ha avuto soltanto due giorni per la raccolta di elementi dagli archeostrati della cometa, che è vecchia quattro miliardi di anni. Due soli giorni per offrire un senso al viaggio prometeico di Philae. Perché Philae non può essere soltanto quel simpatico robottino che nell’arco di 48 ore morirà di freddo, disintegrandosi sulla superficie di quella creatura titanica e spaventosa che nessuno ha mai davvero visto da vicino, a parte lui? Può essere ridotto a strumentario, laboratorio spaziale, in un contesto che in lunga teoria è replicabile e, dunque, falsificabile. Eppure Philae è “mondo vissuto”, in senso husserliano, è una estensione dell’Io del mondo, una figura eroica in grado di esprimere il desiderio più profondo e atavico dell’Uomo: possedere il mondo, controllarne ogni possibile manifestazione, penetrarne il cuore e contarne i battiti, colonizzarlo, abitarlo, desiderandolo al punto da ucciderlo. Questi ultimi assunti sono evidentemente indimostrabili. Indimostrabili se a misurarli è il parametro del logos. La filosofia, e lo dice Maurizio Zani al capitolo, 12.Antropologia filosofica: scarso affetto per le emozioni, si è occupata quasi esclusivamente della ragione, facendo assurgere a metodo il proprio oggetto di studio, in una sorta di narcisismo metodologico retroattivo. Sostiene Adriana Gloria Marigo a questo proposito:4
Il campo d’indagine è ovviamente l’uomo, meglio l’ESSERE: fin dai più lontani presocratici si diede come assunto per il giusto ragionare la logica, poiché il “logos” era individuato come il più alto e sacro elemento per collocare l’uomo entro ilrapporto con il mondo e con dio. Tutto quanto per essere in dignità di vero e buono doveva rientrare entro i perimetri squisitamente della logica, ma non solo: come ben esprime Zani, alcuni elementi costitutivi l’essere – pur individuati e dichiarati appartenenti all’uomo – non sono ritenuti decisivi d’indagine in quanto non rispondenti al progetto della ragione, e ascrivibili a espressioni ”minori” dell’umano pensare e agire.
Lungo la storia della filosofia non si è usciti da questo percorso, salvo alcuni noti tentativi che restano una eccezione e non cambiano il percorso, non sono riusciti ad affrancare la logica dal suo strapotere, a integrarla con un “discorso funzionale alle Emozioni”, non hanno compensato la “logica” con un metodo proprio e intrinsecamente corrispondente alla tanta materia delle emozioni. Le emozioni restano appannaggio della letteratura – poesia in particolare (e sulla poesia è interessante il dialogo Jone di Platone dal quale discende la concezione negativa che il filosofo ha per l’espressione poetica)- la quale non indaga sulle “ragioni delle emozioni” e solo con l’avvento della psicologia si inizia a considerare il cosmo delle emozioni nella loro nascita e struttura:
Dunque, psicologia e psicoanalisi si appropriano di quell’ambito che filosofia non ha indagato, o solo indagato in modo approssimativo in quanto inficiata da pregiudizio originale: credo, al riguardo (è un pensiero mio, questo), che all’inizio dell’indagine filosofica il pensiero fosse strutturato per giungere su quell’orizzonte grandioso della logica, desse i risultati altrettanto grandiosi che conosciamo e più tardi, per una sorta
di “narcisismo” del metodo, non si sia fatto il salto, non si sia fondato – entro la filosofia stessa – il regno d’indagine sulle emozioni. La Logica è lo studio del retto ragionare, quale nome possiamo coniare per il retto indagare le Emozioni nell’ambito di Filosofia? Voglio citare qui proprio una lettura di ieri e riguarda l’incontro di Martin Heidegger con Paul Celan: il filosofo e il poeta ritenuto da Heidegger eccelso. Alla baita nella
Selva Nera l’incontro fu disastroso: il dialogo tanto atteso tra i due grandissimi non avvenne, fu delusione e disillusione.
Che la struttura stessa della Filosofia sia dunque inadatta, inficiata di una anomalia per la quale le è impossibile scendere nel magma delle emozioni, oppure sia attraversata tutta dalla sua stessa ombra di cui può parlare solo la Psicoanalisi che di
Filosofia sembra la sorella dai caratteri personalissimi, inconfondibili, la testimonianza di una individualità precisissima e non ancillare?
A mio umile parere non è necessario fare appello da una categoria uguale e contraria al logos, per “valutare” le emozioni che ci hanno investito alla vista del Lander Philae. Chiamiamo per questo in causa Pathos, l’Eros e, ho ragione di credere, Thanatos. Il campo semantico di Logos diventa insufficiente, e così la sua metodologia di procedere per antitesi anziché per qualità delle passioni e grandi movimenti del cuore e del pensiero; dei due peccati rimproverati a Freud, la passione e il riduzionismo; la passione come ragionare del cuore, il ragionare col cuore, è sicuramente il più dolce e meno esecrabile; e forse oggi con Damasio e le recenti frontiere dell’Epigenetica, possiamo pensare che quel peccato fu, probabilmente, un peccato di visione: aver visto prima, aver saputo con anticipo, aver intuito e fatto del sentire del cuore, del sogno e dell’idea, un dogma. Con Massimo Recalcati:
In questo senso Lacan ci ricorda che il peccato commesso, da Freud è consistito non soltanto nell’aver razionalizzato quello che fino a quel momento aveva resistito alla razionalizzazione, ma anche nell’aver messo in luce una vera e propria ragione ragionante; che ragionava e funzionava secondo una logica, all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo classico dell’irrazionalismo, il campo della passione. È questo che non gli hanno perdonato5.
Perché l’idea è cuore, è prevalentemente pensiero di immagine. Crick, all’indomani della “scoperta” della doppia elica, emette una sorta di editto, che di fatto resta un dogma scolpito nella pietra della scienza per molto tempo: i geni possiedono i codici di inscrizione delle successive sintesi proteiche cui danno luogo. Il tema è scottante e delicato al tempo stesso.
Con Bottaccioli:
Nel 1970, dopo che erano emersi alcuni fatti che mettevano in discussione il “dogma centrale”, Crick torna sulla questione ribadendo la validità del dogma secondo cui ogni gene codifica per una proteina, seguendo una logica programmata e cioè non essendo condizionato da effetti di retroazione degli altri componenti della vita della cellula. Ciò che conta – ribadisce lo scienziato inglese – sono le informazioni contenute nel DNA che verranno trasmesse fedelmente al messaggero RNA che le tradurrà in proteina (Crick, 1970). Inquesto modello, la vita è l’assemblaggio di molecole prodotte punto a punto (un gene-una proteina), senza alcuna possibilità di retroagire sulle condizioni che l’hanno prodotta.
Dogma che negli stessi anni verrà definito, più laicamente, “uno dei principi fondamentali della biologia moderna” da Jacques Monod, altro premio Nobel per la medicina (assieme al collega François Jacob) proprio per le sue ricerche genetiche. Lo scienziato francese è lapidario. Nel suo best seller mondiale del
1970 Il caso e la necessità, tradotto istantaneamente in italiano e in molte altre lingue, scrive:
«L’unico meccanismo possibile attraverso il quale la struttura e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente, alla discendenza, è quello che deriva da un’alterazione delle istruzioni contenute in un segmento del DNA. Non si può invece
concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione» (p. 103).6
Sono passati soltanto cinquant’anni e l’Epigenetica – trattata da Imbasciati al capitolo 21. Mente–Cervello: epigenetica e transgenerazionalità, può refutare la grande certezza – a tratti ideologica – di Francis Harry Compton Crick, scienziato britannico, premio Nobel per la medicina nel 1962. Una nuova epistemologia mente-corpo rivoluziona gli assunti che volevano ad esempio l’intelligenza sede nelle porzioni della corteccia, o quanto meno nelle
strutture specificamente dedicate nel cervello. Sicuramente sì, vi è dell’assoluto nella specificità organica di certe funzioni. Tuttavia nella vision epigenetica l’intelligenza – intesa come complesso di competenze e conoscenze – non ha sede nel cervello; non ha sede nella mente e neppure nel cuore; non risiede neppure nelle connessioni neurali e nella loro plasticità. È con buona probabilità una espressione del potenziale di tutte queste strutture di organizzarsi in un network multidimensionale (Bottaccioli), in cui trovano posto la citoarchitettonica, la modularità e la biochimica molecolare, tuttavia non senza che eleganti e complessi processi – afferenti all’Epigenetica – in massima parte impliciti, non ancora intercettati, governino l’espressione genica e dunque anche gli aspetti neuropsicologici del comportamento e della percezione del Sé. Naturalmente la potenzialità espressiva dei set genetici non riguarda soltanto la mente o soltanto il corpo; stabilisce e determina il rapporto mente-corpo, o forse è più giusto dire che lo descrive, ce ne offre un taglio, una lettura critica, fortemente influenzata dall’ambiente, dal set di stressor che l’essere umano conosce come la propria famiglia, lo scenario storico ed economico in cui vive, insomma tutte quelle condizioni cosiddette esterne di cui non vorrebbe far parte ma in cui si ritrova, per dirla con Heidegger, gettato obtorto collo. Ed è il ritrovato, futuribile e quasi vergognoso rapporto mente-corpo a rompere il passo sul fronte della nuova epistemologia, per il timore di infrangere gli equilibri del potere all’interno dell’establishment della scienza ideologica. Tuttavia non durerà a lungo, la Rivoluzione auspicata da Bottaccioli7 e preannunciata da Hofer, è appena cominciata. Hofer addirittura parla di trasmissione transgenerazionale del trauma8, raccogliendo sicuramente il consenso di un – forse non ancora ben definito – Lamarckismo di ritorno. Ne parla Marco Bacciagaluppi al capitolo 18. Biologia, evoluzione e psicoanalisi: la funzione ideologica del lamarckismo in Freud.
La psicologia credo debba sempre saper accogliere quelle istanze che a volte il paziente porta con sé non tanto in preda ad un fantasma relazionale, quanto talvolta in risposta ad un richiamo genetico, biologico e atavico che non è sempre ascrivibile ad una posizione analitica. Non si parla di tratti ereditari intesi in senso classico, bensì di meccanismi di retroazione genetica, epigenetici, che influenzano l’organizzazione del network, la risposta organica e l’epifenomenica comportamentale.
A proposito di dogmatismo, Luigi Longhin affronta diffusamente la spinosa questione dell’ideologia, alle parti: 1.Ideologia e utopia: qualità negative della mente, 2.Aspetto sociale della scienza: rapporti tra scienza e società, 8.La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, 14. La violenza: patologia della mente emotiva giustificata con l’ideologia, 19. Il potere–dominio: forma patologica individuale e collettiva, 22. Mente emotiva: come proteggerla dall’ideologia.
La problematizzazione non nasce dalla complessità dei rapporti tra potere, politica e ideologia, quanto dalla matrice interpersonale delle strutture del Sé destinate a controllare i centri psicologici del potere. A questo proposito risulta originale l’apporto di Erich Fromm – notoriamente interpersonalista – proposto da Bacciagaluppi in due capitoli, 9. L’ideologia personale di Fromm e 10. Ideologia e psicoanalisi: alcune “scomuniche”.
Su che cosa sia “veramente” il potere, si aprono scenari che pretendono visioni radicalizzanti. La lettura interpersonalista offre un qualche salvacondotto, non senza infilarsi nella trappola dello psicologismo. Fu il filosofo illuminista Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy9 a coniare il termine ideologia con il significato che a questa parola viene attribuito nella concezione moderna. Il significato originario del termine ideologia creato da Destutt de Tracy nel 1796 nell’opera Mémoire sur la faculté de penser con il significato di un metodo del corretto ragionare, discorso razionale sulle idee, assunse con Napoleone – che non aveva più bisogno di atteggiarsi a sostenitore delle idee illuministe di questi ideologi, progressisti atei e razionalisti, delle quali si era servito agli inizi della sua carriera – un significato peggiorativo. Gli ideologués erano intellettuali che perseguivano ideali politici riformistici, laici e anti-autoritari; contrari al fanatismo e al dispotismo. Orientarono con grande anticipo sulla psicologia le loro ricerche sull’analisi dei fenomeni mentali e sensoriali per la fondazione di una gnoseologia sensista. Dal nostro punto di vista De Tracy fonda una teoria dell’ideologia che pone l’Uomo nella condizione di apprendere il ragionamento critico calandosi in un “mondo vissuto”, ed è questo a renderlo, di fatto, un ideologo umanista in grado di sovvertire ante litteram l’assunto epistemologico contestato alla filosofia da Zani al capitolo 12. È agli Elementi che si ascrive la sua definizione di ideologia come «scienza dell’origine e della formazione delle idee», in contrapposizione ai filosofi illuministi precedenti, i philosophes, per Destutt, autori di grandi teorie che apparivano dei romans, romanzi distaccati dalla realtà. Questo distacco segna il passo della visione bilaterale, la cui linea De Tracy tenta di superare. Partendo dalle teorie sensistiche radicali di Condillac per il quale non esistevano idee innate poiché esse avevano tutte origine dalla sensazione e che
sosteneva che tutte le facoltà umane erano riconducibili a forme di sensibilità e quindi alla fisiologia, Destutt de Tracy si sforzava di creare una scienza esatta della morale, della politica e dell’economia. Di fatto batteva la strada della psicologia, di quella che sarebbe stata una grande psicologia al servizio dell’Uomo. Destutt de Tracy si dedicò anche allo studio di problemi logico-linguistici convincendosi che dalle forme particolari dei vari linguaggi si potesse arrivare a degli elementi strutturali semplici che si ripetono costantemente e che possiamo utilizzare per la formazione di quelle idee che sono alla base della composizione dei segni linguistici. L’analisi del linguaggio, inteso non come costruzione artificiale, ma come organizzazione razionalmente ordinata è il fondamento della conoscenza scientifica. Occorre anche riaffermare il primato della questione antropologica, quando si tratta di strutture radicalmente inscritte nei nostri dispositivi psicosociali. Ci domandiamo con Vinicio Serino,10 a proposito di ideologia e utopia:
Ideologia, nel linguaggio della sociologia e della scienza politica, ha multiformi significati. Una delle interpretazioni più convincenti è quella offerta da Norberto Bobbio che ne propone una denominazione ‘debole’: ossia ideologia è il sistema di idee e di valori che guidano i comportamenti politici – ed aggiungerei anche sociali – di una collettività. Si tratta pertanto di una Idea – con la I maiuscola – che si è imposta e, quindi, attualizzata sulla quale, dunque, si fonda un ordine sociale. Bobbio definisce poi ‘forte’ il concetto di ideologia elaborato da Marx, per il quale, appunto, l’ideologia è una falsa credenza, una mistificazione, che “abbellisce”, col ricorso a valori “alti”, la vera essenza di ogni ordine sociale caratterizzato in realtà dal dominio di una classe sull’altra. Il riferimento è ovviamente alle ideologie ‘borghesi’ che propongono modelli di società apparentemente ispirate ai valori più alti quali la libertà, la giustizia sociale, la lotta all’oppressione mentre, nella realtà, mascherano la loro vera essenza : ossia il dominio di una classe, quella della borghesia produttrice, su di un’altra, quella del proletariato lavoratore. Sintetizzando potremmo allora dire che la ideologia ‘debole’ rimanda ad un ordine che guida, effettivamente, una società, reale, attualizzata. Mentre l’ideologia ‘forte’ esprime un giudizio, una valutazione – starei per dire … ideologica – su società esistenti, ossia formate ed operanti. Diversamente l’Utopia, parola inventata del XVI da Thomas More, rientra nella categoria degli ideali – e non , appunto, delle ideologie – designando un assetto sociale che non esiste nella realtà e che viene proposto come modello di cambiamento: proprio per questo More ha coniato la parola Utopia che, come è noto, significa “in nessun luogo”, ma che può trovare spazio nella mente umana … O forse no … Lascio allo psicologo, o alla psicologa, questo dubbio amletico. Il concetto di ideologia va collegato a quello di potere: si tratta infatti di due categorie molto affini, soprattutto se si considera che il potere politico si sostanzia nel dominio esercitato da uomini su altri uomini e consiste essenzialmente nella sua natura di comando. La caratteristica connotante di questo dominio, che implica la possibilità di imporsi attraverso la forza, è data dalla sua esclusività. Il titolare di questa esclusività, e quindi del potere ad essa connessa è, nelle civiltà moderne lo stato. Potere è dunque, come ci ha insegnato M. Weber, “capacità di influenzare l’agire altrui” senza bisogno dell’uso della forza, “in modo tale che il comando” stesso “sia assunto come massima dell’agire” di chi né il destinatario. In buona sostanza quest’ultimo obbedisce spontaneamente perché trova conveniente farlo: ad esempio, paga le tasse perché sa che in cambio otterrà sicurezza, assistenza, previdenza dall’ordinamento, come nel caso di uno stato di tipo welfare che attua politiche di protezione verso i propri cittadini. Oppure obbedisce passivamente ad un ordinamento oppressivo ed illiberale – come una qualunque dittatura – per evitare l’irrogazione di condanne, sanzioni, punizioni. Nel primo caso l’obbedienza scaturisce da una convenienza socio-economica, nel secondo dalla paura. Va comunque detto che il confine non è così netto perché, ad esempio, in ogni regime dittatoriale vi è chi obbedisce al potere anche per convenienza socio-economica, come nel caso della vecchia “nomenclatura” sovietica. E, d’altra parta, negli ordinamenti welfare – così aperti e liberali – l’obbedienza al potere può discendere anche dal timore di sanzioni, come nel caso del pagamento di imposte ritenute ingiuste ed esose eppure egualmente onorate. Infine il consenso, categoria socio-politica che ne richiama un’altra, la legittimità. Un parte rilevante della popolazione – di norma la maggioranza numerica – esprime il proprio consenso al potere, ossia obbedisce spontaneamente ai suoi comandi, perché lo riconosce legittimo, ovvero ragionevole rispetto ai propri interessi, bisogni, valori. Il consenso presenta diverse gradazioni, dalla adesione entusiastica (la più alta) alla passiva obbedienza (la più bassa), passando attraverso una gamma molto variegata di “risposte”. Ovviamente il consenso può essere indirizzato e persino manipolato con tecniche adeguate di cui la moderna comunicazione di massa è una delle più note ed evidenti11.
In questa novella etate12 dal colore strutturale-umanistico, saussuriano, la soggettività richiede di essere, e di essere nel tempo e nello spazio, forte di alcune certezze. La psicoanalisi può essere non tanto portatrice di logos, quanto un topos del rapporto mente-corpo; si può evincere dal ruolo di ossevatore, per partecipare a pieno titolo alla dinamica e alla dialettica non tra mente e corpo, che ontologicamente riconosciamo oggi essere un continuum, quanto tra quelle istanze scissorie che vorrebbero la menteragionamento e il corpo-emozione. Scegliere la parte dello spettatore porterebbe la fondazione analitica, tra le scienze, ad una posizione kafkiana di rinuncia a vivere…
come il Tonio Kröger di Thomas Mann. Kafka stesso avvertiva la «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere», capiva che «osservare» significa «uscire dalla fila» e raggiungere una visione indipendente, con proprie leggi di sviluppo, «incalcolabile, gioconda, ascendente»; ma non riusciva – e in questo risiede la prova della sua umanità – a sproblematizzare la letteratura da tutti gli assilli e i pungoli che la realtà gli poneva e imponeva.13
Il mio sguardo migliore, mi sia concesso, è quello di studioso di psicologia dell’arte. E la psicologia dell’arte avrebbe chiesto agli autori che ruolo avessero la forma, il conflitto estetico e il rapporto con il mondo del sogno, dell’immagine, del suono, del movimento, in questa eversione epistemologica a favore di una psicoanalisi tutta improntata alle emozioni. In altre parole, per far fronte alla deriva ideologica denunciata da Longhin e Imbasciati, la psicoanalisi può finalmente dar prova, ai livelli epistemologici come nella prassi clinica, di un’etica dell’umanità, affinare gli strumenti di una clinica umanistica, perché non sia luogo di innesco di ideologia, o depotenziamento delle qualità negative della mente in cui questa alberga e si annida in un tema di Ombra.
Citando infine la curatrice Luciana La Stella, un “ritorno al mondo–della–vita come obiettivo obbligato per le scienze, alfine di non perdere il legame con le proprie origini”. Non senza il desiderio di Dio dell’Uomo contemporaneo.
PSICOANALISI, IDEOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA LA MENTE EMOTIVA NELLA SCIENZA E NELLE ISTITUZIONI POLITICHE E SOCIALI
Antonio Imbasciati, Luigi Longhin a cura di Luciana La Stella Aracne 2014 pp. 532 eur 19,00
1«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana. Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento. Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.
*Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
ceo@polopsicodinamiche.com – www.polopsicodinamiche.com – www.scuoladipsicoterapiaerichfromm.it
2 in M. A. Toscano. Introduzione alla sociologia, Franco Angeli ed., 2006, pag.266.
3 Gustav Janouch in Colloqui con Kafka, p. 25.
4 Adriana Gloria Marigo, Luino-Padova. Poeta e critico letterario. Lettere con Irene Battaglini, 2014.
5 Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione. Raffaello Cortina, 2012.
6Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
7 Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
8 Psicoterapia e Scienze umane n. 3/2014.
9 Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (Parigi, 20 luglio 1754 – Parigi, 9 marzo 1836) è stato un filosofo francese appartenente alla corrente filosofica di derivazione illuministica detta degli idéologues.
10 Giurista, Filosofo, Antropologo. È docente di Antropologia all’Università degli Studi di Siena, Scienze Matematiche.
11 Vinicio Serino, Lezioni di Criminologia, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, 2014.
12 “Donna pietosa e di novella etate”, Dante Alighieri, Canzone della Vita Nuova (XXIII 17-28). L’espressione vuole qui sottolineare la rinnovata apertura degli orizzonti epistemici allo strutturalismo, non tanto in contrasto al dominio della soggettività, quanto in relazione alla necessità di favorire la dialettica tra queste polarizzazioni, che hanno in passato dilaniato il dibattito psicoanalitico.
13 Remo Cantoni, Che cosa ha detto veramente Kafka; http://www.rodoni.ch/KAFKA/cantonikafka. htm
A distanza di un anno dalla pubblicazione del libro La psicologia a scuola, esce, sempre nella collana L’immaginale della casa editrice Aracne, il nuovo lavoro del dott. Franco Bruschi. Il Minotauro e il filo di Arianna, questo il titolo dell’opera, è sicuramente un libro più specialistico del precedente, più complesso nell’impostazione generale, ma è legato a questo da una sorta di continuum dovuto al soggetto della trattazione: il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Un mondo che l’autore conosce approfonditamente grazie alla sua trentennale esperienza di lavoro in ambito clinico e scolastico. Se forse non nelle intenzioni dell’autore, dal nostro punto di vista i due libri costituiscono un corpo unico, indispensabile per capire e intervenire nel mondo dell’età dello sviluppo umano.
Franco Bruschi offre, nella sua nuova opera, un quadro completo della pratica psicoanalitica con bambini e ragazzi sia nella terapia individuale sia in quella di gruppo. Egli partendo dalle tecniche di osservazione (madre-bambino) e dalle esperienze terapeutiche arriva gradualmente a descrivere l’articolato lavoro dello psicoterapeuta dell’infanzia e da ciò si pone il problema della necessità di una formazione specifica per coloro che vogliono cimentarsi professionalmente nel difficile lavoro con gli adolescenti soprattutto quando si ha a che fare con le patologie più gravi .
L’autore mette bene in luce che fare lo psicoterapeuta è un mestiere complesso e impegnativo e farlo con un bambino o un adolescente lo è, forse, ancora di più, per tutta una serie di motivi che traspaiono chiaramente tra le righe del libro: innanzitutto perché il piccolo paziente o l’adolescente che si apprestano a lavorare su se stessi non sono sempre facilmente motivati spontaneamente ad affrontare i loro problemi di relazione con l’altro e non sono sempre disponibili a farsi aiutare a uscire dalle difese che impediscono la crescita. E ancora, chi si occupa di questa fascia d’età sa benissimo che, quando si prende in carico un bambino è inevitabile occuparsi anche dei genitori che lo hanno portato e della sua famiglia, con le dinamiche, le difese, le ansie e le preoccupazioni che, anche quando i membri della famiglia non sono presenti nella stanza di terapia, risultano essere una presenza psichica forte nel mondo interno del paziente. Quello che emerge dai casi riportati nell’opera è come questa presenza possa talvolta frenare la terapia, soprattutto se non si sono poste all’inizio delle basi solide (alleanza terapeutica) con i genitori.
Il percorso narrativo che il dott. Bruschi ci propone è, come sempre nei suoi lavori, a tutto tondo e tiene conto di tutti gli attori coinvolti nel processo: il bambino, la famiglia e il terapeuta. Con la consueta chiarezza e ricchezza di riferimenti teorici e pratici, sotto gli occhi del lettore Franco Bruschi, pone l’accento a come questi riferimenti costituiscano una guida per il terapeuta. È un percorso non solo “tecnico-scientifico” (ci sono tra l’altro importanti citazioni alle ultime ricerche delle neuroscienze, che fanno del libro un testo estremamente aggiornato), ma anche “umano” poiché fa emergere la figura del terapeuta, non come una professionista che si nasconde dietro le “teorie e metodologie” per affrontare il proprio lavoro e i rischi che questo comporta, ma che usa se stesso come uno strumento per mettersi in gioco e per affrontare con coraggio assieme al proprio paziente (e alla sua famiglia) un viaggio di cura e di conoscenza che è anche e soprattutto scoperta e crescita: proprio come il filo di Arianna che aiutò Teseo a uscire dal labirinto del Minotauro.
Prima di addentrarmi nel cuore dell’intervento, voglio ringraziare l’avv. De Giorgi e l’organizzazione del Convegno per aver dato l’opportunità a me e all’Istituto che rappresento di portare il contributo della visione psicologica di questo complesso fenomeno. Lo stalking, come reato e come processo psicologico, investe la sfera più intima delle persone coinvolte, oltre alla più evidente sfera delle relazioni interpersonali e all’ambito delle ricadute psicosociogiuridiche, e certamente sanitarie, che si correlano all’incidenza di questo tipo di reato nella nostra popolazione.
Nella fattispecie, in qualità di Direttore di un’Agenzia formativa accreditata dalla Regione Toscana e responsabile della formazione di una Scuola di Psicoterapia riconosciuta dal MIUR, sono chiamata a rispondere nei confronti degli stakeholders, dei contenuti che il nostro ente veicola attraverso diversi canali di comunicazione e aree di interesse. I canali possono essere:
•gli eventi aperti al pubblico (convegni, conferenze…)
•la ricerca sperimentale e lo sviluppo di teorie e tecniche rispetto ai fenomeni di tipo psicosociale
•i progetti e le campagne di prevenzione e di intervento psicosociale
ma in ultima analisi posso dire che le dimensioni nelle quali sento maggiore la responsabilità relativamente al nostro atteggiamento verso lo stalking, sono quelle della metodologia e della deontologia seguite dai colleghi del nostro centro nei casi di:
•psicodiagnosi e stesura peritale
•sportello di ascolto attivo e primo intervento
•la mediazione familiare e penale
•sostegno psicologico
•psicoterapia individuale e di gruppo
Si sta sviluppando all’interno del nostro istituto una vera e propria sensibilizzazione ad esplorare e intervenire nel modo migliore nei casi di stalking, sia che questo riguardi la vittima di stalking sia che a rivolgersi a noi sia lo stalker.
La prospettiva psicologica dalla quale usualmente si osserva il reato di stalking si dirama quindi da tre vertici principali di osservazione:
•la prospettiva della vittima
•la prospettiva dello stalker
•la prospettiva della relazione interpersonale tra vittima, stalker e rete familiare o supportiva
Il “fear appeal” ovvero “l’appello alla paura” mediatico, veicolato da diverse fonti di informazione anche istituzionali, di questi ultimi tempi, ha posto l’accento sulle strategie di comportamento più efficaci per rispondere a quella che viene sentita come una minaccia non solo individuale, o relegata a problematiche della singola donna o del singolo uomo, ma anche sociale, con l’evidente obiettivo di consentire l’identificazione dei destinatari delle campagne di prevenzione nel profilo demoscopico della vittima o del reo, focalizzando l’atteggiamento su un sentimento di appartenenza ad un gruppo, e incentivando sicuramente il coraggio alla denuncia, o a desistere da propositi di stalking, tuttavia alimentando una stigmatizzazione sociale negativa in entrambi casi (che si sia vittima o carnefice, si tratta pur sempre di un invischiamento in una situazione considerata a rischio per la vita, la sicurezza, la libertà, la salute personale e dei propri cari).
Il nostro compito come studiosi della psiche, come teorici e come tecnici chiamati a intervenire o a prevenire, deve essere quello di inserire il caso singolo in una dimensione sociale più vasta in cui la rete sociale, le strutture e gli enti siano in grado di alimentare una condizione di maggiore sicurezza sociale, nel contempo –e quindi affidando i casi ai professionisti dotati di competenza e sensibilità – con lo specifico obiettivo di rendere a ciascun caso la sua specifica inerenza nella vita, nella storia e nel mondo interno di ciascuna persona coinvolta. Solo in questo modo sarà possibile non parlare più di stalking come fenomeno generico, in cui possono essere inseriti diversi comportamenti che costituiscono molestie per così dire relazionali o interazioni con contenuto o finalità minacciose, ma di una storia dotata di un proprio campo di significati psicologici e semantici, una storia, quella in particolare che vede due persone (non necessariamente un uomo e una donna) coinvolte in una relazione “a doppio legame”, in un cui la comunicazione è focalizzata intorno ad una forma astratta di interdipendenza, in cui la relazione è ottenibile soltanto attraverso una coercizione, un ricatto, una violenza.
Al Polo Psicodinamiche i professionisti della relazione d’aiuto di matrice interpersonalista sono chiamati a focalizzare la propria attenzione sulla richiesta del cliente (altrimenti detto anche paziente o utente, a seconda dei casi). Spesso la richiesta del cliente e direi quindi del paziente nella maggior parte dei casi, è implicita, nascosta, ambivalente, e spesso contiene elementi psicodinamici che si costellano sin dai primissimi incontri, se non addirittura già dal primo contatto telefonico. La richiesta è quindi una sorta di sintesi estrema di bisogno di aiuto, di affetto, di ascolto, di comprensione, di solidarietà, di consigli, di protezione e di accoglienza: ovvero attivare quelle risorse indispensabili ad affrontare un problema che investe potentemente la sfera delle emozioni e dei pensieri. Tuttavia questo ancora non è di pertinenza specifica dello psicologo ma di qualsiasi professionista o operatore coinvolto che sia attivatore di risorse, come anche della famiglia e della rete sociale più stretta, o delle associazioni di volontariato sociale. In una buona parte di casi assistiamo ad una vera e propria richiesta di “pronto soccorso psicologico”, che non sempre esita in un percorso che aiuti lo stalker o la vittima di stalking a diventare consapevole dei propri vissuti e dei propri bisogni e maturare psicologicamente, acquisendo strumenti che permettono al paziente di diventare autonomo o più autonomo nella gestione dello stress emotivo: più consapevole della propria fragilità e dei propri punti di forza, delle risorse nascoste che non sentiva e non sapeva di avere. Il pronto soccorso psicologico lavora prevalentemente con le tecniche della psicologia dell’emergenza e quindi si basa sulle teorie e le tecniche legate al disturbo post traumatico da stress. Lo psicologo interpersonalista e lo psicoanalista possono indagare ulteriormente le dinamiche alla base dello stalking, considerandolo alla stregua di qualsiasi altro di tipo di manifestazione sintomatica di un disagio profondo che alberga dentro il cuore e la mente della persona che lo porta. Quello che può e deve fare lo psicologo è utilizzare le componenti della richiesta di aiuto (che tecnicamente si definisce analisi della domanda) per stabilire una relazione di fiducia che si basi essenzialmente su due fattori chiavi: l’identificazione e l’empatia. Per fare questo occorrono un training e una conoscenza vasta e approfondita della sfera psicoaffettiva dell’essere umano, che parte dalla conoscenza del proprio mondo interiore e di quelle “parti” del terapeuta che entrano immediatamente in risonanza emotiva con le ferite del paziente. Identificazione ed empatia sono processi circolari che coinvolgono sia la sfera affettiva che quella emotiva, e coinvolgono il pensiero, la percezione, la comunicazione. L’identificazione e l’empatia consentono al paziente di stabilire una connessione immediata con lo psicologo, attivando quei processi che gli rendono possibile la relazione di transfert, ovvero la possibilità di trasferire nella relazione analitica i ricordi e le emozioni, tradotti in atti analitici, che sono all’origine dei vissuti e che costituiscono la base sulla quale è stata costruita la storia di stalker o di vittima di stalking, permettendogli di uscire dall’identificazione determinata dallo stigma sociale di cui parlavamo prima, vale a dire l’etichettamento sociale in categorie predeterminate, specialmente in quei soggetti dotati di bassa autostima in cui il “danger control” non si attiva direttamente con una risposta adattiva e protettiva, come invece fa più facilmente chi è dotato di una alta autostima. I soggetti dotati di maggiore autostima hanno una percezione maggiore della propria autoefficacia, e di conseguenza sanno reagire in modo più appropriato alle situazioni ad alto stress. Vi è una correlazione diretta tra stigma sociale, bassa autostima, reato di stalking. Torniamo ad una prospettiva psicoanalitica interpersonale. Gli elementi che vi porto sono frutto di una raccolta di dati e di interviste con i colleghi che operano al Polo Psicodinamiche.
Che cos’è la relazione di transfert, chiamata anche relazione di traslazione? Il transfert è sostanzialmente una normale proiezione che può essere positiva (transfert positivo), con connotazioni di stima, affetto, amore per il partner della relazione, oppure avere una valenza negativa (transfert negativo) quando le emozioni che vengono messe in gioco dal transfert sono per lo più di competitività, invidia, gelosia, aggressività o anche con connotati ambivalenti. Nell’ambito del colloquio clinico, nella relazione tra analizzato e analista per lo più nel linguaggio che descrive questo tipo di relazione, viene comunemente usato il termine di transfert al posto di quello di proiezione.
Avrete notato come abbia equiparato l’aiuto allo stalker e alla vittima di stalker anche sul piano metodologico. Di fatto, per lo psicoanalista attento alla relazione interpersonale, non è difficile annotare quali sono quegli elementi di Ombra che sono costellati dalla figura dello stalker e che qualche la vittima tende a proiettare quasi esclusivamente sul suo persecutore. Se la vittima è costretta a subire i comportamenti dello stalker, lo stalker a propria volta è ingabbiato in una dimensione psicologica che non gli permette di cambiare il suo comportamento, per la resistenza della vittima a disinnescare i sentimenti di odio, di rabbia, di paura che la attraversano e la cui responsabilità attribuisce totalmente allo stalker. Quello che è possibile fare, immediatamente, è a mio avviso una prima riorganizzazione del confine di identità. Nella relazione stretta tra vittima e carnefice, si assiste ad una distribuzione specifica di ruoli che è contestuale ad una diffusione dell’identità. L’atto di identificazione primaria con l’analista e l’instaurarsi del transfert, è in primo luogo il primo di atto di separazione della vittima dal carnefice. Di fatto, questo rivolgersi allo psicologo non può essere letto come un mera affermazione di bisogno di aiuto, ma come un primo aggancio ad una nuova realtà, in cui la comunicazione non sia più perversa e denotata da un lessico proprio del possesso e dell’erotomania, ma sia una comunicazione sana, basata su reciprocità e rispetto degli spazi verbali e prossemici, e dalla garanzia di non invasione, di non intrusione. Dalla garanzia di un abbraccio simbolico che permetta alla persona di non essere più considerata un oggetto della comunicazione, ma di essere un soggetto nella comunicazione. Probabilmente lo stalker ha le proprie spalle un vissuto di manipolazione e di inganno, è stato un bambino illuso e probabilmente abusato, se non fisicamente, psicologicamente, e che porta con sé un disturbo di personalità o una sindrome psicoaffettiva molto grave e dolorosa. Questo non significa a priori che sia necessario perdonare il reato, tutt’altro. La collocazione in una dimensione giuridica coincide con la presa d’atto di essere in una realtà adulta in cui ci si assume la responsabilità dei propri atti, delle proprie parole, e anche dei propri sentimenti. In ogni caso, sebbene non venga quasi mai detto, ci si deve assumere la responsabilità giuridica e dinamica del proprio inconscio, e di quelle cose che sebbene non soggette al controllo della volontà o che si ribellano al dominio dell’Io, in ogni caso arrecano danno a noi stessi o al nostro prossimo. Riprendiamo le fila dunque del nostro primo colloquio, supponiamo con una vittima di stalking. Esiste la probabilità che la nostra vittima nella relazione di transfert attivi delle dinamiche di manipolazione e che tenti di innescare anche una competizione inconscia tra stalker e analista, sfidando quest’ultimo con prove sempre più estenuanti di resistenza all’aggressività e alla seduzione. E che proprio nella relazione analitica rimetta in atto non già quello che apparentemente è un vissuto persecutorio, ma quello che vi sta più sotto, ovvero il desiderio di una relazione che incentivi gli aspetti persecutori, connotata da possesso, alta erotizzazione, gelosia con tratti talvolta deliranti. Si tratta solo di esempi, di connotazioni che possono esserci o meno, ma che tuttavia si riscontrano quasi sempre nei resoconti clinici dei colloqui che avvengono nel nostro centro. La dinamica che precipuamente connette stalker e vittima di stalker è del tipo carnefice-vittima, ed è verosimilmente di tipo sadomasochistico. Non necessariamente questo si esplicita nella sessualità, tuttavia ad una indagine più approfondita spesso emerge che entrambe le parti non hanno esperito una sessualità sana nella propria vita passata, e in alcuni casi si assiste a ricordi di abusi fisici, psichici e sessuali subiti durante la prima infanzia e l’adolescenza, o a situazioni di emarginazione e deprivazione affettiva.
In qualche modo sappiamo che esiste un legame molto preciso tra vittima e carnefice, che sebbene non intacchi la responsabilità giuridica e penale di un atto criminoso e violento e non modifichi l’assetto delle forze in campo, tuttavia amplifica enormemente la possibilità di uscire dalla situazione di stress non ricadendo nella stessa identica trappola con un partner successivo. Infatti, è noto che coloro che sono vittima di stalking, lo siano non casualmente e qualche volta ripetutamente. La responsabilità emotiva e dinamica è quindi il nostro strumento principe per permettere alla vittima di non cadere nel tranello del proprio persecutore, diventando in grado di intercettare non tanto la cattiveria del carnefice, quanto la propria inconscia tendenza ad essere manipolati, ingannati, perseguitati, soffocati, controllati. In altre parole, di essere oggetti nelle mani di qualcun altro considerato più forte e più grande, più degno di amore anche di noi stessi. Il sentimento di indegnità della vittima è infatti uno dei più dolorosi, ciò non di meno anche il carnefice si vive a propria volta come vittima di una “condizione” esterna che non gli permette altra scelta se non la coercizione per ottenere amore e affetto, ovvero quel riconoscimento e quel sostegno che avrebbe voluto e dovuto ricevere dalla figure parentali e che è curiosamente costretto a chiedere con la forza. D’altro canto, la vittima dentro di sé coltiva l’idea di meritarsi un simile trattamento, forte di un’esperienza in cui le è stato insegnato che l’amore e la sofferenza sono spesso sinonimi intercambiabili, che piacere e dolore sono due facce della stessa medaglia, e che in ogni caso è giusto subire un maltrattamento in quanto è l’unico modo per sentirsi al sicuro… un pensiero della vittima potrebbe tipicamente essere questo: “Se non mi ribello al genitore maltrattante, lui mi proteggerà e non mi abbandonerà. Se quindi persevero nella condotta che merita punizione, otterrò maggiori attenzioni negative e quindi maggiori probabilità di essere utile al mio carnefice”. Vedete come la spirale perversa che si innesca non può essere detonata se non attraverso un chirurgico e nello stesso tempo rapido lavoro di consapevolezza anche attraverso tecniche che permettano la risoluzione di alcuni nodi transferali connotati da forti contenuti rimossi.
A questo proposito voglio soffermarmi sulla particolare tecnica che viene utilizzata nel nostro centro, che consiste nel combinare la psicoterapia individuale di frequenza settimanale con una sessione quindicinale di psicoterapia di gruppo della durata di tre ore, in cui viene esplorato il mondo interiore del trauma attraverso lo psicodramma psicoanalitico. Con questo metodo combinato, con una cifra mensile relativamente accessibile, è possibile praticare una psicoterapia del profondo di altissima qualità con la facilitazione e l’accelerazione consentite dal pathos e dalla forza della psicoterapia di gruppo, che inoltre consente alla persona un cambiamento di status da soggetto isolato e stigmatizzato a persona degna a tutti gli effetti di stare in un gruppo in un ambiente sano, protetto, coordinato da esperti e connotato da empatia e simpateticità nei confronti del proprio vissuto, quale che sia, con cui condividere spavento e rabbia via via che le emozioni affiorano e si rivelano con tutta la loro dolorosa intensità.
Voglio tuttavia esplorare ancora con voi il mondo interno dello stalker e della vittima di stalking,[1]che si apre alla nostra vista come un coacervo indistinto di legami non neutrali, di emozioni violente, di energia non canalizzata. Si tratta in alcuni casi di una vera e propria realtà illusoria cui entrambi appartengono, e che rappresenta a mio avviso il topos dinamico più complesso e più nascosto. Infatti, è caratterizzata da una costante che possiamo chiamare patto segreto o accordo implicito, che si ritrova spesso nelle coppie di amanti (la coppia di amanti può essere costellata anche da marito e moglie, vale a dire è una categoria psicologica e non sociogiuridica); un contratto silenzioso quindi, che quando rivela il proprio autoinganno lascia nei pazienti un vissuto di vuoto e di depressione caratterizzato da un dolore sordo, profondo e prolungato che con molta probabilità sarà stato preceduto da un periodo di rabbia e di dolore più vivo ma più superficiale, che ha costituito il motore per avviare la macchina della consapevolezza, (per passare dalla fatalità alla scelta, dall’interdipendenza all’intersoggettività).
Per uno psicologo, ma anche per un avvocato o un mediatore, può essere difficile conciliare le violenze narrate dalla vittima con i sentimenti di amore e attaccamento provati nei confronti del suo “aguzzino”, un fenomeno definito “Sindrome di adattamento” nelle esperienze di abuso e “Sindrome di Stoccolma” nelle vittime dei sequestri di persona. Nei bambini vittime di abusi e maltrattamenti, è significativamente presente l’idealizzazione difensiva del genitore abusante o dell’aggressore. La stigmatizzazione di fatto origina nelle psicodinamiche familiari, a causa del genitore che non agisce ma assiste e colpevolizza il bambino maltrattato o abusato. La vittima quindi non tende semplicemente ad assumersi la colpa di quanto accaduto, ma ad assumersi la colpa del genitore. Introietta, si dice, il super-Io del genitore, per tollerare la violenza, creando un adattamento disfunzionale che arreca un danno non soltanto fisico, sociale o morale, ma psicologico: psicologico perché danneggia le strutture difensive primarie dell’Io, alimentando una catena di “coazione a ripetere” che spesso la vittima è costretta a mettere in atto nella vita adulta, incappando in figure che hanno coordinate psicopatologiche non dissimili da quelle degli abusatori primari. Si pensi al fenomeno del gaslighting,[2] frequente sebbene già analizzato dalla criminologia. In un influente articolo intitolato Some Clinical Consequences of Introjection: Gaslighting (“Alcune conseguenze cliniche dell’introiezione: Gaslighting”), gli autori argomentano come il gaslighting coinvolga la proiezione e l’introiezione dei conflitti psichici dal molestatore alla vittima: “questa imposizione è basata su un tipo molto particolare di «trasferimento» di conflitti mentali dolorosi e potenzialmente dolorosi”. La vittima può avere “una tendenza a incorporare e assimilare quello che gli altri esternalizzano e proiettano su di loro, eil gaslighting può essere una configurazione molto complessa e altamente strutturata che coinvolge contributi da molti elementi dell’apparato psichico”. [3]
Il processo di “identificazione con l’aggressore”, introdotto da Anna Freud e ampliato da Ferenczi, offre una valida spiegazione psicodinamica di questo infelice seppure utile meccanismo di difesa. Utile a che cosa? A salvaguardare l’integrità di un Io asserragliato da attacchi continui, da aggressioni esterne da parte di coloro che dovrebbero invece prendersene cura ed educarlo, e pertanto ledendo alla base i processi di instaurazione della fiducia in se stessi, negli altri, nel mondo. Praticamente tradendo il patto di protezione umana che è implicito tra genitori e figli.
Proviamo ad immaginare la nostra mente come un vaso che, dotato di una sua struttura in qualche modo flessibile, pur non perdendo la sua caratteristica di vaso si trasformi in un vaso comunicante, in grado di acquisire e accumulare informazioni dall’esterno non solo attraverso le percezioni proprie, ma anche attraverso quelle di un’altra persona. Questo tipo di struttura è stata capace, in età evolutiva, di farci costruire un rapporto simbiotico con il care giver e di permetterci di comunicare con il mondo tramite le figure di accudimento anche quando non eravamo in grado di parlare o esprimerci diversamente. Nell’orizzonte della vittima di stalking e dello stalker, la relazione non consiste nel confronto affettivo tra due identità, ma nel confondersi ancora con il mondo interiore di un’altra persona, alla quale chiede di sostituire quella figura assente che non è stata o non è più in grado di nutrirla psicologicamente, e che comunque è quasi sempre una figura primaria. Di fatto quindi la relazione vittima-carnefice è connotata da un alto grado di regressione e ricalca i modelli operativi interni e l’organizzazione psichica familiare o parentale. Questo solleva un interrogativo molto importante. Riguarda il rischio che ciascuno di noi corre di poter essere un potenziale stalker o vittima di stalking. A nostro avviso, è necessario essere tutelati nel nostro lavoro dal rischio clinico, poiché la nostra mente possiede di dotazione quella struttura primaria di vasi comunicanti che furono utili alla sopravvivenza e che può essere utilizzato proficuamente e con saggezza in tutte le relazioni affettive, come per esempio l’innamoramento, ma ancora di più nella relazione con i figli. Sappiamo che qualsiasi organo, e così la mente, può ammalarsi se sottoposto a forte stress, e di conseguenza è necessario sapere che tutti coloro che si occupano di relazioni, che siano avvocati, psicologi, operatori sociali, rischiano quindi direi rischiamo di incappare in uno stress veicolato da situazioni contingenti. Lo spill over (una sorta di contagio), ovvero il traboccamento di contenuti psichici è un’ipotesi da prendere sempre in considerazione, ed è per questo che sono vivamente consigliate le supervisioni anche di gruppo con uno psicologo esperto, per tutte le professioni che hanno come punto focale la relazione tra esseri umani.
Bibliografia minima e statistiche di riferimento
Acquadro Maran, D., Pristerà, V., Varetto, A., Zedda, M., Stalking: aspetti psicologici, in «Psicologi a confronto», anno 4 n. 2 – ottobre 2010.
[1] Guglielmo Gulotta, professore di psicologia giuridica all’Università di Torino, spiega: “L’attenzione posta alla vittima e al suo ruolo, più o meno attivo e passivo, è fondamentale per capire come nasce e si sviluppa l’evento criminale. Per questo nel 1948, con la pubblicazione di The criminal and his victim di Von Hentig, è nata la vittimologia, una disciplina che studia il delitto dalla parte della vittima”.
[2]Gaslighting è una forma di violenza psicologica nella quale false informazioni sono presentate alla vittima con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione. Può anche essere semplicemente il negare da parte di chi ha commesso un atto di violenza che gli episodi di violenza siano mai accaduti, o potrebbe essere la messa in scena di eventi bizzarri con l’intento di disorientare la vittima. Gaslighting è una parola di originecolloquiale, ma il termine è stato anche usato nella letteratura clinica.
[3]Victor Calef and Edward M. Weinshel, in Edward M. Weinshel/Robert S. Wallerstein, Commitment and Compassion in Psychoanalysis (Routledge 2003), pp. 83-90
Se tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito, si lavora più serenamente. Vincent Van Gogh
Colui che è maestro nell’arte della vita, non distingue tra il suo lavoro ed il suo tempo libero, ma semplicemente persegue la sua visione dell’eccellenza, qualsiasi cosa stia facendo. Lasciando agli altri decidere, se sta lavorando, o semplicemente giocando. Koan Zen
Abstract. Lo psicologo, il terapeuta, colui che lavora con l’Altro e definisce se stesso e la relazione come strumento principe nell’intervento, applica strumenti, regolamenti, codici, talvolta in modo privo di un pensare riflessivo, ma in modo unicamente pratico. Questa modalità è prima di tutto sintomo di una posizione dipendente, e non di una posizione di autonomia di pensiero, non già perché l’autonomia è data dalla rottura dei codici, ma perché l’autonomia è data dalla consapevolezza dei codici, e quindi dal loro rispetto e non dal loro subirli, quindi dalla capacità di ridiscuterli all’interno del sistema valoriale. Secondariamente, questa modalità è indicativa di una condizione nevrotica all’interno della professione, che ha a che fare con l’identità e con l’etica del lavoro, poiché produce un conflitto dovuto al fare senza comprendere, all’interno di una dinamica finalizzata alla produttività della conoscenza dell’Altro, ad esempio a livello diagnostico, e non finalizzata all’esperienza dell’Altro nel Lavoro.L’oggetto della riflessione non è l’etica, ma la prospettiva psicologica della posizione etica ed esistenziale del professionista, che è anche ermeneuta delle produzioni del suo lavoro e delle opere della sua comunità.E in estensione, di come l’applicare in modo inconsapevole una deontologia abbia connotazioni morali e non permetta così di assumere una posizione etica; creando il presupposto di una impossibilità individuativa a livello del Sé, professionale e personale, generando stress fino a determinare una perdita di senso rispetto alle scelte che il professionista ha fatto un tempo e che, qualche volta, non è più in grado di riconfermare.
Questo lavoro è il primo di una serie di Appunti di politica e di etica del lavoro che Frontiera di Pagine e Polimnia Professioni ospitano per tutto il 2013, con l’intento di aprire la strada ad un nuovo dibattito all’interno dell’establishment delle professioni vocazionali, di aiuto e di mentoring, e di costruire luoghi di dialogo con le professioni emergenti e con tutte le figure professionali e i tessuti di rete con i quali il libero professionista deve rapportarsi con sempre maggiore frequenza.
Sento di dover anche raccogliere questa “occasione” anche a nome di Polo Psicodinamiche, perché il mio ruolo mi chiama anche ad espormi non solo come portavoce di un gruppo di professionisti (psicologi, psicoterapeuti, mediatori familiari, che trovano spazio nella nostra organizzazione …), ma soprattutto ad elaborare le variabili che orientano il rapporto complesso che nasce tra un’organizzazione privata, che eroga servizi formativi, di progettazione e di consulenza, e la prospettiva dell’etica nel territorio imprenditoriale e sociale in cui opera. Di fatto un’azienda è in grado di incidere, sebbene limitatamente al microcosmo in cui estende la sua efficacia, nella realtà valoriale dei suoi interlocutori, clienti, fornitori, collaboratori, e non si può sottrarre al confronto etico se decide di rispondere appieno alla domanda non solo del mercato ma dell’Uomo, essendone una diretta conseguenza, un’emissione, una declinazione creativa e produttiva della comunità in cui si radica. In altre parole, sono spesso chiamata a decisioni che vanno ben oltre la logica imprenditoriale e che richiedono riflessioni e individuazioni, non diversamente da quello che capita nella vita privata del singolo, con tutto il peso del dover scegliere anche per coloro che in questa realtà trovano appartenenza e certezze, in cui trascorrono molto tempo, cui donano molte delle loro migliori energie. E’ quindi un cantiere sempre aperto da mettere tutti i giorni in condizioni di sicurezza, e non esaurisce mai il suo compito di integrare i fatti dei singoli in una realtà più grande, che vuol tendere all’infinito che è nell’Uomo e cui l’Uomo appartiene. Poiché tutto transita per la nostra soggettività, un articolo sull’etica del lavoro presuppone una prospettiva etica a priori, ed è quindi l’onestà intellettuale che mi porta a dire che questo articolo è di parte poiché esercita la libertà di discutere di alcune tematiche e non di altre. Non possiamo pretendere di essere indifferenti, neutrali, oggettivi, in un contesto in cui le dimensioni dell’umano sono così fortemente accese, in gioco. In un’azienda, ci si pone obiettivi, target, finalità, ma la teleologia e la pensabilità non possono esaurirsi con la programmazione. E la cosa si fa ancora più complessa quando si parla di innovazione, di distruzione creativa, di pensiero divergente e di sistemi emergenti. Nulla di questi assiomi cognitivi avrebbe una fenomenologia senza un passato, un precedente, una stratificazione di un qualche tipo, una costellazione in divenire. In questi ultimi anni di sofferenza politica ed economica, come italiani siamo ancora più sensibili ai problemi delle professioni, dell’espansione, della crescita.
La pensabilità del lavoro, come di tutte le cose che l’uomo costruisce, sta anche nella sua teleologia, e questo ha a che fare con una cronografia non estemporanea, con un dominio del tempo non solo prassico ma anche metaforico, che deve trascendere se stesso, per dirsi degno di arrivare a domani.
Alcune delle riflessioni che seguono si ispirano ai recenti lavori di Sandra Buechler, psicoanalista di orientamento interpersonale dell’Alanson White Institute di New York, e vuole accennare, senza pretesa di esaustività, ad alcuni aspetti dell’etica del lavoro dal punto di vista del professionista impegnato nella relazione d’aiuto e in tutte quelle aree, definite come intellettuali, in cui la costruzione di senso si interseca alla produzione di conoscenza. Ci avvarremo del sostegno di Carl Gustav Jung e Erich Fromm, del cui pensiero Sandra Buechler è studiosa titolata, e che ha sviluppato in alcuni suoi lavori brillanti, come Still Practicing: The Heartaches and Joys of a Clinical Career (2012), Clinical Values: Emotions That Guide Psychoanalytic Treatment (2004) e Making a Difference in Patients’ Lives: Emotional Experience in the Therapeutic Setting(2008), le delicate tematiche dell’empatia e della partecipazione emotiva del terapeuta nel percorso analitico, del suo approccio valoriale, delle sue scelte in relazione ai fattori economici e alle terapie rimborsate dal sistema assicurativo o sanitario.
Il Sé di un professionista dovrebbe essersi formato nella storia, nella tradizione scientifica e filosofica, nella ambivalenze delle scelte teoriche e nei conflitti delle questioni prasseologiche.
Senza l’assunzione di queste dimensioni evolutive, non è attuabile alcun cambiamento delle professioni, poiché le professioni cambiano e superano le “crisi”, soltanto se a cambiare sono anche i professionisti che le abitano.
Rogers nel 1951 ha definito la relazione d’aiuto come «una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L’altro può essere un individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggior possibilità di espressione».
La specificità che la distingue dalle altre relazioni umane è l’aspetto metacognitivo: per competenza d’aiuto si intende infatti la capacità di dare vita ad una relazione umana in modo consapevole, controllato ed intenzionale, padroneggiando razionalmente abilità «che sono un tutt’uno con ciò che si è».
Il professionista della relazione d’aiuto spesso è un medico, uno psicologo, uno psicoterapeuta, un mediatore familiare, ma in alcuni ambiti della sua professione può essere anche un religioso, un infermiere, un veterinario, un avvocato, un genetista e ancora, più indefinitamente, un uomo che, forte delle proprie esperienze e della competenza fornita attraverso una serie di acquisizioni e legittimazioni, metta a disposizione di un altro uomo tali competenze al fine di alleviare un disagio, confortare e ridurre una sofferenza, esprimere una valutazione o apportare una consulenza che apporti elementi che prima non c’erano.
La relazione di aiuto si costella ogni volta che ci siano di mezzo amore e carenza, potere e fragilità, abbondanza e bisogno. Queste variabili dicotomiche concorrono ad alimentare la più grande disparità definita sinteticamente con “asimmetria”, ed è una delle chiavi necessarie per comprendere la tensione tra i due “sistemi valoriali” (quello del paziente e quello del professionista). Prescindere da questa considerazione potrebbe voler dire mettere in atto una negazione se non un diniego, probabilmente per tutta l’angoscia che ci sovrasta quando sentiamo di aver bisogno di aiuto.
Colui che viene aiutato ha solitamente un gran bisogno di quell’aiuto che chiede. E colui che dovrebbe aiutare, il professionista, deve poter pensare non solo al bene del suo cliente, ma anche al proprio ed al sostentamento di sé e della propria famiglia. Vediamo come il lato economico è infinitamente potente nell’informare ciascun sistema valoriale.
Il nostro compito di Knowledge Workers, di “lavoratori della conoscenza”, è di approfondire i temi etici poiché sono il fondamento del nostro dire e del nostro agire, e non sono questioni secondarie che riguardano solo i radicali, i filosofi, i politologi e i giuristi. I problemi etici riguardano tutti noi e contribuiscono a formare il giudizio e l’orientamento delle persone.
Si può obiettare che non c’è tempo, nelle accelerazioni che caratterizzano la società in cui viviamo, per simili riflessioni, e che progettare il futuro nel lavoro e attraverso la cartografia del lavoro, sia inutile dal momento che ci scontriamo con l’imprevedibilità e le incertezze rispetto a ciò che può avvenire, con i contratti a breve termine e con la precarietà. Risulterebbe pertanto più funzionale e meno rischioso restare ben collocati nel presente, sottraendosi all’opportunità di ricomporre la dissonanza che ci è dato sentire.
Se i tempi “cambiano” ad un livello socioculturale, il Tempo non cambia perché è molto più di una rappresentazione fenomenologica. Il Tempo è la coordinata metastorica nella quale si costruisce l’identità, e non può cambiare come non può cambiare la struttura dell’acido nucleico.
Richiamiamoci a Erich Fromm. Dobbiamo restituirci ad una posizione interiore per non far fuori la possibilità di produrre conoscenza realmente nuova.
Ci troviamo di fatti nella condizione dei viaggiatori che dispongono di molte risorse per affrontare i loro spostamenti e di poter scegliere numerosi posti da visitare. Resta il fatto che gli occhi dell’esploratore sono stanchi, le sue membra affaticate, e nonostante tutte le registrazioni e le fotografie, non riesce a sentire il desiderio di andare avanti. Perché sa che non sta cercando una terra promessa, non ha niente altro cui da sognare, per dirla con Fairbairn non ha la possibilità di sviluppare nuovi investimenti oggettuali.
Tutto è già visto, perché visitabile a priori. E’ privo di spinta vocazionale pertanto non produce conoscenza nuova.
Perché conoscenza nuova è visitare con occhi nuovi. Così lo psicologo non può avvalersi solo dei manuali per imparare, ma dovrà attingere dall’esperienza, al rapporto diretto con i suoi interlocutori. E a qualche cos’altro che sta nel rapporto con l’Altro, con il Maestro, con l’Infinito.
Dire quindi che occorre l’esperienza, che occorre essere graduali, presuppone dunque avere coordinate etiche più salde di coloro che sperimentano in modo fine a stesso, per verificare in modo empirico la realtà. Più salde perché sia l’esperienza stessa ad essere in qualche modo informata all’etica e contenuta nell’etica. L’esperienza attraversata dalla prospettiva etica non può essere ridotta a faccenda pratica, ad un “accidente” che pur essendo reale, non appartiene in definitiva alla natura propria di qualche cosa. Questa credo sia il luogo di genesi della frattura cui come vedremo fanno riferimento Erich Fromm e Sandra Buechler.
Che sia organizzativo o individuale, che sia diagnostico o di prevenzione, di trasformazione o di empowerment, l’intervento per la salute è pur sempre una incursione di un “ente” nella soggettività e nel sistema valoriale di un altro “ente”. Non si tratta solo della dinamica tra due “sistemi” individuali, ciascuno ascrivibile a due differenti sistemi valoriali, ma della dinamica propria tra due sistemi valoriali, in quanto ciascun ente è portatore, sino a prova contraria, di una soggettività etica, morale, sociale, spirituale. E ancora non possiamo scusarci con la fenomenologia dell’asimmetria del rapporto tra medico e paziente, che richiede di essere mitigata e lambita continuamente dalla deontologia.
Dunque la deontologia di una professione si esprime quale epifenomeno regolamentato di una morale che ha che fare con l’economia, in cui “doniamo” una cura in cambio di un bene che deriva dal bisogno di cura, nutrimento, conforto (il denaro, il baratto), e solo in minima parte da un processo di interiorizzazione dei valori. In altre parole è il prodotto di una mediazione tra istanze diseguali, che sono costrette a richiamarsi l’una l’altra ad un cammino di reciprocità.
Il processo di interiorizzazione dei valori, dovrebbe essere un processo di elaborazione, per quanto possibile innescato dalla consapevolezza, frutto di una negoziazione tra l’Io e il Sé, e in teoria dovrebbe essere assimilabile ad una integrazione di oggetti dotati di significato etico e non ad un ulteriore aumento delle difese superegoiche.
E’ un processo che genera sofferenza, che richiede Tempo.
La relazione di aiuto si fonda quindi su una domanda di etica, e non il contrario: è mossa dall’etica, possiede potenzialità etiche che stanno nella tensione dell’Uomo verso l’Infinito, tenuto vivo dal sentimento, dal desiderio di essere cosa buona per l’Altro.
A margine di queste riflessioni, a proposito dei valori, prima di addentrarmi nell’argomento centrale, ovvero sull’attualità del pensiero di Fromm sull’etica del lavoro, voglio citare Carl Gustav Jung, quando dice: «La psicologia è l’unica scienza a dover prendere in considerazione il fattore del valore (cioè del sentimento), dal momento che esso costituisce il tramite fra gli eventi psichici e la vita. Spesso si accusa la psicologia di non essere scientifica a questo riguardo; ma i suoi critici non riescono a capire la necessità scientifica e pratica di prendere adeguatamente in considerazione il sentimento».[1]
«Tuttavia rimangono fatti cui almeno lo psicologo medio deve prestare attenzione, poiché i conflitti e l’intervento dell’inconscio sono i tratti caratteristici della sua scienza. Se tratta a fondo un paziente egli si trova a dover fare i conti con questi elementi irrazionali, duri a essere formulati in termini razionali. Perciò è del tutto normale che le persone sprovviste dell’esperienza propria dello psicologo medico riescano difficilmente ad adeguarsi quando la psicologia cessa di essere una tranquilla attività di laboratorio e diventa parte attiva dell’avventura della vita reale. Altro è esercitarsi al bersaglio in un poligono di tiro, altro è partecipare ad una vera battaglia: il medico si trova di fronte a tutta una serie di fattori casuali caratteristici di una guerra autentica. Egli si trova infine ad avere a che fare con realtà psichiche, anche se non è in grado di ridurle in definizioni scientifiche. È per questo motivo che nessun manuale può insegnare la psicologia: si può imparare solo dall’esperienza diretta»[2]
Jung solleva il tema dell’autenticità nella relazione terapeutica, considerando la relazione di cura uno scenario denso di conflitti, sottolinea che per valore si debba intendere sentimento. Il sentimento diventa valore sulla base proprio del fatto che il sentimento mi orienta nella valutazione, nell’attribuzione di valore alle cose che mi capitano: etica infatti deriva da ethos, che vuol dire carattere, comportamento, condotta, costume.
Il lavoro di Sandra Buechler assume uno sguardo antitetico rispetto alle tendenze antistoriche dominanti nelle professioni di aiuto e più in generale nelle professioni intellettuali.
Nel 2005 Buechler presenta l’intervento “Why we need Fromm Today: Fromm’s Work Ethic”, alla Conferenza Internazionale “Orientamento Produttivo e la Salute Mentale”, in occasione del 20° anniversario della Società Internazionale Erich Fromm 29 ottobre-1° novembre 2005, a Lugano. Dalla traduzione di Debora Spini per Rainer Funk:
«Vorrei mettere in primo piano l’etica del lavoro di Fromm, così rilevante per il suo pensiero sulla vita piena. La sua concezione è diametralmente opposta a quella puritana, che oppone il segmento lavorativo della vita ai passatempi non lavorativi. Il pensiero di Fromm sottolinea invece, distanziandosi nettamente, sì l’importanza del lavoro, ma non come oggetto a sé stante o in contrapposizione con altre attività – come analizzeremo ora in breve.
Sono convinta che per noi, come analisti, sia lecito esprimere i valori che più ci appassionano. Non credo che il legame con l’impresa analitica mi richieda di far finta di lasciare i miei valori a casa quando vado a lavorare la mattina. Penso che le applicazioni sbagliate del concetto di neutralità abbiano creato molta confusione sulla questione se si possa ritenere appropriato, per un analista, di esprimere i propri valori più saldi e profondi. Per sottolineare questo tema, organizzerò le mie considerazioni intorno ad una serie di valori a cui tengo in modo profondo».
Marco Bacciagaluppi, studioso di Erich Fromm, sostiene in un suo scritto che “Se dovessimo riassumere ciò che Fromm rappresenta come forza morale, potremmo dire, per usare le sue stesse parole, che egli «ci richiama a noi stessi».”
Fromm è un intellettuale dimenticato. Il dovere di un intellettuale è resistere al potere e alla seduzione della scienza. Romano Biancoli[3] sostenne che «Fromm non si è mai lasciato inquadrare in nessuna scuola di pensiero. A vent’anni dalla sua morte, ancora non riusciamo ad assegnarlo a questa o quella corrente definita. Né si può dire che sia un eclettico, anzi, al contrario, lui esprime una posizione complessiva netta e caratterizzata. Dell’eclettico ha l’attingere a molte fonti, ma poi stringe sintesi personali che superano spesso le fonti da cui prendono e si formulano in modo autonomo e originale. Il tratto più qualificante del pensiero di Fromm, l’umanesimo radicale, è vedere nell’essere umano la radice di tutto. Il presupposto è che esista una natura umana come caratteristica di base della specie umana, comune a tutti gli uomini, i quali presentano non solo una stessa anatomia e una stessa fisiologia, ma anche una medesima struttura psichica. Questo rende il genere umano una unità e spiega la comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane, della loro arte, dei loro miti, dei loro drammi (Fromm, 1962, p.55). E’ una visione teorica che trova applicazione clinica principalmente nella correlazione “center-to-center” tra analista e paziente (Fromm, 1960; Biancoli, 1995): l’analista può comprendere il paziente in quanto sperimenta in se stesso ciò che quest’ultimo sperimenta, secondo la massima di Terenzio: “Nihil humani a me alienum puto”. Ogni individuo, in quanto membro del genere umano, è potenzialmente capace di sperimentare in sé ogni esperienza umana. Il trattamento psicoanalitico ispirato all’umanesimo radicale si propone il mutamento del paziente da un orientamento alla passività interiore e al possedere ad un orientamento all’attività, avviando il cammino dalla modalità dell’avere alla modalità dell’essere.
Egli immette nella cultura del novecento le linee di forza dei grandi maestri di umanità, da Isaia a Socrate, da Meister Eckhart a Spinoza, da Goethe ad Albert Schweitzer, cioè prospettive di pensiero atte ad attraversare tempi lunghi e intere epoche della storia.
Fromm afferma che la natura umana non si può scorgere come tale ma attraverso le sue diverse manifestazioni. E’ nella “situazione umana” che si manifesta la natura umana (1947). Dai testi di Fromm, si può riassumere come segue il suo concetto di “situazione umana”. Nell’evoluzione dei primati risultano due tendenze: la determinazione sempre meno istintiva del comportamento e la crescita del cervello, particolarmente della neocorteccia. Cioè, l’uomo è il primate fornito della minima dotazione istintiva e del massimo sviluppo cerebrale (Fromm, 1973, p. 201). La singolare emersione biologica diventa un dato, intrinsecamente contraddittorio, della situazione umana: far parte della natura e insieme trascenderla, proprio per la debolezza degli istinti e la consapevolezza di sé, estranea ad ogni altro animale. L’armonia dello stato naturale è rotta, il mondo dell’uomo è il mondo del conflitto (Fromm, 1947, pp. 29 e sgg.).
La frattura che vive dentro l’uomo reca una fondamentale “dicotomia esistenziale”: individuarsi o regredire (Fromm, 1941, 1955). Il processo di individuazione è caratterizzato da autonomia e solitudine. Procedendo lungo questa via si arriva a conseguire quei gradi di libertà che consentono di amare. In alternativa, la “fuga dalla libertà” (Fromm, 1941) è la risposta regressiva alla paura della solitudine, inevitabile costo dell’individuazione.
Fromm descrive la contrapposizione tra etica umanistica ed etica autoritaria nell’opera “Dalla parte dell’uomo”, in cui contrappone anche l’autorità razionale a quella irrazionale, la coscienza umanistica a quella autoritaria. La coscienza umanistica è per Fromm “la voce del nostro vero Sé, che ci richiama a noi stessi, per diventare ciò che siamo potenzialmente”.
Egli sostiene inoltre che il carattere cosiddetto produttivo sia il più vicino alla virtù. »
L’etica della virtù si basa sull’assunto che le azioni siano successive alle scelte, e che quindi la moralità non ha a che fare con l’obbligatorietà dell’azione; si guarda alle persone, alle disposizioni del carattere.
I valori proposti da Sandra Buechler per ribadire l’attualità del pensiero di Fromm, sono l’integrità, la realizzazione di Sé, il coraggio, la speranza attiva e il senso di avere uno scopo, la libertà. Ci soffermeremo solo su integrità e realizzazioni di Sé, per ragioni di tempo e di spazio.
Se per la Buechler (2003, 2004) l’integrità umana è uno stato «nel quale le motivazioni profonde, le assunzioni di base e le azioni formano un insieme compatto», Fromm espone la sua concettualizzazione di integrità relativa al lavoro, portando ad esempio l’Artigiano del Duecento e del Trecento.
Per Fromm quell’artigiano vive la vita piena, egli impara il proprio lavoro da altri artigiani, quindi nella relazione, in un contesto strutturato e organizzato. Apprende dal proprio lavoro, in quanto nell’ambiente di lavoro sviluppa relazioni, capacità, abilità, e inoltre ri-progetta continuamente se stesso attraverso l’apprendimento di competenze via via più complesse, in una storia che non è solo sua personale, ma all’interno di un tessuto sociale.
Questa che oggi chiameremmo vision, vision imprenditoriale, si situa come uno dei capisaldi di società “piena e sana” (si noti come il lessico di Fromm rimanda ad un principio di abbondanza e non di scarsità), in cui il lavoratore è incoraggiato a lottare per realizzare il Sé, sviluppando quella che il Premio Nobel per l’economia Amartya Sen[4] ha chiamato capability, capacità di realizzazione di Sé, capacità di felicità possibile: la dimensione professionale o lavorativa, non è alienata dal resto della vita, è integrata nell’esistenza.
Nella società di Erich Fromm, il lavoro è scenario di realizzazione del Sé, e di esperienza del Sé. In questo scenario sociale, nessun uomo può essere il mezzo per i fini di un altro, ma è egli stesso il solo fine di se stesso e del proprio operare. In questa accezione di integrità, l’uomo non può neppure prestare se stesso ai fini di poteri che non siano buoni e produttivi, in altre parole questo uomo non può mercificare il proprio operato in un contesto in cui non può essere libero, in cui le attività politiche ed economiche non siano subordinate al suo sviluppo. La segmentazione e la parcellizzazione delle mansioni (oggi si parla di alta specializzazione), non sono un incentivo al processo di integrazione. Inoltre, Fromm sostiene che: «Non si può separare l’attività di lavoro dall’attività politica, dall’uso del tempo libero e dalla vita personale. Se il lavoro dovesse diventare interessante senza che gli altri settori di vita divenissero umani, non avverrebbe alcun vero cambiamento».[5]
E’ probabile che ciascuno di noi abbia un modo molto personale di chiedere aiuto, di attivare cambiamento, di porsi in modo innovativo verso l’esistenza. Un modo personale di apprendere e di progettarsi. Ciascuno, direbbe il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, possiede personali funzionamenti e capabilities che non sono felicità ma realizzazione, soprattutto immateriale.
Credo che l’etica della conoscenza non posso sottrarsi al confronto e alla riflessione sulle tematiche epistemologiche, poiché sono direttamente connesse al knowledge working e alle sue modificazioni.
Si assiste alla nascita della psichiatria olistica e alla medicina umanistica. Alla computer art e all’economia della felicità. La logica formale non apprende attraverso l’esperienza ma impara dai metodi dell’esperienza; si fa problematizzare dalla soggettività; la psicologia e l’antropologia necessitano di categorie di analisi, manuali con criteri assiomatici, antropometrici.
Questo movimento interno, che potremmo definire ibridazione delle logiche conoscitive, potrebbe essere anche letto come il percorso individuativo della gnosis, un ripristino della sua identità primigenia dopo un lungo inverno di separazioni interne. Un tempo le arti e le scienze erano accorpate nel sapere delle Muse, e non vi era frattura e conflitto tra aree della conoscenza.
Proviamo a leggere questo fenomeno come la risposta inconscia ad un bisogno tutto umano di restituirsi all’unità, all’integrità interna. Di risanarsi di fratture praticate, dal positivismo, dall’integralismo culturale, dalla rigidità che si veste di coerenza.
E’ il tentativo di rispondere in modo individuativo ad una scissione che non comporta salute, ma un forte stress. E il produttore di conoscenza come il professionista della salute sono chiamati a sentire il loro sintomo e ad elaborarlo.
A non soggiacere necessariamente alle regole imposte da un meccanismo largamente nevrotizzante. Sono invitati da Fromm, e non solo da lui, a rivedere le posizioni interiori quando non rispondono più alla pienezza valoriale dell’autenticità che solo l’Uomo può attribuire ed è in grado di attribuire.
Sandra Buechler ce ne porta un esempio che richiede una trattazione a parte: il modello economico della managed care.
Ma ancora un inciso sulla conoscenza. La confusione a livello metodologico, inevitabilmente conduce alla trasfusione dei contenuti, e rende assai complicata se non impossibile la verifica di un risultato.
L’etica della conoscenza deve poter riflettere sulle sistematizzazioni valoriali per procedere ad una possibile revisione. La progettualità didattica cambia in modo radicale, e l’approccio pluridisciplinare deve fare i conti con le trasformazioni metodologiche.
Non solo come psicologi, ma anche come docenti e come formatori siamo tenuti ad interrogarci sulle questioni di fondo, per non correre il rischio di attraversare una crisi identitaria senza essercene accorti. Nelle cose stabili alberga già il seme del cambiamento, come ci insegna Lao-Tse.
Anche se spostiamo il livello di osservazione dal singolo uomo all’organizzazione, dobbiamo interrogarci sulla capacità dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni di leggere e di tradurre il sistema valoriale aziendale a favore del committente.
Il punto di frattura è tra i bisogni psicologici degli utenti e i bisogni psicologi dell’organizzazione, poiché le due finalità non sempre coincidono.
È sempre più difficile ancorarsi al qui ed ora, su questa zattera così fragile. Dobbiamo ritrovarci e costruire ancora, riprovarci, continuare sul sentiero tracciato da Fromm, Jung, Freud, e molti altri studiosi, per non essere afferrati dall’idea che tutto sia inutile. Stabilire una rotta, costruire nuove mappe, anche se sembra tutto molto sfilacciato, incompleto, incompreso.
Nuovi modelli, antiche forme di cooperazione. Immagini fondate sul dono, sulla bellezza.
Appare anche difficile giungere a una qualche conclusione coerente di questo piccolo percorso che, volutamente, è stato frammentario, proprio perché voleva dare l’idea della complessità, e ricchezza, delle relazioni tra queste discipline. Se tuttavia un epilogo si deve trarre da questo rapido viaggio, esso può bene essere espresso da una frase di Karl Popper del 1912: «Se psicoanalisi ed etica rinunzieranno ad ogni disputa nominalistica e a ogni diatriba ideologica, e sapranno collaborare nel futuro, i risultati non potranno che essere eccellenti.»[6] Cento anni dopo non sappiamo ancora se le cose siano andate così.
«Non vi è frattura tra lavoro e gioco, tra lavoro e cultura. Il modo in cui l’artigiano si guadagna da vivere determina e influenza il suo intero sistema di vita».[7]
[4] Amartya Sen nacque nel 1933 a Santiniketan (in Bengala): divenne docente presso l’università di Calcutta, presso il Trinity College di Cambridge, poi a Nuova Deli, alla London School of Economics, a Oxford e, successivamente, all’università di Harvard. Nel 1998, pur mantenendo la sua carica di docente ad Harvard, ha fatto ritorno come rettore al Trinity College. Presidente della Economic Society, della International Economic Association, della Indian Economic Association, a Sen è stato conferito il Premio Nobel per l’economia nel 1998. Egli è autore di numerosissime opere, delle quali meritano sicuramente di essere ricordate Collective Choice and Social Welfare (1971), On Economic Inequality (1973), Commodities and Capabilities (1985), Etica ed Economia (1987), Inequality Reexamined (1992), Lo sviluppo è libertà (1999), Globalizzazione e libertà (2002).
[5] Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, p. 312
[6] Karl Popper: “Never let yourself be goaded into taking seriously problems about words and their meanings. What must be taken seriously are questions of fact, and assertions about facts: theories and hypotheses; the problems they solve; and the problems they raise” (Popper K., 1992, p.16)
[7] C. Wright Mills 1951 p. 220, citato da Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea, p. 175).
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La libertà individuale non è un bene della civiltà.Era massima prima di ogni civiltà,e però allora era per lo più senza valore, perché l’individuo non era praticamentein grado di difenderla.Sigmund Freud
INTRODUZIONE
Mi hanno sempre colpito i racconti di coloro che, tornando dai paesi del cosiddetto terzo mondo, sono assolutamente meravigliati di come gli abitanti di questi paesi si mostrino sorridenti e solari pur vivendo in baracche, scalzi e senza la sicurezza di un pasto; un commento amico sintetizza al meglio quanto sto cercando di dire: “Non capisco come sia possibile per questi bambini, che per avere una Coca Cola devono fare quattro chilometri a piedi nudi nella foresta, divertirsi e ridere spensierati. Penso ai miei figli col broncio perché non hanno l’ultimo gioco per la playstation o che piangono perché la carne ha troppi “grassini!”.
La definizione terzo mondo afferisce alla sfera economica che per molti aspetti porta con sé anche lo sviluppo sociale (maggiori risorse economiche si traducono spesso in maggiori servizi e quindi alla maggiore vivibilità di un determinato sistema sociale) ma non necessariamente è legato al benesserepsichico inteso come massima libertà percepita nella realizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche.
Nel terzo mondo gli individui vivono in condizioni che ricordano molto quello che noi chiamiamo Uomo Primitivo ma sembra che siano più sereni o quanto meno si può dire, in proporzione, che noi del primo mondo siamo molto meno sereni di quello che dovremmo essere.
Questo lavoro si pone come obiettivo quello di confrontare criticamente lo stile di vita dei nostri progenitori con il nostro del XXI Secolo cercando di capire cosa è cambiato, perché è cambiato e con quali conseguenze per il nostro benessere psichico; per far questo prenderò in considerazione alcuni contributi storici ed altri che danno una lettura della situazione sociale in chiave psicoanalitica.
INIZIAMO DAI PRIMITIVI
CHI ERANO?
Per iniziare penso sia opportuno descrivere brevemente, senza quindi partire da troppo lontano, i passi evolutivi che hanno portato l’uomo ad essere quello che è oggi.
2,4 milioni di anni fa si affacciava l’homo habilis capace già di utilizzare utensili: il suo cervello, ormai, era cresciuto nelle sue dimensioni fino a circa 800 cc e grazie allo sviluppo dell’area di Broca è possibile pensare che fossero in grado di utilizzare una prima forma di linguaggio (Cianti, 2010).
L’Homo Erectus compariva circa 1,8 milioni di anni fa per rimanere in auge circa per un milione e mezzo di anni: i resti fossili ci fanno capire che era un potente guerriero, esploratore, abile cacciatore ed inventore grazie anche ai suoi 1200 cc cerebrali. È stato il primo ad addomesticare il fuoco, sviluppando quindi ulteriormente gli utensili e viaggiando anche fino in Cina e nel sud Est asiatico (Cianti, 2010).
300 mila anni fa l’homo sapiens, con la sua postura retta ed il suo cervello pienamente sviluppato, faceva da ponte verso quello che sarà l’homo sapiens sapiens. Circa 150 mila anni fa compariva l’homo sapiens Neandertalensis che pur avendo un cervello più capiente dell’uomo moderno per circa l’8%, un’altezza di 160 cm ed uno scheletro poderoso, scomparve misteriosamente forse sterminato proprio dall’homo sapiens (Cianti, 2010).
Ecco che 120 mila anni – 180 mila anni fa compare l’uomo moderno, il sapiens sapiens, riconosciuto in due razze il Cro-Magnon ed il Combe Capelle; dall’analisi del DNA non emergono mescolanze con specie di homo più arcaiche: si tratta quindi di un uomo nuovo (Cianti, 2010).
COSA FACEVANO?
Già in questo paragrafo potranno emergere i primi spunti riflessione dettati da un confronto, che viene del resto immediato, con l’homo moderno. I resti fossili avvicinano molto il comportamento dei primitivi con quello degli animali che si muovono in branco: cacciano se hanno fame, una volta saziati si dedicano all’ozio ed alla cura della prole, si accoppiano quando le stagioni e la disponibilità di cibo lo consentono e si ingegnano in nuove scoperte spinti da curiosità; si intuisce subito che è l’individuo con le sue esigenze ad essere al primo posto poiché:
“E’ infatti l’individuo il vertice della evoluzione. È lui che porta dentro di sé i geni da trasmettere, è in lui che avvengono tutte quelle mutazioni casuali delle quali li più idonee serviranno alla specie per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente” (Cianti, 2010, p.121)
Ma per poter garantire al meglio l’evoluzione l’homo deve essere, e sentirsi, libero di muoversi, di spostarsi di pensare e di esprimere al meglio le proprie potenzialità realizzando i suoi intenti: molti esperimenti dimostrano che animali, tra cui l’uomo, privati di questa libertà si ammalano e spesso si lasciano morire. In questo senso Erich Fromm, sociologo e psicoanalista della seconda metà del ‘900, parla chiaro:
“[…] libertà non consiste nel laissez-faire e nell’arbitrio. Gli esseri umani hanno una struttura propria al pari di ogni altra specie e possono crescere soltanto in conformità a tale struttura. Libertà non significa affrancamento da tutti i principi guida, bensì possibilità di crescere secondo le leggi strutturali della esistenza umana, vale a dire secondo restrizioni autonome. Essa comporta l’obbedienza a leggi che governano lo sviluppo umano ottimale; ogni autorità che favorisca tale scopo è un’ “autorità razionale”, a patto che la sua attività promotrice consista nel potenziare il dinamismo, il pensiero critico e la fede nella vita del bambino; è invece un’ “autorità irrazionale” quando imponga al bambino norme eteronome che servono ai propositi dell’autorità, non però agli scopi della struttura specifica del bambino” (Fromm, 1977, p. 95)
La vita in branco, o meglio in tribù, non modificò affatto questa libertà primitiva poiché, essendo stata raggiunta con secoli di evoluzione, era funzionale alla sopravvivenza: avendo perso ormai la capacità di arrampicarsi rapidamente sugli alberi, a causa della postura definitivamente eretta e della scomparsa degli artigli, era necessario unirsi in gruppo (tribù) per fronteggiare i grandi predatori rendendo così la caccia più proficua e funzionale.
COME VIVEVANO?
Queste tribù avevano ancora una struttura relativamente semplice composta da pochi individui e scarse distinzioni sociali. Sulla base della disponibilità di selvaggina si distinguono Società a ritorno immediato (scarsa disponibilità), e Società a ritorno ritardato (maggiore disponibilità) (Cianti, 2010); nella fattispecie nel primo caso le principali caratteristiche sono:
Cibo consumato immediatamente;
Gruppi non stabili e nomadi;
Nessuna istituzione, regole semplici e flessibili, strettamente egualitaria;
Impegni a breve scadenza, individualismo ed indipendenza;
Condivisione del cibo e degli strumenti, sanzioni a chi accumula proprietà personali;
Accesso libero al territorio.
Nel secondo caso invece:
Il cibo in eccesso viene lavorato e conservato;
i gruppi non sono stabili, restano però legati strettamente e sono parzialmente nomadi;
esiste un capo, un consiglio di saggi, regole complesse ed un ordine superiore di legami come i clan, le fratrie e le parti;
Impegni e legami sono considerati importanti;
esiste la proprietà del cibo e delle donne, c’è scarsa condivisione;
il territorio resta libero ma è controllato, nasce la proprietà su alcune risorse.
Anche Fromm (1975) arriva ad affermare che, con molta probabilità, le situazioni di caccia potrebbero aver generato nuovi schemi di comportamento come ad esempio collaborare e condividere altre cose poiché, appunto, la collaborazione fra i membri di una tribù era una condizione fondamentale: se questo fosse vero ne deriverebbe che “l’uomo moderno ha un impulso innato di collaborazione, di compartecipazione, piuttosto che di uccidere e di infliggere crudeltà (Fromm, ibidem, p. 178). M.D. Sahlins (1960) sottolinea che le necessità di adattamento hanno fatto subordinare al primate certe sue inclinazioni come il predominio e la competizione brutale a favore di collaborazione, moralità e solidarietà, elementi che emergono anche nell’arte rupestre dove infatti tra gli episodi di vita raffigurati brillano per loro assenza scene di guerra fra uomini. Tutto ciò entra profondamente in conflitto con il nostro modo di vedersi nel mondo dove della nostra economia ci porta a pensare ad un uomo che naturalmente è incline a trafficare, barattare o accumulare avidamente comprando possibilmente a buon mercato “facendo l’affare” e rivendendo massimizzando il profitto in barba alla solidarietà (Service, 1966).
LE RELAZIONI SOCIALI
Prima di tutto è necessario precisare che, trattandosi di una dimensione di tribù:
“[…] sono le relazioni sociali strette a prevalere, le emozioni dell’amore, il codice della vita familiare, la moralità dettata dalla generosità condizionano tutte insieme l’atteggiamento verso le merci, in modo da ridurre il comportamento economico” (Service, 1966)
Non ci stupisce, quindi, che le relazioni sociali nelle società primitive siano prive di ogni forma di dominanza ed anche coloro che arrivano ad assumere uno status o un prestigio superiori si distinguono per generosità e modestia; gl’unici riconoscimenti che gli spettano sono l’amore ed il rispetto degli altri. Inoltre la struttura sociale non prevede una leadership formalizzata, tipico degli stadi successivi dello sviluppo culturale, quindi la carica di capo non esiste ma passa da una persona ad un’altra a seconda della necessità. Fromm sottolinea come ci sia enorme differenza fra le culture che incoraggiano avidità, invidia e sfruttamento e culture che invece si muovano in senso opposto: se nel primo caso queste caratteristiche andranno a formare il “carattere sociale” e quindi una sorta di sindrome della maggioranza, nel secondo caso invece saranno solo aberrazioni individuali dalla norma con poca influenza sul resto della popolazione (Fromm, 1975). Questa tipologia di rapporti sociali dimostrano che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza- sottomissione (ibidem): ma come si proteggeva quindi dai membri socialmente pericolosi? Gran parte del controllo era raggiunto attraverso le norme e le usanze e qualora non bastassero a prevenire comportamenti socialmente sconvenienti erano previste sanzioni come: isolamento, mostrare minore cortesia, derisione e nei casi limite l’ostracismo, usanza arrivata almeno fino all’Antica Grecia.
In altre società di cacciatori si poteva arrivare anche al duello:
“Quando la disputa è fra un accusatore e un accusato, come succede di solito, l’accusatore ritualmente scaglia le lance dalla distanza prescritta, mentre l’imputato cerca di evitarle. Il pubblico può applaudire la velocità, la forza e la precisione dell’accusatore mentre scaglia le lance, oppure l’abilità con cui l’imputato le schiva. Dopo un certo tempo si raggiunge l’unanimità, dopo che si è delineata l’approvazione per l’uno o per l’altro. Quando l’imputato si rende conto che la comunità lo sta giudicando colpevole, deve lasciarsi ferire (non uccidere, ndr) in qualche parte carnosa del corpo. Viceversa, l’accusatore interrompe semplicemente i suoi lanci quando capisce che l’opinione pubblica è contro di lui (C.,W.,M., Hart, A.,R., Pilling, 1960; corsivo mio)
Ancora M.D. Sahlins ha contestato la premessa su cui è fondata l’aggressività dei cacciatori primitivi ovvero la penuria ed una continua condizione di fame; egli ritiene, al contrario, che quella dei cacciatori fu la prima società affluente ovvero quella società in cui vengono soddisfatti tutti i bisogni. Non dobbiamo, però, leggere questa condizione nell’ottica consumistica della modernità poiché queste popolazioni producevanomolto e desideravanopoco raggiungendo quindi presto la prosperità.
LA RIVOLUZIONE AGRICOLA: L’EVOLUZIONE?
Dopo che l’uomo preistorico ebbe scopertoche era in mano sua – inteso così letteralmente – migliorarela sua sorte sulla Terra, non poté più essergli indifferenteche un altro lavorasse con lui o contro di lui.
Sigmund Freud
Come ci si è arrivati e le conseguenze
Possiamo datare l’inizio della rivoluzione agricola circa 150.000 anni fa, nel momento in cui i sapiens abbandonarono il continente africano per diffondersi sull’intero pianeta iniziando dalla mezzaluna fertile ovvero l’attuale Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano ed Israele. In questa parte del pianeta l’orzo ed il grano selvatico crescevano spontaneamente e questo permise all’uomo di passare da una condizione di nomadismo ad una stanzialità permanente con tutta una serie di conseguenze che cercheremo di vedere nel dettaglio.
La prima di queste è sicuramente che l’uomo, una volta capito che piantando i semi del grano questo ricresceva, iniziò a rendersi indipendente dalla natura producendo qualcosa in più di ciò che la natura stessa gli aveva dato. Quindi da un punto di vista psicologico questi cambiamenti fornirono all’uomo una nuova prospettiva poiché capì che con la sua volontà poteva determinare il corso degli eventi (semino e la pianta cresce) e non soltanto il “caso”. Fromm (ibidem, p.197) arriva a ipotizzare che “la scoperta della agricoltura possa essere alla base di tutto il pensiero scientifico e dei successivi sviluppi tecnologici”.
Altre conseguenze secondarie ma solo in ordine di tempo, portarono all’allargamento degli allevamenti, iniziando ad accumulare cibo e dando così alla popolazione la possibilità di crescere: deriva anche da questo l’esigenza di iniziare a riconoscere e regolamentare la proprietà privata riducendo pian piano sempre più la libertà di cui fino ad allora aveva goduto il primitivo-cacciatore.
Ma quale può essere il motivo di questa svolta epocale? Si sono fatte varie ipotesi:
“Secondo alcuni i cambiamenti climatici conseguenti alle ultime glaciazioni favorirono lo sviluppo massivo di graminacee che indusse gli uomini a nutrirsene, ma questa tesi non tiene conto del fatto che l’agricoltura sorse in ogni clima e già da 200.000 anni l’uomo conosceva e occasionalmente si nutriva dei semi di queste erbe. Secondo altri la rivoluzione dipese dall’estinzione delle grandi prede come i mammouth ad esempio e dall’incremento demografico. Non ci sono però segni di carestie nel Paleolitico e l’incremento della popolazione fu successivo alla agricoltura. altri ipotizzano la nascita di nuovi bisogni come quella della proprietà dei beni o il desiderio di un più elevato status sociale. Ma i preistorici avevano già monili ed ornamenti di ogni genere e la gerarchizzazione sociale fu una conseguenza, non la causa della agricoltura. Più convincente appare la prospettiva biologica teorizzata da Wadley e Martin (1993) se non altro perché spiega l’accettazione delle tristi condizioni della agricoltura. La presenza nel frumento di esorfine, sostanze oppiacee, analgesiche, ansiolitiche, e gratificanti in grado di modificare il tono dell’umore sarebbe servita a mitigare il drastico cambiamento. Le esorfine danno assuefazione e provocano crisi di astinenza, ma la quantità presente nei cereali non comprometteva il lavoro mentre ne compensava le frustrazioni. Sicuramente fu arduo per l’uomo come d’altronde lo è adesso, accettare la promiscuità degli insediamenti, la fatica spesa a beneficio di estranei non consanguinei e la subordinazione imposta.
[…] Se non ci sono state influenze esterne come mai l’agricoltura è nata contemporaneamente e con gli stessi criteri in ogni parte del mondo, da gruppi di umani che non avevano nessun contatto fra di loro?”
(Cianti, 2010, p. 146, corsivo mio)
Riassunti in una breve tabella ecco i pro ed i contro della rivoluzione agricola (Cianti, 2010, p. 155):
PRO
CONTRO
Nascita della civiltà. Molte menti libere dall’affanno del cibo (non food specialists) si dedicano alla produzione di beni e di pensiero;
Cibo per tutto anche se di scarso valore nutritivo;
diminuità mortalità infantile;
Sopravvivenza dei più.
Peggioramento della salute;
inquinamento;
Sviluppo demografico eccessivo;
Cibo ottenuto con grande dispendio di energia. Ritmi naturali stravolti;
Grande riduzione del tempo libero;
Individuo, libertà, famiglia e società perdono il loro valore naturale.
Le prime forme di Civiltà ed il ruolo centrale della Madre
Il surplus di cibo permise ad una ristretta cerchia di persone di non impegnarsi nella caccia rimanendo libera da obblighi per la sopravvivenza e, quindi, nella possibilità di impegnarsi in altri ruoli: non solo artigiani, soldati e burocrati ma anche e soprattutto menti libere di pensare per scoprire ed inventare ovvero gli specialisti non-food fondamento della civiltà (Cianti, 2010).
Dal 1961 in poi scavi archeologici hanno portato alla luce le rovine di Catal Hüyük, una delle città più antiche dell’Anatolia; una delle sue caratteristiche più sorprendenti è il grado di civiltà che vedeva già la presenza di suppellettili di lusso come specchi di ossidiana, pugnali di metallo ma anche recipienti di legno di varie dimensioni e di varia raffinatezza. Nonostante ciò sembra, che le strutture sociali mancassero degli elementi caratteristici degli stadi successivi dell’evoluzione. Mellaart (1967) sottolinea che nonostante l’evidente grado di sviluppo anche dell’artigianato, il lavoro e le sue regole erano pubbliche e derivavano dall’esperienza comunitaria: ancora una volta mancano le premesse per la formazione di una leadership permanente che organizzi, previo ricompensa, l’intera organizzazione economica. Questo si verificherà soltanto in seguito quando il surplus sarà tale da poter essere trasformato in capitale i cui proprietari potranno far lavorare gli altri per loro. Ma intanto, parlando di struttura sociale, una delle caratteristiche fondamentali dei villaggi neolitici è il ruolo centrale della madre: infatti se gli uomini si dedicavano solo alla caccia e le donne alla raccolta delle radici e dei frutti è probabile che l’agricoltura sia stata scoperta dalle donne mentre l’allevamento del bestiame sia stato sviluppato ed organizzato dagli uomini. Automaticamente la capacità di dare la vita, propria della terra e della donna e assente nell’uomo, mise subito la madre in una posizione di supremazia sia sociale che religiosa:
“[…] i misteri della donna come ad esempio la fertilità, costituivano una parte della vita degli uomini neolitici e paleolitici ed erano alla base del potere del matriarcato. Gli uomini primitivi hanno dovuto calcare gli aspetti del matriarcato sui loro manufatti per poter meglio comprendere i suoi poteri e quindi separarsi da esso: il loro compito psicologico è stato quello di recepire i significati in modo da potersi individuare”
(McCully, 1988, corsivo mio)
Altro elemento che testimonia questo ruolo di assoluta centralità della donna è l’arte rupestre: nella sola Catal Hüyük su quarantun sculture affiorate dagli scavi ben trentatré raffiguravano dee sole, o magari con un maschio, o incinte, o mentre partorisce ma mai in subordinazione ad un uomo:
“Spesso la dea-madre è accompagnata da un leopardo, vestita di pelle di leopardo, oppure rappresentata simbolicamente da leopardi, che allora erano gli animali più feroci e pericolosi della regione. Così veniva vista come la signora degli animali selvaggi, e si metteva in luce l suo ruolo di duplice dea della vita e della morte come molte divinità femminili” (Fromm, 1975, p.201)
Ma ciò che più stupisce è il fatto che i dati raccolti dagli scavi ci parlano di società matriarcali assolutamente non-aggressive e pacifiche e ciò, secondo J.J. Bachofen (1949), è dovuto nello spirito di affermazione della vita e nell’essenza di distruttività propria della sfera femminile:
“Il primo rudimento della civiltà umana, il punto di partenza per ogni virtù e per ogni più alto aspetto dell’esistenza, è invece il fascino promanante dal principio materno, il quale, in una vita piena di violenza, dovette apparire come il principio divino dell’amore, dell’unità e della pace. […] Una tale disposizione d’animo propizierà un modo di sentire più alto, propizierà ogni azione benefica, ogni dedizione, ogni disciplina, ogni pietà sui morti. […] Come al principio del paterno è proprio il limite, quello del materno è propria invece l’universalità; come quello implica l’appartenenza ad un’unità determinata, così questo non conosce limitazioni, simili, in ciò, alla vita stessa della natura. […] La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che ritrova nei primordi, a contrassegnare la vita matriarcale di contro a quella superiore dello spirito.”
(Bachofen, 1949)
Questa ipotesi attirò pesanti critiche da parte degli antropologi dell’epoca per due ordini di motivi: il primo perché, ormai inseriti in una società patriarcale, era impossibile per loro stravolgere gli schemi di riferimento sia sociali che mentali ed accettare che la dominanza maschile non fosse la prassi (del resto Freud era figlio di questa società ed arrivo a concepire la donna come unuomo castrato (Fromm, 1975)), ed il secondo perché le prove a sostegno di questa ipotesi si basavano su miti e drammi senza portare niente di concreto e reale come scheletri, vasi, utensili, armi, ecc.
LA RIVOLUZIONE URBANA: L’INVOLUZIONE?
Ci sono singoli uominia cui non manca la venerazione dei loro contemporanei,sebbene la loro grandezza riposi su doti e operedel tutto estranee alle finalità della massa.
Sigmund Freud
Nel quarto e nel terzo millennio lo sviluppo di insediamenti stabili portò ad una centralizzazione dei piccoli villaggi in città sempre più popolose; crebbero, quindi, le esigenze anche da un punto di vista logistico: fu necessario scavare canali per irrigare i campi e drenare le paludi, si costruirono argini e terrapieni per prevenire i disastri di possibili inondazioni, ecc.
Anche la struttura sociale cambiò in virtù del fatto che per questo tipo di lavori occorreva una forza-lavoro specializzata che si preoccupasse solo di quello; a sua volta, quindi, era necessario che altre persone coltivassero la terra anche per loro e che qualcuno, una élite, pianificasse, proteggesse e controllasse che tutto fosse svolto secondo quanto deciso. Questo portò una accumulazione di surplus di gran lunga superiore rispetto a quella dei primi villaggi del neolitico: per la prima volta questo surplus non aveva più il ruolo di riserva per i momenti di bisogno ma diventava capitale per una produzione in espansione. Ma ci fu un altro cambiamento importante:
“La società aveva assunto un eccezionale potere di coartare i suoi membri. La comunità poteva negare ad un membro recalcitrante l’accesso all’acqua chiudendo i canali che passavano per i suoi campi. Questa possibilità di coercizione fu una delle basi sulle quali si fondò il potere dei re, dei sacerdoti e dell’élite dominante, una volta che riuscirono a sostituire o, in prospettiva ideologica, a “rappresentare” la volontà sociale. […] Si scoprì che l’uomo poteva essere usato come strumento economico, che poteva essere sfruttato e reso schiavo”
(Fromm, 1975, pp.207-208)
Come si è già, forse, potuto intuire comparve la suddivisione in classi: una parte privilegiata dirigeva ed organizzava in cambio del mantenimento di un tenore di vita esagerato ed inaccessibile al resto della popolazione ovvero i contadini e gli artigiani. L’ultimo livello nella scala sociale era riservato agli schiavi ed ai prigionieri di guerra.
La scoperta dal capitale portò alla legittimazione del sistema di produzione della conquista come modo per assoggettare popolazione limitrofe guadagnando così anche i loro possedimenti. Lo strumento di conquista per eccellenza fu, ovviamente, la guerra che nasceva dalla contraddizione di fondo di un sistema economico che se da un lato aveva esigenze di unificazione per raggiungere una funzionalità ottimale, dall’altro iniziava a scontrarsi con le separazione politiche e le lotte dinastiche per la gestione del potere:
“La brama di possesso non può non condurre a una guerra di classi senza fine. L’affermazione dei comunisti , che il loro sistema metterà fine alla lotta di classe in quanto abolirà le classi, è pura illusione, dal momento che anche il loro sistema si basa sul principio del consumo illimitato quale scopo dell’esistenza. Finché ciascuno aspira ad avere di più (incrementando quindi il capitale, ndr), non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.
(Fromm, 1977, p. 17)
Quindi l’origine della guerra non si ebbe da fattori psicologici come l’aggressività umana ma in condizioni in cui, a prescindere dalla brama di potere dei burocrati, la guerra era utile e per la quale però, ma solo secondariamente, si vedeva necessario generare e accrescere la distruttività e la crudeltà umane.
Il ruolo non più centrale della Madre: il Patriarcato
Questi cambiamenti socio-economici spostarono il focus dalla creazione della vita e dalla fertilità del suolo al pensiero astratto e meditativo, all’intelletto necessario per nuove invenzioni, per nuove tecniche per le costruzioni e per le guerre. Il mito espresso nell’inno babilonese alla creazione chiarisce bene la portata del cambiamento:
“Questo mito descrive la ribellione vittoriosa degli dei maschili contro Tiamat, la “Grande Madre”, che governava l’universo. Essi formarono un’alleanza contro di lei e scelgono Marduk come Capo. Dopo una lotta durissima, Tiamat viene massacrata, dal suo corpo si formano cielo e terra, e Marduk impera come dio sovrano. […] Il senso della prova è quello di dimostrare che l’uomo ha superato la sua incapacità di creazione naturale – prerogativa della terra e della femmina – con una nuova forma di creazione, la parola (il pensiero). La storia biblica comincia dove finisce il mito babilonese: il dio maschio crea il mondo con la parola” (Fromm, 1975, pp.209-210)
Si passò quindi al principio della norma patriarcale di governo della società in cui è fondamentale l’elemento del controllo: della natura, degli schiavi, delle donne, dei bambini. Quindi un controllo che non si limita alla natura ma l’uomo, e non la donna, arriva a controllare sé stesso e a questo punto la leadership cambia:se prima era accettata volontariamente perché fondata su competenza e quindi razionale (Fromm, 1975), adesso il patriarcato ne impone una basata sulla forza, sul potere, sullo sfruttamento, mediata dalla paura e dalla sottomissione e quindi irrazionale (Fromm, ibidem). Mumford (1963) sottolineò che questo nuovo mondo urbano se da un lato era efficiente, preciso e rigoroso, dall’altro si dimostrava sadico con una inspiegabile, almeno fino ad allora, necessità, da parte dei monarchi, di ostentare monumenti o tavolozze in cui erano raffigurate le loro imprese; Fromm commenta così:
L’esperienza clinica in terapia analitica mi ha portato da parecchio tempo alla convinzione che l’essenza del sadismo è la passione per un controllo illimitato, pseudo-divino su uomini o cose. […] Nella nuova civiltà urbana, oltre al sadismo, si sviluppa la passione per distruggere la vita e l’attrazione per tutto quanto è morto necrofilia (Fromm, 1975, p. 211)
Per concludere Mumford (ibidem) fa anche un’altra considerazione molto pertinente notando che ogni civiltà storica inizia sempre con un nucleo vivo, urbano, frizzante, si pensi alla pòlis, e termina in una fossa comune con necropoli e paesaggi apocalittici.
La rivoluzione industriale
Facendo un enorme passo avanti a livello cronologico arriviamo alla seconda metà del Settecento: fino ad ora l’agricoltura, che ovviamente si è col tempo evoluta affinando le conoscenze e le tecniche di coltivazione, l’ha fatta da padrona anche se si sono susseguiti regni, guerre e carestie. A partire dal 1780 il settore dell’industria crebbe a dismisura e la produzione di beni, che fino a quel momento non era stata in grado di tenere il passo con lo sviluppo demografico, divenne più rapida andando a migliorare alcuni aspetti della vita della gente. La crescita delle possibilità occupazionali data dall’industria portò ad una lenta emigrazione dalla campagne e, quindi, ad un sovraffollamento delle città che non erano ancora in grado gestire una grande mole di persona da un punto di vista alimentare ed igienico sanitario: tutto questo fu aggravato dal fatto che l’impiego di combustibili fossili, carbone e petrolio aggravò pesantemente l’inquinamento ambientale e l’agricoltura che mancava sempre più di forza lavoro fu costretta ad industrializzare la produzione adeguandola ad esigenze strumentali senza rispettare le necessità legate ai terreni che si impoverivano progressivamente.
Da un punto sociale questo nuovo assetto accentuò la frattura sociale fra capitale e forza lavoro e l’industria per alimentarsi iniziò a creare nuovi e superflui bisogni imponendo la domanda per beni non indispensabili.
Riepiloghiamo, quindi, i pro ed i contro della rivoluzione industriale (Cianti, 2010, p. 156):
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Infatti benché le differenze tra gli individui appaiano sotto questo aspetto grandi,ogni società è caratterizzata da un certo livello di individuazioneal di là del quale l’individuo normale non può andare.
Erich Fromm
La critica di Freud alla Civiltà
Credo possa essere opportuno iniziare della definizione che Freud (1949) dà della civiltà ovvero «la somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l’uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra di loro».
L’autore arriva a questa definizione cercando di trovare la fonte della infelicità dell’uomo e ne individua tre: lo strapotere della natura, la fragilità del corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano i rapporti fra uomo e famiglia, fra Stato e Società. A partire da questa insoddisfazione si è creato il terreno da cui poi, in varie occasioni storiche, si è elevata una condanna. La prima è la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni pagane (Freud, ibidem) ma non è questo il contesto per approfondire questo aspetto, la seconda si ebbe con il perfezionarsi dei viaggi di esplorazione che permisero di entrare in contatto con popolazioni e tribù primitive anche se un’interpretazione erronea dei loro usi e costumi portò gli europei a credere che costoro conducessero una vita semplice e felice, con pochi bisogni ma assolutamente irraggiungibile per loro culturalmente superiori, infine, la terza ed ultima occasione, si ebbe con la scoperta del meccanismo della nevrosi: l’uomo iniziò a diventare nevrotico in risposta alla dose di frustrazione che la società gli impose per servire i suoi ideali civili e come immediata e sciagurata reazione si pensò alla possibilità di eliminare o ridurre queste frustrazioni tornando quindi ad essere felici.
Alle tre fonti di infelicità individuate in precedenza dobbiamo aggiungerci anche una profonda delusione per aver preso coscienza del fatto che i progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche non ha aumentato affatto la quantità di piacere, soddisfazione e benessere percepito:
Il raggiungimento del benessere e delle comodità per tutti avrebbe avuto come risultato, così si credeva, la felicità senza restrizioni per tutti. La trinità composta da produzione illimitata, assoluta libertà e felicità senza restrizioni venne così a formare il nucleo di una nuova religione quella del Progresso: una Nuova Città terrena del Progresso si sarebbe sostituita alla Città di Dio. L’imponenza della grande promessa, le stupende realizzazioni materiali ed intellettuali dell’era industriale devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento. […] Il fallimento della Grande Promessa, […] è intimamente connesso al sistema industriale in ragione dei due principali presupposti psicologici della Grande Promessa stessa: 1. che lo scopo della vita sia la felicità, vale a dire il massimo piacere, inteso quale soddisfazione, di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere (edonismo radicale); 2. che l’egotismo, l’egoismo e l’avidità, che il sistema non può fare a meno di generare per poter funzionare, conducono all’armonia ed alla pace.
(Fromm, 1977, pp. 12-13)
Proseguendo nella sua dissertazione Freud si chiede perché non possiamo essere felici di alcuni progressi che, di fatto, sembrano aver migliorato le condizioni di vita umane? Fa riferimento ad invenzioni come il telefono, le ferrovie, le navi che permettono traversate oceaniche, allo sviluppo della medicina preventiva e quindi la riduzione della mortalità infantile, ecc. ma proprio in relazione a questa si chiede, provocatoriamente, in cosa può giovarci se come rovescio della medaglia:
[…] ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell’igiene, sottoponendo d’altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morta come la nostra sola liberatrice? (Freud, 1949 in 2010, p. 112)
La critica alla Civiltà Moderna, da parte dell’autore viennese, continua prendendone in considerazione singoli aspetti secondo lui peculiari come ad esempio la cura per le cose inutili e l’ordine da cui nascono giardini con funzione di serbatoi di ossigeno (Freud, 1949), aiuole fiorite e tutto quanto necessario per onorare la bellezza e la pulizia e si stupisce del fatto che, riconoscendo i vantaggi di una condotta ordinata ed igienica, l’uomo sia vinto, tuttavia, dalla tendenza naturale alla trascuratezza, all’irregolarità ed all’inaffidabilità rendendo necessario un lungo e coercitivo percorso di educazione per essere avvicinato ai modelli celesti (Freud, ibidem): secondo lui il legame pulizia-igiene era conosciuto dall’uomo anche prima dell’era della profilassi scientifica ma l’utilità non spiega la grande importanza che gli riserviamo e per cui deve essere in gioco qualcosa d’altro (Freud, ibidem). Probabilmente qui Freud intende riferirsi ad aspetti nevrotici della psiche dell’uomo che iniziarono ad emergere in coincidenza con i grandi cambiamenti dello stile di vita dettati dalle esigenze di inurbamento. Se ci pensiamo bene questo può essere rintracciato anche ai giorni nostri: l’offerta di prodotti per la pulizia della casa e per l’igiene personale ha raggiunto una varietà tale da far pensare che le industrie produttrici, che decidono di investire a tal punto in marketing e produzione, devono aver colto una qualche forma di debolezza su cui lucrare: ciò non è sicuramente dannoso per noi individui ma se allarghiamo l’attenzione all’impatto ambientale le prospettive cambiano in modo radicale. Personalmente mi hanno sempre colpito gli spot (sia video, sia in cartaceo con immagini talvolta inquietanti) che pubblicizzano prodotti anti-acaro facendoti vivere la inevitabile necessità di proteggerti da questo animale invisibile che minaccia la tua salute: fermo restando che obbiettivamente la presenza dell’acaro è dannosa mi sono sempre chiesto, con approccio totalmente ascientifico, come facessero negli anni ’70 senza questi prodotti e come sia stato possibile che l’uomo sia sopravvissuto per tutto questo tempo ignorando la presenza di questo invisibile nemico. I danni che lui provoca all’uomo credo possano avere pari dignità rispetto a quelli provocati all’uomo dallo smog.
Un’altra caratteristica della nostra Civiltà che Freud prende in considerazione è la regolamentazione dei rapporti fra gli uomini reso necessario dal fatto che, in assenza di una quale regola, finirebbe per vincere il più forte scatenando un regime di lotta intraspecie permanente. Per cui:
La coesistenza umana diventa possibile solo se si trova una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e faccia blocco contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si contrappone poi come “forza bruta”. Questa sostituzione del potere del singolo con quello della comunità è il passo decisivo a favore della civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, laddove il singolo non conosceva restrizioni del genere (o anche la tribù, almeno non in maniera così pesante) (Freud, 1949 in 2010 p. 118)
Ecco da qui nasce l’esigenza della Giustizia cioè la garanzia che l’ordinamento giuridico stabilito non sarà nuovamente infranto a favore di un singolo; col sacrificio di parte dei moti pulsionali di ciascun individuo si avrà la garanzia di non venire surclassati dalla forza bruta.
L’autore inizia qui un confronto fra lo sviluppo della civiltà e lo sviluppo pulsionale del singolo individuo. Il primo è caratterizzato da modificazioni dei moti pulsionali umani, la cui soddisfazione è il compito economico della nostra vita (Freud, ibidem): ma questo, nello sviluppo individuale, è già stato riconosciuto come sublimazione (delle mete pulsionali) ovvero trasferire il soddisfacimento dei moti pulsionali stessi su altri canali. È solo grazie a questo che nella civiltà emergono le attività psichiche superiori, scientifiche, artistiche ed ideologiche. Si ripensi a come sono nati, all’interno delle prime tribù, gli specialisti non food: il surplus alimentare ha permesso ad alcuni individui di cessare la naturale attività mirata a procacciarsi il cibo e concedersi più tempo e più risorse mentali in attività speculative di varia natura.
La natura delle relazioni sociali nella Civiltà
Il numero di Dunbar rappresenta il limite cognitivo entro il quale un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle quali un individuo conosce l’identità di ciascuna persona e come queste persone si relazionano con ognuna delle altre. Secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar un gruppo composto da, approssimativamente, più di 150 individui necessita di regole e leggi più restrittive per rimanere stabile e coeso.
Si pensi, quindi, alle conseguenze del passaggio da piccola tribù di cacciatori/raccoglitori prima e proto agricoltori poi, a grande comunità civile. Fromm, in questo senso spende parole molto importanti:
Le osservazioni dimostrano che, in libertà, i primati sono poco aggressivi, mentre nello zoo sono estremamente distruttivi. Questa distinzione è di importanza fondamentale per la comprensione della aggressività umana, perché, fin’ora nel corso della sua storia, l’uomo non è quasi mai vissuto nel suo “habitat naturale”, ad eccezione dei cacciatori, dei raccoglitori di cibo e dei primi agricoltori fino al quinto millennio a.C. L’uomo “civile”è sempre vissuto negli “zoo”, e cioè secondo una gamma di cattività e di non-libertà, e così vive tuttora, persino nelle società più avanzate (Fromm, E., ibidem, pp. 141-142).
Poco più avanti, sempre Fromm, continua:
È importante rilevare che, come dimostrano le prove, un ampio rifornimento di cibo non impedisce l’aumento di aggressività in condizioni di affollamento. Gli animali dello zoo londinese erano ben nutriti, eppure l’aggressività saliva a causa dell’affollamento. […] Dagli studi sull’aumentata aggressività dei primati in cattività […] l’affollamento è la condizione principale per il dilagare della violenza. […] Esiste forse una esigenza “naturale” per un minimo di spazio privato? Forse l’affollamento impedisce all’animale di esercitare il suo bisogno innato di esplorazione e libero movimento? Forse l’affollamento è sentito come una minaccia al corpo dell’animale che reagisce con l’aggressione? […] L’animale “privato-dello-spazio” può sentirsi minacciato da questa riduzione delle sue funzioni vitali e reagire con l’aggressione. Ma, secondo Southwich, la demolizione della struttura sociale di un gruppo animale costituisce una minaccia ancora peggiore. Ciascuna specie animale vive all’interno di una struttura sociale caratteristica. Gerarchico o no, è lo schema di riferimento cui si è adattato il comportamento animale. Condizione necessaria per la usa esistenza è un equilibrio sociale tollerabile, che, se distrutto dell’affollamento, rappresenta una forte minaccia per l’animale. […] Per chi è convinto che la soddisfazione di tutti i bisogni fisiologici debba bastare per instillare un senso di benessere nell’animale (e nell’uomo), questo tipo di vita (anche in uno zoo non affollato, ndr)dovrebbe essere l’optimum. Ma tale esistenza parassitaria li priva di quegli stimoli che permetterebbero un’espressione attiva delle loro facoltà fisiche e mentali; perciò spesso si annoiano, diventano apatici e depressi. (Fromm, E., ibidem, pp. 144-145)
Circa cinquanta anni prima di Fromm, Freud (1949) aveva sottolineato che è oramai inutile continuare a considerare l’uomo come un essere mite negando nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Egli ha sottolineato come quest’ultima sia un grande fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e come costringa la Civiltà ad un grande dispendio di forze per controllarla spingendo gli uomini in “identificazioni e rapporti amorosi con meta inibita, di qui le limitazioni della vita sessuale e di qui anche il precetto di amare il prossimo come se stessi” (ibidem). Più avanti nello scritto lo psicoanalista viennese legherà l’aggressività con la proprietà privata affermando che “il possesso di beni privati dà il potere, e quindi la tentazione di maltrattare il prossimo” (ibidem): ritorna quindi quanto scritto in precedenza in merito alla nascita delle prime forme di capitale e quindi della necessità di istituire la guerra non tanto per trovare un adeguato sfogo alla istintiva natura aggressiva umana (Fromm, 1975), quanto piuttosto per conquistare il capitale della vicina tribù.
Per concludere vorrei approfondire uno dei precetti ideali dei nostri tempi citato in precedenza: ama il tuo prossimo come te stesso. A questo punto è chiaro che la via dettata dal Cristianesimo non è praticabile dall’uomo se non a prezzo di grandissime frustrazioni. Si pensi, ancora, a come può vivere un individuo frustrato fino a tal punto oppure un individuo che avendo contravvenuto a questo precetto è costretto a convivere col senso di colpa per essere stato cattivo in un contesto storico-culturale che millanta buonismo in ogni dove. Freud (1949) si dilunga nello spiegare perché secondo lui il Cristianesimo pone una condizione utopica: egli ne fa una questione di merito, “se amo qualcuno questo qualcuno se lo deve in qualche modo meritare” (Freud, ibidem, p.131), ed inoltre considera anche l’amore in chiave narcisistica, “Lo merita se in cose importanti mi assomiglia tanto da far si che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me che io possa amare in lui l’ideale che ho di me stesso (Freud, ibidem, p.131). Quindi dà una lettura interpersonale di questo precetto sostenendo che non solo l’altro non merita il mio amore ma merita piuttosto il mio disprezzo poiché non pare avere il minimo riguardo nei miei confronti anzi non perde occasione per danneggiarmi e arrivando a dire che sarebbe più opportuno “[…] se quel grandioso precetto suonasse: ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te stesso”.
Personalmente ritengo che quanto indicato dal Cristianesimo sia destinato al fallimento perché fin dagli albori della sua esistenza l’essere umano ha sempre considerato prioritaria la sua sopravvivenza e quanto può sembrare dettato dall’altruismo a mio parere, e qui mi sento molto vicino a quanto sostenuto da Freud in precedenza, non è altro che una soddisfazione narcisistica dei propri moti pulsionali: da cacciatore solitario sento l’esigenza di unirmi in piccoli gruppi non tanto per sim-patia verso gli altri quanto perché, come abbiamo visto, gli adattamenti evolutivi rendevano per un singolo individuo più difficoltoso affrontare gli animali feroci: in gruppo avevo maggiori probabilità di raggiungere l’obiettivo di caccia, sfamarmi e quindi stare meglio; arrivando ai giorni nostri, sento la necessità di aiutare una persona in difficoltà perché la sua difficoltà risuona in me e mi provoca un tale stato di disagio che solo aiutandola riesco anche io a stare meglio (e per questo affronto anche un faticoso cammino formativo finalizzato ad utilizzare il mio disagio per aiutarla, arrivando a farne una professione).
Mi rendo conto che questa riflessione potrebbe congelare gli slanci caritatevoli dei benefattori del XXI secolo ma non mi si fraintenda, non sto affermando che non esistono fenomeni di solidarietà ai giorni nostri, sto solo dando a questi una lettura che si spinga oltre il fin troppo comune “lui/lei è sempre disponibile per tutti perché è proprio una brava persona”: ai miei occhi continua ad essere una brava persona ma la causa della sua disposizione d’animo la leggo, appunto, altrove.
Un caro amico una volta ebbe a dire: “Di consapevolezza non è mai morto nessuno!”
CONCLUSIONI
Alla fine di questa breve rassegna mi rendo conto di aver lasciato poco spazio alla speranza; del resto, però, l’esigenza di approfondire queste tematiche nasce, prima di tutto, dall’inevitabile confronto con la quotidianità che vede un incredibile escalation di aggressività agita intraspecie e poi dal fatto che gli individui che busseranno alla porta del nostro Studio proveranno proprio da questa Civiltà.
La speranza la può dare il cambiamento. Fromm, in Avere o Essere? (1977), si è posto il problema chiedendosi se è necessario prima cambiare la struttura economica e quindi la mente umana o viceversa, dandosi questa risposta:
“Partendo dal presupposto che la premessa risponda al vero, che cioè soltanto un mutamento sostanziale del carattere umano, vale a dire il passaggio dalla preponderanza della modalità dell’avere a una preponderanza della modalità dell’essere, possa salvarci dalla catastrofe psicologica ed economica, bisogna chiedersi: è davvero possibile una trasformazione caratteriologica su larga scala? E in caso affermativo, come fare a produrla? A mio giudizio, il carattere umano può mutare a patto che sussistano le seguenti condizioni:
Che si sia consapevoli dello stato di sofferenza in cui versiamo;
Che si riconosca l’origine del nostro malessere;
Che si ammetta che esiste un modo per superare il malessere stesso
Che si accetti l’idea che, per superare il nostro malessere, si devono far nostre certe norme di vita e mutare il modi di vivere attuale.
(Fromm, 1977, p 185)
Personalmente ritengo che, con molta lentezza, la nostra Civiltà si stia avvicinando alla piena consapevolezza di quello che Fromm mette al punto 1.
La strada quindi è molto lunga ma c’è speranza: nulla cambia se niente cambia.
Bibliografia:
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Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975;
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Fromm E., Fuga dalla liberta, Mondadori, Milano, 1987;
Hart C. W. M., Pilling A.R., “The Tiwi of North Australia, 1960, in: Case Histories in Cultural Anthropology, Holt, Rinehart & Wilston, New York 1960;
McCully R., Jung e Rorschach, Mimesis, Milano, 1988;
Mellaart J., Catal Hüyük: a neolitic Town in Anatolia, Thames & Hudson, Londra 1967; McGraw-Hill, New York 1967;
Mumford L., La città nella storia, Edizione di comunità, Milano, 1963.
Sahlins M.D., The Origin of Society, Sci. Amer, 203 (3), “Notes on the Original Aflluent Society, in: Man, The Hunter, a cura di R.B. Lee, I. De Vore, Aldine, Chicago 1968;
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Wadley G., Martin A., The origin of agriculture? A biological perspective and a new hypothesis, Australians Biologist 6: 96-105 June, 1993
E’ stato notato come nessuna entità psicopatologica racchiuda, al pari della melancolia, universi ed energie così sconfinati, serrandoli però in uno spazio ed in un tempo così ristretti, quasi puntiformi.
Mi pare che nell’affrontare l’argomento “depressione”, si debbano perciò esaminare due problemi, che sono anche due contraddizioni:
1) da un lato la contraddizione fra il “senso del nulla” che pervade buona parte del vissuto depressivo, e l’energia selvaggia, quasi infinita che viceversa, da tale vissuto, sembra promanare; in quest’ottica, la depressione appare per un verso, indubbiamente, un ingente attacco di morte portato alla mente del soggetto, per un altro, però, l’espressione d’una forte attitudine di quest’ultimo ad appropriarsi della morte stessa ed a reagirvi attivamente, seppure in forma in gran parte interiore ed auto-gestita, attitudine la quale si concretizza, in particolare, nel conseguimento della capacità d’usare una tale morte, a volte contro sé stessi (nella posizione depressiva), altre volte contro gli altri (in quella maniacale)
2) dall’altro, quella vera e propria contraddizione di base, tipica dell’uomo, che esiste fra la necessità di sopportare la percezione della morte che la coscienza veicola, e l’assoluta impossibilità, anch’essa tipica dell’uomo(e sua perenne condanna!) di prescindere dalla coscienza stessa, ovvero da quella singolare dotazione umana, allo stesso tempo cognitiva e morale, che una tale consapevolezza della morte veicola ed amplifica a dismisura, risolvendo molti problemi ma provocando sofferenze d’ogni genere (ed in primo luogo depressive). La coscienza umana, perciò, comporta immancabilmente la necessità di usare, al fine di alleggerirla e “smaltirla”, quella stessa morte che inevitabilmente trasmette al soggetto, ab-reagendola su altri, quindi possiede anch’essa, di per sé, delle connotazioni maniaco-depressive
Per quanto riguarda il primo punto occorre dire subito che, ad un’osservazione puramente fenomenologica, la percezione del proprio “stare al mondo” propria del depresso grave (di cui il melancolico rappresenta l’immagine prototipica), è quella d’essere costretto, e soprattutto d’auto-costringersi, a vivere ristretto, raggomitolato e compresso su sé stesso in misura quasi disumana, accucciandosi all’interno d’un “punto focale unico” dell’esperienza, ovvero d’una sorta di fisica “singolarità” la quale possiede un’estensione che si approssima allo zero, ma in compenso è dotata d’una densità, d’una gravità e di un’energia altissime, quasi infinite, tali che in essa il tempo e lo spazio collassano, “il sole diviene nero” e neppure la luce può fuoriuscirvi.
La cosa paradossale, naturalmente, è proprio che in questo punto ristrettissimo dell’essere che è la melancolia (un punto non solo dotato d’uno spazio quasi inesistente, ma tendente anche sul piano temporale a zero) possano risiedere ed operare energie fortissime e misteriose le quali tendono viceversa all’infinito: ora, ciò nel depresso avviene in quanto in lui, in una qualche misura, tutto il mondo viene compresso, aspirato, inghiottito, insieme alla propria terrificante dotazione energetica (tanto che più ancora che di “depressione”, specie in relazione alla “colpa”, occorrerebbe forse parlare di “compressione”), ma lo è al solo fine, ed questo è il punto, d’esservi gestito dal soggetto stesso, almeno in parte, in forma autonoma.
Come ben sanno gli psicopatologi, nessun malato come il depresso è autarchico nel proprio funzionamento e relativamente refrattario all’influenzamento esterno (almeno a partire dal momento in cui la depressione si è instaurata in tutta la sua gravità), e contemporaneamente, nessun altro è come lui una fucina d’aggressività, di rabbia e di distruttività, anzi, una vera e propria “macchina da guerra” (un “guerriero”, appunto, come quelli che popolano molta della narrativa e del mito universali), anche se ciò, ai profani, ed anche a molti “addetti ai lavori”, assai spesso sfugge: ciò, forse, per il motivo che quest’energia negativa, aggressiva, distruttiva ma anche fortemente vitale, per larga parte è canalizzata contro il depresso stesso, e per di più immobilizzata e mascherata dalla feroce modalità auto-inibitoria con cui questo soggetto agisce contro il proprio sé (anche se poi quest’immobilizzazione depressiva dell’aggressività spesso crolla repentinamente, mentre alla canalizzazione di essa contro il proprio sé cede il passo, altrettanto repentinamente, un suo proiettarsi all’esterno, sugli altri, ancora una volta “usando la morte” anziché subirla).
Anche le categorie tellenbachiane dell’”includenza” e della “rimanenza”, nel depresso, pur connotando certamente una momentanea, necessaria posizione di passività (rispettivamente, l’essere “inclusi” in un ordine esteriore fatto di doveri collettivi, il quale trascina il depresso oltre il proprio sé, ed il fatale “rimanere indietro” del sé medesimo, ovvero del corpo e delle sue appetizioni, rispetto a questo trascinamento esterno), sembrano stare ad indicare semplicemente un “primo tempo” nel quale egli, a differenza dell’ossessivo, anziché negare l’oppressione che subisce, cancellarne la nozione e neutralizzarne ritualmente ogni risonanza emotiva, la accoglie pienamente nella propria coscienza, e non solo ne viene passivamente inondato ma quasi “se la annota”, ovvero la accumula attivamente dentro di sé e la capitalizza in termini di “credito” da rivendicare successivamente, come se essa costituisse un patrimonio energetico di aggressività, da usare al momento opportuno verso lo stesso sé oppure verso il mondo esterno.
Insomma, nel depresso è come se la persecuzione che proviene dal mondo e dalla stessa percezione della morte, oltre che interiorizzarsi e rivolgersi contro il proprio sé, venisse da quest’ultimo afferrata e maneggiata come una clava, o comunque usata anziché subita passivamente: nessun soggetto come lui, infatti, impara a sfruttare ed usare la morte che subisce da fuori o che scaturisce dal suo stesso interno, a brandirla, a tradurla in un attivo e strutturato attacco rivolto ad un oggetto preciso.
Il fatto, poi, che questo oggetto sia anzitutto il proprio sé, in fondo, non cambia di molto i termini della questione, poiché il punto caratterizzante di questa “patologia” risiede proprio nell’enorme capacità del depresso di passare da una posizione passiva ad una attiva, nonché autonoma ed autarchica: e ciò, qualunque ne sia il costo (e che questo costo sia accettabile, dal punto di vista del “rendimento energetico” della depressione, trova la sua controprova nello stato maniacale, ovvero nell’altra faccia della depressione, nella quale il patrimonio di energia aggressiva accumulato durante il “lavoro depressivo” compiuto contro il sé ed all’interno del sé, viene utilmente reinvestito in una fortissima attitudine predatoria ed aggressiva rivolta verso il mondo esterno).
Da questo punto di vista, il melancolico è ben lontano dalla posizione di vittima “designata” e passiva del collettivo sociale che è proprio di altre “patologie mentali” (vedi segnatamente, la schizofrenia): la sua capacità di tradurre attivamente l’aggressione subita in aggressione agita, infatti, lo rende pressoché intangibile ai tentativi d’influenzamento e di condizionamento di varia natura che hanno una presa così facile, al contrario, nella schizofrenia; anche quando il depresso si uccide, dunque, prevale in questo suo atto una frazione di conato attivistico, e comunque di ribellione fattiva ed indomabile ad un destino che coarta la sua volontà (lo stesso suicidio, a pensarci bene, è un tentativo, seppure inutile, di strappare l’iniziativa alla morte).
La forma concreta, poi, della “fucina depressiva” attraverso la quale quest’energia negativa ma anche trasformativa e vitale opera, è interessante notarlo, viene spesso percepita e raffigurata al “femminile” (si rammentino anche, per inciso, le “madri” inquietanti che popolano il Faust di Goethe).
Ciò avviene, semplicemente, in quanto la donna, che il mito e l’inconscio assai spesso identificano con la morte, ha il compito di selezionare la specie, ossia di decidere, apparentemente da sola, chi fra i suoi figli è degno di vivere e chi no, ed ancor più, che tipo di figlio debba essere da lei concepito e da parte di chi; in definitiva, come affermava Soren Kierkegaard, laddove l’uomo “libera”, la donna “sceglie” chi la deve liberare, e dunque ha il compito di far propria e di ritrasmettere ovunque la spinta spietatamente selettiva ed auto-predatoria che grava, più che su ogni altra specie vivente, sul genere umano.
Perciò non deve meravigliare che quella morte che sempre fatalmente ci raggiunge, o che dal suicida viene invocata ed attivamente provocata, abbia, per dirla con Cesare Pavese, gli “occhi d’una donna”: se davvero è la donna, in ultima analisi, colei che “decide della vita umana”, che usa la morte contro la morte, che contrappone il padre al figlio ed allo stesso tempo media fra di loro, è ovvio che il luogo, puntiforme e dotato di altissime energie, di quella depressione ove ha luogo l’elaborazione di tali forze “basiche” che decidono della sopravvivenza, abbia una connotazione femminile.
Tuttavia occorre ricordare che ad infliggere in concreto la morte, nella nostra specie, il più delle volte sono delle mani maschili: le innumerevoli stragi che punteggiano capillarmente la storia della nostra specie, bisogna non dimenticarlo mai, hanno il sesso maschile come loro protagonista materiale pressoché esclusivo.
Negli stessi sogni e dinamiche dell’inconscio, del resto, maschile e femminile si mescolano ampiamente: la terribile voragine della morte in cui l’uomo necessariamente finisce (per dirla con Leopardi, qual “vecchierel canuto e stanco…. ove precipitando il tutto oblia”), ha sì una connotazione femminile, fatale, abbracciante, però l’articolato persecutorio che concretamente la provoca è inconfondibilmente maschile: tutti gli strumenti più palesemente persecutori, a livello simbolico, hanno come si sa una forma acuminata, appuntita, maschile.
Ad esempio, molti degli eroi antichi e medioevali, in particolare degli innumerevoli “cavalieri senza macchia senza paura” che popolano sia i poemi classici che quelli medioevali di tipo “cavalleresco”, a livello fenomenico sembrano in tutto e per tutto dei melancolici, o più ancora, dei “maniaco-depressivi” alla ricerca d’una qualche riscossa maniacale, mentre sul piano dei contenuti psico-dinamici appaiono nient’altro che dei figli alla disperata ricerca d’un padre-rivale con il quale misurarsi (e se del caso scontrarsi). Ciò, del resto, almeno nel caso dei “cavalieri medioevali erranti” di cui ci parlano il ciclo arturiano e bretone, corrisponde puntualmente al dato sociologico rappresentato dal riversarsi “in campo”, per tutto l’alto Medio Evo, d’una terrificante massa di manovra, dal gigantesco potenziale militare (peraltro abilmente utilizzato dalla Chiesa Cattolica nelle Crociate), rappresentata da giovani nobili che erano stati spodestati dai loro padri, in virtù sia della legge salica che del maggiorascato, da ogni diritto di successione ai troni dei vari principati d’Europa, e che dunque erano portatori di quella insanabile “ferita depressiva” (basata su un conflitto edipico di base consistente in un antagonismo mortale con i loro padri) la quale traspare, in filigrana, in personaggi come Lancillotto, o nello stesso Amleto.
Questa connotazione maschile degli aspetti persecutori che confluiscono nella colpa, fu genialmente notata sia da Abraham che da Freud, e mentre Abraham la riportò, tramite i connotati depressivi della colpa, all’introiezione cannibalica d’un oggetto aggressivo che continuava a perseguitare il soggetto anche dall’interno dopo averlo perseguitato dall’esterno, Freud, in “Totem e Tabù, identificò questo oggetto aggressivo con il padre ucciso dai figli nel corso d’un rito collettivo cannibalico, il cosiddetto “pasto totemico”, anche se di fatto cancellò l’assai più plausibile e logica priorità del padre, per quanto concerne la responsabilità aggressiva primaria nell’ambito del triangolo edipico, per concentrarsi invece su quella dei figli (per inciso, occorre dire che tutta questa potente teorizzazione, in ragione del suo carattere assai imbarazzante e scarsamente dimostrabile, è stata poi circoscritta da tutti gli psicoanalisti, a cominciare da Freud, nel regno della “metafora”, dei simboli, del narrativo e dell’extrascientifico, ovvero d’un innocuo “modo di dire immaginifico ” per indicare ciò che avviene nell’inconscio, quasi che quest’ultimo fosse ad un certo punto nato già bell’e fatto e “calato dal cielo” senza alcun antecedente antropologico reale, mentre sia Abraham che lo stesso Freud avevano avuto, a leggere bene i loro testi, tutta l’aria di parlare terribilmente sul serio).
In ogni caso, tutto ciò va a connotare in un senso misteriosamente sessuale, ovvero maschile e femminile, quello che potremmo a ragione definire come “l’alfabeto mitico” dell’inconscio umano, il quale costruisce la lingua che ci “narra” il rapporto con la morte che in esso alberga.
La polarizzazione di tale inconscio fra un lato femminile ed uno maschile (già genialmente notata per la prima volta, come si sa, da Carl Gustav Jung), comporta però un parallelo sdoppiamento delle armi che la nostra mente ha a disposizione per combattere la morte: queste armi, infatti, hanno il duplice compito di fronteggiarla, da un lato con la forza fisica ed insieme con il pensiero razionale, ossia attraverso il ruolo (prettamente maschile, assertivo e di “contrasto frontale” alla morte) proprio del “guerriero”, dall’altro con gli strumenti, di connotazione prettamente femminile e volti a procrastinarla, della manipolazione e dell’inganno: si tratta di strumenti, come si vede, eminentemente riparativi e trasformativi, i quali sono propri del pensiero emotivo e pre-razionale nonché rivolti all’influenzamento magico dell’altro, e come tali possono perfettamente incarnarsi nel ruolo dello “sciamano”.
In questo senso, tornando per un momento alla depressione, laddove lo schizofrenico è anzitutto un soggetto che viene influenzato, il depresso (in particolare, nella sua versione “bipolare” o maniaco-depressiva) è un soggetto che semmai influenza gli altri, il che si vede particolarmente nella sua “versione maniacale” (o, nella forma monopolare, è un soggetto che influenza sé stesso).
Ma il guerriero (ovvero il maschile, la dimensione della razionalità e del contrasto frontale), ove non incontri lo sciamano (ovvero il femminile ed il riparativo, l’influenzante ed il trasformativo), “si perde” fatalmente nel gorgo della dimensione depressiva e della colpa, ed anzi la alimenta attivamente con la sua violenza, generando un vortice senza fine; e lo sciamano ed il femminile, a loro volta, ove non incontrino il guerriero ed il maschile, letteralmente smarriscono ogni loro funzione e ragione d’essere, dunque vengono inghiottiti e “scompaiono”, confluendo anch’essi in un gorgo depressivo senza fine, che però in questo caso ha il volto assai meno “acuminato” del femminile.
Insomma, la dialettica fra maschile e femminile, nella depressione, oltre che esterna e tale da configurare uno scontro materiale fra “mondi” diversi, ci appare interiore, ovvero tale da riguardare il soggetto e la sua dinamica intrapsichica, e ne connota in ogni suo movimento emotivo (cosa che nello splendido “Melancholia” di Lars Von Trier, ad esempio, risalta in maniera esemplare, sul significativo sfondo delle note del preludio del “Tristano ed Isotta” di Wagner).
Qualche psicopatologo (recentemente, in particolare, Stefano Mistura) ha connotato questo “punto focale unico”, questa fisica “singolarità” ove universi differenti e complementari s’incontrano e si scontrano, questa sorta di terribile “fucina” ove l’esperienza melancolica, in forme apparentemente indecifrabili, “lavora” attraendo ed inghiottendo tutto ciò che la circonda (e che non riesce ad articolarsi in maniera sufficientemente definita ed individuale rispetto ad essa), utilizzandolo ai propri misteriosi scopi, proprio nei termini (si veda pocanzi) d’una “ferita primaria”, la cui riparazione esige di attingere energia da ogni dove, parimenti sottraendola, però, ovunque, e perciò impoverendo il paziente delle sue risorse fino ad un suo svuotamento emozionale pressoché totale.
Cerchiamo di approfondire ulteriormente questa questione inerente il paradossale potere d’attrazione e di “fascinazione” d’una “ferita primaria depressiva” fatta insieme di rabbia e di dolore, poiché essa è cruciale per rischiarare il fitto mistero che da sempre avvolge la depressione.
Per il melancolico dunque, a differenza che per il delirante di tipo non melancolico (ad esempio schizofrenico), sembra che esista un’assoluta priorità, nell’ambito degli interessi da accordare alla realtà: ogni interesse va distolto dal mondo esterno, sottratto ad esso e concentrato sul sé, sulla osservazione e sul monitoraggio del sé, sul giudizio che il soggetto può dare di sé, sulle colpe e sulla riparazione delle presunte colpe (e del male) che provengono dal sé: ed è proprio questo atteggiamento depressivo di base, di tipo auto-centrico, auto-gestito e quasi autarchico, ciò che spiega il fatto che da un lato lo spazio ed il tempo del depresso si prosciugano e si svuotano, si restringono e collassato in lui, dall’altro lato il fatto che ciò che viene tolto alle sue relazioni spazio-temporali esterne (anche allo scopo di disinnescarne e di padroneggiarne la connotazione fortemente aggressiva!) va ad arricchire, ad ipertrofizzare e quasi ad inflazionare il suo universo energetico interiore, concentrandovi e facendovi confluire sia l’energia che la connotazione aggressiva medesime.
Ogni elemento critico, aggressivo, predatorio insito nelle sue relazioni esterne, dunque, nel depresso confluisce in quell’autentico “buco nero”, ad attrazione gravitaria quasi infinita (denominabile come “punto focale unico” della sua realtà), che si configura alla stregua d’un “rapporto predatorio con sé stesso”, e ciò avviene nella forma specifica di un’abiezione “abissale” che il depresso ritiene di avere individuato dentro di sé: un’abiezione che egli dovrebbe in teoria sanare, ma che a causa della sua stessa attitudine auto-predatoria e della sua aspirazione all’onnipotenza non vuole, in realtà, sanare, bensì aumentare ulteriormente.
Questa energia, allo stesso tempo inflazionaria, distruttiva ed autarchica, è la base della paradossale percezione del proprio sé che è propria del melancolico: una percezione da un lato radicalmente svalutativa ed auto-colpevolizzante, dall’altro assolutamente smisurata ed insaziabile nella sua onnipotente ambizione, la quale per un verso lo svuota, per un altro lo arricchisce di energie, tanto che nel delirio di colpa essa giunge a fargli considerare sé stesso la causa della morte e delle disgrazie di tutti gli altri, mentre in quello di negazione tale morte e tali disgrazie acquisiscono una forza tale da annullare l’intero mondo fisico, facendo ancor più rifulgere la sua “potenza” smisurata.
Ciò che si può dunque affermare, circa questa caratteristica misteriosamente auto-alimentantesi (ovvero auto-cannibalica) che è propria del circuito auto-persecutorio ed auto-distruttivo del melancolico, è che questo soggetto, in realtà, fa propria e “volge su sé stesso” quella teoricamente illimitata persecuzione che sente primariamente provenirgli sia dal di fuori che dal proprio stesso interno, la accaparra e “se ne nutre”, le conferisce una strutturazione e la trasforma in onnipotenza auto-lesiva (a carattere compensatorio della persecuzione): e fa ciò proprio a partire da quella sconfinata ed impotente reazione rabbiosa che egli rivolgeva originariamente agli altri, ovvero ad un mondo esterno avvertito come sommamente pericoloso, tanto che questa rabbia, in talune condizioni depressive, riaffiora al soggetto in forma assolutamente pura ed inalterata, divenendo omicidio (i famosi e misteriosi “raptus” dei depressi) e/o omicidio-suicidio, oppure delirio di onnipotenza, sia pure sotto la specie paradossale del “delirio di negazione”.
Veniamo ora al secondo punto.
La caratteristica auto-osservante ed auto-giudicante, ma anche auto-punitiva ed in qualche misura auto-divorante che è propria del sentire melancolico, a guardar bene, non è altro che uno spingere al grado estremo, fino a deformarla potentemente (e volgerla nel suo contrario!), una qualità che è propria della coscienza umana: quella di concentrare in un punto solo della mente l’intero mondo percepito sia nel tempo che nello spazio, trasformando questa percezione, da quell’insieme frazionato, sfumato, articolato e variamente “diluito” di stimoli che ordinariamente si presenta ai sensi d’ogni essere vivente, in una sorta, ancora una volta (e come nella depressione), di “punto focale unico” dell’esperienza.
Si tratta, peraltro, d’un punto, anche qui, ad altissima densità, ma molto più leggero e metaforico rispetto al vissuto prettamente depressivo, e che l’uomo ha quindi la sensazione di poter assai meglio dominare ai fini dell’auto-controllo.
La coscienza, secondo alcuni, opera attraverso due procedimenti paralleli: da un lato, il procedimento che consiste nell’unire o collegare fra di loro in una trama unica e quasi “filmica”, sintetica e continua, le tracce mnemoniche dell’esperienza, soprattutto seguendo un modello di “collage visivo” ed avvalendosi in ciò dell’attenzione e della memoria a breve termine (questa è ad esempio l’idea di coscienza che ci ha fornito un neuro-scienziato come Francis Crick, ma si tratta d’una idea condivisa da molti altri ricercatori); dall’altro, complementare al primo, il procedimento che consiste nel separare, dissociare, e comunque distanziare (ad esempio tramite procedimenti di “rimozione”) i sopra-citati elementi percettivi che vanno a formare una tale “trama filmica” a carattere “cosciente”, da quegli altri elementi (a carattere soprattutto emozionale, pulsionale ed istintuale) che li appesantirebbero, impedendo o ostacolando gravemente le operazioni, eminentemente “sintetiche”, che proprio servendosi di essi compie la coscienza (se tutto giungesse alla coscienza, ovviamente, quest’ultima si “ingolferebbe” di messaggio di stimolazioni, e non potendoli selezionare cesserebbe, alla fine, di funzionare come struttura sintetica e selettiva, il che peraltro si verifica puntualmente negli stati confusionali).
Ora, questa seconda idea della coscienza, la quale implica ovviamente l’idea dell’esistenza parallela d’un “inconscio” (a contenuto prevalentemente emozionale), era come si sa quella, fra gli altri, propria di Sigmund Freud, e non solo non esclude la prima, ma ne è in qualche modo presupposta. Infatti i moderni neuro-scienziati non solo ritengono che l’inconscio esista (sebbene lo raffigurino alla stregua d’un inconscio “procedurale” ed automatico, anziché come “luogo del rimosso”, quindi in forma alquanto differente dall’inconscio freudiano), ma asseriscono che il vero mistero, più che l’esistenza dell’inconscio, è semmai l’esistenza della coscienza.
Ebbene, questo secondo “punto focale unico” dell’esperienza che, al pari dell’esperienza depressiva, è appunto la coscienza, in virtù di tali procedimenti da un lato sintetici e volti all’unione delle parti in un “tutto”, e dall’altro dissociativi e tali da escludere da questo tutto, paradossalmente, una parte molto importante (quella che corrisponde al vissuto, oltre che alle operazioni mentali automatiche e pre-coscienti) è anch’esso, esattamente la depressione, da un lato autarchico, dall’altro esclusivo di tutto il resto.
La coscienza inoltre, così come deve dissociarsi, almeno in parte, dalle emozioni (dato che solo grazie a questa dissociazione che la “alleggerisce”, può osservare e manipolare a piacimento le immagini mentali degli oggetti), allo stesso modo deve dissociarsi dalle immagini del proprio sé nonché da quelle del corpo, anzi quasi lievitare al loro fianco, osservarle come degli oggetti, soppesarle e giudicarle come se fossero estranee ad essa.
Ancora, rendendo il “sé” un oggetto privilegiato, invasivo della coscienza ed inquietante, nel quale rispecchiarsi ma tale da dover essere costantemente controllato e tenuto a freno, la coscienza ne viene anche, in qualche modo, “fascinata” e persino ossessionata: quindi è costretta, di fatto, a trasformare ogni percezione del mondo esterno in una preliminare “auto-percezione” la quale, prima ancora che un significato cognitivo, ne possiede uno morale.
La percezione cosciente della necessità di auto-regolarsi di fronte agli altri, infatti, non è altro che l’identificarsi, “sic et simpliciter”, con il punto di vista degli altri. Ma un padroneggiamento del mondo esterno che debba passare necessariamente attraverso un auto-padroneggiamento, non può non generare quell’illusione di onnipotenza che, per l’appunto, è tipica della coscienza (e che molto assomiglia, occorre notare, all’onnipotenza depressiva).
Ora, questa onnipotenza della coscienza comporta la conseguenza che l’universo, non appena concentratosi nella coscienza stessa e collocatosi nell’ambito d’una percezione delle cose che grazie ad essa è divenuta illusoriamente “globalizzante”, deve apparire da un lato unitario, ovvero esente da fratture interne ed onni-includente (poiché la coscienza, “cum-scientia”, è per definizione una conoscenza percepita come comune agli altri, anzi, per molti aspetti, istituita dal loro punto di vista), dall’altro deve necessariamente configurarsi come “diviso in due” (giacché per unificare bisogna anzitutto dividere, dissociare, ossia dapprima scegliere quegli elementi che sono realmente unificabili con altri e successivamente separarli da quelli che non lo sono, e come si è già accennato la prima cosa da dissociare, in una siffatta operazione, sono quei messaggi corporei ed istintuali di natura strettamente individuale che nel carattere “globale” della coscienza e nella sua presunta onnipotenza non appaiono affatto integrabili).
L’uomo, insomma, deve sacrificare gran parte del contatto con sé stesso e con le proprie percezioni, perfino cenestesiche, all’esigenza di conquistare un’immagine unitaria del mondo, la quale includa fra le altre cose anche gli altri esseri umani e renda possibile una comunicazione simbolica con essi (e tramite questa, un controllo della realtà naturale): ma questa auto-dissociazione, quest’esclusione del sé e di buona parte del vissuto che ne promana, paradossalmente, genera una sorta di ossessione proprio per il sé medesimo, ovvero per la parte dissociata; ed una tale ossessione per il sé a sua volta, come già accennato, implica che l’essere umano, a differenza di tutti gli altri animali, è condannato a non poter mai percepire il mondo direttamente, bensì solo attraverso un’auto-osservazione capillare ed un ossessivo auto-controllo.
Quest’ultimo, poi, è allo stesso tempo un auto-giudizio, ovvero un porsi dal punto di vista dell’altro, un condividere il suo sistema di valori ed un parlare, letteralmente, la sua lingua ed i suoi simboli.
L’essere umano, in definitiva, deve percepire il mondo come un tutto unico al fine di poterlo padroneggiare, ma deve immediatamente dopo rompere questa unità, ovvero decentrarsi da sé stesso, proprio al fine di potere percepire il mondo come un tutto unico; infine, può fare tutto ciò solo filtrando le proprie percezioni attraverso un singolarissimo, privilegiato e quasi ossessivo rapporto con sé stesso, il quale è di natura, allo stesso tempo, auto-dissociata ed auto-centrica, auto-repressiva ed auto-regolativa.
Ora, anche in base a quanto abbiamo detto all’inizio, è interessante notare che quest’operazione mentale di auto-dissociazione e di auto-manipolazione (in sé relativamente onnipotente ed autarchica), la quale rende possibile la coscienza, benché sia molto più “leggera” e metaforica, è qualcosa di molto simile ai procedimenti d’auto-dissociazione e d’auto-accusa (anch’essi onnipotenti) dei depressi.
La differenza, naturalmente, sta nel fatto che la struttura depressiva sottrae al mondo ed accumula nell’interiorità elementi pesantemente persecutori (quindi è costretta a comprimere all’interno del sé energie altissime, le quali successivamente debbono trovare un loro canale di sfogo piuttosto violento), mentre la coscienza sottrae al mondo, e “cuce” nella propria trama filmica, solamente elementi percettivi che sono stati, al contrario, preventivamente depurati d’ogni possibile valenza persecutoria e resi assai più “leggeri” dai procedimenti dissociativi e di “rimozione” (tanto che la maggior parte di quel materiale emozionale e pulsionale “pesante” che da tale persecuzione poteva essere improntato, è stata relegata nell’inconscio).
Insomma, mentre l’accumulo depressivo di persecuzione prepara inevitabilmente un’esplosione successiva d’energie fortemente aggressive, la sintesi “filmica” che la coscienza compie non fa altro che indurre la formazione d’una struttura parallela di tipo inconscio, la quale funziona contemporaneamente alla coscienza e non necessita, di per sé, di alcuna forma di scarico massiccio, e neppure d’un funzionamento “ciclico” o “bipolare.
Tuttavia, anche la coscienza prepara, a suo modo, un terreno assai fertile per contraccolpi depressivi: il suo enorme potere rappresentativo (in particolare della morte) infatti, per quanto astratto e dis-emozionalizzato possa essere, è comunque d’entità tale da compensare, e per certi versi sopravanzare, il potere di accumulo di stimolazioni mortifere che è proprio della struttura depressiva; ora, la percezione di morte che giunge a ciascuno di noi per via simbolico-rappresentativa attraverso la coscienza, compie il proprio “lavoro” depressogeno, essenzialmente, mediante la creazione d’un mondo di oggetti artificiali e di strumenti tecnologici atti ad arginare la morte stessa, nonché ad essere usati collettivamente: ma questi strumenti espropriano l’individuo, in misura pressoché totale, del suo potere di fronteggiare la morte direttamente con le proprie emozioni ed il proprio vissuto; ecco dunque che anche a causa della coscienza, il “vissuto” e le emozioni, lungi dall’essere annullati, riprendono piuttosto ad essere “inclusi”, tellenbachianamente, in un ordine di valori che li trascende, ed a “rimanere indietro” rispetto ad un tale ordine.
Quando Heidegger, per fare un esempio, critica le scienze esatte e la tecnologia per il loro proposito di fornirci un’immagine del mondo realistica, “in presa diretta” con ciò che è esterno a noi ed a prescindere dal nostro “vissuto”, e contemporaneamente dichiara che la tecnologia, con la sua micidiale efficacia, non è per nulla padroneggiabile a partire da questo vissuto (e quindi, neppure da parte dell’essere umano!), in fondo richiama la nostra attenzione proprio sulla contraddizione di base dell’uomo che abbiamo appena tratteggiato, e che a questo punto potremo meglio definire come “il paradosso della coscienza”.
Questo paradosso, lo ripetiamo, consiste nel fatto che la nostra specie, per poter raggiungere lo scopo di padroneggiare il mondo rappresentandoselo in forma “generalizzabile”, ovvero in termini astratti (o ancora, considerando le cose ad un altro livello, in forma simbolica, narrativa e comunicabile ad altri esseri umani), ha dovuto “unificarlo” in un’immagine “cosciente”; però, proprio per poter compiere quest’operazione di unificazione del mondo, ha dovuto immediatamente dopo “dividere questo mondo in due”, ovvero, ha dovuto togliere dalle proprie rappresentazioni simboliche delle cose il peso del vissuto, e con ciò espellere dalla visione cosciente che ha del mondo quell’insieme di percezioni più “particolari”, ad esempio cenestesiche, che provenivano dal corpo e confluivano nel vissuto medesimo (in altre parole, ha dovuto cancellare la stessa nozione che l’immagine generale ed unitaria del mondo da essa costruita, è in gran parte provenuta dal proprio “sé” e dal più o meno “pesante” vissuto che da quest’ultimo scaturisce).
Tuttavia, pur essendo continuamente spinto ad espellere il proprio “vissuto” dalla coscienza ed a “depurare” quest’ultima da ogni possibile “scoria” emotiva, l’uomo (ed è questo il cuore del “paradosso della coscienza”) è costretto a pensare costantemente il mondo proprio attraverso il vissuto, che poi è l’unica cosa di cui può essere sicuro, quindi, in definitiva, a re-introdurre quest’ultimo nella coscienza subito dopo avere invano tentato di espellerlo da essa (si pensi al “cogito ergo sum” di Cartesio!): quindi egli viene alla fine indotto a pensare al “vissuto” come all’unica realtà possibile, accettando il fatto che esso gli ripropone proprio quelle sensazioni particolari che la sua coscienza razionale, unificata, auto-dissociata e generalizzante, per altri versi gli richiederebbe imperiosamente di eliminare.
E’ così accaduto che l’uomo, sconcertato da questa contraddizione fra le proprie percezioni esterne ed il proprio “vissuto”, abbia finito per percepirsi come un granello insignificante, del tutto casuale e “particolare”, dell’universo, nel quale però l’universo nella sua interezza, misteriosamente, si concentrava, ed al di fuori del quale non appariva possibile nessuna forma di “essere”.
Ora, è proprio a causa di questa inquietante somiglianza fra la coscienza e la colpa, che l’unica speranza di sfuggire alla depressione è divenuta, per taluni (ce lo insegna ad esempio il messaggio esistenzialista) l’assegnare momento per momento un “senso”, anziché contrapporre una ribellione, al dato bruto di quell’esistenza particolare che ci è stata data e che viviamo “qui ed ora”, visto che essa è allo stesso tempo un “tutto” che possediamo ed un destino cui non possiamo sfuggire.
Nel mondo attuale e secolarizzato, però, ovvero in una situazione che potremmo definire di “percezione massiccia ed estensiva della morte”, qualora le ragioni del “particolare” e del “corporeo” si facciano dappresso alla coscienza stessa in misura troppo impellente, e quest’ultima, nel suo vissuto unificato ed allo stesso tempo auto-dissociato, sia indotta a vacillare in una misura troppo accentuata (ad esempio sotto i colpi inferti dalla percezione, resa sempre più chiara dallo strepitoso sviluppo della scienza e dalla tecnologia, d’un mondo reale che si origina sempre di più all’esterno del vissuto umano ed è indipendente da esso), nonché a percepirsi per quello che è, ovvero come una struttura ontologicamente alienata, all’uomo può facilmente sopravvenire una disperazione assai simile a quella depressiva.
Insomma, nel contesto impostoci dal mondo tecnologico, ormai, come diceva Heidegger, ai nostri occhi, “gli dei sono volati via”, il che significa semplicemente che i rituali ossessivi e parzialmente pre-coscienti di padroneggiamento della morte che erano propri delle culture antiche, sotto l’azione dissolvitrice della coscienza e della ragione, si vanno sempre più svuotando (come già le religioni monoteistiche ci vanno dicendo da più di duemila anni), cedendo il passo all’unica possibile reazione rimasta: quella depressiva. Il Cristianesimo in particolare, religione in sé sommamente de-ritualizzante e de-sacralizzante, contrariamente alle apparenze possiede un così ingente contenuto di “fede”, di “credo quia absurdum”, proprio in quanto è in realtà ultra-razionalistico e sommamente speculativo, anzi percepisce così distintamente le fonti della morte da doverle negare in forma plateale, ad esempio identificando l’uomo con Dio ed il figlio con il padre, ossia componendoli in unità malgrado quelle loro insanabili contraddizioni che, come abbiamo visto sopra a proposito dei guerrieri medioevali spodestati dai padri, sono spesso alla base del vissuto melancolico.
Non è affatto detto, tuttavia, che la depressione promossa dalla tecnologia, dalla scienza e dalla coscienza sia sempre e comunque un male: si tratta, semplicemente, d’una trasformazione epocale ed oltremodo critica, la quale, se su un versante risolve numerosi e millenari problemi, su un altro ne pone (ed impone) molti altri, di natura diversa ma non meno importante, la cui soluzione è ancora difficile persino da immaginare.
Un esempio molto semplice di ciò è il seguente: se la progressiva decodificazione del DNA, consentita proprio da quella tecnologia strapotente e “non dominabile” cui alludeva Heidegger, renderà possibile su scala di massa una previsione ragionevolmente certa circa la durata d’ogni vita individuale e circa la natura non solo delle malattie che la limiteranno (fino a porvi fine), ma anche della nostra libertà d’auto-determinarci in vista d’un fine (per inciso, si tratta proprio di quella libertà umana residuale che è alla base dell’esistenzialismo!), ebbene, a quel punto il vissuto che ci consente tuttora di mantenere un minimo di “spinta vitale”, ossia quello che tipicamente si basa sulla “possibilità d’auto-progettazione” nonché su quella di “proiettarsi nel futuro” partendo da una sia pur minima illusione di “libertà”, subirà un colpo durissimo e foriero di ingenti contraccolpi depressivi; ma a questo punto, a causa della disperazione che potrebbe derivarne, diverrà forse fatale andare, ormai in preda alla depressione e ad un vissuto di “lutto”, alla ricerca di quegli “dei del vissuto” (il sacro, i riti, ecc.) che sono “volati via”, nonché invocare il loro ritorno sulla terra. E di ciò, nella società attuale esistono già segnali inconfondibili.
Dott. Volfango Lusetti. Psichiatra e Psicoterapeuta, Roma.