Le Olimpiadi di Rio 2016 sono state, per il nostro paese, l’ennesima conferma di risultati positivi, nella media degli ultimi anni. Otto medaglie di bronzo, ben dodici medaglie d’argento e soprattutto otto ori per un totale di ventotto medaglie conquistate dagli atleti italiani. Tra queste, spiccano le sette medaglie totali (quattro medaglie d’oro e tre d’argento) nel tiro in tutte le sue forme, contro le cinque di quattro anni fa, che rappresentano sicuramente la parte migliore di questa avventura olimpica, assieme a qualche conferma nel nuoto, nella pallanuoto, nel volley e nella scherma.
Il “rovescio della medaglia” è invece rappresentato dalle delusioni arrivate in discipline o competizioni dalle quali ci saremmo aspettati risultati diversi, dati forse per scontato, spesso solo per il calibro del campione coinvolto. Ed è proprio da questi episodi, più che dalle vittorie, che emerge con maggior evidenza l’importanza di un elemento finora troppo spesso dimenticato o sottovalutato, ma essenziale nello sport, come la preparazione mentale.
Se infatti sul carro dei vincitori salgono un po’ tutti, dalla preparazione tecnica, all’allenamento, allo spirito di squadra, finanche ai puri sentimenti affettivi, dove la vicinanza di una persona importante diventa improvvisamente fondamentale per la riuscita, quando invece si profila lo spettro della sconfitta diventa tutto molto più difficile e complicato; anche parlare dei motivi per i quali si è perso è un peso e una insofferenza insopportabile, che può portare anche a veri e proprio scoppi di ira, arrivando a “minacciare” se si tirano in ballo “problemi di testa”. Il più delle volte, invece, si preferisce ignorare la domanda specifica che costringerebbe a guardare in faccia il dubbio: “Non si sarà forse trattato di una carenza nella preparazione mentale?”
Spesso, durante le interviste subito a ridosso di competizioni al di sotto delle aspettative, i giornalisti hanno chiesto ad allenatori e atleti se la prestazione deludente fosse da imputare a “fattori di testa”: in questo frangente potevamo vedere chiaramente che gli intervistati, mentre a parole affermavano di no, con il linguaggio del corpo davano ad intendere il contrario. È un rifiuto sempre meno convinto e convincente, quasi un atteggiamento infantile che porta a continuare ad ignorare, ad oltranza, un aspetto che, piaccia o no, è presente.
È, infatti, indubbio che una performance ottimale sia il risultato combinato di allenamento fisico, tecnico e tattico, unito ad una solida preparazione specializzata dal punto di vista mentale. La realtà sportiva italiana, però, è che non tutte le società prima, gli allenatori poi ed, infine, gli atleti dedicano spazio e importanza al mental training: dobbiamo riconoscere che negli ultimi decenni sono stati fatti passi avanti in tal senso ma, rispetto ad altre dimensione internazionali di maggior successo, il cammino da fare è molto lungo. Ancora oggi, infatti, resta salda la convinzione, negli addetti ai lavori, che lo sforzo muscolare sia in grado, da solo, di portare ad un successo, escludendo completamente il cervello che lo comanda.
Ma nessun muscolo può difendersi dagli attacchi che derivano da pensieri quali “non ce la faccio”, “è più forte di me”, “è impossibile che io riesca a fare questo”. Quale gruppo muscolare può intervenire quando lo stomaco si contrae per quel fenomeno che chiamiamo ansia, che all’improvviso diventa un male oscuro che ci toglie il respiro e ci blocca? Ciò succede in pedana, in acqua, in pista o su un prato e getta via mesi e mesi di sacrifici e allenamento.
O ancora cosa si dovrebbe fare quando la vista del pubblico, i rumori della scena di gara, le parole e le voci che entrano nella testa fanno dimenticare in un colpo solo il motivo per cui si è lì?
Domande che dovrebbero fare riflettere anche i più scettici. A nostro avviso, vi è un’unica risposta.
La preparazione mentale aiuta gli atleti laddove il fisico non può farlo, partendo dal principio fondamentale che l’avversario più difficile da battere per un atleta è se stesso.
La mente può essere lo strumento più potente, che può fare la differenza a parità di preparazione fisica, oppure il nemico peggiore, se non adeguatamente preparata. Un palcoscenico importante come quello delle Olimpiadi rappresenta al meglio la situazione limite che l’atleta può sperimentare, in quanto la pressione aumenta a livelli massimi, le performance devono essere indirizzate auspicabilmente verso l’ottimizzazione e il livello di concentrazione richiesta si alza in conseguenza al fatto che è l’atto conclusivo di una preparazione lunga mesi, che può finire in un attimo se tutto questo non viene gestito e non si è pronti per farlo.
La preparazione mentale interviene con varie tecniche, tra le più importanti delle quali troviamo la visualizzazione, il rilassamento, i pensieri positivi, self-talk positivo, sicurezza e auto efficacia.
La visualizzazione è il procedimento attraverso il quale si allena l’atleta a immaginare particolari gesti tecnici, performance, situazioni di gara, stati emotivi, nel modo più particolareggiato possibile, come se fosse la realtà. Seguendo il principio che la rappresentazione immaginativa di un movimento attiva le aree della corteccia cerebrale che presiedono alla motilità di quei distretti corporei, “allenando” un circuito neuronale che è il medesimo che verrà poi utilizzato per l’esecuzione reale del movimento, la visualizzazione consente di correggere e migliorare particolari gesti e tecniche, favorire la concentrazione, limitare la distrazione e gestire l’ansia.
A questo proposito, le tecniche di rilassamento consentono di raggiungere stati ottimali di attivazione sia laddove l’ansia sia troppo elevata, sia dove invece vi sia poca attivazione. Ugualmente importante è abituarsi a coltivare pensieri positivi su di sé, sulle proprie capacità, alimentando così un senso di auto efficacia utile a non limitare le performance stesse. Così pure avere un buon dialogo interno (self-talk), obiettivo e sincero, ma prima di tutto positivo, aiuta a mantenere alto l’impegno e ad affrontare difficoltà ed errori in maniera serena e positiva, sostituendo un senso di depressione per ciò che non riesce con una motivazione ulteriore ad andare avanti, migliorando.
Questi sono solo alcuni aspetti che una buona preparazione mentale richiede e racchiude in sé; uniti alla preparazione fisica, concorrono a raggiungere risultati straordinari, come vincere una medaglia olimpica.
È tempo ormai di capire che la preparazione fisica è solo una faccia della medaglia. E quelle di oro, d’argento o di bronzo, che sono state messe al collo degli atleti a Rio, sono sempre costituite da due facce.
I concetti di qualità della vita, felicità, benessere, soddisfazione per la vita, ecc., vengono spesso utilizzati in maniera ambigua e intercambiabile in letteratura. In realtà, si tratta di concetti il cui significato e la conseguente modalità di misurazione sono stati sviluppati entro specifiche cornici teoriche. Di seguito verrà presentata una rassegna dell’evoluzione storica e teorica delle varie concettualizzazioni di felicità e dei costrutti ad essa legati.
La ricerca sulla felicità, nasce in una prospettiva “oggettiva”. I primi ricercatori che si occuparono di benessere e qualità della vita, si focalizzarono sulle condizioni esterne che conducevano ad una vita soddisfacente (Diener, Oishi & Lucas, 2003). Gli indicatori di qualità della vita degli anni ’60 erano essenzialmente di tipo oggettivo, trascuravano gli aspetti più legati all’esperienza soggettiva del benessere ed i ricercatori tendevano ad accettare certe circostanze come fattori che contribuiscono universalmente alla felicità. In effetti, certe cose vengono accettate comunemente come fattori in grado di contribuire al benessere (es. salute, ricchezza, libertà, amore, amicizia), questo perché vediamo che di solito, nella vita di molte persone, sono portatori di felicità (Tatarkiewicz, 1976). Questo punto di vista è da sempre largamente condiviso dalle persone comuni, ed è messo in evidenza anche dai dati ISTAT 2011 (http://www.istat.it/it/archivio/44214) riguardo l’importanza attribuita alle dimensioni del benessere dai cittadini. Gli aspetti della vita giudicati più importanti dalle persone per il benessere personale sono risultati, ai primi posti, la salute, assicurare il futuro dei figli da un punto di vista economico e sociale, un lavoro dignitoso e soddisfacente, un reddito adeguato. In altre parole, le persone cercano la felicità nella salute, nella ricchezza e nello status sociale. Tuttavia, è stato dimostrato che le misure che rilevano oggettivamente la presenza di queste condizioni, correlano scarsamente con le valutazioni self-report di benessere soggettivo. Già nel 1976, Campbell, Converse e Rodgers, mostrarono che i fattori socio-demogafici, come l’età, il sesso, il reddito, il livello di istruzione, lo stato coniugale, ecc. correlavano molto debolmente con il benessere soggettivo (Subjective Well-being; SWB) e spiegavano meno del 10% della varianza totale (Argyle, 1999).
Per chiarire il motivo della mancata corrispondenza fra condizioni di vita oggettive e benessere personale percepito, è utile far riferimento al lavoro di Tatarkiewicz (1976), che ha definito il rapporto tra felicità e fattori che contribuiscono alla felicità, ispirando le attuali ricerche nell’ambito del SWB. Il suo contributo teorico può essere tradotto utilizzando i termini attualmente utilizzati in letteratura: la felicità va intesa come ciò che oggi i ricercatori definiscono benessere soggettivo, mentre i fattori che contribuiscono alla felicità sono qualsiasi cosa che determini un qualsiasi tipo di cambiamento positivo nella felicità, e che oggi vengono chiamati determinanti.
Tatarkiewicz ha definito alcuni assunti di base sul rapporto tra fattori che contribuiscono alla felicità e felicità. Ognuno dei fattori viene abbreviato con Ft e la felicità viene abbreviata con F.
Nessun Ft è condizione sufficiente per F. Si può avere Ft senza F. Ad esempio, la salute è un fattore che contribuisce alla felicità, eppure è possibile essere sani, ma infelici.
Nessun Ft è condizione necessaria per F. Ci sono persone che non hanno né salute, né ricchezza, né successo, eppure sono felici. Ciò è dimostrato ad esempio dal disability paradox di Albrecht e Devlieger (1999), ovvero l’evidenza empirica che chi è affetto da qualche malattia o disabilità, spesso ha una percezione di benessere soggettivo non molto distante rispetto a quella dei soggetti sani, non è quindi preclusa loro la possibilità di esperire una “alta qualità della vita nonostante le apparenze” (Albrecht & Devlieger, 1999, p. 979).
F non è proporzionale a Ft. Non possiamo asserire con certezza che maggiore è la ricchezza, la salute, la quantità di amici che abbiamo, maggiore sarà la nostra felicità. Se questo è vero per alcune persone, l’esperienza dimostra che non tutti traggono vantaggio, in termini di maggiore soddisfazione, dall’abbondanza di una determinata risorsa. Ad esempio, il paradosso di Easterlin[1] ha chiaramente dimostrato che la felicità non è proporzionale al reddito.
Ft può accrescere F, ma le conseguenze di Ft possono diminuire F. Ad esempio, la ricchezza che si eredita non aumenta sempre la soddisfazione, potrebbe infatti diminuire la felicità portando nuove preoccupazioni e nuove ansietà. Allo stesso modo il matrimonio può accrescere la felicità delle persone, ma in certi casi la convivenza può rivelarsi, col passare del tempo, fonte di disagio e di nuovi problemi. Possiamo immaginare molteplici esempi di questo tipo, in cui il raggiungimento di una meta o di una risorsa auspicabili porta con sé sgradevoli effetti collaterali che influiscono negativamente sul benessere.
La formula che completa e chiarisce la relazione fra felicità e fattori che contribuiscono alla felicità è la seguente: I fattori della felicità Ft sono variabili relativamente indipendenti la cui funzione è la felicità F intesa come variabile dipendente. La formula che esprime questa relazione può essere così sintetizzata: F = f(Ft1, Ft2, Ft3, …, Ftx). Tale formula è puramente descrittiva, dato che non è possibile stabilire una relazione fissa tra felicità e fattori che sia valida per tutti gli individui, piuttosto il valore di ogni fattore viene attribuito dal soggetto stesso, in accordo alle sue preferenze, le sue caratteristiche di personalità, le sue aspettative, ecc. Inoltre, l’influenza di ciascun fattore dipende dalle concomitanze in cui si presenta, quindi dalla complessa interazione fra circostanze di vita e caratteristiche personali dell’individuo. Ad esempio, l’arrivo di un figlio può essere fonte di felicità per una donna che lo desidera, se vive una situazione stabile dal punto di vista affettivo ed economico, ma può essere fonte di preoccupazione per la stessa donna nel caso non ci siano circostanze concomitanti favorevoli, come ad esempio una crisi coniugale o la precarietà nel lavoro.
Queste osservazioni mettono in luce le criticità della misurazione della qualità della vita in termini oggettivi. Dato che ogni persona ha i suoi personali metri di giudizio, i ricercatori hanno cominciato a valutare come le persone percepiscono gli eventi e le circostanze (Diener, Suh, Lucas & Smith, 1999), quindi i loro giudizi personali.
Misurare la felicità attraverso un singolo item globale
Le misure più popolari del SWB sono quelle composte da un singolo item che valuta la soddisfazione o la felicità globale nella vita. Uno dei primi strumenti proposti è stato il Cantril’s ladder (Cantril, 1965), in cui viene mostrata un’immagine di una scala con 10 pioli dove il piolo più alto rappresenta “La migliore vita possibile per me” e quello più basso “la peggiore vita possibile per me”. La scala permette al soggetto di rispondere alla domanda: “Dove ti trovi sulla scala in questo momento?”.
Andrews e Withey (1976) proposero la Delighted-Terrible Scale, una scala a 7 punti in cui le risposte alla domanda “Come ti senti riguardo alla tua vita nell’insieme?” variano da Felice a Terribilmente. La domanda viene ripetuta due volte, all’inizio e alla fine di un questionario di 32 domande relative alla soddisfazione in aree specifiche della vita. La somma delle due risposte all’item singolo fornisce un indice, noto come Life 3.
Analogamente, Campbell et al. (1976) hanno proposto il singolo item: “Quanto sei soddisfatto della tua vita nell’insieme in questi giorni?” (Campbell et al., 1976). Anche in questo caso le risposte si collocano su una scala di 7 punti.
Successivamente Fordyce (1978) ha utilizzato il singolo item “In generale, quanto ti senti felice o infelice di solito?”. Al rispondente vengono fornite 11 opzioni di risposta, ognuna ancorata ad una serie di aggettivi riferiti all’umore; ad esempio, la scelta più alta è ancorata a “sentimento estremamente felice, estatico, gioioso e fantastico”.
Il vantaggio di queste misure costituite da un singolo item è che sono veloci e semplici da somministrare: sono chiaramente comprensibili per i rispondenti e facili da analizzare per i ricercatori. Tuttavia, l’attendibilità e la validità degli item singoli non possono essere facilmente determinate. Nella prospettiva della teoria classica dei test, il punteggio osservato può essere scomposto in tre componenti: punteggio vero, punteggio dovuto all’errore casuale e punteggio dovuto all’errore sistematico. Dato che un singolo item come misura del benessere soggettivo può essere molto sensibile agli errori sistematici e casuali, dando luogo ad un elevato rapporto di varianza dell’errore rispetto alla varianza vera (Larsen & Fredrickson, 1999), i risultati basati su misure con un singolo item dovrebbero essere interpretati in modo molto prudente. Schwarz e Strack (1991) hanno fornito un impressionante elenco di possibili fonti di distorsione relative all’utilizzo degli item singoli, tra cui le condizioni meteorologiche, il momento della giornata in cui avviene la rilevazione, i vari aspetti su cui l’intervistatore richiama l’attenzione del soggetto, il contesto in cui avviene la rilevazione (ad esempio un laboratorio disagevole piuttosto che accogliente, oppure la presenza di una persona disabile nella stessa stanza) e il modo in cui le domande vengono formulate. Nonostante le numerose critiche, non mancano i sostenitori dell’adeguatezza di queste misure globali di SWB; Cummis, ad esempio, afferma che una singola domanda generale nella forma “Quanto sei soddisfatto della tua vita in generale?” permette di soddisfare due caratteristiche molto desiderabili per la misurazione del SWB, ovvero gli alti livelli di soggettività e di astrazione. L’alto livello di astrazione, in particolare, permette ad ogni individuo di combinare le varie soddisfazioni dominio-specifiche, che hanno un peso del tutto personale, in un unico giudizio complessivo. Tuttavia, Schwarz e Strack (1991) fanno notare che la richiesta di formulare un unico giudizio generale sulla propria vita, pone al rispondente un compito estremamente difficile. Sul piano teorico, sappiamo che nella formulazione dei giudizi intervengono strategie di semplificazione, ovvero le persone fanno ricorso ad euristiche. Le persone hanno a disposizione numerose fonti di informazione per giungere ad una valutazione finale sulla propria vita, che possono essere schematizzate in due grandi gruppi: informazioni derivanti dallo stato affettivo attuale e informazioni derivanti dai processi cognitivi di confronto con numerosi termini di paragone. Di fronte ad un singolo item globale, il rispondente è libero di utilizzare qualsiasi criterio preferisca per dare la sua valutazione, tuttavia i processi mediante i quali egli arriva a formulare questo giudizio rimangono oscuri ai ricercatori, lasciandoli nel dubbio riguardo a ciò che stanno realmente misurando. Ciò mette in luce il problema dell’indeterminatezza del processo euristico messo in atto dalle persone, in altre parole i ricercatori non sono in grado di stabilire in quali condizioni gli individui fanno riferimento ad un tipo di informazione affettiva oppure cognitiva (Schwarz & Strack, 1991).
Misurare il benessere soggettivo attraverso le sue componenti: il modello di Diener
Nel suo influente articolo del 1984, Diener ha proposto che il Benessere Soggettivo può essere definito come: presenza di soddisfazione per la vita (Life Satisfaction, LS), presenza di affect positivo (Positive Affect, PA) e assenza di affect negativo (Negative Affect, NA). Successivamente, Diener, Suh, Lucas, e Smith (1999) hanno incluso nella definizione di SWB anche la soddisfazione per specifici domini della vita (domain satisfaction = DS). Nella Figura 1 viene proposta una schematizzazione delle principali componenti del SWB.
Figura 1: Concettualizzazione del costrutto di Benessere Soggettivo
Attualmente i ricercatori concordano nel distinguere tra componenti cognitive e affettive del SWB (Diener, 1984; Diener et al., 1999; Cummins, 2010). La soddisfazione per la vita e la soddisfazione dominio-specifica sono considerate componenti cognitive, perché si basano sulle valutazioni, credenze, atteggiamenti, delle persone riguardo le loro vite. La componente affettiva del SWB è valutata attraverso l’affect positivo e l’affect negativo, che riflettono la quantità di sentimenti piacevoli e spiacevoli che le persone esperiscono nelle loro vite. La misura delle componenti cognitive si basa sul costrutto di soddisfazione per la vita, che rappresenta un resoconto di come un rispondente valuta la sua vita nell’insieme. Ha l’obiettivo di rappresentare una valutazione ampia e riflessiva che la persona fa della sua vita (Diener, 2006). Per comprendere il costrutto di LS, possiamo fare ancora riferimento al lavoro sulla felicità di Tatarkiewick, che fornisce più o meno implicitamente le basi teoriche per la ricerca nell’area del benessere soggettivo (Diener, 1984). Secondo Tatarkiewicz, la definizione più appropriata di felicità è una particolare forma di soddisfazione, che risponde a tre condizioni fondamentali: (a) deve rappresentare una soddisfazione piena, completa; (b) deve riguardare la vita nel suo complesso; (c) deve essere durevole (Tatarkiewicz, 1976, p. 46). La sua definizione di felicità come soddisfazione completa, duratura, tale da interessare la vita nella sua totalità à stata esplicitamente utilizzata da Diener per la definizione del costrutto di LS, che si riferisce a un processo di giudizio cognitivo riguardo la vita in generale (Diener, 1984). Più in particolare, Diener fa riferimento alla definizione di Shin e Johnson (1978) di soddisfazione per la vita come una “valutazione globale della qualità della vita di una persona in accordo ai propri criteri”.
La soddisfazione dominio-specifica (Domain Satisfaction = DS) è il giudizio che danno le persone nella valutazione dei più importanti domini della vita, come la salute mentale e fisica, il lavoro, il tempo libero, le relazioni sociali e la famiglia. In genere, le persone indicano quanto sono soddisfatte nelle varie aree, ma potrebbero anche indicare quanto gli piace la loro vita, quanto sono distanti dal loro ideale, quanto piacere esperiscono e quanto vorrebbero cambiare le loro vite, per ogni area della vita. La definizione dei domini specifici è molto controversa. Cummins (1996) ha individuato 173 nomi diversi utilizzati in letteratura per definire i vari domini, il 68% dei quali potevano essere classificati entro sette categorie: tenore di vita, realizzazione personale, relazioni, salute, sicurezza futura, connessione con la comunità e sicurezza personale. Attraverso l’utilizzo di queste dimensioni Cummins ha costruito il ComQol (Cummins, 1995) e successivamente il PWI (Cummins, Eckersley, Pallant, Van Vugt, & Misajon, 2003). I punteggi ottenuti con gli strumenti di soddisfazione dominio-specifica non possono essere sommati per dare dei punteggi di soddisfazione generale, dato che ogni dominio della vita avrà un peso diverso per ciascun individuo. Ad esempio, c’è chi dà grande importanza alla carriera lavorativa e meno alla famiglia, oppure chi trae molta soddisfazione dalle relazioni sociali e chi non vi è interessato. Ciò significa che le circostanze di vita hanno effetti positivi, negativi o ininfluenti a seconda dell’area della vita in cui una persona viene colpita e a seconda della personale scala di valori dell’individuo. Detto in altri termini, se un individuo ha subito recentemente una grande delusione in amore, potrebbe rispondere che è molto soddisfatto del suo tenore di vita, del suo lavoro, della sua salute, ecc, ma insoddisfatto nel dominio delle relazioni; se facessimo una media dei suoi punteggi, otterremmo che quell’individuo è abbastanza soddisfatto, mentre in realtà la delusione in amore ha un peso così grande nella sua vita da farlo sentire profondamente infelice. Tuttavia, gli strumenti che misurano la soddisfazione dominio-specifica, possono rivelarsi utili in molteplici casi, ad esempio nell’ambito della ricerca scientifica, oppure nell’ambito delle politiche sociali, dove possono essere utilizzati per fornire maggiori informazioni ai decisori politici sulla percezione di benessere dei cittadini in specifici ambiti della vita. La soddisfazione dominio-specifica resta comunque un campo di indagine in gran parte da esplorare, dato che risulta molto complesso stabilire quali e quante sono le dimensioni da considerare tra le più rilevanti nella vita degli individui in generale.
Un altro aspetto controverso riguarda la relazione causale fra LS e DS. Le prime ricerche si sono quasi tutte concentrate sulle variabili DS come cause della LS, tuttavia l’unico tipo di relazione osservabile fra queste misure è la correlazione. Diener (1984) ha distinto fra teorie bottom-up e top-down del SWB, che si riferiscono al rapporto causale tra le componenti cognitive del SWB, ovvero al rapporto fra soddisfazione per la vita e soddisfazione dominio specifica (LS-DS).
Le teorie bottom-up assumono che i giudizi globali di soddisfazione per la vita siano basati sulla valutazione della soddisfazione relativa ai domini della vita (Andrews & Withey, 1976; Brief, Butcher, George, & Link, 1993; Heller, Watson, & Hies, 2004; Schimmack, Diener, & Oishi, 2002). Queste teorie assumono che la correlazione LS-DS rifletta l’influenza causale di DS su LS. In particolare, vengono scelti alcuni domini e si assume che la combinazione additiva lineare della soddisfazione nei diversi domini sia in grado di spiegare il SWB (Headey, Veenhoven & Wearing, 1991). Per esempio, si assume che se una persona ha un alto livello di soddisfazione per le sue relazioni interpersonali, per il lavoro, per le attività del tempo libero, avrà anche un alto livello di soddisfazione per la vita, dato che tutti i domini elencati sono aspetti egualmente importanti della soddisfazione generale per la vita.
Le teorie top-down sostengono invece che la direzione di causalità va da LS a DS. Chi è soddisfatto della sua vita in generale, tende a valutare positivamente anche i domini specifici della vita, quindi la soddisfazione generale per la vita non si basa sulla soddisfazione per specifici domini. Diener (1984), nota che le alte intercorrelazioni fra i diversi domini potrebbero rappresentare l’evidenza della validità di un modello top-down. Le alte correlazioni fra i vari domini, suggeriscono che la soddisfazione dominio-specifica potrebbe essere semplicemente il risultato del livello complessivo di soddisfazione per la vita. In altre parole, mentre i modelli bottom-up assumono che un cambiamento in DS si traduca in un cambiamento in LS, i modelli top-down assumono che i cambiamenti in DS non abbiano alcun effetto su LS.
Una terza possibilità, messa in luce da Costa e McCrae (1980), è che le relazioni causali tra soddisfazioni dominio-specifiche e misure di SWB siano in realtà spurie, con entrambi i set di variabili dipendenti da tratti stabili di personalità, in particolare estroversione e nevroticismo. I tre modelli non sono mutuamente escludentisi (Headey, Veenhoven & Wearing, 1991), dato che ancora non è stata fornita alcuna prova concreta della direzione causale fra queste variabili. Infatti, per dire che A causa B, bisogna dimostrare che:
A e B sono correlati
La correlazione non è interamente spuria
A precede temporalmente B (i cambiamenti in A precedono quelli in B)
La terza condizione è quella che presenta maggiori difficoltà, e che può essere indagata solo attraverso studi longitudnali.
La misura delle componenti affettive riguarda la rilevazione dell’affect positivo e negativo delle persone, e costituisce un ambito di indagine che spesso viene trattato separatamente dalla misura delle componenti cognitive. La letteratura sull’affect coinvolge un vasto numero di ricerche e di teorie, tuttavia nell’ambito della ricerca sul SWB, viene generalmente accettata la concettualizzazione e l’operazionalizzazione del costrutto secondo la prospettiva di Watson e Tellegen (1985). Secondo questi autori l’affect può essere misurato considerando le sue due dimensioni fondamentali, quella positiva e quella negativa. L’Affect Positivo (PA) riflette la misura in cui una persona si sente entusiasta, attiva e vigile. Alti livelli di PA indicano uno stato di elevata energia, piena concentrazione e impegno piacevole, mentre i bassi livelli di PA sono caratterizzati da tristezza e letargia. L’Affect Negativo (NA) è una dimensione generale che esprime distress ed emozioni spiacevoli, e che si riconduce ad una varietà di stati d’animo negativi, tra cui rabbia, disprezzo, disgusto, senso di colpa, paura e nervosismo. Livelli bassi di NA indicano uno stato di calma e serenità. Contrariamente a ciò che ci potremmo aspettare, l’affect positivo e l’affect negativo non sono inversamente proporzionali e non devono essere considerati come i due poli opposti della stessa dimensione (Diener & Emmons, 1984).
Bradburn (1969) è stato il primo a proporre di misurare il benessere psicologico generale come bilancio fra affect positivo e negativo. L’Affect Balance Scale è una scala composto da 10 item, 5 per la sottoscala affect positivo e 5 per la sottoscala affect negativo. Il punteggio complessivo si ottiene sottraendo NA da PA.
Anche il Positive and Negative Affect Schedule (PANAS: Watson, Clark e Tellegen, 1988) misura PA e NA separatamente, mentre più recentemente Diener et al. (2010) hanno proposto la Scale of Positive and Negative Experience (SPANE).
Alcuni dei problemi fondamentali messi in evidenza per la misurazione dell’affect attraverso strumenti self-report, riguardano il fatto che persone diverse identificano e nominano differenti esperienze in modi diversi, alcune persone negano o ignorano le emozioni, oppure sono riluttanti a riportare le loro emozioni, inoltre, gli individui esperiscono e ricordano diverse emozioni con differenti livelli di intensità, frequenza e durata (Diener, 1994), per cui la valutazione dell’affect basata soltanto sui self-report dovrebbe essere condotta con molta cautela (Russell, 1991).
L’approccio edonico di Kahneman
Kahneman riconosce la distinzione fondamentale fra due dimensioni della felicità: quella esperenziale e quella valutativa (vedi es. Kahneman & Riis, 2005). Questa posizione è analoga a quella di Diener che distingue fra componenti affettive e cognitive del SWB, tuttavia, Kahneman prende le distanze dai metodi di misura tradizionali sul SWB e si pone in una prospettiva puramente edonica, conferendo primaria importanza alla componente affettiva. Kahneman (in Kahneman, Wakker & Sarin, 1997) rivisita il concetto classico di utilità di Bentham (1798) riferendosi ad esso come utilità esperita (experienced utility) e si confronta con la possibilità di misurarla al fine di poter costruire degli indicatori di benessere. L’utilità, così come la intendeva Bentham, riguarda il piacere e il dolore, ossia la dimensione edonica dell’esperienza: “La natura ha posto l’umanità sotto il governo di due sommi sovrani, il dolore e il piacere. Soltanto in riferimento a essi si stabilisce ciò che si deve fare, come ciò che si farà” (cit. in Kahneman, 2012, p. 35). La critica che Kahneman (2000) rivolge alle tradizionali misure di SWB è che si basano su una valutazione retrospettiva del soggetto riguardo la propria esperienza di vita. Le valutazioni retrospettive di esperienze sono soggette a stime erronee della vera utilità totale delle esperienze passate. Le valutazioni cognitive sono soggette a numerosi bias (Schwarz & Strack, 1991), per cui non permettono di ricavare una misura reale, o oggettiva, di felicità. In numerosi lavori di Kahneman viene messa in evidenza l’incapacità delle persone di compiere valutazioni razionali, utilizzando le stesse parole dell’autore “le persone generalmente non sanno quanto sono felici” (in Kahneman, Diener & Schwartz, 1999, p. 21). Per evitare i bias dovuti al richiamo mnestico, Kahneman ha elaborato un approccio basato sul momento (moment-based) per misurare la felicità oggettiva. Il termine “oggettiva” è usato in quanto il giudizio di felicità è ottenuto secondo regole oggettive, mentre i dati utilizzati per il giudizio finale sono le esperienze soggettive.
Il metodo attraverso il quale si assume possa essere effettuata una rilevazione oggettiva della felicità è il “metodo per il campionamento dell’esperienza” (Experiencing Sampling Method, ESM), una procedura che permette di compiere numerose rilevazioni in tempo reale (Csikszentmihalyi & Larson, 1987, Csikszentmihalyi, 1990; Stone, Shiffman, DeVries & Frijters 1999). Kahneman fa derivare l’utilità esperita di un episodio (utilità totale) dalle misure in tempo reale del piacere e del dolore (utilità-momento) che il soggetto ha sperimentato durante quell’episodio. Dato un episodio di una certa durata temporale, la registrazione momento per momento dell’utilità, misurata attraverso la sua valenza (positiva o negativa) e intensità (da lieve a estrema), permette di ottenere un profilo temporale di utilità-momento. L’utilità totale è calcolata attraverso l’integrale dell’utilità-momento. Come l’utilità totale, la felicità oggettiva è un concetto basato sul momento, che viene operazionalizzato esclusivamente da misure dello stato affettivo delle persone in particolari momenti nel tempo. In questo senso, la felicità oggettiva differisce dalle misure standard di benessere soggettivo, che sono basate sul richiamo mnestico e richiedono al soggetto di segnalare una valutazione globale del passato recente.
L’approccio eudamonico al benessere
Dalla pubblicazione di Well-being: the foundations of hedonic psychology (Kahneman, Diener & Schwartz, 1999), il SWB è stato associato all’approccio edonico al benessere. Una più precisa interpretazione del benessere edonico, tuttavia, dovrebbe utilizzare solo l’affect positivo e negativo come indice di felicità, poiché, come abbiamo visto, la soddisfazione per la vita così come è stata operazionalizzata da Diener non è strettamente un concetto edonico, ma comprende anche una valutazione cognitiva delle condizioni di vita. L’approccio edonico in senso stretto, è quello a cui fa riferimento il lavoro di Kahneman. Definire edonica la tradizionale prospettiva di ricerca sul SWB nell’ambito delle scienze sociali sarebbe scorretto, ma in letteratura questa etichetta serve soprattutto per contrapporla all’approccio eudamonico, che nella definizione di Tooby e Cosmides (1992) è volto ad attribuire un contenuto alla natura umana e lavora per scoprire quel contenuto e per capire le condizioni che facilitano o ostacolano il suo dispiegamento.
La visione eudamonica può essere fatta risalire alla filosofia tardo-aristotelica e allo sviluppo di varie tradizioni intellettuali del XX secolo, inclusa la psicologia umanistica. Secondo Waterman (1993), il fatto che le persone riportino di essere felici (o che hanno affect positivo o che sono soddisfatte), non significa che stiano bene psicologicamente. L’eudamonia si riferisce al vivere bene o all’attualizzazione del potenziale umano. Questa concettualizzazione stabilisce che il benessere non è solo un risultato o uno stato finale, piuttosto è un processo di realizzazione della propria natura, di attualizzazione del proprio potenziale virtuoso e del vivere interamente come uno ha intenzione di vivere. Fra le teorie più importanti elaborate nell’ambito eudamonico vi sono quelle di Ryff (1989), Deci e Ryan (1985), e Csikszentmihalyi (1990).
Carol Ryff (1989) ha elaborato il costrutto di benessere psicologico (Psychological Well-Being), definendolo come ‘lo sviluppo e l’auto-realizzazione dell’individuo’ (Ryff, 1989). Il lavoro di Ryff prende come riferimento l’estesa letteratura sul funzionamento psicologico positivo, ad esempio il concetto di auto-realizzazione di Maslow (1968), di persona pienamente funzionante di Rogers (1961), di individuazione di Jung (1933) e di maturità di Allport (1961). Un’ulteriore dimensione presa in considerazione deriva dalle prospettive dello sviluppo nell’arco della vita (Life Span), che sottolineano le diverse sfide da affrontare nelle varie fasi del ciclo di vita, ad esempio il modello di Erikson (1959) delle fasi di sviluppo psicosociale, il concetto di Buhler di tendenze di base nella vita verso il compimento personale (Buhler, 1935; Buhler & Massarik, 1968), le descrizioni di Neugarten (1968, 1973) di come la personalità cambia in età adulta e nella terza età e i criteri positivi di salute mentale di Jahoda (1958). Carol Ryff (1982, 1985) nota che queste prospettive hanno avuto uno scarso impatto sul piano empirico, soprattutto per la mancanza di misure valide, ma anche per la difficoltà di decidere quali fra le molte concettualizzazione catturano le caratteristiche fondamentali di funzionamento psicologico positivo. Ryff (1989) ha sintetizzato in un unico modello teorico di benessere psicologico le sei dimensioni fondamentali che emergono dalle teorie precedentemente citate: (a) accettazione di sé, (b) crescita personale, (c) scopo nella vita, (d) padronanza ambientale, (e) autonomia, (f) relazioni positive con gli altri.
Deci e Ryan (1985) hanno proposto la teoria dell’autodeterminazione, in cui l’essere umano è visto come un organismo attivo che tende a realizzare le proprie capacità e a sviluppare armonicamente i vari aspetti della sua personalità. Secondo Deci e Ryan in ogni persona ci sono tre bisogni innati fondamentali: (a) bisogno di competenza: sentirsi efficace nelle interazioni con l’ambiente e nell’esercitare ed esprimere le proprie capacità; (b) bisogno di autonomia: sentirsi in grado di compiere delle scelte, di impegnarsi in attività che nascono dalla propria volontà e non sono causate o imposte dalla volontà altrui; (c) bisogno di relazioni con gli altri: sentirsi integrati con gli altri, sentirsi appartenenti a un gruppo o una comunità, star bene con gli altri. Solo se il soggetto vive in un ambiente che promuove la sua autodeterminazione, ovvero che gli dà la possibilità di soddisfare i suoi bisogni fondamentali, avrà la possibilità di accrescere la sua motivazione e sviluppare un senso del sé unitario e integrato.
La teoria del flow di Mihaly Csikszentmihalyi (1990) si differenzia dalle due teorie precedenti, poiché cerca di rintracciare le fonti di benessere e felicità all’interno dell’individuo. Il lavoro teorico di Csikszentmihalyi avviene a partire dagli anni ‘60, quando per la sua tesi di dottorato si interessò allo studio approfondito di un gruppo di pittori e scultori. Egli notò il coinvolgimento intenso degli artisti, che passavano ore e ore, nella massima concentrazione, a realizzare la loro opera. La ricerca di una spiegazione a questa particolare esperienza, non poteva basarsi sul paradigma comportamentista del tempo, ovvero sulla spiegazione del comportamento in termini di rinforzo esterno. Il lavoro teorico e di ricerca di Csikszentmihalyi si inscrive piuttosto nel concetto di “motivazione intrinseca” e di “espereinza autotelica”. L’esperienza autotelica si riferisce a quelle attività che una persona intraprende senza l’aspettativa di ricevere in cambio alcun beneficio, ma semplicemente perché l’azione stessa dà gratificazione (Csikszentmihalyi, 1997). Questa definizione si riassume nel termine flow, ovvero flusso, che è l’espressione più utilizzata dalle persone intervistate da Csikszentmihalyi quando descrivevano le loro esperienze autoteliche (l’analisi di tali colloqui ebbe come esito la pubblicazione di Beyond Anxiety and Boredom nel 1975). L’attenzione di Csikszentmihalyi si è dunque rivolta alla qualità dell’esperienza soggettiva che rende il comportamento intrinsecamente gratificante. Per studiare il flow in un contesto naturale, Csikszentmihalyi (Csikszentmihalyi, & Larson, 1987) ha sviluppato l’Experience Sampling Method (ESM). Questa procedura richiede ai partecipanti di portare con sé un cercapersone per una settimana e di compilare un questionario ogni volta che ricevono il segnale. Il cercapersone emette un segnale acustico circa 8 volte al giorno, in maniera casuale. In questo modo è possibile registrare i rapidi cambiamenti di stato di coscienza durante le normali condizioni di vita quotidiana: i partecipanti devono riportare il loro stato mentale su una varietà di dimensioni, indicando su una scala a 7 punti se si sentono da “molto felici” a “molto tristi”. I risultati con L’ESM indicano che potenzialmente quasi tutte le attività umane possono produrre un’esperienza di flow (o esperienza ottimale) e che le persone tendono a sentirsi maggiormente felici quando sono coinvolte in attività che richiedono poche risorse materiali, ma un investimento relativamente elevato di risorse psichiche (ad esempio gli hobby). Nel lungo periodo, le esperienze ottimali si sommano a formare un senso di padronanza, di partecipazione, andando a determinare il senso della vita. Poiché l’esperienza ottimale dipende dalla capacità di controllare ciò che accade nella coscienza, momento per momento, ogni persona ha la possibilità di raggiungerla grazie ai suoi sforzi individuali e alla sua creatività. Ciò accade quando l’energia psichica, l’attenzione, sono investite in obiettivi realistici e quando le competenze sono compatibili con le opportunità di azione.
Il successo della prospettiva eudamonica ha portato recentemente alla nascita della psicologia positiva. Il movimento della psicologia positiva è stato annunciato da Seligman alla fine degli anni novanta (Seligman, 1999) e formalizzato in un articolo di Seligman e Csikszentmihalyi del gennaio 2000. Il messaggio chiave che lanciano gli autori, è che “gli psicologi hanno una scarsa conoscenza di ciò rende la vita meritevole di essere vissuta. […]. [La psicologia] si è concentrata sulla riparazione di ciò che non va, adottando un modello di malattia del funzionamento umano. Questa attenzione quasi esclusivamente rivolta alla patologia trascura la realizzazione dell’individuo e il fiorire della comunità” (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000, p. 5). Lo scopo del movimento è quello di catalizzare un cambiamento interno alla psicologia tradizionale, spostando l’attenzione dagli aspetti negativi e disadattivi, verso le qualità positive delle persone (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000).
In passato l’approccio edonico e quello eudamonico allo studio del benessere erano considerati due distinte aree di ricerca, quasi inconciliabili. Se da una parte la tradizione edonica si è concentrata sull’operazionalizzazione del costrutto di benessere soggettivo e sulla costruzione di indicatori sociali, dall’altra la tradizione eudamonica si è maggiormente focalizzata sullo sviluppo di molteplici teorie che potessero spiegare l’agire umano teso alla realizzazione personale e alla felicità. Più recentemente, alcuni autori hanno precisato che l’approccio edonico ed eudamonico sembrano così distanti tra loro semplicemente perché è diverso l’oggetto della loro ricerca: mentre in ambito edonico l’interesse è rivolto alla misura diretta, in ambito eudamonico l’interesse è orientato alla ricerca degli antecedenti del benessere soggettivo. Negli ultimi anni è diventato chiaro che il benessere soggettivo è un costrutto multidimensionale e complesso, per cui l’approccio eudamonico non può che apportare un importante contributo alla comprensione e alla misurazione del benessere soggettivo (Ryan & Deci, 2001).
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[1] Nel 1974 Richard Easterlin pubblicò un articolo: “Does economic growth improve the human lot?”, chiedendosi appunto se fossero davvero i soldi a fare la felicità. Easterlin evidenziò che nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza. Questo paradosso, secondo Easterlin, si può spiegare osservando che, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi comincia a diminuire, seguendo una curva ad U rovesciata (Easterlin, 1974). Il paradosso di Easterlin ha messo in crisi l’impostazione mondiale dei mercati indirizzati alla crescita misurata sulla base del PIL ed ha portato economisti e psicologi ad interrogarsi più approfonditamente su che cosa intendono le persone per “felicità”. Se, infatti, raggiungere il benessere economico non garantisce una vita felice, il paradosso di Easterlin induce a riflettere su quali obiettivi e quale stile di vita è meglio perseguire e quali sono le prospettive di benessere sociale per una società che intenda mettere la persona e i suoi bisogni al centro di ogni decisione pubblica (Kahneman, Krueger, Schkade, Schwarz & Stone, 2006).
O tu, che come un coltello sei penetrata nel mio cuore gemente: o tu, che come un branco di demoni, venisti, folle e ornatissima, a fare del mio spirito umiliato il tuo letto e il tuo regno – infame cui sono legato come il forzato alla catena, come il giocatore testardo al gioco, come l’ubbriaco alla bottiglia, come i vermi alla carogna – maledetta, sii tu maledetta!
Charles Baudelaire
di Serena Baroncelli, psicologa, allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato
30 gennaio 2016
Il contenuto è sicuramente scottante, seppur con una vena provocatoria! È uscito il 7 gennaio per l’autorevole the Guardian, firmato da Oliver Burkeman Therapy wars: the revenge of Freud (long read version) un articolo di grande interesse per l’establishment psicoanalitico internazionale, che sancisce la validità e l’efficacia della terapia psicoanalitica. Questo non implica una critica negativa nei confronti di altri modelli, tuttavia abbiamo ritenuto doveroso, dopo le innumerevoli sanzioni dei detrattori della psicoanalisi, portare all’attenzione del nostro pubblico la graffiante disamina di Burkeman sui risvolti “a lungo termine” delle psicoterapie: sulla distanza, soltanto la psicoanalisi del profondo garantisce una completa risoluzione delle cause alla base del disagio psichico.
Il Polo Psicodinamiche si è subito mobilitato per dare a tutti i colleghi italiani l’opportunità di conoscere i dettagli. Di seguito una traduzione per il nostro pubblico in Italia, dalla dott.ssa Serena Baroncelli, psicologa, e Allieva della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato. Abbiamo pensato di tradurre revenge con rivincita anziché vendetta, più letterale ma sicuramente meno “sportivo”! Vediamo i tratti salienti del documento.
La terapia cognitivo-comportamentale, o CBT, è una tecnica che si concentra sul presente anziché sul passato, non volge la sua attenzione a misteriosi e sconosciuti impulsi ma sull’aggiustare pattern di pensieri disfunzionali che sono la causa delle emozioni negative. L’obiettivo degli esercizi della CBT è quello di identificare i cosiddetti “pensieri automatici” che caratterizzano l’atteggiamento tipico dell’individuo quando si interfaccia con le diverse situazioni di vita, come essere criticato a lavoro ad esempio.
Sviluppatasi tra gli anni ’60 e ’70, la CBT è una delle principali “terapie supportate empiricamente”, basata cioè sui fatti, dura meno rispetto ad una psicanalisi, per cui la probabilità di portarla a termine è maggiore. L’elemento intorno a cui i due tipi di psicoterapia, la psicanalisi e la CBT, differiscono, ruota intorno alla concezione di essere umano e di sofferenza. La CBT abbraccia una visione particolare del concetto di emozione: nello specifico, le emozioni disturbanti sono primariamente qualcosa da eliminare e nel caso non si riuscisse in questo, quanto meno renderle tollerabili. Sembra che raggiungere la felicità sia abbastanza semplice secondo questo approccio: il disagio è causato dai nostri pensieri e credenze irrazionali, sta a noi prenderne consapevolezza e cambiarli. Per l’approccio psicanalitico invece le cose sono molto più complesse e complicate di quanto emerga dalle concettualizzazioni cognitivo-comportamentali. Innanzitutto, il dolore, la sofferenza psicologica, non deve essere eliminata ma compresa, ascoltata e capita: la depressione di un paziente, in questo senso, ci comunica sempre qualcosa ed è necessario scovare quel qualcosa. L’essere umano pertanto è molto complesso: spesso le persone possiedono motivi molto convincenti per non cambiare niente della loro vita, nonostante entrino in analisi proprio per cambiare qualcosa della loro stessa vita. Noi vediamo la nostra esistenza tramite le lenti delle primissime relazioni, lenti di cui generalmente non ne siamo coscienti: tutto questo appartiene al campo dell’inconscio. Tuttavia per esplorare l’oceano dell’inconscio non sono sufficienti gli strumenti della CBT, semplici e standardizzati.
Se in un primo tempo questo approccio sembrava mostrare la propria superiorità in termini di efficacia sugli altri, dagli inizi degli anni ’70 questa concezione è andata diminuendo a seguito di numerose ricerche sperimentali che hanno dimostrato che la maggior parte dei pazienti (ricoverati per depressione) trae maggior beneficio, sia a breve che a lungo termine, da un trattamento psicanalitico piuttosto che da tecniche combinate, tra le quali la CBT. Questi risultati confermano l’opinione di molti psicanalisti, i quali sostengono che la preminenza della CBT nel corso del tempo sia stata costruita su basi di sabbia, effimere.
La premessa principale della psicanalisi si basa sulla concezione di inconscio: in particolare sostiene che la nostra vita e tutto ciò che gravita intorno ad essa, siano decisioni, scelte, attitudini, siano in gran parte governate da forze inconsapevoli, inconsce, che ci parlano solo indirettamente, attraverso i simboli, che si esprimono nei sogni, attraverso i lapsus, ma anche nel fenomeno definito come proiezione, per cui quel qualcosa dell’altro che ci fa infuriare è il prodotto di quanto in realtà non accettiamo di noi stessi. Al contrario, comportamentisti come Skinner, hanno mostrato come il comportamento umano possa essere facilmente manipolato attraverso i meccanismi della punizione e della ricompensa; ancora, la rivoluzione cognitiva ha sostenuto l’idea che anche la mente umana, alla stregua del comportamento manifesto, potesse essere manipolata e misurata sperimentalmente. E a partire dagli anni ’40 del 1900, le contingenze della realtà iniziavano a chiedere proprio questo: migliaia di soldati di ritorno dalla seconda guerra mondiale presentavano gravi disturbi di natura emozionale che necessitavano di un trattamento rapido, a basso costo, non anni di conversazione su un divano con il proprio analista.
Secondo l’approccio cognitivo-comportamentale, non è necessario scoprire le ragioni recondite della propria sofferenza attraverso la relazione terapeutica; in analisi, la relazione tra il terapeuta ed il paziente rappresenta una componente di primaria importanza per la buona riuscita della terapia: in essa il paziente riattualizza i suoi modi abituali di relazionarsi agli altri, rendendo possibile in questo modo una migliore comprensione degli stessi. Nella CBT, invece, nella seduta, risulta fondamentale porsi come obiettivo principale l’eliminazione del problema.
Nonostante la CBT possa in qualche modo essere utile nel trattamento di alcuni disturbi, dalla depressione al disturbo ossessivo-compulsivo fino al disturbo post-traumatico da stress, agendo sui soli sintomi manifesti, è innegabile come il modello della mente e della sofferenza dell’uomo manchi di alcuni tasselli importanti, significativi. Le nostre esperienze di vita, le relazioni con gli altri, sono qualcosa di estremamente complesso. La risposta a tutti i nostri dolori può davvero risolversi tramite l’identificazione dei cosiddetti “pensieri automatici”, o nella modifica del nostro linguaggio interno o delle critiche che rivolgiamo a noi stessi? La relazione terapeutica può essere sostituita da un libro o da un computer?
Una possibile risposta ci viene offerta da una paziente, che ha richiesto un trattamento a causa di una depressione post-partum. Tramite la CBT, ha partecipato a delle sessioni inizialmente tramite l’uso del computer. La paziente rivela: “Niente mi ha fatto sentire più sola e isolata quanto avere un programma al computer che mi chiedesse quanto mi sentissi triste su una scala da uno a cinque”. Quello che manca, come vediamo, è un’autentica relazione, il bisogno di essere contenuti nella mente di un’altra persona.
Ricerche più recenti dimostrano ancora la maggiore efficacia dell’approccio psicanalitico rispetto ai “trattamenti abituali”; talvolta la differenza più marcata si ritrova a conclusione della terapia: dopo mesi o anni, i benefici della terapia tradizionale svaniscono, mentre quelli delle terapie psicoanalitiche permangono o risultano addirittura incrementati, suggerendo che la terapia agisce ristrutturando la personalità nel lungo periodo, piuttosto che aiutare semplicemente le persone a gestire il loro umore. Alcuni sostengono che la CBT possa peggiorare il modo di concettualizzare la sofferenza: le tecniche utilizzate sembrano implicare la promessa che esista un modo semplice, composto da fasi, che possa vincere sulla malattia e il dolore. Questa prospettiva sembra rassicurante sia dal punto di vista del paziente che da quello del terapeuta inesperto, perché implica un obiettivo manifesto sul quale concentrarsi. D’altra parte questo approccio non nega completamente l’importanza delle esperienze passate dato che, come afferma il dr Trudie Chalder, professore londinese di psicoterapia cognitivo-comportamentale, i pensieri irrazionali derivano da esperienze di vita precoci.
Come afferma Grosz: “Ogni esistenza è unica e il ruolo dell’analista è proprio quello di scoprire e far emergere la storia unica e specifica del paziente; l’analista deve essere recettivo ai lapsus, alle specifiche parole utilizzate dal paziente, alle sue fantasie, infine utilizzarle per aiutarlo a dare un significato alla sua esistenza”. La discriminante tra i due approcci discussi sinora sembra essere la presenza di un terapeuta amorevole e disponibile. Potremmo concludere allora con le parole con cui Micheal Balint si rivolgeva ai medici in supervisione: “Qual è secondo voi la medicina più efficace e potente da prescrivere?” La risposta è: “La relazione”.
Questo libro, curato da me, è stato pubblicato in Inghilterra nel 2013, e ora la FrancoAngeli ha pubblicato la traduzione italiana, con la Prefazione di Antonio Imbasciati. Esso contiene due inediti: un seminario tenuto da Bowlby a Milano nell’aprile 1985, e la sua corrispondenza con me, durata otto anni, dal 1982 al 1990. Bowlby è famoso come autore della teoria dell’attaccamento, ma nel seminario dimostra anche di essere un grande clinico, e nella corrispondenza con me un grande maestro.
La teoria dell’attaccamento
Dopo avere lavorato sui bambini privi di cure materne per l’OMS (L’Organizzazione Mondiale della Sanità), Bowlby cercò una base teorica per spiegare la sofferenza di questi bambini. La trovò nell’etologia ed elaborò quindi la teoria dell’attaccamento nella trilogia di Attachment, Separation and Loss (Attaccamento, separazione e perdita), che venne pubblicata in un periodo di dodici anni, dal 1969 al 1980. Secondo questa teoria, il bambino tende a stabilire un rapporto di attaccamento con la madre, la quale risponde con il comportamento complementare di cura parentale (“caregiving”). La madre fornisce “una base sicura da cui esplorare”. Questa formula racchiude due bisogni fondamentali e successivi: la base sicura fornisce la sicurezza, che permette poi di esplorare, ossia di raggiungere gradualmente l’autonomia.
La teoria è partita dallo studio empirico degli effetti di una situazione traumatica per un bambino, cioè la separazione dalla madre dovuta ad un ricovero ospedaliero. La reazione del bambino segue tre fasi: dapprima il bambino protesta, per richiamare la madre; se la separazione si prolunga, segue una fase di disperazione; infine, il bambino rinuncia ed assume un atteggiamento distaccato. Il ricovero ospedaliero è una situazione impersonale, dovuta a motivi medici, e prescinde dagli atteggiamenti della madre. La separazione fisica si presta allo studio quantitativo, ma gli stessi effetti vengono provocati da una separazione emotiva dovuta ad atteggiamenti negativi da parte della madre.
I vari tipi di attaccamento si possono osservare all’età di un anno in una situazione sperimentale, la Strange Situation, ideata da Mary Ainsworth, che consiste in una separazione breve, quindi non traumatizzante, di circa venti minuti, dopo avere osservato gli atteggiamenti della madre a casa nei mesi precedenti. Il bambino viene osservato in una stanza con dei giuochi, in varie combinazioni: con la madre, con una persona estranea, e quando la madre ritorna, ed è questo il momento più importante. La Ainsworth ha descritto l’attaccamento sicuro (il bambino accoglie la madre, poi torna a giocare), e due tipi di attaccamento insicuro, il resistente (il bambino va in braccio alla madre, poi si divincola), e l’evitante (il bambino non guarda la madre). Il bambino sicuro ha avuto una madre sensibile ai suoi segnali, il bambino resistente ha avuto una madre insensibile, il bambino evitante ha avuto una madre rifiutante, oltre che insensibile. Mary Main ha aggiunto il tipo di attaccamento più grave, quello di tipo D, disorganizzato/disorientato (il bambino va verso la madre, ma guardando da un’altra parte). La Main ha anche studiato le madri attraverso l’AAI (Adult Attachment Inventory), e ha visto che l’attaccamento di tipo D è correlato con traumi non risolti della madre (spesso, un lutto), che impauriscono il bambino.
Bowlby afferma che il comportamento di attaccamento è stato selezionato nel corso dell’evoluzione a causa del suo valore di sopravvivenza, che consiste nella difesa dai predatori. Lo abbiamo in comune con tutti i mammiferi e con molti uccelli. La dimensione temporale di questo confronto tra specie e classi diversi è di molti milioni di anni. Considero pertanto la teoria dell’attaccamento, basata sull’etologia e sulla teoria dell’evoluzione, come lo strumento concettuale di gran lunga più potente a nostra disposizione in psicoanalisi.
Il bisogno di attaccamento va tenuto distinto da quello di nutrimento. I due bisogni coincidono quando una madre allatta il bambino, ma si possono vedere distinti quando i pulcini seguono la chioccia. Essi non lo fanno per esserne nutriti, perché sono capaci di beccarsi il cibo da soli, bensì per la difesa dai predatori. I due bisogni si vedono distinti anche nell’esperimento di Harlow: le scimmiette rhesus a contatto con due madri artificiali di fil di ferro, una con la bottiglia del latte, l’altra coperta di pelo, si rivolgono dapprima alla prima per esserne nutriti, poi alla seconda per avere il conforto del contatto.
Bowlby pensa che le manifestazioni psicopatologiche siano il risultato di traumi relazionali che si verificano quando l’ambiente si discosta troppo da quello al quale siamo stati adattati nel corso dell’evoluzione (quello che lui chiama EEA: Environment of Evolutionary Adaptedness), ossia quando viviamo in una società fortemente innaturale come quella attuale.
Nella preistoria i nostri antenati vivevano in piccole bande di cacciatori-raccoglitrici (erano le donne a raccogliere i frutti, attività compatibile col portare un bambino in braccio od in un marsupio), nomadi, con pochi figli (grazie all’anticoncettivo naturale dell’allattamento prolungato, che inibisce l’ovulazione).
Si ebbe una forte discontinuità rispetto a questo passato con la rivoluzione agricola. Invece di prendere ciò che la natura offriva spontaneamente, gli esseri umani si misero a modificarla. I contadini divennero stanziali, con molti figli, i maschi per lavorare nei campi, le femmine più grandi per badare ai figli più piccoli. La famiglia non fu più una base sicura da cui esplorare. L’esplorazione doveva essere scoraggiata da vari meccanismi di legame (l’attaccamento insicuro e gli abusi fisici e sessuali), cioè da esperienze traumatiche, al servizio dell’inversione dei ruoli, per cui il bambino deve gratificare dei bisogni dei genitori anziché essere libero di raggiungere l’autonomia.
Bowlby si era sempre differenziato dalla negazione del trauma operata da Freud nel 1897 a favore delle fantasie, ulteriormente accentuate dalla Klein. Bowlby descriveva la separazione e la perdita, di cui aveva studiato gli effetti, come “real-life events” (avvenimenti della vita reale). Ma verso la fine della sua vita rimase colpito dall’ampia letteratura sul trauma, che aveva portato all’incorporazione del PTSD (il disturbo da stress post-traumatico, osservato nei reduci del Vietnam) nel DSM-III (il manuale statistico-diagnostico dei disturbi mentali) nel 1980. Nel 1984 Bowlby pubblicò un lavoro su “La violenza nella famiglia”, poi ristampato come il Capitolo 5 in Una base sicura, in cui parla del “voltafaccia disastroso” di Freud nel 1897.
Il seminario
Come esempio dell’acume clinico di Bowlby e dell’importanza da lui data agli avvenimenti traumatici, citerò ora i suoi commenti ai tre casi clinici presentati nel seminario di Milano nell’aprile 1985. I testi registrati sono stati trascritti e tradotti da me. A ciascuno dei tre colleghi ho poi chiesto la catamnesi del caso. Nel libro, dopo i casi ci sono le testimonianze degli altri colleghi che hanno contribuito al seminario, ospitando Bowlby e facendo le registrazioni. Alla fine del libro vi è un lungo caso di terapia breve, improntato alla teoria dell’attaccamento, presentato da Ferruccio Osimo, che aveva presieduto il seminario e fatto da traduttore.
All’inizio del seminario, prima dei casi, vi è un’introduzione teorica di Bowlby su “Processi difensivi alla luce della teoria dell’attaccamento”, dove Bowlby applica la teoria dell’informazione, col concetto di disattivazione del sistema di comportamento a scopo difensivo. In circostanze normali, il comportamento di attaccamento del bambino serve a mantenere la vicinanza alla madre. In seguito ad esperienze traumatiche, vi è un’esclusione selettiva dei segnali, quali la lontananza, che porterebbero al comportamento di attaccamento, e il bambino mostra un atteggiamento distaccato.
Poi si parla di alcuni problemi circoscritti come la tossicodipendenza e l’autismo. Ad un certo punto uno dei partecipanti chiede se le idee di Bowlby sono simili a quelle della Klein. Bowlby (che conosceva bene la Klein perché aveva fatto la supervisione con lei) risponde, molto decisamente, che la Klein credeva nell’istinto di morte, e che lui lo considera “rubbish”, che vuole dire “spazzatura”, e, in senso traslato, “sciocchezze”.
Infine si passa alla presentazione dei tre casi.
Caso 1. La paziente, che da piccola aveva riportato delle ustioni al viso, dice di se stessa che era “una bambina diversa, più matura degli altri”. Era molto orgogliosa del fatto che riusciva a fare stare meglio i genitori. Da grande aderisce ad un gruppo rivoluzionario. Diventa la compagna di uno dei capi. Con lui assume il ruolo di quella che fa tutto. Poi essa vuole un bambino, il marito è contrario, essa lo obbliga, resta incinta, nasce una bambina, che all’epoca del seminario ha 7 anni. Essa ricorda il suo rapporto con la bambina neonata come il periodo più felice della sua vita. Sorgono dei problemi quando la bambina comincia ad essere più autonoma e va all’asilo. La paziente comincia a stare male. Il suo bisogno di essere curata era in contrasto con la parte di lei che voleva fare tutto e non chiedeva nulla. Il marito la critica. Essa tenta il suicidio ingerendo molte pillole. Per la prima volta in vita sua si rivolge ad uno psichiatra, che consiglia l’analisi.
Nel rapporto terapeutico emerge il suo bisogno di essere curata. Allo stesso tempo, essa nega questo bisogno, per paura di affidarsi a qualcuno che la può lasciare e farla soffrire. Comincia a saltare le sedute e ad avere idee di suicidio. Ha anche degli episodi di eccitamento maniacale. In una seduta telefonica dice che si sente aiutata dalla terapeuta. Ricorda di essere stata ustionata dall’acqua bollente quando era bambina. In ospedale venne immersa in una soluzione fisiologica. Dopo di allora non ha più pianto. Commento di Bowlby. Anzitutto, egli si congratula con la terapeuta per l’indirizzo terapeutico adottato e per i progressi che la paziente ha già fatto. Pensa che questa paziente sia un esempio classico di quello che Winnicott chiamerebbe “falso Sé”. Pensando all’anamnesi, gli sembra molto evidente che la paziente divenne autosufficiente in modo compulsivo. Pensa che i genitori volessero che lei sembrasse una bambina contenta, e che a loro non piacesse che lei fosse sofferente e infelice. Quindi, essa diventa una bambina prematuramente adulta, autosufficiente, brava a scuola. Sono i rapporti personali che attivano tutti i suoi sentimenti rimossi. Ricorda il rapporto con la sua bambina come il migliore della sua vita. Ora, per la prima volta, si è permessa di provare affetto e attaccamento. Bowlby pensa che essa abbia invertito il rapporto con sua figlia. Questa è un’ipotesi, suggerita dalla sua sofferenza quando la figlia va all’asilo. Quando la paziente cerca di rilassarsi, e vorrebbe che gli altri si prendessero cura di lei, allora naturalmente si sente vulnerabile, specialmente quando vuole che gli altri le vogliano bene. La seduta telefonica gli sembra molto utile. La paziente non si aspettava che la terapeuta fosse d’accordo. Il modello interno di una figura di attaccamento che la paziente porta nel rapporto terapeutico disapprova il pianto, la sofferenza, e si aspetta da lei che sia felice e indipendente Catamnesi. Risulta che la paziente continuò l’analisi ancora per tre anni. La terapeuta ricorda in particolare un episodio indimenticabile. “La paziente si è alzata urlando e piangendo disperatamente, si è accasciata per terra e io mi sono alzata e l’ho abbracciata, cercando di calmarla con l’abbraccio e non con le interpretazioni”. Successivamente sono comparsi all’orizzonte progetti vitali. La paziente si è innamorata di un uomo. L’analisi è terminata in un quadro di accettazione dei suoi desideri di essere amata.
Caso 2. Il paziente è un uomo di trent’anni. A cinque anni, subito dopo la nascita di un fratello, venne mandato in collegio. Una delle sue sorelle maggiori morì di cancro quando il paziente aveva sedici anni. La sorella tornò a casa un anno prima di morire. Era solita aiutarlo coi compiti.
Una volta, il paziente perdette delle sedute. Era molto arrabbiato perché voleva recuperare le sedute mancate, ma ciò non era possibile per il terapeuta. Il paziente associò la separazione dalla famiglia perché veniva mandato in collegio. Nella seduta successiva aveva dimenticato tutto. Quando era arrabbiato, il paziente aveva fantasie omicide. Fece un sogno, provocato da un film, in cui dei soldati delle SS tenevano un bambino per i piedi e gli picchiavano la testa contro un muro. Tornato a casa, la sua bambina stava piangendo, ed egli temette di fare lo stesso a lei. La madre compare di rado nelle comunicazioni del paziente. A questo proposito il paziente riferì un altro sogno. “Sto camminando tenendo per mano la mia bambina quando un cane si mette a corrermi dietro fino quasi a mordermi. A questo punto, una donna prende la bocca del cane con le due mani e gliela torce, e il cane smette.” Orbene, il paziente ha associato che la madre gli torceva veramente la bocca per impedirgli di piangere. Commento di Bowlby. Egli dice: “Colpisce che quando la sua bambina stava piangendo gli veniva voglia di aggredirla. Questo mi fa pensare che quest’uomo sia stato picchiato da bambino quando piangeva”. Nota che la madre compare di rado nelle comunicazioni del paziente. Pensa che questa omissione sia significativa, e che i problemi del paziente dipendano soprattutto dalla madre. Ciò è confermato dal contenuto del secondo sogno. Bowlby pensa che nel sogno il cane sia la parte del paziente arrabbiata perché veniva mandato in collegio. Poiché la madre non sopportava il suo pianto, doveva impedirgli di piangere tenendogli la bocca. Bowlby pensa anche che la sorella maggiore possa essere stata una madre sostitutiva, e che la sua morte possa essere stata un’esperienza traumatica. Bowlby nota che i bambini piccoli separati dai genitori diventano sofferenti e arrabbiati. Orbene, come si sviluppano queste reazioni nella prima infanzia? Molto dipende dalla reazione del genitore a questi comportamenti. Se il genitore punisce il bambino, è a questo punto che le manifestazioni psicopatologiche diventano radicate. Il sogno del cane è un indizio chiaro che, se il bambino protestava, veniva punito. Un indizio indiretto è costituito dagli impulsi omicidi nei confronti della bambina quando piangeva. Con questo, il paziente si identificava con la madre che lo aggrediva. Bowlby nota che nelle comunicazioni del paziente mancano i suoi sentimenti. Qui cita l’articolo di Fraiberg, Adelson e Shapiro del 1975, in cui le autrici fanno la catarsi mediata alle loro pazienti. Bowlby nota che il paziente riusciva ad esprimere la rabbia per la separazione ma non la sofferenza. A questo punto Bowlby fa un’autocritica. “Ritengo che noi professionisti siamo stati di un’ignoranza e ingenuità deplorevoli nei riguardi di ciò che accade nelle famiglie disturbate. Si tratta di cose molto peggiori di quanto si pensi”. Cita il libro di Helfer e Kempe (1968) sui bambini maltrattati. Catamnesi. Risulta che, dopo la supervisione con Bowlby al seminario, il terapeuta cercò di evitare l’atmosfera polemica. La terapia continuò per altri quattro mesi e si arrivò ad una conclusione concordata. Vi sono due riserve da fare: (1) la data della fine della terapia venne decisa a causa di un avvenimento esterno, cioè il trasferimento del paziente con la famiglia in un’altra città; (2) il terapeuta aveva la sensazione che il paziente non avesse del tutto rinunciato al suo atteggiamento fondamentalmente diffidente.
Caso 3. I genitori della paziente avevano sei figli, tre maschi e tre femmine. Per la paziente erano particolarmente importanti il fratello maggiore e il minore, anch’esso un maschio. La paziente era una dei figli intermedi. Essa venne abusata sessualmente dal fratello maggiore fra i tre e i quindici anni. Quando era un’adolescente, i genitori si separarono. Essa poi oscillò tra lo stare con la madre e con amici, mentre il fratello continuò a vivere col padre. Questo fratello venne ricoverato diverse volte con la diagnosi di schizofrenia. Nel 1978 in Italia venne approvata la legge Basaglia per chiudere gli ospedali psichiatrici e sostituirli con Centri territoriali. Dopo la chiusura, il fratello si rifiutò di andare al Centro Psico Sociale e di prendere psicofarmaci. Il padre prese contatto col CPS, e vennero concordate delle visite domiciliari. “Io sono psicoterapeuta e andavo a visitare il paziente a domicilio assieme ad una psichiatra. Queste visite ci mettevano ansia. Egli era verbalmente aggressivo, estremamente prolisso e rivendicativo. A volte ci auguravamo che non aprisse la porta”.
Egli finì col suicidarsi gettandosi da una finestra. Dopo il suicidio, la paziente andò a vivere col padre e cominciò a frequentare il CPS. Aveva circa trent’anni. Al CPS anche a lei venne fatta la diagnosi di schizofrenia e le venne prescritto l’Aloperidolo. Aveva colloqui psicologici settimanali con la terapeuta. Tanto il fratello aveva avuto atteggiamenti respingenti, tanto la paziente era affettuosa e coinvolgente. Il suo comportamento era molto impulsivo e comprendeva tentati suicidi, incontri occasionali con uomini, aborti, cambiamenti repentini. La paziente era molto bella. Consapevole di esserlo, usava la seduttività per attirare gli uomini. Essa stava cercando un attaccamento sicuro, ma in realtà diventava facile preda di uomini senza scrupoli o si legava ad individui ancora più fragili di lei. Una volta, durante le vacanze della terapeuta, la paziente reagì con disorganizzazione e deliri erotici. Un’altra volta, dopo essere stata rifiutata da un uomo, la paziente andò al cimitero dove era sepolto il fratello, portandosi dietro vari tipi di farmaci. Alla chiusura, sfuggì all’attenzione, rimase nel cimitero e prese tutti i farmaci. Il mattino dopo venne trovata in stato di coma. Essa sopravvisse perché era inverno ed il freddo aveva indotto ipotermia cerebrale. Commento di Bowlby. Egli dice che la terapeuta è molto coraggiosa nell’affrontare questa paziente. Nota che, dopo la prima separazione, la paziente era caduta in una situazione psicologica caotica. Nella seconda occasione, si trattava di un tentativo perfettamente organizzato. Pensa che, paradossalmente, questo possa essere visto come un progresso. Bowlby si chiede come si tratta una paziente del genere: se è possibile trattare questa paziente a livello ambulatoriale, o se la terapia sarebbe più efficace in un ambiente protetto. “C’è un grave rischio che questa donna si suicidi”. “Per quanto riguarda i cambiamenti repentini, può darsi che si tratti di un disturbo affettivo”. Catamnesi. Piuttosto che pensare ad un disturbo affettivo, attualmente la terapeuta farebbe diagnosi di disturbo schizoaffettivo, per via della presenza di sintomi psicotici positivi (allucinazioni, deliri). Il concetto di disturbo schizoaffettivo venne introdotto nel DSM soltanto nel 1980, e può darsi che Bowlby non ne fosse a conoscenza. Purtroppo, il pessimismo di Bowlby era giustificato. Alcuni anni dopo il seminario, la paziente si è suicidata, gettandosi dalla stessa finestra da cui si era defenestrato otto anni prima il fratello. Nei giorni precedenti, aveva avuto una notizia indiretta del fatto che il fratello minore, convivente con la madre – che lei in passato aveva cercato di proteggere, senza riuscirci, dalla tossicità relazionale della loro famiglia – aveva avuto il suo primo ricovero in psichiatria. Forse questo evento le fece pensare ad un destino cui non poteva sfuggire. Questo caso ha spinto la terapeuta a fare un training familiare sistemico e a seguire i casi gravi con interventi congiunti individuali e familiari.
Dopo i contributi degli altri colleghi, vi è un lungo capitolo di Ferruccio Osimo. Attualmente Osimo applica la teoria dell’attaccamento con un suo sistema di terapia breve, la psicoterapia dinamico-esperienziale intensiva (IE-DP). L’IE-DP viene esemplificata con un caso clinico, seguito da una catamnesi di 14 mesi.
La corrispondenza
Nella mia corrispondenza con Bowlby abbiamo parlato di molti argomenti. Nella mia prima lettera mettevo in rapporto il suo lavoro con quello di Margaret Mahler, e lui mi ha corretto, dicendo che lui e la Mahler seguivano teorie inconciliabili (p. 22). Poi parliamo di Arieti, morto di recente (p. 23), dei problemi edipici (pp. 24-25), dei fattori psicologici nei tumori (pp. 27-29), dell’uso del termine “simbiosi” (p. 30). Nel 1985 Bowlby mi segnalò il libro di Greenberg e Mitchell, Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica, uscito nel 1983, in cui gli autori distinguono tra il modello pulsionale di Freud e quello relazionale, al quale appartengono molti autori, tra cui Fromm e lo stesso Bowlby (p. 32). Nello stesso anno, a mia volta gli parlai del libro di Masson, Assalto alla verità, sull’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud nel 1897 (p. 31). Poi gli dico che, leggendo Anatomia della distruttività umana di Fromm, ho scoperto l’esistenza di un libro di Bowlby del 1939 sulla guerra (pp. 36-39). Me ne mandò una copia con dedica, ed io scrissi un saggio su questo libro. Il culmine di questa corrispondenza è stato un mio lavoro su “La teoria dell’attaccamento come base alternativa della psicoanalisi”, che ho concordato con Bowlby, anche con un incontro a Londra, e che ho presentato a Zurigo nel 1985, poco dopo il seminario (p. 30 e pp. 34-36). Questo articolo verrà ristampato in inglese su Attachment, la rivista del Bowlby Center di Londra, e la traduzione italiana di questo articolo, con aggiornamenti, uscirà prossimamente su Ricerca Psicoanalitica, la rivista della SIPRe.
Nella corrispondenza risulta che Bowlby non conosceva l’opera di Fromm. Fromm, invece, condivideva il concetto di attaccamento, e nell’Archivio Fromm di Tübingen vi è una copia di Attachment con annotazioni di Fromm.
I miei commenti
Anzitutto faccio i miei commenti ai tre casi.
Nel caso 1 (la donna rivoluzionaria), aggiungerei che c’era una trasmissione transgenerazionale dell’inversione dei ruoli, perché, come alla paziente è dispiaciuto quando la figlia ha cominciato ad andare all’asilo, così i genitori si aspettavano che lei li tirasse su di morale.
Nel caso 2 (il bambino mandato in collegio), un esempio dell’intuito clinico di Bowlby è dato dai suoi commenti al secondo sogno del paziente (il sogno del cane), che rivela la presenza di una madre maltrattante, altrimenti assente dalle comunicazioni del paziente, e dalla sua ipotesi che la sorella maggiore del paziente potesse essere stata un sostituto materno, per cui la sua morte è stata per il paziente un’ulteriore esperienza traumatica.
Anche nel caso 3 (la donna che ha finito col suicidarsi), Bowlby dimostra le sue doti di clinico quando esprime i suoi timori riguardo alla paziente, che vennero purtroppo confermati. Posso aggiungere che in questo caso vi è un importante collegamento con la teoria dell’attaccamento. Sia il tentativo di suicidio al cimitero che il suicidio finale rivelano un attaccamento patologico al fratello abusante, che la paziente ha dovuto seguire anche nella morte. Vi è un collegamento col fratello anche nelle relazioni con gli uomini, che o la sfruttavano, o erano più deboli di lei. Bowlby (1969, pp. 215-216 dell’edizione originale; 1973, p. 91 dell’edizione originale) fece notare che, quando c’è un pericolo, il bambino si aggrappa di più alla figura di attaccamento, e che, quando la figura di attaccamento è anche quella che suscita paura, il bambino, paradossalmente, si aggrappa ancora di più, così come la paziente si è aggrappata al fratello.
Vorrei aggiungere altri commenti miei su Bowlby e la teoria dell’attaccamento.
1. Le radici autobiografiche. In primo luogo, può darsi che l’interesse molto empatico mostrato da Bowlby per l’impatto della separazione sui bambini piccoli abbia radici autobiografiche. Bowlby apparteneva ad una famiglia molto altolocata. Suo padre era il medico del Re ed aveva il titolo di baronetto. Faceva parte dello stile distaccato della famiglia il fatto che la madre ricevesse i suoi bambini, come in udienza, per un’ora al giorno. E’ quindi naturale che Bowlby si sia molto affezionato alla sua bambinaia, che però, secondo la biografia di Bowlby scritta da Van Dijken (1998, p. 26), lasciò la casa quando lui aveva 4 anni. In questa esperienza Bowlby fu preceduto da Freud. Nella sua lettera 242 a Fliess dell’ottobre 1897 Freud (1986, p. 292) rivela il suo attaccamento alla sua bambinaia e la sua disperazione per la sua partenza. E’ istruttivo fare un confronto tra Bowlby e Freud. Partendo da un’esperienza simile, essi hanno avuto reazioni opposte. Bowlby diventò una persona calda e affettuosa, mentre Freud diventò una persona distaccata ed autoritaria, che consigliava agli analisti di “prendersi a modello … il chirurgo, il quale mette da parte tutti i suoi affetti” (Freud, 1912e, p 115 della SE, 12, e p. 536 delle OSF, 6; si tratta dei “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”).
2. La dissociazione. In secondo luogo, come abbiamo visto, negli ultimi anni della sua vita Bowlby era molto più consapevole della natura traumatica dell’esperienza di molti bambini. Ciò solleva il problema della reazione dei bambini ai traumi, caratterizzata non dalla rimozione bensì dalla dissociazione. Bowlby continua ad usare il termine di rimozione, però, a livello teorico, egli aderiva all’orientamento “neodissociativo” di Hilgard (Bowlby, 1980, p. 58 dell’edizione originale), che si rifà esplicitamente a Pierre Janet, il primo ad introdurre nell’Ottocento il concetto di dissociazione. All’interno della letteratura sull’attaccamento è pertinente la descrizione fatta da Mary Main dell’attaccamento di tipo D, che sembra corrispondere alla dissociazione di Janet.
3. Il livello storico-sociale. In terzo luogo, ad un livello sistemico superiore, la diffusione di una struttura di carattere distaccata richiede un riferimento alla dimensione storico-sociale. Tale livello è implicito in Bowlby quando dice che, se l’ambiente differisce troppo da quello preistorico ne deriveranno conseguenze psicopatologiche. Egli parla di questo argomento nel capitolo 4 di Attachment (Bowlby, 1969). Nel suo lavoro c’è poca critica sociale. In confronto, nella letteratura psicoanalitica è molto più forte la critica sociale di Erich Fromm. Può darsi che il carattere distaccato sia il più adatto a funzionare nell’attuale società competitiva, però, alla lunga, come dice Alice Miller, il distacco dalle emozioni può dare luogo a gravi sintomi somatici.
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 15 Luglio 2015
I Gruppi di supervisione alla Balint rappresentano una metodologia collaudata di formazione di gruppo ideata da Micheal Balint, da cui prendono il nome, a partire dalla inclusione del personale sanitario ma non medico nelle strutture in cui veniva praticata.
Creata originariamente per l’addestramento “psicologico” dei medici di famiglia, nasce all’interno di un modello di cura fondato sul rapporto duale curante/paziente, andando incontro ad ampie trasformazioni che hanno consentito di rispondere ai profondi mutamenti che nel corso degli ultimi decenni hanno cambiato il volto dell’approccio al paziente ed alla sua presa in carico, sia dal punto di vista professionale che emotivo.
Nell’ambito della psicologia, il metodo dei gruppi alla Balint si è reso utile nell’indagine della relazione tra professionista e cliente, sull’azione del gruppo come strumento facilitatore del pensiero e sull’apprendimento basato sull’esperienza sul campo e non solo sulla conoscenza teorica.
Alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm i gruppi alla Balint si sviluppano come una situazione gruppale eterocentrata, in cui ogni allievo presenta un caso clinico che sente di voler discutere con i colleghi. Sempre nell’ottica di una Scuola che forma e fa crescere i terapeuti, ma in nessun momento lascia che si sentano da soli in questo percorso che non è solo professionale, ma è profondamente personale, anche il Gruppo alla Balint è un momento di scambio indispensabile.
L’analisi del caso clinico è condotta garantendo il completo anonimato dei pazienti e, così come nell’ambito terapeutico, anche nella stanza del Balint viene totalmente sospeso il giudizio, sul paziente ma anche sul terapeuta in formazione.
Il confronto con gli altri ed i suggerimenti che da essi pervengono, insieme alla guida dei conduttori e docenti della scuola, rende questo momento formativo allo stesso tempo teorico e pratico; il momento ideale per personalizzare in sicurezza il metodo teorico, plasmandolo sulla persona che richiede l’intervento, ma anche sulle caratteristiche personologiche proprie del terapeuta, ferma restando un’attenta e continua valutazione del percorso terapeutico attraverso il raggiungimento di specifici obiettivi pattuiti col paziente.
Moreno racconta di come sta procedendo il caso che ha presentato qualche mese prima al gruppo ed illustra i propri dubbi sulla gestione emotiva di alcuni contenuti emersi; “hai paura di questa situazione?” gli chiede il Dott. Benelli, “si!” risponde lui mentre Lavinia, un’altra terapeuta in formazione suggerisce: “credo che la tua paziente ti faccia sentire controtransferalmente tutto quello che anche lei prova in questo momento”.
Confronto, conforto, guida sul metodo; le possibili strategie terapeutiche da proporre, ma anche il contenimento del proprio vissuto personale è quello che può essere ricercato e che sicuramente viene trovato con i gruppi alla Balint.
Per chi osserva e partecipa senza presentarsi con un proprio caso clinico, acquisisce comunque il vissuto dell’altro, nel quale può sperimentarsi proponendo soluzioni e percependo il vissuto offerto tanto onestamente dal collega; il caso di uno, diventa bagaglio esperienziale di tutti. Non vi è vergogna o paura del giudizio, piuttosto si vedono abbassare tutte le difese superegoiche di chi presenta il caso clinico e la propria esperienza in esso. “Se ogni gruppo di lavoro è un organismo complesso con cui relazionarsi è una sfida, il Polo Psicodinamiche non fa eccezione. Vi si mescolano diversi livelli di formazione, provenienze spesso eterogenee, e al suo interno si sviluppano contaminazioni, integrazioni, realizzazioni di sogni e progetti” dice Irene Battaglini CEO e coordinatore della Formazione alla Scuola, che continua; “Quel che ci unisce è la consapevolezza di quel gioco nascosto di forze di freudiana memoria, sia nella formazione sia nella psicoterapia. Non è un problema di impostazione o di orientamento, ma di forma mentis: non si può uscire da questo ganglio, bisogna tenerne conto. Riduttivamente, si può pensare che ogni modello abbia le sue peculiarità, ed è scontato; inoltre si può pensare altrettanto intuitivamente che ogni modello alla fine porti alla risoluzione del problema attraverso la relazione. Tuttavia la relazione professionale necessita di una competenza tecnica, che forse può essere “semplificata”, ovvero resa accessibile, ma che deve affondare le proprie radici in un pensiero molto ben strutturato, come viene sviluppato con professionalità nei gruppi di supervisione alla Balint condotti dal Dott. Benelli. Il format offre uno scenario in cui i livelli messi in gioco sono multipli, ma possono essere tenuti relativamente sotto controllo. All’allievo può essere veicolata la competenza a lavorare attraverso se stesso nel caso clinico, non ricorrendo alla drammatizzazione autocentrata, apprendendo tecniche eterocentrate che interpretano anche il ruolo del terapeuta, ovvero che impediscano il dilagare diretto delle istanze controtransferali (che nello psicodramma invece possono essere vissute ed elaborate), con il rispecchiamento del gruppo guidato dal supervisore. Se lo psicodramma offre uno scenario dionisiaco, il gruppo alla Balint esprime il lato apollineo della formazione, senza mai trascurare l’anima-cuore pulsante, il volto emotivo, relazionale, che tiene insieme le due ali della stessa colomba, simbolo non a caso di Anima.”
Nel gruppo vengono illustrate le criticità della gestione del caso ed offerte soluzioni possibili, così come anticipati scenari eventuali: “Moreno, questo l’avevamo previsto da subito!” dice Lavinia, e Moreno illustra al gruppo in che modo questa previsione si è poi realizzata e come ha saputo gestirla sul momento, con tutto il carico emotivo della situazione reale e non più solo immaginata. Ogni situazione viene attentamente analizzata per offrire una valida cornice teorica, etica e deontologica dove il terapeuta in formazione possa essere libero di operare assecondando le proprie intuizioni. “Ogni terapia non è mai uguale, bisogna relazionarsi alla persona in maniera personalizzata sulla base dell’esperienza professionale” dice il Dott. Ezio Benelli e quando questa esperienza non si è ancora maturata, è il gruppo che sopperisce e corrobora i punti di forza attuali. Continua: “Come sosteneva Boris Luban-Plozza, con il quale mi sono formato ad Ascona, l’intervento sanitario in genere – anche se oggi assistiamo ad una certa inversione di tendenza – presta molta attenzione alla malattia e ai sintomi, molto meno alla persona malata, poco o nulla alla relazione col paziente, amplificando il rischio di errori diagnostici e di terapia. Il modello biopsicosociale, che dovrebbe essere integrato con degli insegnamenti di Erich Fromm, richiede al medico e allo psicologo nuove competenze emotive e relazionali, senza le quali il suo lavoro corre il pericolo di diventare inefficace, logorante ed esposto al burn-out. Nel nostro caso, l’acquisizione delle competenze empatiche (emotivo-relazionali) permette al terapeuta in formazione di sviluppare l’ascolto, la relazione, l’attenzione efficace al paziente, attraverso l’affinamento delle tecniche di gestione delle emozioni, anche ampliando la comprensione del punto di vista, del sapere e del saper fare, per andare nella direzione del saper essere negli interventi più complessi.Inoltre addestra al lavoro in equipe, anche multiprofessionale, che al Polo Psicodinamiche è una consuetudine consolidata, e sviluppa consapevolezza, capacità di affrontare l’ansia e di gestire le difese. Si tratta quindi di alimentare il benessere lavorativo a vari livelli”.
Un po’ di storia
La formazione mediante la tecnica dei “Gruppi Balint” è una pratica di derivazione psicoanalitica che consiste nel frequentare attivamente un gruppo composto da 8/12 medici e condotto da uno psicoanalista o da un Medico formato alla conduzione dei Gruppi Balint.
Uno dei motivi della celebrità di Balint (Micheal Balint nella foto a sinistra, 1896 –1970, Psicoanalista ungherese, patrocinatore della Object Relations School) è l’invenzione di una specifica tecnica di formazione, poi denominata “Gruppo Balint”, attraverso la quale si proponeva di migliorare le capacità dei medici di utilizzare con i pazienti la relazione interpersonale come fattore terapeutico.
Balint e sua moglie, per oltre 5 anni, lavorarono con gruppi composti da 8-10 medici, basandosi su due ipotesi principali:
• il medico stesso è il farmaco principale che viene somministrato al paziente,
• nel rapporto tra paziente e medico si possono produrre sofferenze ed irritazioni inutili, che Balint si è reso conto essere evitabili laddove il medico divenga maggiormente in grado di ascoltare e comprendere ogni paziente nella sua singolarità, entrando in relazione con lui in modo più consapevole del fatto che anche la loro relazione è parte sia dell’atto diagnostico sia dell’atto di cura.
Secondo Balint, un incontro tra colleghi durante la propria attività, poteva favorire sia un momento di condivisione dell’esperienza, sia un sostegno psicologico reciproco. Ma lo specifico obiettivo del percorso formativo mediante il “Gruppo Balint” è quello di un lavoro su di sé, da parte di ciascun medico, per arricchire e potenziare i versanti terapeutici della sua personalità di curante.
L’analisi del “comportamento non verbale” degli esseri umani, oggi assai impiegata in criminologia ed in ambito poliziesco-giudiziario (in specie in alcuni paesi), è in realtà nata nel campo della ricerca psicologica relativa a contesti diagnostico-terapeutici: essa si è rivolta sin dall’inizio all’intento di scoprire le emozioni “non palesi” dei pazienti in psicoterapia, quindi i loro eventuali “meccanismi di difesa”, e di conseguenza è stata applicata anche allo scopo di gestire gli interventi del terapeuta e le sue stesse reazioni emotive al paziente, nonché d’investigare le modalità profonde della relazione psicoterapeutica presa in sé stessa.
Ciò è avvenuto principalmente in ragione del fatto che la nostra specie, in quanto l’unica dotata d’un linguaggio “parlato” altamente simbolico (e dunque capace di veicolare significati e contenuti informativi estremamente complessi), è anche l’unica che presenta, nella sua comunicazione, una vasta e clamorosa discrepanza, ovvero una particolarissima “dissociazione”.
In particolare, la comunicazione umana presenta da un lato degli aspetti di tipo “semantico” relativi, appunto, ai numerosissimi “significati” ed informazioni presenti nelle comunicazioni verbali umane: ora questi significati, di per sé, sono assai sovente astratti e relativamente “neutri”, in quanto riferibili alle caratteristiche del mondo fisico circostante (si pensi agli aspetti matematici), e sono anche concatenati fra loro in rigorose architetture formali di grande pregnanza gerarchica e di grande complessità (si vedano gli aspetti sintattici e logico-formali dei vari costrutti linguistici, in gran parte basati sui concetti di “soggetto”, “predicato” e “complemento oggetto” nonché su quelli di “attività/passività” e di “qualità/relazione”, e soprattutto sulle loro pressoché infinite possibilità di combinazione).
Dall’altro lato, la comunicazione umana presenta degli aspetti di tipo “pragmatico”, cioè relativi all’uso pratico ed immediato che della comunicazione stessa viene fatto nell’ambito della più elementare relazione interindividuale e collettiva (in particolare, in relazione alle sue finalità d’influenzamento, d’intimidazione, di amicizia, di ostilità, di pacificazione, di profferta di alleanza, ecc.), ovvero nell’ambito d’un tipo di comunicazione che in genere, dal punto di vista strutturale, è assai più semplice della prima e si avvale di elementi comunicativi non strettamente e non necessariamente verbali o formalmente codificati in strutture complesse, ma che pure comunicano qualcosa di assai preciso: il tono della voce, l’espressione del viso, la postura corporea, la gestualità, e quant’altro.
Ora, il punto è che questi ultimi elementi (quelli “pragmatici”) sono assai spesso in contrapposizione anche diametrale con i primi (quelli “semantici”), o quanto meno si pongono su piani assai diversi rispetto ad essi, il che genera puntualmente, riguardo all’essere umano, l’impressione d’una singolare “ambiguità” espressiva.
Perciò, nel suo volere andare “al di là delle apparenze” ed investigare più in profondità la relazione medico-paziente, lo studio del “comportamento non verbale” dell’uomo, nato come si è detto in ambito psicoterapeutico, sembra avere ubbidito a queste caratteristiche assolutamente peculiari e “dissociate” della natura umana, ed avere voluto decifrare ciò che fra gli uomini, “al di là delle parole” e dei loro significati, transita di amichevole oppure di ostile, di fiducioso oppure di diffidente, di vitale oppure di mortifero, d’improntato alla sicurezza di sé e degli altri oppure alla paura, ecc.
Per tale insieme di ragioni, un tale studio sembra essere stato singolarmente simile, sin dai suoi esordi, alle cosiddette “terapie del profondo” di natura psico-dinamica, le quali su altri piani sono da esso quanto di più lontano si possa immaginare. In definitiva, quando si parla sul piano teorico della “comunicazione non verbale” fra gli esseri umani, un riferimento prioritario al campo delle psicoterapie (in primo luogo analitiche), più che legittimo, è d’obbligo.
Chiarisco subito che il nostro livello d’analisi,pur partendo dal “comportamento non verbale”, ossia dall’osservazione del “comportamento di superficie” ed in qualche modo “visibile” del paziente, ed in generale da ciò che potremmo chiamare la “semeiotica del comportamento umano” (nella fattispecie, la semeiotica del comportamento di coloro, terapeuta e paziente, che per definizione rappresentano i due soggetti d’ogni prassi psicoterapeutica), si concluderà con la formulazione di alcune ipotesi di carattere generale circa la natura del rapporto fra gli esseri umani, ed in particolare circa la relazione psicoterapeutica vista nei suoi aspetti più profondi e decisivi, ovvero in quei suoi risvolti “strategici” che per definizione non emergono dai livelli comunicativi più palesi, ma che alla fine fanno sì che essa sia veramente “terapeutica” oppure no.
Parlerò quindi, oltre che della “comunicazione non verbale”, anche dell’argomento, in sé ben più arduo, dello “scambio psichico”, a mio avviso di natura biologica e quasi “metabolica”, che fra terapeuta e paziente, così come fra tutti gli altri esseri umani, si svolge a livello inconscio: uno scambio il quale permea di sé quella sfera della relazione terapeutica che comunemente si denota, nel linguaggio psicoanalitico, con i concetti di “transfert” e di “contro-tranfert”. Un tale scambio, infatti, a mio avviso costituisce il meccanismo stesso d’ogni psicoterapia intesa, in senso letterale, come “pratica d’aiuto” condotta attraverso l’azione di una mente su un’altra mente.
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Facciamo per cominciare alcuni classici esempi di “semeiotica del comportamento non verbale” con particolare riferimento al loro possibile uso in terapia, a mo’ d’introduzione all’argomento ed al fine di capire almeno a grandi linee di cosa stiamo parlando.
Per farne uno che può colpire l’immaginario di ciascuno di noi, si è compreso abbastanza presto il motivo d’un frequente fenomeno transferale negativo, in sé enigmatico (per lo meno all’apparenza) ed assolutamente contro-intuitivo: esso concerne il fatto, ormai accertato, che il sorridere troppo frequentemente, da parte del terapeuta, durante una psicoterapia, anziché “mettere a proprio agio” il paziente e “rassicurarlo”, come di solito ci si aspetta che avvenga, può facilmente ostacolare l’instaurazione d’una buona relazione terapeutica con lui. Ora, è sin troppo facile, se solo si riflette un attimo sulle concrete condizioni dell’interazione psicoterapeutica, comprendere il motivo di questo fenomeno apparentemente paradossale: è evidente, infatti, come non sia il sorriso in sé, bensì una qualsivoglia posizione o atteggiamento “fisso” e stereotipato da parte del terapeuta, l’elemento il quale, nel suo denotare nel terapeuta medesimo una scarsa comprensione ed aderenza alla realtà psichica del proprio paziente (necessariamente cangiante di continuo!), o comunque una scarsa vicinanza ai suoi reali vissuti ed alla sua soggettività, insinua in quest’ultimo il dubbio, e progressivamente, la certezza, di non essere compreso. Ad esempio, il sorridere inizialmente ad un ansioso, ad un fobico o ad una persona per qualunque motivo spaventata, può risultare benefico poiché indica comunque l’intuizione d’un suo stato d’animo; tuttavia il farlo troppo spesso, o ancora più il farlo ad un depresso, può rivelare al contrario un’incolmabile distanza empatica e/o una fatale dissonanza emotiva con lui e con la sua sofferenza, così come il farlo ad uno schizofrenico paranoideo può generare in quest’ultimo il sospetto di essere deriso, ecc. Ed è anche facile intuire come un tale atteggiamento “emotivamente dissonante”, paradossalmente realizzantesi tramite un “sorriso” più o meno sterotipato, possa denotare una precisa “difesa” del terapeuta (fatta essenzialmente di negazione e di anestesia emotiva) dall’angoscia che un dato paziente gli trasmette: il sorridere troppo spesso ad un depresso, ad esempio, può denotare un tentativo di negare e/o di allontanarsi dalla sua sofferenza, mentre il sorridere troppo spesso ad un paranoico o ad un “antisociale” può significare negare la paura che si prova nei suoi confronti, ecc.
Altri esempi “classici” di “semeiotica del comportamento non verbale” sono i seguenti, e sono perfettamente noti ad ogni psicoterapeuta che abbia un minimo d’esperienza: il ruotare il busto in una posizione perpendicolare all’interlocutore, oppure l’incrociare le braccia di fronte a lui, denotano di solito una precisa “resistenza” nei confronti della sua persona e di tutto quanto nell’ambito della comunicazione in corso, proviene da essa; l’inarcare le sopracciglia nel porre una domanda denota in chi la pone supponenza e presunzione di conoscere già la risposta; il porre la punta dei piedi in direzione non dell’interlocutore ma della porta indica desiderio di andarsene il più presto possibile; lo schiarirsi la voce, il respirare rumorosamente, il sospirare, denotano spesso impazienza, o addirittura aggressività; il grattarsi la testa, lo sfregarsi il naso, il fare l’atto di cavarsi qualcosa dall’occhio o dall’orecchio, denotano la percezione di qualcosa di molto molesto presente nella comunicazione. Il mettersi in bocca un dito o la punta d’una penna, viceversa, denota un’accettazione più o meno piena, o quanto meno una curiosità ed “apertura”, nei confronti dell’interlocutore e dei contenuti della comunicazione medesima. Ma si potrebbero fare molti altri esempi.
Alcuni comportamenti, poi, specie se psicotici, sono alquanto imprevedibili, e l’unica cosa da fare è usare al loro riguardo una generica “cautela”: personalmente, porto sempre ad esempio la disavventura nella quale incorsi molti anni fa, psichiatra di Manicomio alle prime armi, quando infransi la “tacita regola universale”, valida in qualsiasi tipo di relazione umana non ancora divenuta intima, del mantenimento d’una distanza corporea interpersonale minima e “di sicurezza” con il proprio interlocutore (circa un metro), e la infransi proprio con un paziente psicotico di tipo paranoideo: nella fattispecie, non solo mi avvicinai troppo, ma giunsi a toccarlo amichevolmente con una mano sulla spalla a scopo di rassicurazione; infatti si trattava d’uno schizofrenico apparentemente bonario e benevolo nei miei confronti, il cui pensiero sembrava perennemente vagare “altrove” rispetto alla relazione interpersonale, essendo all’apparenza incentrato principalmente sul sé ed in particolare su tematiche ipocondriache, seppure a carattere delirante; ebbene, ne ricevetti in cambio, all’improvviso e senza alcun segno premonitore, prima un calcio (che riuscii a schivare) e poi uno schiaffo (che presi in pieno).
Alcuni antropologi e studiosi della “comunicazione non verbale” (ad esempio, Edward T. Hall, 1963), sono in proposito molto minuziosi e portati alla classificazione formale: parlano anzitutto di “comunicazione oggettuale” (preferenze, più o meno rivelatrici della personalità d’un soggetto, per oggetti d’uso personale particolari e d’un certo tipo, quali il modello dell’auto, la marca dell’orologio, la tipologia dell’abitazione e degli oggetti di più abituale consumo), e la distinguono dalla “comunicazione non verbale propriamente detta” (modalità comunicativa ottenuta invece attraverso le espressioni più dirette e gestuali del proprio corpo). Poi, per quanto riguarda le forme di “comunicazione non verbale”, essi distinguono fra comunicazione non verbale “statica” (ad esempio il modo di vestirsi e/o di modellare il proprio corpo, ad esempio con i tatuaggi o andando in palestra) e “comunicazione non verbale dinamica” (il modo fisico di atteggiarsi tramite i gesti). Distinguono infine, nell’ambito della “comunicazione non verbale dinamica”, a) la comunicazione cosiddetta “prossemica” (riguardante la gestione degli spazi e delle distanze fisiche fra le persone, le quali in media si aggirano, appunto, attorno ad un metro, ma che a seconda delle circostanze possono allungarsi o accorciarsi fino ad azzerarsi); b) la comunicazione “cinesica” (l’insieme delle comunicazioni gestuali di tipo non verbale quali, come già accennato, il grattarsi il naso o gli occhi o la testa, l’incrociare le braccia davanti al busto, il mettersi di traverso rispetto all’interlocutore, ecc.); c) la comunicazione “para-linguistica” (gli aspetti non verbali delle comunicazioni verbali, quali il tono, il volume, la prosodia ed il ritmo della voce, ma anche i borborigmi intestinali involontari prodotti mentre si parla, il raschiarsi la gola, il calo “involontario” della voce, il sospirare e lo sbuffare mentre si parla); d) la comunicazione “digitale” (tutte le caratteristiche e soprattutto le variazioni che si registrano nel contatto corporeo intenzionale, quali il brusco ed inopinato toccamento, o al contrario l’improvviso sottrarsi ad un contatto fisico magari in precedenza abituale ed accettato); infine, e) la comunicazione “olfattiva” (l’emissione non consciamente intenzionale sia di odori provenienti dalle ghiandole apocrine che di ferormoni ad effetto sub-liminale, emissioni le quali nel loro complesso regolano una buona parte delle interazioni inconsce fra individui). Ora, è evidente, ad esempio, come la cinesica e la para-linguistica siano modalità comunicative solo “indirette”, in quanto concernono atteggiamenti che il soggetto si limita ad assumere più o meno consapevolmente e senza coinvolgere direttamente gli altri (quindi sono assimilabili a delle “comunicazioni pure”), mentre la digitale e l’olfattiva (ed in parte anche la prossemica) rappresentano delle modalità comunicative assai più “dirette”, poiché implicano una qualche forma di “scambio fisico” che in qualche modo “si impone” agli altri, può richiedere più o meno imperiosamente una loro reazione e comunque va ben oltre la semplice “comunicazione”. Ma come abbiamo già detto, non è scopo della nostra trattazione l’addentrarci in un’analisi sistematica di tutte queste forme di “comunicazione non verbale”, e basterà qui avervi fatto questo breve cenno.
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Facciamo, a questo punto, una breve ricognizione storico-critica circa il “linguaggio non verbale”: anzitutto occorre dire che gli studi scientifici sul “comportamento non verbale” nella pratica psicoterapeutica sono tutti relativamente recenti. La ricerca empirica sull’argomento è invece più antica: essa si è basata, per molti anni, soprattutto sui resoconti delle sedute di psicoterapia (i cosiddetti “self report”), reperibili già nelle opere di Sigmund Freud.
Sul finire degli anni Sessanta del Novecento però, a poco a poco, un nuovo approccio cominciò a farsi strada: esso fu aperto dal classico saggio “Pragmatica della comunicazione umana” di Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D., pubblicato per la prima volta in italiano, a Roma, da Astrolabio, nel 1971. L’assunto di base, anzi il vero e proprio “paradigma” del libro sopra citato era quello che comunque ci si ponga rispetto agli altri, di fatto, volenti o nolenti, in quanto esseri umani, anzi in quanto esseri viventi che per definizione inter-agiscono, “non possiamo non comunicare in qualche modo fra noi”, per cui le forme concrete di tale comunicazione, in sé essenzialmente “pragmatiche”, possono, anzi debbono, venir “studiate”. L’importanza d’un tale concetto, solo apparentemente banale e scontato, era che esso richiamava l’attenzione sul fatto che la relazione fra tutti gli esseri viventi senza eccezione alcuna (specie ove studiata all’interno di “gruppi”), appare svolgersi nell’ambito d’un “sistema” nel quale avviene comunque un qualche tipo di “scambio comunicativo” avente un valore pratico ed immediato.
Ora, questo “scambio” è universalmente “non verbale”, e se nel caso degli esseri umani esso è anche (ma non solamente!) “verbale”, appare comunque tale da presentare, al di sotto della superficie, numerose e preponderanti forme di comunicazione “alternative” a quella verbale, le quali spesso addirittura la contraddicono: forme che, ad esempio, pur salvaguardando la comunicazione del gruppo nel suo insieme, possono escluderne o sacrificarne alcuni membri, cosiddetti “designati”, i quali ne divengono ad un certo punto i “capri espiatori”. Insomma, questo “scambio comunicativo profondo” di carattere non verbale, per desiderato o non desiderato, sociale o predatorio, “tossico” o “nutritivo” che sia, appare venire assai prima ed andare ben oltre rispetto agli aspetti verbali che caratterizzano “in superficie” l’essere umano.
Gli aspetti “verbali” della comunicazione, poi, a differenza di quelli “non verbali”, ci appaiono sempre e comunque come “volontari” e “coscienti”, oltre che caratterizzati da un’apparentemente assoluta preponderanza della loro parte semantico-informativa e sintattico-grammaticale su quella “pragmatica”, ovvero d’influenzamento degli altri: in questa loro caratteristica (che per definizione ci sembra in qualche modo “impalpabile” e “dissociata” dalla biologia, in quanto tesa a dominare e manipolare i concetti ed i simboli anziché altri esseri viventi) essi ci appaiono quasi fatti apposta per padroneggiare gli aspetti pragmatici medesimi, ovvero per differire nel tempo la loro azione più o meno brutale di condizionamento sugli altri membri del gruppo e “contrattarla” con essi nei modi più sofisticati, più improntati alla reciprocità e più metaforici possibili, nonché talora per occultarla ai loro occhi sotto forme apparentemente opposte: si pensi, a quest’ultimo proposito ai numerosi termini, circonlocuzioni e concetti “piacevoli” usati per designare realtà sommamente “spiacevoli”, o più semplicemente, alla presentazione “ideologica”, retorica ed accattivante di realtà anche molto tragiche e letali, come avviene ad esempio in guerra con la retorica del “patriottismo”.
Per quanto riguarda invece la “comunicazione non verbale”, occorre osservare come essa, in linea generale, sia assai meno “menzognera” di quella verbale, e comunque più aderente ai fondamenti stessi della comunicazione (che sono di natura biologica): ad esempio, anche restando in silenzio, prima o poi si comunica comunque qualcosa ai nostri simili (anzi qualcosa, di solito, di assai importante!), e lo si fa anche con i propri atteggiamenti corporei, poiché essi molto spesso riaffermano gerarchie, rapporti di potere, reazioni emotive profonde, ecc.
In definitiva, si può affermare che tanto più si comunica in forma “veritiera” quanto più si mettono in atto quelle innumerevoli forme di “comunicazione non verbale”, proprie della nostra specie come delle altre, di cui siamo ormai bene a conoscenza ed alle quali abbiamo fatto sopra cenno.
Ancora, con il tempo si è capito che tutte queste forme di “meta-comunicazione”, le quali vanno largamente al di là degli aspetti verbali e vengono mediate sia dalla gestualità corporea che dal silenzio, nonché da alcuni aspetti inconsci, ideologici e/o “sotterranei” della comunicazione verbale stessa, possono essere studiate più agevolmente, rispetto all’ambito della comunicazione duale, in sistemi strutturati collettivi quali il gruppo o la famiglia: in questi ultimi infatti, da un lato i livelli individuali di auto-controllo, proprio perché “diluiti” nel gruppo, fatalmente si allentano; dall’altro, la posizione del terapeuta, in quanto divenuto a sua volta più “esterno” alla “relazione duale”, quindi anche meno “immerso nella relazione terapeutica”, e di conseguenza molto più libero dai suoi condizionamenti (per certi versi più cogenti), diviene sempre di più quella d’un “osservatore del comportamento”. Da ciò l’affermarsi progressivo, per un verso, delle “terapie di gruppo”, per un altro di quella cosiddetta “terapia relazionale-sistemica” altrimenti nota come “terapia familiare”, e soprattutto il crescere della loro importanza in quanto “luoghi privilegiati” e relativamente più “neutrali” per un’osservazione del comportamento non verbale e delle suddette “meta-comunicazioni” nell’ambito delle relazioni umane.
L’altro autore della vera e propria “svolta” che avvenne nell’ambito dello studio della “comunicazione non verbale”, negli anni Sessanta del Novecento, fu Albert Mehrabian. In quegli anni, dunque, questo psicologo statunitense condusse pionieristiche ricerche sull’importanza dei diversi aspetti della comunicazione umana nel far recepire all’interlocutore un determinato messaggio. Il risultato, il quale all’epoca apparve rivoluzionario, fu che la frazione “non verbale” della comunicazione umana (in particolare quella legata al corpo ed alla mimica facciale) risultò avere un’influenza del 55% sul totale, mentre la comunicazione paraverbale e/o paralinguistica (tono, volume, ritmo della voce, ecc.) la aveva del 38%, ed il contenuto verbale di tipo propriamente semantico, ossia legato al significato letterale del messaggio ed al suo contenuto informativo più astratto, solo del 7%. Da questi dati, come si vede, risultava che anche sommando insieme gli aspetti della comunicazione direttamente ed indirettamente legati al linguaggio parlato (aspetti verbali più aspetti para-verbali), essi influivano nel loro insieme sul comportamento umano per non più del 45% del totale, mentre gli aspetti “non verbali” risultavano ancora maggioritari, in quanto influivano sul restante 55%.
Ma v’era di più: proprio come gli studi di natura “relazionale” sopra citati, anche quelli di Mehrabian confermavano come la trasmissione dei contenuti semantici delle informazioni verbali (i quali rappresentano la caratteristica comunicativa precipua e più “vistosa” del linguaggio simbolico umano, quella cui siamo soliti dare la maggiore importanza), rappresentasse nella nostra specie solo una parte minima, ovvero la “punta emersa”, d’un enorme “iceberg comunicativo” la cui parte preponderante (del tutto sommersa rispetto alla nostra “percezione cosciente”) era di natura non verbale, in perfetta analogia con quanto avviene negli animali. Questi studi, peraltro condotti con sufficiente rigore metodologico ed equilibrio, furono però “forzati” e travisati da buona parte delle cosiddette “scuole di Programmazione Neuro-Linguistica” (PNL) nate sulla loro scia: esse, proprio sulla base di tali risultati, presero in molti casi a sostenere, semplicisticamente, che ciò che contava in ogni tipo di comunicazione, assai più che il suo contenuto o la sua stessa finalità effettiva, era il modo in cui la comunicazione medesima veniva “offerta”, quindi in definitiva il suo potere suggestivo (anche a fini commerciali). Da ciò derivò il proliferare d’ogni genere di “urlatori della comunicazione”, di “esperti della comunicazione sub-liminale” nonché di scuole di psicoterapia essenzialmente “suggestive” (ad esempio quelle basate sull’abuso più sfacciato del sorriso, quali certe forme estreme di “Patch-Therapy”, oppure sette mistiche e finalizzate al plagio quali “Scienthology”): scuole che a tutt’oggi imperversano ovunque, malgrado sempre più siano smentite, nella loro efficacia e veridicità, dagli studi più seri esistenti in proposito di “comunicazione non verbale”. E’ infatti ovvio che ciò che alla fine conta davvero, in una comunicazione interpersonale la quale può essere “tossica” o “ al contrario “benefica” per chi la intrattiene, al di là della sua forma più o meno accattivante, è proprio il suo contenuto, in sé biologicamente tutt’altro che “indifferente”: in ragione di ciò, la forma con cui tale contenuto viene “offerto” non può affatto essere considerata in maniera astratta e separata rispetto a quest’ultimo, specie in psicoterapia. In altre parole, l’indubbia dissociazione, esistente nella specie umana, delle forme comunicative verbali da quelle non verbali ed anche l’altrettanto indubbia preponderanza quantitativa delle seconde sulle prime, non possono assolutamente essere confuse con una presunta dissociazione delle forme comunicative prese in sé stesse, e nel loro insieme, dai contenuti biologici da esse veicolati, e neppure con l’onnipotenza d’una non meglio precisata “suggestione”: è infatti una considerazione di puro buon senso il ricordare come le forme comunicative prevalentemente “paradossali”, ovvero fortemente discordanti dai loro contenuti biologici (quali quelle, d’impronta nettamente “patologica” e disfunzionale, dette “doppio messaggio”, indagate ad esempio nella “Pragmatica della comunicazione umana” a proposito delle famiglie degli psicotici, oppure quelle proprie delle sette dedite al plagio), sono alla lunga “patogene”, quindi controproducenti, per qualunque specie, in particolare ai fini della sua vita associata, ed in definitiva incompatibili con la sua stessa sopravvivenza; perciò è ovvio che una tale incompatibilità debba emergere, prima o poi, anche e soprattutto nell’ambito d’una attività che si presume “curativa” quale una psico-terapia.
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Ma vediamo un po’ meglio, adesso, in quali direzioni le ricerche più serie sulla “comunicazione non verbale” si sono nel frattempo sviluppate, nel mentre che questi orientamenti più o meno “ciarlataneschi” dilagavano: ora, occorre dire che in gran parte degli studi della fine degli anni 60 del Novecento, si era indagato prevalentemente sugli aspetti comunicativi legati all’insieme del corpo umano, tralasciando singolarmente il volto. Un orientamento completamente diverso lo si dovette, per la prima volta, a Silvan Tomkins, uno psicologo di Philadelphia il quale indagava le emozioni umane da un punto di vista “innatistico”. I suoi studi, che risalgono al 1965, furono così dirompenti da indurre un altro studioso, Paul Ekman, suo collega di Washington, ad estendere anche lui lo studio del comportamento non verbale (sempre partendo dagli stessi presupposti “innatistici”) proprio alla mimica del volto.
Ekman aveva all’epoca iniziato, per conto della A.R.P.A. (Advanced Research Project Agency), una ricerca sulla “comunicazione non verbale del viso”, anche se in precedenza si era occupato soprattutto di pazienti psichiatrici. Egli per la verità fino ad allora, quanto a quadro teorico di riferimento, si era ispirato in prevalenza a studiosi di approccio “culturalista” quali l’antropologa Margareth Mead o lo studioso della comunicazione Gregory Bateson (appartenente a quella stessa “Scuola di Palo Alto”, o “scuola relazionale-sistemica”, di cui facevano parte anche gli autori della “Pragmatica della comunicazione”): questi autori sostenevano che sia il “linguaggio parlato” sia il “linguaggio non verbale”, in particolare quello del viso, erano costituiti da elementi “appresi” nel corso dello sviluppo, tutti quanti identificabili nella loro origine e sviluppo, tramite un approccio antropologico di tipo appunto “culturalista”, nell’ambito dell’ambiente circostante, quindi della famiglia, dell’educazione ricevuta e della cultura d’appartenenza di ciascun soggetto. Silvan Tomkins, invece, riprendendo i classici concetti già espressi a suo tempo, fin dal secolo XIX, da Charles Darwin (il quale riteneva che le espressioni facciali legate alle emozioni fossero innate e universali in tutto il regno animale ed anche nell’uomo), aveva per primo, almeno per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”, sostenuto il contrario.
Del resto, anche il grande linguista d’approccio “strutturalista” Noam Chomski, da tempo, per quanto riguarda lo stesso “linguaggio verbale”, andava sostenendo tesi analoghe, ovvero l’esatto contrario di quanto affermato anche a tale proposito dall’approccio “culturalista”: egli affermava infatti, sia contro le concezioni ambientalistiche e culturaliste del linguaggio, sia contro il “gradualismo adattivo” proprio d’un certo “darwinismo ortodosso” (quello, per intendersi, di Richard Dawkins, Steven Pinker e Daniel Dennett), che il linguaggio parlato è una proprietà della mente umana “emersa” all’improvviso, quale “struttura formale innata” del cervello, e non già il risultato d’una lenta evoluzione ed interazione della specie con l’ambiente, tanto meno faticosamente raggiunto tramite l’esperienza individuale /o di gruppo, ovvero con modalità lamarckiane e “per tentativi ed errori”. Una tale concezione strutturalistico-formale, peraltro, è stata recentemente sostenuta, anche sul piano dell’evoluzione più generale di tutti gli esseri viventi, dagli studiosi della recente corrente di pensiero evoluzionistico detta “Evo-Devo”, l’acronimo di “Evolution-Development” (Evoluzione-Sviluppo), della quale un importante esponente italiano è lo studioso di biologia del linguaggio Massimo Piattelli-Palmarini. Ora, secondo l’ipotesi “Evo-Devo”, nel mutare delle specie e nel loro acquisire nuovi e complessi tratti, non tutto si ridurrebbe ad “evoluzione per selezione ambientale”, come vogliono gli evoluzionisti cosiddetti “adattamentisti”, “gradualisti” e “darwiniani ortodossi”, poiché una parte cospicua di tali tratti deriverebbe o da fattori puramente casuali ed improvvisamente “emergenti” senza un motivo preciso, dalla struttura precedente (è il caso del numero sempre dispari delle paia di zampe delle oltre tremila specie di chilopodi impropriamente detti “centopiedi”); oppure deriverebbe da fattori che sono gli unici a permettere lo “sviluppo strutturale intrinseco” d’una determinata forma vivente, ovvero i soli a presentare una loro “intrinseca compatibilità formale” con la struttura biologica complessiva all’interno della quale si trovano inseriti. In base a ciò, essendo le caratteristiche “formali” di alcuni tratti le uniche ad essere “intrinsecamente possibili” all’interno d’un determinato quadro di riferimento “strutturale” che sia valido per quei tratti, esse sarebbero anche le sole a far sì che una tale struttura vivente, concretamente, “si regga in piedi” e risulti fisicamente possibile (e ciò a prescindere da ogni eventuale “pressione selettiva ambientale”). Ebbene, il linguaggio, con la sua complessità e con la sua dipendenza stretta, nella sua componente verbale, da certe strutture anatomiche (ad esempio, la particolare conformazione del laringe e del faringe), farebbe parte appunto di questa categoria di tratti “strutturalmente obbligati ad assumere una data forma”, delineata da “Evo-Devo”: tratti in parte “emersi” per puro caso, in parte strutturatisi in forme altamente differenziate nonché “obbligate” dalla loro stessa conformazione intrinseca, ed in ogni caso in larga misura “innate” ed indipendenti dall’ambiente.
Le ricerche che seguirono quelle di Thomkins videro dunque Ekman ed altri psicologi e ricercatori suoi contemporanei sostenere (sulla scia per un verso del Darwin “innatista” che si contrapponeva a Lamarck, e per un altro del Chomski “strutturalista” che si contrapponeva ai linguisti d’orientamento “culturalistico-ambientalista”) che anche il “comportamento non verbale” era un comportamento formale altamente “strutturale” e connaturato alla specie. Essi in tal modo stabilirono la natura innata, accanto alle forme espressive verbali (quelle studiate appunto da Chomski), delle stesse espressioni facciali, a loro volta fortemente condizionate in senso “strutturale” dalla conformazione del cranio facciale umano e della muscolatura del viso. Il viso, dunque, in questa prospettiva cominciò ad essere considerato la parte del corpo più in grado di fornire informazioni attendibili e veritiere nell’ambito della “comunicazione non verbale”. Paul Ekman e Wallace Friesen elaborarono di conseguenza un sistema di codificazione delle espressioni facciali il quale consentiva di classificarle ed identificarle in modo analitico e sistematico a prescindere dalle variabili ambientali e/o culturali, ovvero il F.A.C.S. (“Facial Action Coding System”).
Oggi, ormai, lo studio scientifico del “comportamento non verbale” viene posto in una posizione assolutamente centrale nella ricerca sulle interazioni che hanno luogo nell’ambito della “diade” madre-bambino e, in generale, nell’ambito di tutte quelle relazioni umane in cui i soggetti interessati non sono in grado di verbalizzare adeguatamente le proprie emozioni (ad. nell’autismo, nel ritardo mentale, nel sordo-mutismo, ecc.). Inoltre, il F.A.C.S. e la comunicazione non verbale in genere, vengono usati in studi quali quelli sulle espressioni facciali alterate e/o carenti proprie di alcuni forme psicopatologiche (ad esempio, quelle dei pazienti schizofrenici, bipolari e depressi), o nell’analisi del pianto neonatale (“Neo-natal Action Facial Coding System”, o NFACS), oppure nella dinamica interattiva che ha luogo nell’ambito delle sedute di psicoterapia individuali e di gruppo.
In quest’ultimo settore di ricerca, ci sono lavori che hanno analizzato le dinamiche della “diade” paziente-terapeuta (una “diade” perfettamente parallela ed analoga a quella madre-bambino) in una maniera per quanto possibile “oggettiva”, quindi andando ben oltre l’ultra-soggettivo “self-report” d’epoca freudiana. Autori come Jorg Merten e coll. (1996 e 2005), ad esempio, hanno utilizzato il F.A.C.S. comparando le sedute di terapie nelle quali la relazione terapeutica era efficace con altre in cui invece falliva, ed hanno scoperto che il “punto critico” non era la “scuola di pensiero” cui apparteneva il terapeuta, bensì un dato puramente tecnico, contingente ed in sé banale, consistente nella mancata rilevazione, da parte di quest’ultimo, di alcune espressioni facciali del paziente, quindi il mancato adeguamento del terapeuta stesso a ciò che tali espressioni potevano significare. Altri studi hanno mostrato come un terapeuta il quale, al contrario, sia sufficientemente avveduto di questi fenomeni, possa manovrare la propria componente verbale e quella non verbale, in terapia, non solo in linea generale ma anche nell’ambito d’una leggera situazione di conflitto con il paziente, cosa che concorre fra l’altro a spingere quest’ultimo al cambiamento pur preservando la relazione terapeutica con lui.
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In questa sommaria revisione storico-critica del significato della “comunicazione non verbale”, sia nelle psicoterapie che in generale, abbiamo dunque acquisito un concetto: spesso la suddetta comunicazione appare essere, oltre che quantitativamente preponderante, assai più “veritiera”, rispetto alla “comunicazione verbale”, in quanto più aderente a ciò che potremmo definire lo “scambio biologico di base”, in gran parte a carattere innato, che avviene fra esseri umani nell’ambito della loro interazione comunicativa.
Stabilito questo punto, veniamo ora alla parte più centrale del nostro discorso: essa, come già accennato, verte proprio su ciò che si suppone avvenga in profondità nella relazione terapeutica medesima, ossia su ciò che transiterebbe in profondità tra terapeuta e paziente al di là delle espressioni comunicative più palesi (in particolare di quelle verbali, ma non solo), ed esplicherebbe presumibilmente un’azione “curativa”. Ora, l’ipotesi che facciamo in proposito, lo anticipiamo sin da adesso, è quella, del tutto conforme ai postulati “strutturalisti” ed innatistici di Chomski (per quanto riguarda il “linguaggio verbale”) e di Ekman (per quanto riguarda il “linguaggio non verbale”), che anche lo scambio comunicativo profondo ed “inconscio” che intercorre tra paziente e psico-terapeuta ubbidisca, assai più che ad elementi culturali “appresi” e/o di superficie, a delle leggi biologiche a carattere permanente, per lo più innate ed indipendenti dalla cultura e dall’esperienza di volta in volta conseguite dalla nostra specie.
Com’è noto, un’esplorazione pionieristica rivolta non tanto alla “comunicazione non verbale” presa in sé stessa, quanto a quella vita psichica che potremmo definire “collaterale” o sotterranea rispetto alla coscienza, ovvero ai pensieri latenti, nonché alla vita emotiva che, su una precisa base biologica, sta in qualche modo “al di sotto” delle parole, fu quella dell’Inconscio. Quest’esplorazione, nata in realtà assai prima (si veda l’ormai classico saggio “La scoperta dell’inconscio” di Henri F. Ellenberger), ebbe però il suo sviluppo più significativo in Psicologia, com’è noto, con la grandiosa rivoluzione psico-analitica operata da Sigmund Freud oltre cento anni fa. Questa “rivoluzione” nacque sulla base d’una considerazione attenta dell’antropologia e delle scoperte dell’evoluzionismo. Occorre però dire, per amore di precisione, che lo studioso di storia della scienza Frank Sulloway, nel suo saggio “Freud biologo della psiche”, ha sostenuto che il fondatore della Psicoanalisi, assai più che a Charles Darwin, si sarebbe ispirato alle teorie di Ernst Haekel ed al suo cosiddetto “monismo”, ed in particolare al famoso motto di quest’autore “L’Ontogenesi ricapitola la Filogenesi”; quindi, per il tramite d’una tale teoria, in specie nella sua idea del succedersi nello sviluppo psichico delle fasi orale, anale, uretrale e fallica, Freud, per Sulloway, si sarebbe rifatto ad una visione dell’evoluzione che nel complesso era assai più lamarckiana ed “ambientalista” (ossia improntata all’idea di un’incorporazione sistematica ed in qualche modo “finalizzata”, nell’organismo individuale, delle esperienze derivanti dalle sollecitazioni ambientali), che non darwiniana (ovvero volta a quella d’una selezione ambientale delle variazioni che di volta in volta, per puro caso, si producevano fra le specie). Qui ovviamente non è possibile andare oltre un rapido cenno a quest’argomento, straordinariamente vasto, complesso e tale fra l’altro da coincidere solo in parte con il tema che ci siamo dati. Poiché però esso, almeno in alcuni suoi aspetti, investe in pieno quel “rapporto profondo” fra terapeuta e paziente il quale permea di sé, assai più che quella verbale, la “comunicazione non verbale” (e che è pertanto oggetto precipuo del presente discorso), occorrerà pur farvi un cenno. Basterà ricordare brevemente, al riguardo, tre punti:
1) l’esplorazione freudiana dell’inconscio, avviata proprio tramite l’analisi di elementi psichici e/o comportamentali non strettamente verbali quali i sogni o i lapsus, partiva essenzialmente da un’idea: quella che le “forze ancestrali” della biologia (per Freud, essenzialmente quelle aggressive e sessuali), “forze” le quali sarebbero presenti, nella psiche di ciascun essere umano, allo stato inconscio in quanto “represso” dalle proibizioni genitoriali e/o sociali (o più genericamente, dalla “cultura”), condizionassero in senso profondo il comportamento palese degli individui, lo deformassero e lo rendessero, in taluni casi, “patologico”, cioè più o meno discostante sia dalla norma sociale che dalle aspettative dell’individuo stesso. Una tale idea freudiana, dunque, era per definizione “dinamica”, poiché implicava l’ipotesi che tali “istanze psichiche inconsce” (i cosiddetti “derivati dell’inconscio”, un’entità quest’ultima che per definizione non era direttamente conoscibile) fossero comunque di derivazione biologica, e proprio in quanto tali (quindi collocate ben oltre la pura e semplice dimensione “cognitiva”) conservassero una loro incoercibile “forza” a livello mentale, e dovessero di conseguenza trovare comunque un qualche “sfogo”: ciò dapprima nell’ambito intrapsichico, poi nel comportamento esterno. Quest’idea grosso modo “idraulica” della struttura della mente umana condusse a poco a poco il suo autore ad una seconda idea, perfettamente consequenziale alla prima: quella che la “presa di coscienza” dei contenuti inconsci corrispondenti a tali “forze”, ovvero il loro “prender forma” sotto la specie di idee coscienti, ed il loro conseguente “sfogo ideativo” (uno “sfogo” fino ad allora negato dalla censura operata dalla coscienza, nonché dalla repressione istintuale operata dall’Io), fosse di per sé terapeutica: ciò essenzialmente in quanto una tale “presa di coscienza” sarebbe stata in grado di “dirigerle altrove”, aggirando così le barriere della censura ed operando una sorta di “decongestionamento dell’inconscio”. Di più, la “presa di coscienza”, con l’aiuto del terapeuta, avrebbe consentito di “sublimare” tali forze “dinamiche” di derivazione biologico-istintuale, ovvero di trasformarle, rendendole in qualche modo “immateriali” (si veda il significato letterale del termine “sublimazione”) ed indirizzandole a finalità più costruttive e conformi alle aspettative sociali. Ora, nella “vulgata corrente”, specie dei “non addetti ai lavori”, quest’idea di “normalizzazione” del comportamento patologico del paziente tramite la “presa di coscienza”, poi largamente smentita dai fatti, accanto a quella circa la presunta “onnipotenza della sessualità” nelle dinamiche psichiche profonde, è tuttora rimasta come l’emblema stesso della Psicoanalisi. Ma al di là di ciò, il concetto “dinamico” di “presa di coscienza terapeutica”, anche dopo l’affermarsi della cosiddetta “seconda topica” freudiana (quella che alla triade “conscio-inconscio-preconscio” sostituiva l’altra, di carattere più “strutturale”, “Io-Es-Super Io”, e concentrava in gran parte, in quella struttura psichica che era chiamata Es, i contenuti “repressi” e le stesse “forze dinamiche” dell’inconscio, facendoli così divenire ancor più chiaramente delle forze biologiche “compresse” dall’Io e bisognose di “sfogo”), permase effettivamente inalterato, ed anzi diede luogo a quel famoso e super-ottimistico programma terapeutico freudiano, relativo alla “bonifica dell’inconscio”, che suonava più o meno così: per mezzo della terapia psicoanalitica “Là dov’era l’Es (luogo principale delle “pulsioni aggressive e non immediatamente socializzabili risiedenti nell’Inconscio”) sarà l’Io” (struttura che per Freud era per l’organo eccellenza del “rapporto con la realtà”);
2) l’evoluzione successiva della Psicoanalisi freudiana portò tuttavia ad uno sviluppo assai diverso; essa condusse gli psicoanalisti ad incentrare sempre più l’attenzione, in alternativa alla pura e semplice “presa di coscienza”, su un “luogo particolare” che poi era il solo nel quale, come si vide ben presto, una tale “presa di coscienza” nonché “bonifica dell’inconscio” potevano dare un qualche frutto terapeutico: quello della cosiddetta “relazione transferale-controtransferale” che si instaurava fra paziente e terapeuta. Una tale relazione, in un’ottica psicanalitica tradizionale, non era altro che l’insieme delle proiezioni reciproche del paziente sul terapeuta e di quest’ultimo sul paziente, effettuate sulla base delle loro reciproche modalità di “relazione oggettuale” e poi accompagnate dalla loro analisi; quest’ultima poi era effettuata essenzialmente dal terapeuta e/o dal supervisore di quest’ultimo. Ora, questa vera e propria “scoperta clinica”, frutto più che di speculazioni teoriche d’una pluri-decennale esperienza pratica, era d’indubbio valore, poiché concerneva il dato di fatto, fino allora largamente misconosciuto e/o trascurato, che una qualsivoglia psicoterapia del “profondo” non poteva essere solo “cognitiva” e limitata al paziente (come i primi analisti erano inclini a credere), ma doveva necessariamente investire, per l’appunto, il rapporto terapeuta-paziente nei suoi aspetti “inconsci”, “biologici” e “dinamici”, ed insomma in qualcosa che andava, per definizione, ben al di là dei contenuti “verbali” emergenti in terapia. Il limite di questa scoperta, però, fu rappresentato dal fatto che il rapporto terapeuta-paziente veniva visto come un gioco di reciproche proiezioni di immagini infantili e/o ancestrali, a loro volta formatesi tramite lo sviluppo psichico, l’apprendimento e l’interazione ugualmente “oggettuale” fra genitori e figli: insomma, anche il rapporto terapeuta-paziente veniva visto, esattamente come la “presa di coscienza dei contenuti psichici inconsci” risalenti al passato, come un fatto in prevalenza “cognitivo” (si veda in proposito la “teoria delle relazioni oggettuali” inaugurata da Melanie Klein e poi sviluppata da autori come Margareth Mahler, Donald Winnicott, William Fairbairn, Otto Kernberg), mentre gli aspetti più propriamente biologici e “dinamici” di detto scambio restavano ancora una volta in ombra. Comunque sia, in base a questo radicale mutamento di prospettiva le terapie psicoanalitiche si allungarono di molto (dai pochi mesi iniziali a molti anni), e presero ad assomigliare sempre più ad un “addestramento etico” e quasi para-religioso ottenuto proprio tramite il rapporto con il terapeuta: un autentico “percorso di maturazione a due”, volto principalmente a fronteggiare le pulsioni distruttive; si veda, in proposito, la sempre maggiore importanza via via acquistata, in Psicoanalisi, dal concetto freudiano di “Istinto di morte” o “coazione a ripetere”, inteso quale segno di “resistenza al cambiamento”, “scelta colpevole della soluzione più semplice” (o meglio, affine alla “semplicità dell’inorganico”) e “rifiuto della complessità del reale”, da cui deriverebbe la “difficoltà nel guarire”. Il ritmo delle sedute, dunque, crebbe parallelamente a tale evoluzione, giungendo fino a quattro alla settimana, mentre l’”analisi del tranfert” divenne, com’è ovvio, assolutamente centrale non solo per la terapia, ma per la vita stessa del paziente: quest’ultima infatti, a poco a poco, essendo sempre più intesa come un “ri-percorrimento” (ovviamente guidato dall’analista) del proprio tragitto di maturazione infantile, doveva di necessità essere “rivissuta in analisi” nonché “risolta”, nei suoi snodi essenziali, nell’ambito della relazione, spesso conflittuale, con il proprio terapeuta. Su quest’ultimo infatti, come già accennato, il paziente “proiettava” i propri arcaici fantasmi ed i vissuti infantili verso le proprie figure genitoriali (la parola “transfert”, letteralmente, significa proprio “proiezione”), ed il terapeuta doveva fornire adeguate “interpretazioni” di tali proiezioni e convincerne il paziente. Le “resistenze” del paziente a fare tutto ciò, venivano infine liquidate semplicemente con la considerazione che in questo caso prevaleva, in lui, assieme ad un’insolitamente pervicace “fissazione” agli stadi più precoci e pre-genitali dello sviluppo psichico, l’“istinto”, ovvero la “pulsione”, di “morte”. All’inverso, nei casi più favorevoli si supponeva che i “nodi irrisolti” dello sviluppo infantile e del rapporto con i genitori (donde erano derivate le sue famose “fissazioni orali, anali e falliche”, già postulate da Freud), fino ad allora rimasti inconsci ma tali da condizionare in senso patologico sia il comportamento cosciente che la situazione inconscia del paziente, si fossero andati a poco a poco “sciogliendo” grazie all’azione congiunta della “presa di coscienza” e dell’”analisi del transfert”, rendendo possibile quella radicale trasformazione della personalità che era il presupposto della “guarigione”. Non tutto, naturalmente, era così semplice: già lo stesso Freud, per la verità, iniziò sul finire della sua vita a nutrire seri dubbi su questo “ottimismo teorico” coniugato ad una sorta di “massimalismo terapeutico”, ed in “Analisi terminabile ed interminabile” (1937), pose il problema dei limiti intrinseci dell’azione analitica e della frequente necessità di porvi fine pur senza aver raggiunto i risultati per essa “strategici” (il mutamento strutturale della personalità), mentre già nel 1925 aveva ipotizzato che l’importanza della Psicoanalisi sul piano culturale e scientifico oltrepassasse di gran lunga quella terapeutica.
3) E’ in conclusione evidente che un “campo terapeutico” quale quello psicoanalitico, proprio in quanto così ambiziosamente concepito, conteneva un numero di variabili, sia soggettive che oggettive, talmente elevato (il paziente, il terapeuta, i loro rispettivi passati e personalità, la loro interazione umana profonda e la loro relazione terapeutica, il loro rispettivo percorso di maturazione “cognitiva” ed “oggettuale”, il loro giudizio non necessariamente coincidente sull’andamento della terapia, ecc.) da rendere difficilissima una “verifica oggettiva” dei reali progressi terapeutici, ed anche una “falsificazione popperiana”, sul piano scientifico, circa la veridicità degli assunti teorici della Psicoanalisi (cosa ampiamente notata, peraltro, da illustri filosofi della scienza quali appunto Karl Popper, o Adolf Grunbaum). Ancora, questo limite era aggravato dal fatto che l’obiettivo della terapia, con una siffatta ultra-complessa metodica, si spostava necessariamente dai sintomi più o meno specifici d’un determinato disturbo ad una generica, assai più insondabile e scarsamente definibile “maturazione della personalità”, della quale era davvero arduo fornire “evidenze” sia “in positivo” che “a contrario”: se ad esempio si riteneva che un paziente in qualche modo “progredisse”, si supponeva che ciò avvenisse in quanto l’analisi del tranfert gli aveva fatto correttamente rivivere degli “snodi” infantili essenziali, sui quali però non era ovviamente possibile alcuna verifica (tanto meno extra-analitica); se invece “non progrediva”, veniva invocato come causa di ciò, come già accennato, il prevalere in lui dell’“l’istinto di morte”, ovvero d’un qualcosa che corrispondeva ad un concetto ancora meno soggetto a verifiche (o per lo meno, a verifiche scientifiche). Ebbene, a queste aporie di base del pensiero psicoanalitico di derivazione freudiana, derivanti dalla complessità e non verificabilità dell’oggetto della “terapia” analitica, non sembrano certo aver posto rimedio quegli autori più recenti ed alla moda i quali alla Psicoanalisi aderiscono o s’ispirano proprio in chiave “relazionale” (ossia in un’ottica che è la più complessa e la meno verificabile possibile), vuoi dal punto di vista dello studio delle funzioni mentali, vuoi da quello della “teoria dell’attaccamento”: Stephen Mitchell (Psicoanalisi relazionale), Peter Fonagy (“Teoria della mentalizzazione”), Philip Bromberg (Psicoanalisi relazionale), David Wallin (Psicoanalisi relazionale), Allan Shore (“Teoria dell’attaccamento”), o l’ormai classico Wilfred Bion (“Teoria delle funzioni”). Questi autori, infatti, per l’appunto in quanto fatalmente portati ad enfatizzare il ruolo attribuibile, nella terapia e nello stesso sviluppo psichico infantile del paziente, alla “relazione”, non hanno potuto far altro che rendere ancora più evidenti queste difficoltà.
Ora, proprio su una tale colossale “falla d’origine”, anche metodologica, della Psicoanalisi, ovvero di quella che potremmo definire la prima psicoterapia sistematicamente incentrata su elementi psichici “profondi” e soprattutto inerenti la ultra-complessa relazione fra gli uomini, quindi per definizione non immediatamente visibili (e spesso, “non verbali”), si è successivamente innestata, come vedremo, la proposta proveniente da un approccio psicoterapeutico completamente alternativo.
I possibili meccanismi d’azione delle psicoterapie sono stati rivisitati in una prospettiva radicalmente nuova, in particolare, ad opera dell’approccio cognititivo-comportamentale, un orientamento nato negli Stati Uniti intorno alla fine degli anni Sessanta in seguito al lavoro clinico di Aron T. Beck. Quest’orientamento s’imperniava su una radicale rivalutazione del ruolo esercitato, sia nella patogenesi dei disturbi mentali che nella loro terapia, proprio dai pensieri consci: in particolare, Beck si accorse che esisteva un nesso preciso fra alcuni dei pensieri consci che attraversavano la mente dei pazienti e le loro sofferenze, e si rese conto che, entro certi limiti, si potevano correggere le seconde influenzando i primi. In base a ciò, questo metodo s’imperniava su una riflessione del paziente, effettuata sotto la guida del terapeuta, sulle proprie emozioni e pensieri coscienti, nonché su un vero e proprio, sistematico “addestramento” per superarli e/o per prescinderne: insomma, esso rappresentava un metodo specularmente opposto a quello psicoanalitico, il quale era invece imperniato, come abbiamo visto, sull’esplorazione (“libera” e fondata sulle associazioni mentali del paziente, sui suoi lapsus ed i suoi sogni) di pensieri ed emozioni inconsce del paziente, esplorazione effettuata essenzialmente dal terapeuta in prima persona tramite l’interpretazione. Perciò il nome che Beck diede alla sua metodica fu quello di “Psicoterapia Cognitiva”. Oggi s’intende il modello terapeutico originario di Beck come “Terapia Cognitiva Standard”, in quanto la sua successiva denominazione di “Terapia Cognitivo-Comportamentale” fa riferimento all’innesto, sul suddetto “modello standard” di tipo cognitivo, di tecniche di derivazione behaviorista, ovvero appartenenti all’indirizzo comportamentista inaugurato da John Watson già agli inizi del Novecento (tecniche in gran parte basate sul cosiddetto “condizionamento operante” di Burnus Skinner). La terapia cognitivo-comportamentale fa poi riferimento anche all’acquisizione, da parte della Psicoanalisi, delle più recenti scoperte sulla psico-biologia dello sviluppo animale ed umano, e di quelle inerenti le cosiddette “tematiche di dipendenza”, quali ad esempio quelle sistematicamente esplorate nella ponderosa opera in tre volumi dello psicoanalista freudiano inglese “dissidente” John Bowlby, intitolata “Attaccamento e Perdita” e scritta fra il 1969 ed il 1980. Occorre anche sottolineare, a proposito di quest’approccio psicoterapeutico, che esso è l’unico, allo stato attuale, ad essere riconosciuto come realmente efficace dalla Psichiatria, in quanto è il solo ad essere stato validato scientificamente ed in base ad “evidenze” circa la sua reale efficacia; occorre però anche dire che, secondo le suddette “evidenze”, l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, pur essendo reale, si espleta al suo meglio in associazione con le terapie psico-farmacologiche (e queste ultime, viceversa, acquisiscono una maggiore efficacia in associazione con la psicoterapia cognitivo-comportamentale). In Italia, questo approccio si è scisso nei due filoni della “terapia cognitivo-comportamentale” propriamente detta (Giovanni Liotti ed altri), e della cosiddetta terapia “post-razionalista” (Vittorio Guidano).
Nel complesso pur senza addentrarci, anche qui, nei dettagli ma mantenendo uno specifico riferimento al tema principale del nostro discorso, possiamo dire che le terapie cognitivo-comportamentali, sul piano concettuale e teorico, hanno “rivoluzionato” l’approccio psicoanalitico nel senso più letterale del termine, ossia lo hanno “rovesciato di 180 gradi”: 1) laddove, infatti, in Psicoanalisi si parte da contenuti psichici “dinamici” e per definizione non verificabili quali quelli “inconsci”, e si assume che il renderli consci (o più specificamente, il rendere consci i contenuti del transfert) sia la chiave di volta della terapia, in ambito cognitivo-comportamentale si parte da contenuti psichici non già “dinamici” ma ideativi e prettamente “cognitivi”, ed inoltre perfettamente consci (per la precisione, quei pensieri che hanno a che fare con la sofferenza, ad esempio con il lutto, con il distacco e con la perdita); 2) In secondo luogo si assume che su di essi si debba “lavorare per correggerli” e per sostituirli con altri, anziché per farli “emergere alla coscienza”, dal momento che essi, alla coscienza, già per proprio conto sono fin troppo “emersi”; 3) in terzo luogo questo “lavoro terapeutico” deve essere effettuato, più che dalla coppia terapeuta-paziente, dal paziente in prima persona (seppure “addestrato” dal terapeuta a farlo progressivamente sempre più per proprio conto); 4) in quarto luogo, laddove il “contratto psicoterapeutico” iniziale, in Psicoanalisi, è vago ed allo stesso tempo super-ambizioso, o quanto meno complesso e poco verificabile, in ambito cognitivo-comportamentale esso è molto più chiaro e delimitato, poiché si parte da un progetto estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio; insomma, laddove in Psicoanalisi si perseguono obbiettivi d’incredibile vastità ed indefinitezza, quali la “maturazione e/o la trasformazione della personalità”, anzi il suo “mutamento strutturale”, nonché il conseguente radicale scioglimento di modi di essere e di comportarsi inveterati in quanto basati sulle esperienze infantili e sull’inconscio (si ricordi l’ambiziosissimo aforisma freudiano “Là dove era l’Es sarà l’Io”), in ambito cognitivo-comportamentale si persegue, al contrario, un obbiettivo estremamente semplice e modesto: eliminare i sintomi; 5) ancora, laddove la verifica dell’efficacia d’una terapia, in Psicoanalisi, è praticamente inesistente e/o affidata esclusivamente al giudizio dell’analista (o al massimo, della coppia analista-paziente), in una terapia cognitivo-comportamentale essa è affidata a degli standard oggettivi relativi ai sintomi (che poi sono le stesse scale di valutazione usate in Psichiatria per giudicare della loro maggiore o minore gravità); 6) laddove la terapia psicoanalitica comporta un fortissimo investimento in termini di tempo e di denaro, nonché una vera e propria “mutazione” nella vita del paziente (come si è detto, il ritmo delle sedute, assai spesso, è pluri-settimanale, vige la cosiddetta “regola dell’astinenza” da particolari comportamenti durante la terapia, e la stessa dura per molti anni), in ambito cognitivo-comportamentale tutto ciò non è richiesto, le terapie hanno un ritmo ed una durata assai più limitati, non vigono “astinenze” che vadano al di là del lavoro sui sintomi, ecc. ecc.
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A questo punto, però, occorre che ci fermiamo un attimo, anzi che facciamo un passo indietro e che ci dedichiamo ad una riflessione d’ordine più generale; dobbiamo infatti ricordarci che il punto fondamentale da cui eravamo partiti è un altro, ben diverso rispetto alle questioni relative all’efficacia delle psicoterapie sui sintomi ed alla verificabilità/falsificabilità dei loro risultati: esso, per la precisione, è quello relativo all’oggetto stesso d’una qualsivoglia “psicoterapia”, oggetto che poi coincide con il suo profondo “modo di funzionare”. E questo “modo profondo di funzionare”, a sua volta, non può essere altro che l’influenza, benefica o non benefica, che una mente può in qualche modo avere, a determinate condizioni, su di un’altra mente.
Ora, posta in tal modo la questione, il discorso, occorre dirlo, cambia profondamente: infatti in Psicoanalisi, o almeno in molti dei suoi sviluppi post-freudiani (ma già nel Freud più tardo!), ogni tipo di sofferenza viene curato, in pratica, proprio attraverso il rapporto terapeuta-paziente e la sua analisi (la cosiddetta “analisi del tranfert”, ossia della proiezione sul terapeuta dei contenuti psichici inconsci del paziente). Perciò di fatto, nell’ambito di questa metodica si lavora davvero, o almeno ci si propone e ci si sforza di lavorare (bisogna dirlo, con una percentuale di successi assai dubbia), su ciò che “transita” o si ritiene “transiti”, a livello profondo, fra paziente e terapeuta, ossia su quello che si presume possa costituire il “meccanismo di base” delle psicoterapie: ciò anche se poi, con il suo mantener fermo anche nell’analisi del transfert, come terapeuticamente strategico, il concetto della “presa di coscienza”, con quel tanto di “smaterializzazione” e “sublimazione” delle forze di derivazione istintuale che tale concetto comporta, la Psicoanalisi finisce anch’essa con il ritenere essenzialmente “cognitivo” un interscambio relazionale il quale, proprio in quanto di natura biologica non può che rimanere, al contrario, in larga misura “inconscio”.
In ambito cognitivo-comportamentale, invece, questo punto (di per sé importantissimo, in quanto investe il modo di interagire degli esseri umani, ma tale da essere giudicato non del tutto a torto come “poco verificabile”), viene messo completamente da parte: il rapporto terapeuta-paziente è praticamente scomparso dall’orizzonte teorico di quest’impostazione (anche se, forse non da quello pratico), e ci si è concentrati invece sui sintomi del paziente e sui suoi differenti “stili” mentali di viverli, di produrli e di eliminarli. Insomma, al fine, senz’altro encomiabile, di rendere la terapia verificabile” sul piano scientifico “, e su quello pratico la più “efficace”, “economica” e “meno auto-referenziale” possibile, si è scelto di concentrarsi sui dati puramente “oggettivi” del percorso terapeutico, ed in particolare su quelli riguardanti il solo paziente (anzi la parte più superficiale e visibile del suo modo di “stare al mondo”): ciò, di fatto, comportandosi come se il rapporto terapeuta-paziente (o ancor meglio, il rapporto fra la personalità del terapeuta e quella del paziente) non esistesse, non avesse alcun ruolo e/o non “pesasse” nella terapia medesima. Oppure, qualora il rapporto terapeuta-paziente, in un’ottica cognitivo-comportamentale, venga preso in considerazione, esso lo è, a parte la questione dei possibili “errori tecnici”, al di fuori di canoni scientifici codificati, quindi “privatamente” e quasi “di soppiatto”.
Ora, mi sembra che quest’ultima caratteristica, pur fatte salve le sopra citate positive qualità della metodica cognitivo-comportamentale (efficacia rispetto all’obiettivo iniziale, brevità, economicità, verificabilità scientifica e “non-autoreferenzialità”), precluda a questo approccio ogni possibilità di comprensione profonda dei meccanismi generali d’azione delle psicoterapie. E’ infatti da osservare che, pur essendo le terapie cognitivo-comportamentali le uniche, come sopra accennato, la cui “efficacia” può dirsi “scientificamente provata”, essa lo è proprio in quanto tali terapie limitano fortemente e volutamente il proprio raggio d’azione ed i propri obbiettivi; d’altro canto, moltissime altre tecniche psicoterapeutiche continuano a prosperare, ed anche se si giungesse ad equipararle tutte quante a forme più o meno ciarlatanesche di “suggestione”, resterebbe pur sempre da spiegare come una tale “suggestione” sia così diffusa e possa in definitiva “funzionare”, almeno in determinati contesti, avvalendosi di profondi e misteriosi meccanismi. Insomma, è ovvio che laddove ci si avvicini con modalità fortemente “riduzionistiche” ad un oggetto così complesso qual è una psicoterapia (o più semplicemente, qual è l’interazione “a scopo d’aiuto” fra due menti), e di conseguenza si limiti all’estremo l’obiettivo strategico di quest’ultima, circoscrivendolo a finalità nettamente delimitate ed immediatamente “misurabili” (e viceversa si escluda “a priori”, dall’indagine teorica, proprio quel campo più complesso e ricco di variabili, ma anche più promettente di sviluppi teorici e conoscitivi, che è il rapporto terapeuta-paziente), si raggiungono certamente dei risultati più “efficaci” e “falsificabili” nel senso delle scienze sperimentali, però ci si allontana irrimediabilmente dalla possibilità d’esplorare in profondità una tale “complessità” e d’influire su di essa.
Esplorare e modificare ciò che è alla base dell’interazione fra gli esseri umani, però, ha da sempre costituito una delle implicazioni e finalità (anche se forse non la principale) d’ogni psicoterapia. Anzi, una tale esplorazione, prima dell’avvento dell’approccio cognitivo-comportamentale, era stata al centro, praticamente, di tutti gli orientamenti psicoterapeutici conosciuti: ad esempio, oltre che dell’approccio psicoanalitico, anche di quello relazionale-sistemico, il quale anzi, come abbiamo visto brevemente sopra, aveva preso ad effettuarla, seppure in polemica con la Psicoanalisi, in una forma sua propria ed originale.
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Concludo questo mio intervento facendo riferimento ad una proposta teorica a mio avviso interessante, cui almeno in parte aderisco, la quale proviene da uno psicoanalista italiano d’estrazione freudiana ma fortemente “eterodosso”, Ignazio Majore: uno studioso che per mezzo secolo ha posto al centro del suo lavoro i meccanismi profondi ( quindi anche quelli “non verbali”) del rapporto terapeuta-paziente, ossia ciò che a livello biologico si presume avvenga, “al di là delle parole”, in una psicoterapia.
Secondo Ignazio Majore, dunque, l’essenza del disturbo mentale, la sua “causa prima”, non è affatto quell’”istinto di morte” di freudiana memoria che tanto spazio ha trovato e trova fra alcune speculazioni teoriche tott’oggi in voga fra gli psicoanalisti: un qualsivoglia essere vivente, infatti, la cui mente ospitasse al proprio interno, in qualità di “istinto” (ovvero di “forza dinamica” organizzata in forma istintuale), qualcosa che per sua stessa natura tende alla morte, all’”entropia” ed al ritorno all’inorganico (laddove ogni tipo d’istinto inclusa l’aggressività, al contrario, si forma in natura per difendere la vita!), sarebbe un assoluto controsenso biologico.
La causa dei disturbi psichici, per Majore, è piuttosto il contatto con quella “morte effettuale” (sia fisica che mentale) che fatalmente proviene, ad ogni essere vivente, sia dall’ambiente che dal proprio stesso organismo, mentre ciò che decide dell’esito dei disturbi mentali è il grado di “reazione vitale” che un dato soggetto può produrre, a livello mentale, nei confronti della morte medesima.
Infatti, essendo le leggi che regolano l’interazione fra esseri umani di natura essenzialmente biologica (com’è ovvio che avvenga in esseri viventi quali noi siamo, a prescindere dal nostro appartenere ad una specie cosciente e dotata di linguaggio), e posto che tali leggi non possono non perseguire, in qualsivoglia specie vivente, l’obiettivo prioritario di consentire la sopravvivenza, Majore ipotizza che ciò che sta alla base delle possibilità di comunicazione reciproca, in senso generale come in senso psicoterapeutico, fra gli esseri umani, sia qualcosa che ha a che fare, anche qui, con la possibilità di fronteggiare, o d’aiutare altri a fronteggiare, la morte: ossia, che la comunicazione inter-umana abbia anch’essa a che fare con quel “problema comune” che costantemente ed in varie forme costituisce l’oggetto prioritario della percezione d’ogni essere vivente (e dell’essere umano in particolare!), anzi il solo che conferisce ad una tale percezione un qualche senso.
Dopo aver formulata quest’ipotesi di base, ed averla correlata con l’osservazione, altrettanto indiscutibile, che l’essere umano è l’unico a “conoscere” la realtà della propria morte in forma cosciente, quindi a “percepirla” di continuo ed anche a “prevederla”, Majore fa due ulteriori ipotesi: 1) quella che quest’ingente presenza della morte nella mente umana possa essere la causa principale dei più svariati disturbi mentali (la realtà delle malattie mentali è presente soprattutto, anche se non solamente, nella specie umana!); 2) quella, conseguente alla prima, che nel rapporto terapeuta-paziente, essenzialmente, al di là delle “parole” proferite da entrambi, ed anche al di là del loro “pensiero cosciente”, agisca la capacità profonda del terapeuta (una capacità essenzialmente “non verbale”!) di sopportare la morte mentale di cui il paziente è “pieno” (e talora, “selettivamente portatore”), e soprattutto di “reagirvi in forma vitale”, fornendo così al paziente stesso un “modello”, per così dire, di “reazione vitale alla morte”: un modello, naturalmente, che quest’ultimo potrà essere in grado di far proprio oppure no.
Di più, Majore ipotizza che nelle terapie molto lunghe si formi a poco a poco, sia nel paziente che nello stesso terapeuta, una sorta di “livello mentale intermedio terapeuta-paziente”, ovvero un autentico “figlio mentale della terapia”, il quale costituisce il fine d’ogni psicoterapia), lo fa in quanto “prende sulle proprie spalle”, in qualche modo (Majore fa l’ipotesi della sessualità, ma se ne potrebbero fare anche altre, forse ancora più plausibili!) il carico di morte mentale di quest’ultimo e lo smaltisce al suo posto, o meglio “gli insegna” a smaltirlo in prima persona dandogli l’esempio di “come si fa”, ebbene, allora questo meccanismo potrebbe rappresentare una spiegazione semplice, elegante e di grande potenza dell’indubbia efficacia, seppure con alcune differenze, di tutte le tecniche psicoterapeutiche: ciò in quanto riporterebbe una tale efficacia ad un’unica “variabile” veramente significativa che va ben oltre i contenuti specifici delle tecniche impiegate, ovvero quella rappresentata dalle rispettive personalità del terapeuta e del paziente. Quest’ipotesi, poi, sembra a maggior ragione degna d’interesse ove si consideri che nella stessa terapia cognitivo-comportamentale si danno frequenti casi d’insuccesso i quali non possono essere sempre ricondotti a puri e semplici “errori tecnici”, e dunque almeno in parte derivano, con ogni evidenza (ed a dispetto della relativa semplicità e meccanicità di questa metodica!) da variabili assai più difficili da valutare: presumibilmente, da quelle inerenti la qualità dell’interazione umana terapeuta-paziente.
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Noi riteniamo assolutamente valida l’ipotesi di Majore che la “malattia” e la “cura” siano da porsi in relazione, rispettivamente, con il contatto e con la “reazione” nei confronti della morte (e più precisamente d’una morte intesa come realtà effettuale, di per sé bruta e “passiva”, e non già, alla maniera freudiana, come “forza attiva interiore” e vagamente intenzionale, ovvero come “istinto” e “pulsione”); tuttavia pensiamo che esistano possibilità complementari o alternative, rispetto all’ipotesi “sessuale”, circa il meccanismo specifico dell’ipotetica “reazione vitale” alla morte che, in terapia come nei più comuni rapporti umani, verrebbe mobilitato: potrebbe trattarsi ad esempio d’un meccanismo basato, assai più che sulla sessualità, sulla socialità.
Aggiungiamo ora che esiste anche la possibilità di specificare meglio ed in maniera più precisa la natura della “morte” di cui parla Majore.
Credo in particolare che una tale “morte” in grado di generare “malattia mentale” non sia nella maggior parte dei casi riferibile al mondo fisico (esterno o interiore che esso sia), bensì a ciò che all’inizio del nostro discorso abbiamo visto essere la effettiva “pragmatica della comunicazione umana”, ossia quella parte della comunicazione medesima (essenzialmente “non verbale”!) presente anche in tutti gli altri animali e che nell’uomo riguarda, in maniera specifica, le relazioni sociali e le loro possibili implicazioni “mortifere”.
Io ritengo, ad esempio, fortemente sospetto, e comunque e bisognoso di spiegazione, il fatto che ogni forma di sofferenza mentale d’interesse psicopatologico, al di là delle motivazioni esplicite, coscienti e “verbali” che spesso il paziente ne da, sia caratterizzata dalla presenza d’una insopprimibile componente persecutoria: ne sono pervasi, ad esempio, gli stati deliranti ed allucinatori schizofrenici, ma anche gli stati maniacali, i disturbi bipolari, le sindromi fobiche ed ossessivo-compulsive, le sindromi anoressico-bulimiche, le psicopatie e sociopatie d’ogni tipo, le perversioni sessuali, i disturbi da attacco di panico, le sindromi ipocondriache, e persino il “mare magnum” delle cosiddette “sindromi depressive” (nelle quali la persecuzione esiste eccome, ma prende la forma della colpa, o al massimo “proviene da dentro” nella forma d’un misterioso “svuotamento di energie”, anch’esso d’origine chiaramente conflittuale). Di più: chiari aspetti persecutori emergono puntualmente persino nelle demenze senili, nelle epilessie psicomotorie, nelle insufficienze mentali, e praticamente in tutte le forme di disturbo mentale su base organica, quasi che quello persecutorio fosse un “pattern di reazione” universalmente presente in quanto “necessario” e finalizzato ad un qualche misterioso scopo.
Ora, alla luce di tutto ciò, l’ipotesi di Majore potrebbe essere modificata come segue: forse la “morte” che intasa di sé, in particolare, la mente umana, e di cui parla così insistentemente quest’autore (morte la quale, concordiamo con lui, non può essere immaginata in senso freudiano, come un assurdo e controproducente “istinto” teso all’auto-distruzione, ovvero come “pulsione di morte” interna, bensì solamente come il risultato d’una serie di attacchi che subiamo sia dall’ambiente che dall’interno dell’organismo, e dalle leggi stesse della vita), proviene semplicemente dall’essere, l’uomo, un soggetto in costante pericolo di predazione da parte dei propri simili: questa condizione ancestrale, peraltro riconfermata costantemente da imponenti fenomeni di violenza di massa che sono rari fra le altre specie, quali la guerra, la schiavitù e lo sfruttamento, lo ha infatti costretto, a differenza di altri animali ugualmente oggetto di predazione, a “rimanere perennemente avvinghiato” al proprio predatore (un predatore così simile a sé stesso) anziché porre in essere, come gli altri animali, solo comportamenti di fuga/immobilizzazione o di attacco, ed alla fine lo ha spinto ad identificarsi mentalmente con lui, oltre che a “prendere coscienza della sua costante ed incombente presenza”; ma ciò ha anche spinto l’uomo ad auto-osservarsi “con sospetto”, quale potenziale predatore egli stesso, quindi ad interiorizzare il predatore medesimo, e conseguentemente a dilatare gli spazi “coscienti” ed adibiti alla “vigilanza antipredatoria” (volta sia all’esterno che all’interno) della propria mente.
L’altro lato della medaglia, però, sarebbe stato, in questo caso, “l’intasarsi di morte” della mente umana nel suo complesso, e la conseguente necessità di relegare questa “morte predatoria in sovrappiù”, in una zona differente dall’apparato percettivo, ovvero in una sorta di suo “serbatoio” (forse l’inconscio?): ciò al semplice fine di consentire a quel vero e proprio “sensore volto verso l’esterno” che è la percezione, di rimanerne “sgombra” e di poter “funzionare”, seppure in forma “dissociata” dal resto della mente, nel suo fondamentale ruolo d’allarme antimortifero volto al mondo fisico, e comunque extra-specifico. Di più: quest’ultimo “tradizionale” aspetto dell’apparato percettivo, proprio in ragione della “nascita dell’inconscio” (una struttura, secondo la nostra ipotesi, via via sempre più adibita a svolgere i compiti, ingenti nella specie umana, dell’allarme antipredatorio ed antipersecutorio volto ai rapporti con membri della propria stessa specie), ha forse potuto specializzarsi in maniera spettacolare sul piano astratto e matematico, logico-informativo e linguistico-semantico, quindi ha potuto affinare in una misura fino ad allora inedita proprio quei compiti di ricerca selettiva, di manipolazione e di neutralizzazione, più che della morte predatoria, della morte intesa nel suo senso più generale (ossia di quella morte che tutti gli esseri viventi debbono affrontate).
Tuttavia, pur ammettendo che l’inconscio abbia reso possibile questo processo evolutivo della mente percettiva in mente “cosciente”, che cosa la ha spinta, in concreto, a questa ulteriore “specializzazione”? Ebbene, noi riteniamo che la mente dell’uomo potrebbe avere imparato a manipolare simbolicamente e per via logico-matematica le “cose” appartenenti al mondo fisico, ossia a padroneggiarle, per analogia, ovvero proprio perché in precedenza aveva dovuto imparare a manipolare simbolicamente e per via linguistica (ossia in un modo molto affine a quello logico-matematico ed astratto), quindi a padroneggiare i maniera efficace, le ultra-complesse relazioni che era costretta ad intrattenere con predatori sommamente “pericolosi” quali quelli che appartenevano alla propria stessa specie.
Ora, una bipartizione conscio/inconscio così concepita (ossia, ove venga vista come una “complicazione casuale di carattere strutturale-formale”, nonché “emersa all’improvviso”, secondo la già illustrata ipotesi evoluzionistica detta “Evo-Devo”, d’una originaria, più semplice e più “primitiva” funzione antipredatoria), potrebbe spiegare, per l’appunto, il “mistero” rappresentato dall’inopinata e sovrabbondante presenza, nella nostra specie, di un’intelligenza simbolica, oltre che di tipo linguistico, anche di tipo logico-matematico ed “astratto”: un tipo d’intelligenza, insomma, altamente complessa, sofisticata e “ridondante” della quale, nelle primitive condizioni di vita dei primi ominidi, non si intravede altrimenti alcuna possibile spiegazione o “necessità”.
Questo passato ancestrale (e questo presente!) di predazione intra-specifica proprio dell’uomo, dunque, da un lato spiegherebbe la suddetta onnipresenza di componenti persecutorie, sia consce che inconsce, nelle “malattie mentali” d’ogni livello e grado; dall’altro spiegherebbe la singolare ipertrofia, presente proprio nell’uomo e solo in lui, ed insieme l’efficacia in funzione “terapeutica” ed antimortifera, di strumenti di “pacificazione” e di “socializzazione” con il proprio avversario che possono ovviamente funzionare solo all’interno d’una stessa specie: la sessualità (l’uomo, per inciso, è il solo animale dotato di sessualità perenne!), il linguaggio simbolico e logico-astratto (l’uomo è l’unico animale “parlante” in senso simbolico), ed infine la socialità in senso lato (l’uomo non solo è un animale iper-sociale, ma è assai più portato degli altri all’accudimento della prole, nonché dedito come nessun altro all’enfatizzazione di tipiche “formazioni reattive” nei confronti della predazione quali la religione e l’amore, la compassione e l’empatia, ecc.).
Se questa modifica e/o integrazione apportata alla teoria di Majore fosse veritiera, si spiegherebbe meglio anche l’efficacia, in psicoterapia, di quella manipolazione più o meno sapiente del rapporto terapeuta-paziente (e della morte che vi transita) la quale ha luogo, classicamente, nell’analisi freudiana del tranfert: in tale manipolazione infatti, a fungere da arma antimortifera decisiva ed in senso lato “terapeutica”, accanto alla sessualità (che gioca peraltro un preciso suo ruolo “difensivo” solo in ambiti clinici molto circoscritti e limitati quali le perversioni), avremmo anche la socialità ed i suoi derivati (ad esempio le varie forme di comunicazione verbale ed extra-verbale); ed infatti è la socialità, il gruppo, il numero, a ben vedere, non la sessualità, l’unico vero presidio antimortifero, ed anche antipredatorio, che tutte le specie viventi hanno in comune, dalla più elementare (e “non sessuata”!) alla più complessa.
Insomma, sarebbe la socialità (in un linguaggio più familiare, la benevola, rassicurante e protettiva “alleanza terapeuta-paziente”), seppure ben nascosta dietro la “tecnica”, l’arma decisiva la quale, al netto di eventuali fattori transferali negativi, renderebbe efficace la maggior parte delle psicoterapie, inclusa la stessa psicoterapia cognitivo-comportamentale con la sua focalizzazione sull’obiettivo limitato del “sintomo”. Quest’ultima, anzi, potrebbe essere più efficace delle altre proprio in quanto, a livello di “non detto”, d’”inconscio” e dunque di “non verbale”, rassicurerebbe il paziente (proprio in ragione della limitatezza dei suoi obiettivi “dichiarati”) di non voler mirare ad una destrutturazione profonda, virtualmente ostile, minacciosa e predatoria (o che può essere percepita come tale!) della sua personalità e delle sue difese, ma di volerle rispettare insieme con la personalità nel suo complesso (elemento, quest’ultimo, che confessiamo di credere non sia molto modificabile in terapia, per lo meno dopo la conclusione dello sviluppo psico-fisico).
Il meccanismo “profondo” delle psicoterapie, pertanto, potrebbe essere semplicemente, da parte del terapeuta, il prendere per lo meno in parte su di sé i fantasmi persecutori del proprio paziente (quelli che per lo più animano il cosiddetto “transfert”), e contemporaneamente il mostrargli che chi lo aiuta non è, a sua volta, un suo “persecutore nascosto”, ma anzi è capace, entro certi limiti, di sopportare la sua aggressività (il che fa parte del cosiddetto “contro-transfert positivo”).
In questo senso, il ruolo del terapeuta appare secondo me assai diverso sia da quella sorta di “attivatore d’una reazione simil-sessuale alla morte” cui pensa Ignazio Majore, sia da quel “ruolo genitoriale” cui pure esso, esteriormente, assomiglia parecchio: tale ruolo, infatti, va ben oltre (e contemporaneamente, resta ben al di qua!) rispetto a quel “ruolo protettivo e d’incentivazione alla maturazione della personalità” che con la funzione genitoriale è connaturato.
Il “ruolo terapeutico”, secondo me, ha a che fare con degli individui che sono letteralmente invasi e dominati dai propri fantasmi persecutori, e contemporaneamente, che sono fuoriusciti in via definitiva dallo sviluppo psico-fisico, quindi sono ormai molto meno capaci di “reagire alla morte” di quanto non lo siano i bambini e gli adolescenti, avendo ormai dato fondo, in gran parte, alle loro potenzialità e risorse strutturali.
I pazienti dunque, più ancora che capaci di “creare nuove strutture mentali”, sono bisognosi di riattivare quelle che già hanno, o meglio quelle “funzioni vicarianti” che già posseggono e che sole sono in grado di sostituire quelle ormai intasate di morte che li hanno portati al “disturbo”; quindi debbono solo essere alleggeriti e messi in condizioni, attraverso l’alleanza terapeutica, di sperimentare, con pazienza e tenacia, siffatte, e già preesistenti, funzioni vicarianti.
Insomma, più che essere condotti a scoprire in sé stessi, in quanto individui, chissà quali tenebrosi ed inaccessibili segreti e cattiverie (come vorrebbe la Psicoanalisi), o viceversa limitarsi a focalizzare il sintomo e la tecnica per affrontarlo (come vorrebbero le terapie cognitivo-comportamentali), i pazienti vanno resi edotti, semplicemente, del loro appartenere alla specie umana: ovvero, ad una “specie combattente” nella quale ogni individuo teme più d’ogni altra cosa il proprio simile e le sue tendenze predatorie, quindi ha imparato a temerle anche in sé stesso, ed ha anche ipertrofizzato la propria sessualità, il proprio linguaggio e la propria mente appositamente allo scopo di fronteggiarle. Da ciò deriva la “sofferenza psichica” ed il “senso di allarme” in tutte le sue forme, le ansie di tipo “panico” e “senza oggetto”, le paure persecutorie anche di tipo delirante (che invece, un oggetto persecutorio lo vedono in qualunque cosa), le fobie (nelle quali l’oggetto persecutorio è spostato su qualcosa di circoscritto e di meno ansiogeno), le depressioni ed i sensi di colpa (in cui l’oggetto persecutorio è divenuto interiore), i rituali ossessivo-compulsivi “tesi a controllare qualcosa d’inquietante e sconosciuto”, i disturbi anoressico-bulimici tesi a manipolare lo scambio metabolico con i propri simili e renderlo meno tossico, le tossicodipendenze tese a stordire il senso del pericolo proveniente dagli altri e da sé stessi, le perversioni sessuali e le psicopatie criminali, tese a padroneggiare il pericolo proveniente dagli altri tramite il piacere, il più delle volte sado-masochistico, e la riduzione dell’altro medesimo (o di sé stessi!) ad oggetto inoffensivo, ecc.
Per fare poi degli esempi di ciò che a mio avviso in terapia, nella pratica, bisognerebbe fare:
1) i pazienti dovrebbero essere aiutati ad accettare l’idea che una certa quota di aggressività, in loro, è sana e vitale e non è da temere, in quanto è in buona parte un’aggressività reattiva a quella altrui (e che comunque, anche l’aggressività “endogena” e non reattiva è un prezioso lascito dello sviluppo della nostra specie, di per sé assolutamente necessario alla nostra sopravvivenza); però contemporaneamente debbono essere aiutati a sperimentare canali diversi, più socialmente accettati e meno distruttivi (o auto-distruttivi!) di quelli loro abituali, al fine di esprimere una tale sacrosanta esigenza d’auto-difesa;
2) debbono venire indotti a sapere d’essere in gran parte “invadibili”, quindi vulnerabili, da parte dell’aggressività altrui, e che a ciò non c’è rimedio (dato che l’uomo è un animale sociale, e da solo non può sopravvivere), se non quello di riconoscere precocemente l’aggressività “degli altri” ed allo stesso tempo accettarne la necessità, quindi mettersi in posizione di evitarla, però in modo consapevole e se possibile senza implicazioni di tipo fobico;
3) debbono venire istruiti del fatto che un certo grado di “dipendenza”, e quindi di sofferenza per le perdite ed i “lutti” di tutti i tipi, ed in particolare nei confronti di coloro sui quali si è investito di affettività e parti delle nostre stesse strutture, è inevitabile e fa parte anche della vita da adulti: quindi tutto ciò non equivale né ad una “malattia”, né ad un “essere rimasti in uno stato infantile”, né ad una totale mancanza di autonomia, ma semplicemente all’essere, il dolore, la sofferenza e la perdita (un dolore, una sofferenza ed una perdita, peraltro, assolutamente “normali”), delle realtà necessarie e connaturate all’uomo;
4) debbono venire a sapere, dal terapeuta, che l’altro lato di quella “dipendenza dagli altri” che è in parte universalmente necessaria, è l’accettare la prospettiva di dover subire da questi “altri” una qualche quota di predazione (quindi di attentato alla nostra autonomia), e che ciò fa parte di quella vera e propria “lotta per la vita e per la morte” nella quale si svolge, a tutti i livelli, l’esistenza associata, ivi inclusa quella familiare; ecc. ecc.
I pazienti, in definitiva, possono essere solo aiutati a “ripulirsi” dalle invasioni predatorie che hanno subito, reali o fantasmatiche che siano, ed a riattivare funzioni di autodifesa che già posseggono (se le posseggono!), non già a “crearne di nuove”. E tale “aiuto”, assai più che dalle “parole”, proviene dalla sensibilità e dal comportamento concreto (e “non verbale”) in terapia, da parte del terapeuta, oltre che, naturalmente, dalle caratteristiche del paziente.
Come si vede, l’indagine sulla singolare dissociazione, presente nell’uomo, fra aspetti “verbali” e “coscienti” della propria comunicazione ed aspetti “non verbali” ed “inconsci”, porta ad affrontare, seppure in via ipotetica, problematiche che scendono assai in profondità nella natura umana.
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il Prof. Massimo Cotroneo, docente del corso di Ipnosi Ericksoniana si racconta agli studenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche, – al Prof. Massimo Cotroneo, Psicologo, Psicoterapeuta, Docente di Ipnosi Ericksoniana
Roma, 3 aprile 2015
Il 15 ed il 16 Maggio 2015, la Scuola Di Psicoterapia Erich Fromm, ospiterà il corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana. L’approccio centrato sulla combinazione della psicoanalisi neofreudiana di Fromm con i più recenti sviluppi della psicoterapia, della clinica, della psicopatologia e della psicologia della salute è da sempre l’obiettivo primario della Scuola Erich Fromm; si tratta di una forma di terapia che vuole indagare, in primis, l’area della relazione paziente-terapeuta che nell’indagine dell’inconscio è collaborante e paritetica (center-to-center come la definiva lo stesso Fromm) per consentire al paziente di prendersi cura del proprio sviluppo favorendo il processo di autorealizzazione del Sé.
Analogo fine e simile approccio è quello dell’Ipnosi Ericksoniana, ma di cosa si tratta e come si distingue da altre forme di ipnosi? L’abbiamo chiesto al docente del corso, il Prof. Massimo Cotroneo che ci spiega come abbia incontrato l’ipnosi clinica la prima volta e perché ha poi deciso di renderla parte integrante della propria pratica professionale.
L’ipnosi è una tecnica che promette di accedere alla dimensione inconscia del paziente. Seppur nota (e controversa) fin dai tempi di Franz Anton Mesmer (1734-1815), è nel 1954 che nella XIV edizione dell’Enciclopedia Britannica, venne pubblicata una delle prime definizioni di ipnosi su base scientifica a cura di Milton H. Erickson. Egli definiva l’ipnosi come un tipo di comportamento complesso ed insolito, ma del tutto normale e che in condizioni opportune può essere sviluppato potenzialmente da chiunque. In tale “stato” o “condizione” psicologica e neuro-fisiologica, le persone funzionerebbero in un modo speciale, pensando, agendo e comportandosi come farebbero in un normale stato di coscienza ma, grazie alla focalizzazione dell’attenzione favorita dalla riduzione delle distrazioni, anche meglio.
Fra i pregiudizi diffusi sull’ipnosi vi è quello secondo cui essa consentirebbe all'”ipnotista” il controllo della mente dell'”ipnotizzato” il quale si troverebbe in un totale stato di perdita di coscienza. Questa idea, che corrisponde all’immagine più romanzesca e mediatica dell’ipnosi è del tutto fuorviante, soprattutto nella formulazione clinica di Erickson, in quanto, già a partire dal rapporto terapeuta-paziente l’ipnosi clinica ridefinisce completamente il rapporto terapeuta-paziente: non più asimmetrico, ma assecondato ad una relazione di reciproco rispetto e collaborazione.
E proprio questo, è uno degli aspetti che agli inizi del 2000 ha affascinato il Prof. Cotroneo, che dice:
“mi colpì profondamente il lavoro clinico di quell’uomo, così come la sua storia e la straordinarie capacità che aveva di aiutare i pazienti. Milton veniva da una storia personale di profonda sofferenza fisica dovuta ad un attacco di poliomielite da adolescente che mise in pericolo la sua vita ma egli seppe volgere e trasformare questa sconvolgente esperienza di malattia in risorse di grande valore per i pazienti attraverso ciò che ne imparò personalmente. Le prime interessanti idee sul rapporto tra mente, corpo e le risorse psichiche utilizzabili vennero da lui maturate proprio in questo difficile frangente.
Prof. Cotroneo, in che modo le teorie di questo autore l’hanno spinta ad approfondire le sue conoscenze?
“Il primo libro che mi avvicinò al modello ericksoniano” risponde “fu ‘La mia voce ti accompagnerà’, testo straordinario che narra di un approccio apparentemente magico alla psicoterapia in quanto ad efficacia. Ciò che mi apparve davvero speciale, in particolare, fu la capacità di Milton di ottenere risultati davvero rilevanti trasformare la vecchia ipnosi in qualcosa di rivoluzionario, al servizio della salute mentale. La tecnica ericksoniana, infatti, ribalta l’antico modello ipnotico asimmetrico restituendo al paziente la sua unicità, adattando la terapia al paziente e non viceversa, ritagliando cioè le tecniche sulle specifiche caratteristiche di questo. L’assunto di base, infatti, è l’osservazione minuziosa di come la persona si muove nel mondo, utilizzare le sue caratteristiche e modalità di interagire come chiavi di accesso al suo mondo interiore e relazionale. Se un paziente entrasse nello studio di psicoterapia iniziando a camminare senza sedersi, dice il padre della nuova ipnosi, piuttosto che suggerirgli il comportamento sociale atteso potremmo camminare nella stanza con lui introducendogli la presenza della poltrona dove più tardi si siederà (caso clinico raccontato dallo stesso Erickson). Le tecniche di utilizzazione, per l’appunto, sono quelle tecniche che riprendono i comportamenti del paziente utilizzandoli sapientemente; tale scambio, tuttavia, avviene attraverso uno speciale stato di attenzione che viene evocata nel paziente per creare i presupposti di un significativo imprinting emotivo. Lo stato della trance indotta, dunque, serve per dissociare e riorientare in nuove catene associative più funzionali e utili ai processi mentali ed emotivi del soggetto.”
Il Prof. Cotroneo, a Maggio sarà docente del corso di tecniche avanzate di Ipnosi Ericksoniana, ma che aspettative aveva da discente, durante gli anni di formazione e come ha integrato queste nuove conoscenze con la propria pratica clinica?
“Come spesso accade”, risponde, “la formazione è una fase avvincente e di grande stimolo per il lavoro che avverrà successivamente, ma, al contempo povera di quell’esperienza clinica che verrà poi creando i presupposti per mettere a frutto e affinare le competenze psicoterapeutiche acquisite. In altri termini, l’esperienza ti aiuta ad esprimere le tue caratteristiche e sviluppare il tuo modo di fare terapia, giacché l’unicità del paziente è complementare all’unicità del terapeuta. Ognuno deve trovare il proprio modo di fare psicoterapia, ossia di esprimere in essa l’apprendimento di modelli e tecniche calati sulla propria personalità.”
E le aspettative maturate durante gli anni di formazione, sono state poi ripagate pienamente?
Massimo Cotroneo replica: “Mi consenta di risponderle con una domanda provocatoria. Lei ritiene che gli allievi in formazione di psicoterapia siano solitamente soddisfatti? Non di rado gli allievi in formazione terminano con un senso di insoddisfazione mentre altri si ritengono maggiormente contenti. Cosa differenzia gli uni dagli altri? Al di là di ragionevoli argomentazioni sul piano sostanziale ed organizzativo, possiamo individuare nelle forti aspettative individuali una delega che mai è pienamente soddisfatta. Le aspettative vanno integrate nell’essere proattivi, nella propria ricerca personale, questo ritengo sia essenziale.”
E allora, certi che “sostanzialmente ed organizzativamente” questo corso in tecniche avanzate di ipnosi ericksoniana sia valido, cosa ha dato a lei l’ipnosi clinica, fin dalle prime applicazioni in ambito clinico da farla ritenere soddisfatto della sua formazione?
“L’ipnosi ericksoniana ha delle enormi potenzialità e applicazioni pratiche.” Incalza il Prof. Cotroneo, “In primo luogo, offre l’opportunità di attivare le risorse mentali, l’immaginazione e differenti prospettive sperimentate come fossero reali. La possibilità di realizzare una ‘realtà inventata’ per così dire, consente di lavorare in modo efficace sulle emozioni, sui correlati fisiologici e mentali. Questa opportunità, naturalmente, può essere sperimentata in modo diretto con procedure di autoipnosi che possono essere di grande aiuto nelle esperienze personali oltre che cliniche. Tali esperienze consentono di lavorare tanto su esperienze pregresse quanto su esperienze future, attraverso la rappresentazione mentale che può anticiparle riducendo l’entità della tensione conseguente alla prestazione sportiva per esempio. Mi è capitato in ambito clinico, ad esempio, di utilizzare tali procedure per ridimensionare l’entità di un distacco affettivo antico, o per interrompere dipendenze come per esempio nel tabagismo.”
Quello che ogni professionista in continua formazione si aspetta non è solo di acquisire nuove tecniche, pratiche o modi di pensare, di inquadrare un problema, una situazione e di intervenirvi, ma soprattutto di integrare ogni nuovo apprendimento con i precedenti. E Massimo Cotroneo? Ha mai cambiato il suo modo di utilizzare l’ipnosi ericksoniana?
“Come si sente spesso dire ‘l’esperienza insegna’ e per me il detto non fa eccezione.” Dice Cotroneo. “La pratica clinica, l’osservazione, la velocità nel riconoscere le informazioni centrali, la sensibilità clinica e così via, possono aumentare nel tempo incrementando le proprie competenze e la personale efficacia terapeutica. Notoriamente la qualità del rapporto terapeutico è un elemento centrale nell’efficacia della psicoterapia e trasversale ai diversi approcci clinici. Nel tempo le mie modalità di approccio sono divenute maggiormente elastiche adattandosi al paziente, spesso direttive e talvolta impattanti. Adattare la terapia al cliente significa utilizzare le sue chiavi di accesso, il suo modo di rapportarsi. Se un paziente arriva nello studio del clinico con atteggiamento sprezzante e di sfida, utilizzeremo queste modalità per avere efficacia terapeutica, viceversa perderemmo la presa sul soggetto. Utilizzare lo stesso modo del paziente gli consente di rispecchiarsi in noi e riconoscersi per poi seguirci come guida autorevole.”
Cosa devono aspettarsi dunque al corso di tecniche avanzate d’ipnosi ericksoniana il 15 e 16 Maggio?
Il Prof. Cotroneo risponde: “L’esperienza clinica pone di fronte ad una grossa eterogeneità di pazienti e ad una necessità di aumentare gli strumenti clinici a propria disposizione. L’integrazione di altre tecniche può consentire di acquisire strumenti efficaci in ambito clinico che possono essere integrati nel proprio approccio psicoterapeutico. Apprendere tecniche di base ed evolute d’ipnosi ericksoniana consente di incrementare ed integrare nel proprio modello utilissimi strumenti pratici d’intervento. Sperimentare personalmente il valore e l’utilità della trance indotta dalle procedure ipnotiche può essere, a mio avviso, un’occasione molto interessante di ampliamento formativo attraverso un corso fortemente esperienziale.”
Per informazioni ed iscrizioni al corso Tecniche Avanzate in Ipnosi Ericksoniana il 15 e 16 Maggio, scrivi a: segreteria@polopsicodinamiche.com oppure TEL. 0574.603222
È alla ideologia, a questa tenebrosa metafisica che ricercando con sottigliezza le cause originarie, vuole su tali basi fondare la legislazione dei popoli in luogo di adattare le leggi alla conoscenza del cuore dell’uomo e alle lezioni della storia, che vanno attribuiti tutti i mali che ha provato la nostra bella Francia. Napoleone Bonaparte2
Il sogno svela la realtà che l’idea si lascia molto addietro. F. Kafka3
Mi dispongo a scrivere intorno al saggio che abbiamo l’onore di presentare alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, Psicoanalisi, Ideologia ed Epistemologia, con l’idea che carta e penna siano gli strumenti principali di un critico, nell’esercizio espressivo del suo compito: raccolti i materiali, annotati gli snodi concettuali, altro non resta che far emergere le parole a definire, intorno ai pensieri, quei confini alfabetici che il logos trasforma in canali di comunicazione. Tuttavia proprio in questo momento sono attratta dalla notizia che il Lander Philae sta “agganciando” la Cometa 67/P Churyumov Gersimenko. “Tanta scienza nostra”, ribadisce la giornalista, con la voce irrimediabilmente rotta da un pianto che le si chiude, contratto, in gola: un pianto che non si sente più, sfumato in coda al servizio, ma che tuttavia continuo ad avvertire, come se un po’ mi appartenesse.
Questa emozione, ho pensato subito, è la ragione ultima di dieci anni di attesa, cui sono preceduti altrettanti anni di investimenti, di speranze, di ricerche e di studi. Una scommessa in cui nessuno più sembrava credere, approdare sulla superficie di un brandello di universo mai raggiunto prima: una incursione nell’inconscio geofisico del mondo. Philae ha avuto soltanto due giorni per la raccolta di elementi dagli archeostrati della cometa, che è vecchia quattro miliardi di anni. Due soli giorni per offrire un senso al viaggio prometeico di Philae. Perché Philae non può essere soltanto quel simpatico robottino che nell’arco di 48 ore morirà di freddo, disintegrandosi sulla superficie di quella creatura titanica e spaventosa che nessuno ha mai davvero visto da vicino, a parte lui? Può essere ridotto a strumentario, laboratorio spaziale, in un contesto che in lunga teoria è replicabile e, dunque, falsificabile. Eppure Philae è “mondo vissuto”, in senso husserliano, è una estensione dell’Io del mondo, una figura eroica in grado di esprimere il desiderio più profondo e atavico dell’Uomo: possedere il mondo, controllarne ogni possibile manifestazione, penetrarne il cuore e contarne i battiti, colonizzarlo, abitarlo, desiderandolo al punto da ucciderlo. Questi ultimi assunti sono evidentemente indimostrabili. Indimostrabili se a misurarli è il parametro del logos. La filosofia, e lo dice Maurizio Zani al capitolo, 12.Antropologia filosofica: scarso affetto per le emozioni, si è occupata quasi esclusivamente della ragione, facendo assurgere a metodo il proprio oggetto di studio, in una sorta di narcisismo metodologico retroattivo. Sostiene Adriana Gloria Marigo a questo proposito:4
Il campo d’indagine è ovviamente l’uomo, meglio l’ESSERE: fin dai più lontani presocratici si diede come assunto per il giusto ragionare la logica, poiché il “logos” era individuato come il più alto e sacro elemento per collocare l’uomo entro ilrapporto con il mondo e con dio. Tutto quanto per essere in dignità di vero e buono doveva rientrare entro i perimetri squisitamente della logica, ma non solo: come ben esprime Zani, alcuni elementi costitutivi l’essere – pur individuati e dichiarati appartenenti all’uomo – non sono ritenuti decisivi d’indagine in quanto non rispondenti al progetto della ragione, e ascrivibili a espressioni ”minori” dell’umano pensare e agire.
Lungo la storia della filosofia non si è usciti da questo percorso, salvo alcuni noti tentativi che restano una eccezione e non cambiano il percorso, non sono riusciti ad affrancare la logica dal suo strapotere, a integrarla con un “discorso funzionale alle Emozioni”, non hanno compensato la “logica” con un metodo proprio e intrinsecamente corrispondente alla tanta materia delle emozioni. Le emozioni restano appannaggio della letteratura – poesia in particolare (e sulla poesia è interessante il dialogo Jone di Platone dal quale discende la concezione negativa che il filosofo ha per l’espressione poetica)- la quale non indaga sulle “ragioni delle emozioni” e solo con l’avvento della psicologia si inizia a considerare il cosmo delle emozioni nella loro nascita e struttura:
Dunque, psicologia e psicoanalisi si appropriano di quell’ambito che filosofia non ha indagato, o solo indagato in modo approssimativo in quanto inficiata da pregiudizio originale: credo, al riguardo (è un pensiero mio, questo), che all’inizio dell’indagine filosofica il pensiero fosse strutturato per giungere su quell’orizzonte grandioso della logica, desse i risultati altrettanto grandiosi che conosciamo e più tardi, per una sorta
di “narcisismo” del metodo, non si sia fatto il salto, non si sia fondato – entro la filosofia stessa – il regno d’indagine sulle emozioni. La Logica è lo studio del retto ragionare, quale nome possiamo coniare per il retto indagare le Emozioni nell’ambito di Filosofia? Voglio citare qui proprio una lettura di ieri e riguarda l’incontro di Martin Heidegger con Paul Celan: il filosofo e il poeta ritenuto da Heidegger eccelso. Alla baita nella
Selva Nera l’incontro fu disastroso: il dialogo tanto atteso tra i due grandissimi non avvenne, fu delusione e disillusione.
Che la struttura stessa della Filosofia sia dunque inadatta, inficiata di una anomalia per la quale le è impossibile scendere nel magma delle emozioni, oppure sia attraversata tutta dalla sua stessa ombra di cui può parlare solo la Psicoanalisi che di
Filosofia sembra la sorella dai caratteri personalissimi, inconfondibili, la testimonianza di una individualità precisissima e non ancillare?
A mio umile parere non è necessario fare appello da una categoria uguale e contraria al logos, per “valutare” le emozioni che ci hanno investito alla vista del Lander Philae. Chiamiamo per questo in causa Pathos, l’Eros e, ho ragione di credere, Thanatos. Il campo semantico di Logos diventa insufficiente, e così la sua metodologia di procedere per antitesi anziché per qualità delle passioni e grandi movimenti del cuore e del pensiero; dei due peccati rimproverati a Freud, la passione e il riduzionismo; la passione come ragionare del cuore, il ragionare col cuore, è sicuramente il più dolce e meno esecrabile; e forse oggi con Damasio e le recenti frontiere dell’Epigenetica, possiamo pensare che quel peccato fu, probabilmente, un peccato di visione: aver visto prima, aver saputo con anticipo, aver intuito e fatto del sentire del cuore, del sogno e dell’idea, un dogma. Con Massimo Recalcati:
In questo senso Lacan ci ricorda che il peccato commesso, da Freud è consistito non soltanto nell’aver razionalizzato quello che fino a quel momento aveva resistito alla razionalizzazione, ma anche nell’aver messo in luce una vera e propria ragione ragionante; che ragionava e funzionava secondo una logica, all’insaputa del soggetto, e ciò nel campo classico dell’irrazionalismo, il campo della passione. È questo che non gli hanno perdonato5.
Perché l’idea è cuore, è prevalentemente pensiero di immagine. Crick, all’indomani della “scoperta” della doppia elica, emette una sorta di editto, che di fatto resta un dogma scolpito nella pietra della scienza per molto tempo: i geni possiedono i codici di inscrizione delle successive sintesi proteiche cui danno luogo. Il tema è scottante e delicato al tempo stesso.
Con Bottaccioli:
Nel 1970, dopo che erano emersi alcuni fatti che mettevano in discussione il “dogma centrale”, Crick torna sulla questione ribadendo la validità del dogma secondo cui ogni gene codifica per una proteina, seguendo una logica programmata e cioè non essendo condizionato da effetti di retroazione degli altri componenti della vita della cellula. Ciò che conta – ribadisce lo scienziato inglese – sono le informazioni contenute nel DNA che verranno trasmesse fedelmente al messaggero RNA che le tradurrà in proteina (Crick, 1970). Inquesto modello, la vita è l’assemblaggio di molecole prodotte punto a punto (un gene-una proteina), senza alcuna possibilità di retroagire sulle condizioni che l’hanno prodotta.
Dogma che negli stessi anni verrà definito, più laicamente, “uno dei principi fondamentali della biologia moderna” da Jacques Monod, altro premio Nobel per la medicina (assieme al collega François Jacob) proprio per le sue ricerche genetiche. Lo scienziato francese è lapidario. Nel suo best seller mondiale del
1970 Il caso e la necessità, tradotto istantaneamente in italiano e in molte altre lingue, scrive:
«L’unico meccanismo possibile attraverso il quale la struttura e le prestazioni di una proteina potrebbero venire modificate e tali modificazioni trasmesse, anche parzialmente, alla discendenza, è quello che deriva da un’alterazione delle istruzioni contenute in un segmento del DNA. Non si può invece
concepire alcun meccanismo in grado di trasmettere al DNA una qualsiasi istruzione o informazione» (p. 103).6
Sono passati soltanto cinquant’anni e l’Epigenetica – trattata da Imbasciati al capitolo 21. Mente–Cervello: epigenetica e transgenerazionalità, può refutare la grande certezza – a tratti ideologica – di Francis Harry Compton Crick, scienziato britannico, premio Nobel per la medicina nel 1962. Una nuova epistemologia mente-corpo rivoluziona gli assunti che volevano ad esempio l’intelligenza sede nelle porzioni della corteccia, o quanto meno nelle
strutture specificamente dedicate nel cervello. Sicuramente sì, vi è dell’assoluto nella specificità organica di certe funzioni. Tuttavia nella vision epigenetica l’intelligenza – intesa come complesso di competenze e conoscenze – non ha sede nel cervello; non ha sede nella mente e neppure nel cuore; non risiede neppure nelle connessioni neurali e nella loro plasticità. È con buona probabilità una espressione del potenziale di tutte queste strutture di organizzarsi in un network multidimensionale (Bottaccioli), in cui trovano posto la citoarchitettonica, la modularità e la biochimica molecolare, tuttavia non senza che eleganti e complessi processi – afferenti all’Epigenetica – in massima parte impliciti, non ancora intercettati, governino l’espressione genica e dunque anche gli aspetti neuropsicologici del comportamento e della percezione del Sé. Naturalmente la potenzialità espressiva dei set genetici non riguarda soltanto la mente o soltanto il corpo; stabilisce e determina il rapporto mente-corpo, o forse è più giusto dire che lo descrive, ce ne offre un taglio, una lettura critica, fortemente influenzata dall’ambiente, dal set di stressor che l’essere umano conosce come la propria famiglia, lo scenario storico ed economico in cui vive, insomma tutte quelle condizioni cosiddette esterne di cui non vorrebbe far parte ma in cui si ritrova, per dirla con Heidegger, gettato obtorto collo. Ed è il ritrovato, futuribile e quasi vergognoso rapporto mente-corpo a rompere il passo sul fronte della nuova epistemologia, per il timore di infrangere gli equilibri del potere all’interno dell’establishment della scienza ideologica. Tuttavia non durerà a lungo, la Rivoluzione auspicata da Bottaccioli7 e preannunciata da Hofer, è appena cominciata. Hofer addirittura parla di trasmissione transgenerazionale del trauma8, raccogliendo sicuramente il consenso di un – forse non ancora ben definito – Lamarckismo di ritorno. Ne parla Marco Bacciagaluppi al capitolo 18. Biologia, evoluzione e psicoanalisi: la funzione ideologica del lamarckismo in Freud.
La psicologia credo debba sempre saper accogliere quelle istanze che a volte il paziente porta con sé non tanto in preda ad un fantasma relazionale, quanto talvolta in risposta ad un richiamo genetico, biologico e atavico che non è sempre ascrivibile ad una posizione analitica. Non si parla di tratti ereditari intesi in senso classico, bensì di meccanismi di retroazione genetica, epigenetici, che influenzano l’organizzazione del network, la risposta organica e l’epifenomenica comportamentale.
A proposito di dogmatismo, Luigi Longhin affronta diffusamente la spinosa questione dell’ideologia, alle parti: 1.Ideologia e utopia: qualità negative della mente, 2.Aspetto sociale della scienza: rapporti tra scienza e società, 8.La psicoanalisi può contenere un’ideologia?, 14. La violenza: patologia della mente emotiva giustificata con l’ideologia, 19. Il potere–dominio: forma patologica individuale e collettiva, 22. Mente emotiva: come proteggerla dall’ideologia.
La problematizzazione non nasce dalla complessità dei rapporti tra potere, politica e ideologia, quanto dalla matrice interpersonale delle strutture del Sé destinate a controllare i centri psicologici del potere. A questo proposito risulta originale l’apporto di Erich Fromm – notoriamente interpersonalista – proposto da Bacciagaluppi in due capitoli, 9. L’ideologia personale di Fromm e 10. Ideologia e psicoanalisi: alcune “scomuniche”.
Su che cosa sia “veramente” il potere, si aprono scenari che pretendono visioni radicalizzanti. La lettura interpersonalista offre un qualche salvacondotto, non senza infilarsi nella trappola dello psicologismo. Fu il filosofo illuminista Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy9 a coniare il termine ideologia con il significato che a questa parola viene attribuito nella concezione moderna. Il significato originario del termine ideologia creato da Destutt de Tracy nel 1796 nell’opera Mémoire sur la faculté de penser con il significato di un metodo del corretto ragionare, discorso razionale sulle idee, assunse con Napoleone – che non aveva più bisogno di atteggiarsi a sostenitore delle idee illuministe di questi ideologi, progressisti atei e razionalisti, delle quali si era servito agli inizi della sua carriera – un significato peggiorativo. Gli ideologués erano intellettuali che perseguivano ideali politici riformistici, laici e anti-autoritari; contrari al fanatismo e al dispotismo. Orientarono con grande anticipo sulla psicologia le loro ricerche sull’analisi dei fenomeni mentali e sensoriali per la fondazione di una gnoseologia sensista. Dal nostro punto di vista De Tracy fonda una teoria dell’ideologia che pone l’Uomo nella condizione di apprendere il ragionamento critico calandosi in un “mondo vissuto”, ed è questo a renderlo, di fatto, un ideologo umanista in grado di sovvertire ante litteram l’assunto epistemologico contestato alla filosofia da Zani al capitolo 12. È agli Elementi che si ascrive la sua definizione di ideologia come «scienza dell’origine e della formazione delle idee», in contrapposizione ai filosofi illuministi precedenti, i philosophes, per Destutt, autori di grandi teorie che apparivano dei romans, romanzi distaccati dalla realtà. Questo distacco segna il passo della visione bilaterale, la cui linea De Tracy tenta di superare. Partendo dalle teorie sensistiche radicali di Condillac per il quale non esistevano idee innate poiché esse avevano tutte origine dalla sensazione e che
sosteneva che tutte le facoltà umane erano riconducibili a forme di sensibilità e quindi alla fisiologia, Destutt de Tracy si sforzava di creare una scienza esatta della morale, della politica e dell’economia. Di fatto batteva la strada della psicologia, di quella che sarebbe stata una grande psicologia al servizio dell’Uomo. Destutt de Tracy si dedicò anche allo studio di problemi logico-linguistici convincendosi che dalle forme particolari dei vari linguaggi si potesse arrivare a degli elementi strutturali semplici che si ripetono costantemente e che possiamo utilizzare per la formazione di quelle idee che sono alla base della composizione dei segni linguistici. L’analisi del linguaggio, inteso non come costruzione artificiale, ma come organizzazione razionalmente ordinata è il fondamento della conoscenza scientifica. Occorre anche riaffermare il primato della questione antropologica, quando si tratta di strutture radicalmente inscritte nei nostri dispositivi psicosociali. Ci domandiamo con Vinicio Serino,10 a proposito di ideologia e utopia:
Ideologia, nel linguaggio della sociologia e della scienza politica, ha multiformi significati. Una delle interpretazioni più convincenti è quella offerta da Norberto Bobbio che ne propone una denominazione ‘debole’: ossia ideologia è il sistema di idee e di valori che guidano i comportamenti politici – ed aggiungerei anche sociali – di una collettività. Si tratta pertanto di una Idea – con la I maiuscola – che si è imposta e, quindi, attualizzata sulla quale, dunque, si fonda un ordine sociale. Bobbio definisce poi ‘forte’ il concetto di ideologia elaborato da Marx, per il quale, appunto, l’ideologia è una falsa credenza, una mistificazione, che “abbellisce”, col ricorso a valori “alti”, la vera essenza di ogni ordine sociale caratterizzato in realtà dal dominio di una classe sull’altra. Il riferimento è ovviamente alle ideologie ‘borghesi’ che propongono modelli di società apparentemente ispirate ai valori più alti quali la libertà, la giustizia sociale, la lotta all’oppressione mentre, nella realtà, mascherano la loro vera essenza : ossia il dominio di una classe, quella della borghesia produttrice, su di un’altra, quella del proletariato lavoratore. Sintetizzando potremmo allora dire che la ideologia ‘debole’ rimanda ad un ordine che guida, effettivamente, una società, reale, attualizzata. Mentre l’ideologia ‘forte’ esprime un giudizio, una valutazione – starei per dire … ideologica – su società esistenti, ossia formate ed operanti. Diversamente l’Utopia, parola inventata del XVI da Thomas More, rientra nella categoria degli ideali – e non , appunto, delle ideologie – designando un assetto sociale che non esiste nella realtà e che viene proposto come modello di cambiamento: proprio per questo More ha coniato la parola Utopia che, come è noto, significa “in nessun luogo”, ma che può trovare spazio nella mente umana … O forse no … Lascio allo psicologo, o alla psicologa, questo dubbio amletico. Il concetto di ideologia va collegato a quello di potere: si tratta infatti di due categorie molto affini, soprattutto se si considera che il potere politico si sostanzia nel dominio esercitato da uomini su altri uomini e consiste essenzialmente nella sua natura di comando. La caratteristica connotante di questo dominio, che implica la possibilità di imporsi attraverso la forza, è data dalla sua esclusività. Il titolare di questa esclusività, e quindi del potere ad essa connessa è, nelle civiltà moderne lo stato. Potere è dunque, come ci ha insegnato M. Weber, “capacità di influenzare l’agire altrui” senza bisogno dell’uso della forza, “in modo tale che il comando” stesso “sia assunto come massima dell’agire” di chi né il destinatario. In buona sostanza quest’ultimo obbedisce spontaneamente perché trova conveniente farlo: ad esempio, paga le tasse perché sa che in cambio otterrà sicurezza, assistenza, previdenza dall’ordinamento, come nel caso di uno stato di tipo welfare che attua politiche di protezione verso i propri cittadini. Oppure obbedisce passivamente ad un ordinamento oppressivo ed illiberale – come una qualunque dittatura – per evitare l’irrogazione di condanne, sanzioni, punizioni. Nel primo caso l’obbedienza scaturisce da una convenienza socio-economica, nel secondo dalla paura. Va comunque detto che il confine non è così netto perché, ad esempio, in ogni regime dittatoriale vi è chi obbedisce al potere anche per convenienza socio-economica, come nel caso della vecchia “nomenclatura” sovietica. E, d’altra parta, negli ordinamenti welfare – così aperti e liberali – l’obbedienza al potere può discendere anche dal timore di sanzioni, come nel caso del pagamento di imposte ritenute ingiuste ed esose eppure egualmente onorate. Infine il consenso, categoria socio-politica che ne richiama un’altra, la legittimità. Un parte rilevante della popolazione – di norma la maggioranza numerica – esprime il proprio consenso al potere, ossia obbedisce spontaneamente ai suoi comandi, perché lo riconosce legittimo, ovvero ragionevole rispetto ai propri interessi, bisogni, valori. Il consenso presenta diverse gradazioni, dalla adesione entusiastica (la più alta) alla passiva obbedienza (la più bassa), passando attraverso una gamma molto variegata di “risposte”. Ovviamente il consenso può essere indirizzato e persino manipolato con tecniche adeguate di cui la moderna comunicazione di massa è una delle più note ed evidenti11.
In questa novella etate12 dal colore strutturale-umanistico, saussuriano, la soggettività richiede di essere, e di essere nel tempo e nello spazio, forte di alcune certezze. La psicoanalisi può essere non tanto portatrice di logos, quanto un topos del rapporto mente-corpo; si può evincere dal ruolo di ossevatore, per partecipare a pieno titolo alla dinamica e alla dialettica non tra mente e corpo, che ontologicamente riconosciamo oggi essere un continuum, quanto tra quelle istanze scissorie che vorrebbero la menteragionamento e il corpo-emozione. Scegliere la parte dello spettatore porterebbe la fondazione analitica, tra le scienze, ad una posizione kafkiana di rinuncia a vivere…
come il Tonio Kröger di Thomas Mann. Kafka stesso avvertiva la «strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere», capiva che «osservare» significa «uscire dalla fila» e raggiungere una visione indipendente, con proprie leggi di sviluppo, «incalcolabile, gioconda, ascendente»; ma non riusciva – e in questo risiede la prova della sua umanità – a sproblematizzare la letteratura da tutti gli assilli e i pungoli che la realtà gli poneva e imponeva.13
Il mio sguardo migliore, mi sia concesso, è quello di studioso di psicologia dell’arte. E la psicologia dell’arte avrebbe chiesto agli autori che ruolo avessero la forma, il conflitto estetico e il rapporto con il mondo del sogno, dell’immagine, del suono, del movimento, in questa eversione epistemologica a favore di una psicoanalisi tutta improntata alle emozioni. In altre parole, per far fronte alla deriva ideologica denunciata da Longhin e Imbasciati, la psicoanalisi può finalmente dar prova, ai livelli epistemologici come nella prassi clinica, di un’etica dell’umanità, affinare gli strumenti di una clinica umanistica, perché non sia luogo di innesco di ideologia, o depotenziamento delle qualità negative della mente in cui questa alberga e si annida in un tema di Ombra.
Citando infine la curatrice Luciana La Stella, un “ritorno al mondo–della–vita come obiettivo obbligato per le scienze, alfine di non perdere il legame con le proprie origini”. Non senza il desiderio di Dio dell’Uomo contemporaneo.
PSICOANALISI, IDEOLOGIA ED EPISTEMOLOGIA LA MENTE EMOTIVA NELLA SCIENZA E NELLE ISTITUZIONI POLITICHE E SOCIALI
Antonio Imbasciati, Luigi Longhin a cura di Luciana La Stella Aracne 2014 pp. 532 eur 19,00
1«Colui che il gran commento feo» è l’appellativo con cui Dante Alighieri chiama Averroè nella Divina Commedia (Inferno, IV, 144).
In età ellenistica e successivamente medioevale, il termine commentario passò a designare anche un lungo ed erudito commento riguardante un’opera di particolare importanza, specialmente dell’antichità: esso consisteva quindi in un’interpretazione o esegesi dell’opera trattata per renderla accessibile ai contemporanei. Ad esempio il filosofo arabo Averroè compose un poderoso Commentario ai libri di Aristotele, che lo rese noto nell’Europa cristiana. Commentari sono anche chiamate le memorie dello scultore fiorentino Lorenzo Ghiberti, una delle fonti primarie più antiche sul Rinascimento. Si chiamano Commentari le memorie di papa Pio II.
*Docente di Psicologia dell’Arte e Coordinatrice della Formazione alla Scuola Quadriennale di Specializzazione Post Laurea in Psicoterapia Erich Fromm di Prato, riconosciuta dal MIUR.
ceo@polopsicodinamiche.com – www.polopsicodinamiche.com – www.scuoladipsicoterapiaerichfromm.it
2 in M. A. Toscano. Introduzione alla sociologia, Franco Angeli ed., 2006, pag.266.
3 Gustav Janouch in Colloqui con Kafka, p. 25.
4 Adriana Gloria Marigo, Luino-Padova. Poeta e critico letterario. Lettere con Irene Battaglini, 2014.
5 Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione. Raffaello Cortina, 2012.
6Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
7 Francesco Bottaccioli, Epigenetica e Psiconeuroimmunoendocrinologia: Una Rivoluzione Che Integra Psicologia e Medicina. Psicoterapia e Scienze Umane, 4/2014.
8 Psicoterapia e Scienze umane n. 3/2014.
9 Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy (Parigi, 20 luglio 1754 – Parigi, 9 marzo 1836) è stato un filosofo francese appartenente alla corrente filosofica di derivazione illuministica detta degli idéologues.
10 Giurista, Filosofo, Antropologo. È docente di Antropologia all’Università degli Studi di Siena, Scienze Matematiche.
11 Vinicio Serino, Lezioni di Criminologia, Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, 2014.
12 “Donna pietosa e di novella etate”, Dante Alighieri, Canzone della Vita Nuova (XXIII 17-28). L’espressione vuole qui sottolineare la rinnovata apertura degli orizzonti epistemici allo strutturalismo, non tanto in contrasto al dominio della soggettività, quanto in relazione alla necessità di favorire la dialettica tra queste polarizzazioni, che hanno in passato dilaniato il dibattito psicoanalitico.
13 Remo Cantoni, Che cosa ha detto veramente Kafka; http://www.rodoni.ch/KAFKA/cantonikafka. htm
A distanza di un anno dalla pubblicazione del libro La psicologia a scuola, esce, sempre nella collana L’immaginale della casa editrice Aracne, il nuovo lavoro del dott. Franco Bruschi. Il Minotauro e il filo di Arianna, questo il titolo dell’opera, è sicuramente un libro più specialistico del precedente, più complesso nell’impostazione generale, ma è legato a questo da una sorta di continuum dovuto al soggetto della trattazione: il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Un mondo che l’autore conosce approfonditamente grazie alla sua trentennale esperienza di lavoro in ambito clinico e scolastico. Se forse non nelle intenzioni dell’autore, dal nostro punto di vista i due libri costituiscono un corpo unico, indispensabile per capire e intervenire nel mondo dell’età dello sviluppo umano.
Franco Bruschi offre, nella sua nuova opera, un quadro completo della pratica psicoanalitica con bambini e ragazzi sia nella terapia individuale sia in quella di gruppo. Egli partendo dalle tecniche di osservazione (madre-bambino) e dalle esperienze terapeutiche arriva gradualmente a descrivere l’articolato lavoro dello psicoterapeuta dell’infanzia e da ciò si pone il problema della necessità di una formazione specifica per coloro che vogliono cimentarsi professionalmente nel difficile lavoro con gli adolescenti soprattutto quando si ha a che fare con le patologie più gravi .
L’autore mette bene in luce che fare lo psicoterapeuta è un mestiere complesso e impegnativo e farlo con un bambino o un adolescente lo è, forse, ancora di più, per tutta una serie di motivi che traspaiono chiaramente tra le righe del libro: innanzitutto perché il piccolo paziente o l’adolescente che si apprestano a lavorare su se stessi non sono sempre facilmente motivati spontaneamente ad affrontare i loro problemi di relazione con l’altro e non sono sempre disponibili a farsi aiutare a uscire dalle difese che impediscono la crescita. E ancora, chi si occupa di questa fascia d’età sa benissimo che, quando si prende in carico un bambino è inevitabile occuparsi anche dei genitori che lo hanno portato e della sua famiglia, con le dinamiche, le difese, le ansie e le preoccupazioni che, anche quando i membri della famiglia non sono presenti nella stanza di terapia, risultano essere una presenza psichica forte nel mondo interno del paziente. Quello che emerge dai casi riportati nell’opera è come questa presenza possa talvolta frenare la terapia, soprattutto se non si sono poste all’inizio delle basi solide (alleanza terapeutica) con i genitori.
Il percorso narrativo che il dott. Bruschi ci propone è, come sempre nei suoi lavori, a tutto tondo e tiene conto di tutti gli attori coinvolti nel processo: il bambino, la famiglia e il terapeuta. Con la consueta chiarezza e ricchezza di riferimenti teorici e pratici, sotto gli occhi del lettore Franco Bruschi, pone l’accento a come questi riferimenti costituiscano una guida per il terapeuta. È un percorso non solo “tecnico-scientifico” (ci sono tra l’altro importanti citazioni alle ultime ricerche delle neuroscienze, che fanno del libro un testo estremamente aggiornato), ma anche “umano” poiché fa emergere la figura del terapeuta, non come una professionista che si nasconde dietro le “teorie e metodologie” per affrontare il proprio lavoro e i rischi che questo comporta, ma che usa se stesso come uno strumento per mettersi in gioco e per affrontare con coraggio assieme al proprio paziente (e alla sua famiglia) un viaggio di cura e di conoscenza che è anche e soprattutto scoperta e crescita: proprio come il filo di Arianna che aiutò Teseo a uscire dal labirinto del Minotauro.