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Ausonio,Claudiano,Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

di Andrea Galgano                                         12 ottobre 2013

Poesia Latina

pdf Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano: La vela obliqua della latinità

Ausonius

Le corti imperiali della seconda metà del IV secolo portano il nido di una interessante produzione poetica. La presenza di un pubblico importante e colto, la possibilità di una intensa carriera poetica dopo un carme ben composto, l’interesse suscitato dall’imperatore e dalla sua famiglia che nella pagina degli autori potevano diffondere la loro ideologia soprattutto ai ceti dominanti, rappresentavano, per i poeti e gli scrittori del tempo, una decisiva visibilità espressiva.

Uomini di ogni estrazione, dall’otium dei ricchi signori, fino a rispettabili maestri di scuola o uomini viandanti, componevano in modo variegato, intrisi di tradizione e vicinanza ai classici e fermi nell’immagine di Augusto, imperatore illuminato e uomo di pace.

Decimo Magno Ausonio (Burdigala, odierna Bordeaux, ca. 310- dopo il 393), insegnante di retorica prima a Tolosa e poi nella città di origine per trent’anni, amico e corrispondente di Simmaco, fu il più celebre tra i grammatici di Gallia, percorse una splendida carriera di onori.

Fu chiamato nel 365 dall’imperatore Valentiniano I alla corte di Treviri come precettore di Graziano che, quando fu imperatore, lo volle questore del palazzo imperiale, prefetto per Gallia, Italia e Africa, e console per l’anno 379. Morto Graziano nel 383, si ritirò nella sua città. L’imperatore Teodosio (379-395) lo considerava al pari dei grandi letterati dell’età augustea, chiamandolo parens (padre).

Scrive Luca Canali: «Intanto il Cristianesimo pervadeva la società, entrava nelle corti, conquistava gli imperatori, ma con ciò stesso si snaturava, diveniva lassista, a volte si corrompeva, perdeva lo slancio evangelico, si faceva opzione opportunistica per la carriera, o peggio, come scrisse impietosamente Salviano, il retore gallico fattosi poi monaco rigorista, si abbrutiva in «ricettacolo di tutti i vizi», «contro i quali ci si scaglia in pubblico per poi praticarli in privato». All’interno del cristianesimo la crisi morale – prima ancora di quella teologica e intellettuale delle eresie – spinge al monachesimo ascetico “grandi intellettuali” come Paolino da Nola, che ripudierà l’intera sua formazione culturale classica, mentre san Girolamo continuerà a coltivare la tradizione letteraria latina ma sentendosi dolorosamente “diviso” fra Cristo e Cicerone»

L’anima cristiana di Ausonio era imbevuta di ispirazione profana. La sua abbondantissima produzione, dai Versus Paschales, chiusa degli Epigrammi, fino all’Ephemeris, ai Parentalia, all’artificio del Technopaegnion, alle sofferenze d’amore del Cupido cruciatus o alla Bissula e alla Mosella, e la tensione poetica verso la tradizione, a lui precedente, rappresentano lo sfondo di una intensa ispirazione, concentrata sul lavorio verbale e sulla polimetria, che danno vita a un accentuato e un virtuosistico sperimentalismo di carte affastellate.

La transizione tra il mondo antico e quello tardo medioevale, già percorso dai barbari, segna in lui un vortice prezioso e debole, il limite del vissuto che, però, ha sempre bisogno di riflettersi in sfoggio retorico, misura, spregiudicatezza.

L’originalità del suo gesto, ricolmo di interessanti forme grafiche, assume su di sé il domino della lingua, l’originalità dell’espediente che scoperchia la tradizione, per assumere freschezza di ombre e ambiguità di apparenze.

Bissula è il nome privato e intimo dell’amore, «forse la prima figura germanica vista da vicino, senza deformazioni prospettiche», come scrive Francesco Arnaldi, che si unisce all’amore «per i suoi e per la sua terra fanno di Ausonio un romantico provinciale, in cui, se è vano cercare una grande arte, il lettore attento può sempre trovare una vena di sentimento poetico. Di fronte a questo, merita appena d’essere rilevato il fatto che dalle svariatissime produzioni poetiche di Ausonio, noi possiamo farci una chiara idea delle opere dei neoterici, poeti latini del sec. II che amavano dire di ogni argomento in versi rari. E se c’è nell’ammirazione per Ausonio dei suoi protettori e nel suo cattedratico orgoglio molta ingenuità da Medioevo, noi oggi possiamo, pur sorridendo, comprendere quell’entusiasmo».

Uno schizzo, un bozzetto e un invito a decretarne la bellezza, l’incarnazione racchiusa di un volto che si apre e si svela: «Né cera né colore possono rappresentare il volto di Bissula / la sua nativa bellezza non si presta agli artifici della pittura. / Vermiglio e bianco possono riprodurre altre fanciulle: / la mano del pittore non conosce la proporzione giusta dei toni per rendere il volto. E dunque, pittore, / mescola alla porpora della rosa una vena di giglio, / e quel chiaro color d’ari che ne verrà, quello sia il colore del suo viso».

Ma è nel poemetto Mosella (satura odeporica, epibaterion, encomio, epillio o idillio, ecfrasis?) che Ausonio offre la sua visione narrativa e descrittiva: «egli sa giocare come pochi con le ombre capovolte, con i riflessi trascoloranti degli alberi nelle acque dei fiumi, con le brevi e rapide composizioni sui sessi incerti o doppi e incompleti nella loro castrante duplicità, gli innamoramenti impossibili e mortali, le disperazioni inconsolabili risolte in autodistruzioni liberatorie». Il grande fiume che nasce sui Vosgi, si getta nel Reno e sulle cui rive si sporgeva la capitale Treviri (Trier) è un transito di freschezza, in cui il paesaggio arioso e libero, dove Satiri e Ninfe abbandonano il loro corpo alla danza tattile nella canicola solitaria.

Pur nella abbondante misura retorica, l’ispirazione è levità che si poggia sulla limpidità, sulla pienezza dei vigneti e dei declivi e sull’ariosità del cielo.

Aveva trascorso molti anni a Treviri, lì aveva svolto la funzione di precettore al figlio dell’imperatore Valentiniano e alla Mosella porge il suo canto mai sfiorito, come passo di danza inattesa e dipinto di suono: «Salve, o fiume elogiato per i campi che ti costeggiano / lodato per i tuoi coloni; / a te i Belgi sono debitori delle mura degne della sede imperiale, / i cui colli sono coltivati a vigneti dal succo fragrante, / o fiume verdissimo che scorri fra le rive erbose! (vv.23-26).

I riflessi sono ombre ricolme e piene: «quando il glauco fiume riflette l’ombra dei colli e sembra / che le sue acque frondeggino e nella corrente siano piantati tralci di vite. / Quale colore nei flutti quando Vespero sospinge le sue tarde / ombre e soffonde la Mosella del verde dei monti! / Gli interi gioghi nuotano negli increspati movimenti dell’acqua / trema l’immagine dei pampini e i grappoli sembrano più turgidi / nelle vitree onde. / l’illuso battelliere conta le verdi viti, / quel battelliere che sulla barca scavata in un tronco d’albero oscilla / sulle acque in mezzo alla corrente là dove il profilo d’un colle / si confonde col fiume, e il fiume intreccia fra lori i confini delle ombre (vv.189-199)».

È una freschezza flessibile ed evocatrice che cadenza il ritmo vitale, come il pescatore che si curva e i cui ami spazzano frotte di pesci impigliati nei nodi delle maglie e sentono la ferita mortale delle esche.

L’angolatura prospettica condensa tutte le possibili intensità visuali, che riuniscono mondo umano e mondo vegetale e animale, come vivente trama e sbocco poetico, come navigazione fanciulla e stuporosa verso i rapimenti dei transiti, l’affetto dei paesaggi, l’incontro.

L’abbandono, che pur ama frequentare la catalogazione erudita, deve abbracciare l’evasione crepuscolare, la metafora maestosa e serena del fischio del tempo, dell’ironia, del battito lieve e non ancora rassegnato. Qui la sua forza e la sua perdita, come il limite di un ristoro momentaneo.

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La poesia di Claudio Claudiano (370-404 d.C.) è erranza itinerante. Nato ad Alessandria d’Egitto, attivo alla corte d’Occidente dopo Ausonio, celebra il suo imperatore, all’interno dell’amministrazione imperiale (fu tribunus et notarius). Egli, giunto dall’Egitto, bilingue scaltrito di cultura greca, come una voce lontana che disegna la romanità, si trova nel quadro della celebrazione di Roma e di Stilicone (De bello Gildonico, De consulatu Stilichonis, De bello Gothico, così come le lodi alla benefattrice Serena, moglie di Stilicone), in uno di quei scrinia, tempio di decisioni segrete e di fedeltà incrollabili. Si trasferì poi a Milano, entrando nelle grazie di Onorio, imperatore di Occidente.

L’esametro dei panegirici, delle invettive, contro Rufino ed Eutropio, dei poemi storici e mitologici, degli epitalami, dei carmi in greco (la Gigantomachia tanto cercata da Poliziano nelle sue missive a Bembo) è la sua coltre prigioniera che inquadra il tempo, tenta di sforarlo, scompaginarlo, viverlo.

«Il genio di Claudiano», scrive Laura Micozzi, «è allusivo, assimilativo e consapevole; la sua poesia non è certo “ingenua”, ma fondata piuttosto sul lucido governo della tradizione precedente. Il suo stile è un raffinato prodotto di riflesso, saturo di esperienze culturali, fedele all’egemonia dei modelli della grande poesia latina. Tutta la cultura pagana del tardo impero tende del resto a coltivare una letteratura colta, nata nel laboratorio di poeti professionisti (che all’occorrenza si guadagnano da vivere, anche come maestri ed insegnanti), e lo studio dei classici dà in quel periodo frutti rilevanti anche nella lettura e nell’interpretazione dei testi».

«Il primo e più inquietante dei poeti moderni» che suona l’ultima fanfara incompiuta all’Impero, come scrisse Coleridge, getta le sue carte sul tavolo e sono i segni virgiliani e ovidiani di un a Christi nomine alienus (Agostino).

Oltre alla Gigantomachia, anche il De raptu Proserpinae, che narra il mito di Prosèrpina, rapita, nel caldo lussureggiante della Sicilia, da Ade, dio degli inferi, che la sposa nell’Erebo e Demetra, la madre della fanciulla, si mette sulle sue tracce.

I dibattiti sulla datazione dell’opera hanno aperto scenari di composizione che prediligono ora la storia a danno del mito o viceversa, ma di sicuro la sua stesura ha aperto una posizione privilegiata di una elisione e di un enigma. Un fatto di letteratura che racchiude l’inclusione di motivi antichi, varia i modelli, colloca suggestioni nuove.

Dall’invocazione solenne della prima scena, ai sogni e presagi premonitori, la fedeltà alla memoria poetica è un tratto saliente e un gradiente di espressività, che riflette la precarietà del presente con le angosce, le riflessioni, gli sguardi opachi: «I destrieri del rapitore, signore dell’abisso, e le stelle, incalzate dall’ansare del occhio tenario, e il talamo cinto di tenebra di Giunone infernale: questo mi spinge a svelare con l’audacia del canto la mente che trabocca. Fatevi indietro profani! Già il furore divino mi ha sgombrato dal petto ogni senso umano e il cuore è colmo dell’ispirazione di Febo» (vv.1-6).

La scomposizione di elementi diversi, la coerenza, la decadenza che scompagina il testo si afferma in Claudiano, come accensione molteplice di figura.

La scena isolata che profuma splendente, che afferma i dettagli e contorsioni verbali, porta dentro il sentore della perdita, dell’ossessione frequente e infine della lacerazione che indugia, come una irruzione di tempo sparpagliato e cialtrone.

La narrazione dilatata del rapimento si appende al mondo e ne esplora le rifrazioni, i segni sparsi e «come l’Achille staziano, il suo Plutone sperimenta infatti l’amore (non la guerra), e l’eros introduce una dinamica nuova nella caratterizzazione del personaggio, che nei modelli aveva una fisionomia piuttosto stereotipata» (Laura Micozzi).

L’etica mitologica rimane incompiuta, pur cercando di colmare i vuoti del distacco e del tempo lontano della tradizione, per finire nell’ultimo scrigno di una civiltà in declino.

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Nella stessa atmosfera culturale è immerso il poeta gallico Claudio Rutilio Namaziano, altissimo dignitario dell’Impero d’Occidente e praefectus urbi nel 414, di famiglia illustre e pagano convinto.

Quando nel 410, c’era stato il sacco di Roma, compiuto per tre dai Goti di Alarico, queste popolazioni erano risalite in Provenza e in Aquitania, saccheggiando e devastando, il poeta si vide costretto a ritornare in Gallia per sovrintendere alle necessarie riparazioni delle sue terre.

Lo storico Camille Jullian scrive: «[…] Che cos’erano diventati quei templi, quelle terme, quei teatri rurali, dove nei luoghi di fiera o di pellegrinaggio della Gallia romana, da tre secoli si erano distribuiti tanti piaceri e accumulate tante ricchezze? Senza dubbio non erano più che resti di muri a metà calcinati, e non serviranno più che a rifornire di pietre o di marmi i villaggi vicini, il giorno in cui questi si potranno ricostruire. […] Sui colli vicini alle sorgenti, al riparo di boschi profondi, molte ricche villae erano crollate, e nessuno pensava di utilizzarne i resti. A poco a poco la foresta si avvicinava ad essi: essa finirà, poiché nessuno le oppone resistenza, con il ricoprire queste vestigia miserevoli e far sparire e dimenticare sotto le sue fronde rinnovate i ricordi della ricchezza e delle calamità romane».

Il viaggio autunnale di Rutilio Namaziano per mare verso la Gallia, dal porto di Augusto ad Ostia, costeggiando le rive del Tirreno fino a Luni, alla foce del Magra, si avvale di brevi tappe e brevi scali in località in cui egli ne approfitta per descrivere luoghi e ricordare amici celebrandoli, lanciare invettive contro gli avversari e i nemici.

Le sfiorenti rovine occupano gli occhi, come commenta Alessandro Fo: «Il mondo che Rutilio ritrae è quello di un’Italia ferita dalle scorribande barbariche, in cui singole località destano memorie storiche o mitologiche, e più spesso offrono l’occasione di segnalare il passaggio o la presenza di amici e nemici. Gli amici sono nobili esponenti di quella aristocrazia senatoria in cui Rutilio ravvisa ancora il baluardo dell’antico valore romano. I nemici sono avversari politici o ideologici: famoso è il suo attacco allo stile di vita monastico, praticato nelle isole di Capraia e Gorgona, davanti alle quali si trova a passare. Rutilio appare fermamente arroccato nel paganesimo della tradizione: vede in Roma personificata una dea, accenna con sguardo partecipe ai culti di Osiride, mentre per il suo poemetto, se si esclude l’aggressione ai monaci, il cristianesimo – di recente assurto a religione ufficiale dell’impero – non sembra neppure figurare nei registri dell’esistenza».

Lo spopolamento, la rovina morale e la distruzione (Ambrogio dirà che gli edifici in rovina «semirutarum urbium cadavera», sono cadaveri di città semidistrutte) di luoghi come Castro Nuovo o Alsio e Pirgi, in passato fiorite d’oro, o Populonia distrutta dal tempo, non portano la resa di un’affezione a Roma, alla quale innalza il fervore di un inno di fede e resurrezione assorta, come proclamazione di un’antica gloria che vale anche per il presente: «fecisti patriam diversis genti bus unam» o ancora «Urbem fecisti quod prius orbis erat».

I monaci che fuggono la luce, rintanati nell’angustia degli occhi e degli spazi, rappresentano, per lui, la coltre di una umanità rinnegata, responsabili del declino dell’Impero.

Un mondo chiuso sottratto al presente rattrappito in una nostalgia che frequenta le ferite e le devastazioni e persino sulla fuga in una illusione antica prigioniera di una sottrazione civile evidente, aleggia l’ombra del multiforme Stilicone, colui che ha aperto le porte dell’Italia ad Alarico e Ataulfo.

il viaggio di un viaggio, condensato nelle divagazioni, nelle chiose, nella trama non sempre fertile dei giorni, apre il suo exitus finale a un tempo che si appropria di esistente e inesistente, come fragile membrana di una promessa irrisolta.

Alessandro Fo, analizzando la complessità dello sguardo rutiliano, commenta ancora: «Oscilla fra dolente constatazione degli insulti del tempo e un ottimismo propositivo fondato sulla fiducia nell’eternità di Roma e nella capacità ricostruttiva dei Romani – da quella dei cittadini che, sotto gli auspici di Costanzo hanno ricostruito Albingaunum a quella di chi, come lui stesso, si accinge a provvedere di persona al restauro dei propri beni.»

La necessità di ritornare alle proprie terre, distrutte dai barbari, rapporta il testo al gemito di una franta umanità, che nel diletto, strappa il mantello della Fortuna e si attesta al tradizionalismo celebrativo: «è tempo di costruire, dopo feroci incendi, su fondi laceri / anche soltanto casette di pastori. / Che se le stesse fonti, anzi, dare voce, / se i nostri arbusti potessero parlare, / con giusti pianti mi stringerebbero mentre tardo / mettendo al mio desiderio le vele».

Il desiderio di vele ama sostare sulla morbida delicatezza del ritratto velato e viandante, come il porto di Centocelle, la rugiada dell’alba sulla porpora, il riflesso della costa sull’orlo dei flutti, l’aurora secca di saline, il nembo tagliato: «La prima luce brillò rugiadosa nel cielo purpureo: / tendiamo le vele inclinate in una piega obliqua. / Per un tratto evitiamo il fondale basso lungo le foci del Mignone: / anguste imboccature vi agitano onde infide. / quindi avvistiamo i tetti sparpagliati di Gravisca, / oppressa spesso in estate, da odore di palude, / ma i dintorni boscosi verdeggiano di fitte foreste / e sull’orlo del mare tremola l’ombra dei pini. / Scorgiamo le antiche rovine, senza alcuna custodia, / e le squallide mura di Cosa abbandonata. / Quasi ci si vergogna a rivelare, in mezzo a cose serie, la ragione / ridicola della disfatta, però mi spiace mascherare il riso (vv.277-288)».

ausonio, La Mosella e altre poesie, Mondadori, Milano 2011.

arnaldi f., Dopo Costantino, Mariotti Pacini, Pisa 1927.

claudiano, Il rapimento di Proserpina, Mondadori, Milano 2013.

id., De bello Gothico, Pàtron, Bologna 1979.

conte g.b.- pianezzola e., Il libro della letteratura latina. La storia e i testi, Milano, Le Monnier 2000.

jullian c., Histoire de la Gaulle, vol. VII, Hachette, Bruxelles 1964.

lana i., Letteratura latina. Disegno storico della civiltà letteraria di Roma e del mondo romano, D’Anna, Messina-Firenze 1983.

paratore e., La letteratura latina dell’età imperiale, Firenze, Sansoni 1959.

prenner a., Quattro studi su Claudiano, Loffredo, Napoli 2003.

rutilio namaziano, Il ritorno, Aragno, Roma 2011.

scafoglio g., Intertestualità e contaminazione dei generi letterari nella Mosella di Ausonio, in «L’Antiquité Classique», 68, 1999.  

 

Rafael Alberti e l’immagine che freme

di Andrea Galgano                                         10 luglio 2013

Poesia Contemporanea

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Rafael Alberti

La poesia di Rafael Alberti (1902-1999) è una grazia colorata. Come l’Andalusia che ha dato origine al denso filtro onirico del suo spasmo, in linea con la tragica contadinità di Lorca, ma che ha sviluppato i prodromi di una allegria briosa, dinamica, in un clima che è «un disegno che iscrive le cose in una luce mattutina, una luce senza ombre né tramonti» (Vittorio Bodini).

Nel sacro fuoco della pittura Rafael Alberti ha albergato, ne ha penetrato l’essenziale e l’indefinibile, con la luce, ricolma di ardore, di quadro fervido, di nostalgia per la sua baia di Cadice, che nei suoi spostamenti, come accadde nel 1917 a Madrid, rimane fremente spazialità di infanzia originaria, e che si assesta in un decoroso spazio visivo, «per dipingere la poesia col pennello della pittura» (Alla pittura, 1945-1952).

In una intervista Marìa Asunciòn Mateo ricorderà che «a Rafael bastavano un pennarello, un quaderno e una camicia sgargiante per essere felice, seduto nel giardino a disegnare e scrivere poesie. Non chiedeva niente di più. Era questa la sua grandezza».

È nella traccia visiva, esiliata e primigenia, che riemerge il suo approdo, essenziale e parco di colori. Il suo cromatismo conosce il tempio della fedeltà, mai recisa, con l’assetto antico e acceso del mare meridionale, grembo di azzurri e bianchi, come le spume, le vele, le saline.

È il suo luogo che diventa sostanza di osservazione e abbandono, dalle «dune di sabbia calda», al «rubino che arde tra le mani» «nell’abbandono di un sogno».

È il volto di Alberti che rappresenta la sosta e i passaggi di stazioni invisibili. È l’invisibile, stregato nelle visioni, come scrive ancora Vittorio Bodini:

«Vi è fra il mondo interno e il mondo esterno di Alberti, fra la sua emozione soggettiva e la porzione di realtà oggettiva che investe, un grandissimo equilibrio affatto insolito nella poesia spagnola, che approda non al realismo ma a una realtà artistica, o a una immaginazione formale (come dice L.F. Vivanco) lievemente idealizzante, quanto basta per far parlare la critica di un Alberti italianizzante, di un italianismo che ha profonde radici in due avi, il nonno materno e il nonno paterno, entrambi toscani. Questo italianismo di Alberti è un filone non trascurabile, concordemente ammesso dalla sua critica, ma contrastato e sopraffatto da altri caratteri, come l’indole andalusa – allegria di vivere, scherzosità, grazia – e un’educazione letteraria esclusivamente ispanica».

Se il suo “ulissismo” da marinaio dell’Atlantico, fornisce il segno di una ricerca di spasmo, il forte miracolo della sua architettura visiva, fornisce l’impronta di una rara freschezza invasiva.

Marinaio a terra (Marinero en tierra 1924), che ottiene il Premio nazionale di letteratura, scolpisce il suo giovane autoritratto, impregnato della nostalgia del simbolo.

La realtà è simbolica perché unisce i vessilli e i rimpianti marini alla sua condizione di abitante della Sierra di Guadarrama, in un concerto di presenza-assenza che finisce per inventare le linee intermedie di sogno o di scalmana, per gridare il cielo della stanza della sua geografia ansiosa e rigogliosa, come la neve che pattina sulla luna: «è caduta la neve sulla luna. / Pattinano gli abeti sopra il gelo; / la tua sciarpa arricciata ascende il cielo / come un addio che il chiaro cielo stria. […] Un brinato silenzio ti corteggia, / si stesse nella luce dei fanali, / mentre tu incrini il candido cristallo. / Addio, pattinatrice! / Il sole albeggia / le gelate terrazze siderali, / dietro a te, Malva-luna, pattinando».

La danza astrale della donna «ardente-e fredda» che conduce nell’universo o l’inconducibile isola, segnano il cammino del mare, con «l’onda sempre si spegne sulla spiaggia», come lotta della vita nell’arena del tempo, come l’appartenenza alla sua origine marina o sottomarina, o l’immagine di un immaginario venditore subacqueo che grida e offre la sua mercanzia: «ah, come starei bene / in un orto del mare, / con te, ortolana mia! Su un carretto, tirato / da un salmone, che allegria / vendere sotto il mare salato, / amore, la tua mercanzia! / – Alghe, fresche di mare, / alghe, alghe».

Scrive Josè Bergamín su Marinero en tierra: «Quando diceva le sue canzonette, mettendosi la mano a bucina davanti alla bocca, come per bandirle, tutto s’empiva di allegria, dell’allegria del banditore mattutino: un’allegria fruttale, verde e fresca; allegria di mercati, di fiere, di vessilli; l’allegria di un cielo radioso in cui esplode un clarinetto stonato; l’allegria del suo volto giovanile e umano, che traboccava da tutto e tutto colmava nella sua follia…».

Ernesto Gimenez Caballero ha insistito sulla natura giullaresca di Alberti, in una prospettiva vigorosa e surreale che spodesta il vuoto, per insediarsi in un mare alto e naufrago, flessibile ed elegante:

«Il futurismo ti ha rifornito. Alberti, maglione bianco, pantaloni larghi, macchina da scrivere per i suoi versi, innamorato di Charlot; poesie assonanti e poliritmiche, entusiasmo per il non convenzionale: vagabondi, mascalzoni, toreri, sportivi, ricchi tenutari che ti portano in giro in macchina di tanto in tanto come facevano i cavalli dei magnati medievali con i giullari e i divi eletti. Di corte in corte, di dama in dama Alberti, sei un poeta cortese, cortigiano. Picaro. Dall’Andalusia hai tirato fuori lo scandinavismo, quello romantico di Bécquer e il lunatismo di Juan Ramón (non dimenticare che ti doleva il petto e che sul cuore ti sono cresciute violette). Ma hai anche ereditato uno splendido suddismo, non sempre valutato come merita. E la sensibilità per la norma, per la disciplina, per la raffinatezza dell’essenza poetica, sensibilità della migliore Andalusia» (p. 170).

In un articolo su «Vuelta», Octavio Paz evidenzia la potenza seduttiva e fascinosa del repertorio poetico di Rafael:

«Una delle mie prime letture è stato Alberti. Leggendo le sue poesie sono penetrato in un mondo in cui le cose vecchie e le realtà consumate, pur essendo le stesse, erano diverse. Avevano cambiato pelle e sembrava che fossero appena nate, animate da un entusiasmo contagioso. Lessi quelle poesie – anche le più tristi e misteriose – con gioia, come se stessi cavalcando un’onda verde e rosa sulla pianura del mare, popolata di tori, delfini, sirenette, tritoni e ragazze cadute dal cielo, intrepide nuotatrici di tutti i maridell’amore- per non parlare delle naiadi delle stratosfera, come Miss X, sotterrata dal vento dell’est. È stato un esercizio vitale: imparare a bere la luce di ogni giorno, pensare con la pelle, vedere con la punta delle dita».

L’inquadratura poetica e visiva di Alberti si insedia nell’eclettismo fecondo che lucida la tensione creativa in un tracciato di radice e verità che si fa inquieta quando ricorda e rammenda le linee del suo vertice emotivo. Il passato acquista la dinamica del recupero della materia vivente, in cui la luna, le pianure, le donne amate, i viaggi magici e i paesi di sabbia e deserto, sollecitano il remoto anelito di un infinito presente, come ricorda Ernesto Sábado:

«quante volte hai decantato la bellezza della tua terra gaditana, il tuo mare, il tuo cielo, i tuoi imponenti tori destinati a quel sacro sacrificio che viene dal profondo della storia mediterranea. E quanto abbiamo apprezzato quelle tue visioni, perché l’arte è a volte, la cosa più individuale e più universale che esista, perché il cuore dell’uomo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, è fatto delle stesse cose. E tu, così profondamente andaluso, hai destato ammirazione nei luoghi più remoti della terra ed hai incitato i popoli alla fratellanza così come solo l’arte può fare».

La ricerca della patria paradisiaca e infantile si accompagna, sin dall’inizio, alla discreta e fremente presenza femminile (La amante, 1956) che conferisce freschezza profonda alla minuta e umanissima realtà albertiana, popolare e dotta, come afferma José Hierro:

«quello che fa Alberti non è, alla maniera di Manuel Machado, imitare una voce popolare viva ma, interpretare una voce popolare che è stata e che non è più; condivide, probabilmente, il punto di vista di Juan Ramón Jiménez e viaggia verso il passato per impregnarsi dell’incanto della raffinatezza perdute. Le brevi poesie dei primi libri, Marinero en tierra e El alba del alhelí, sono strettamente collegate con le raccolte rinascimentali: espressioni, accenti, libertà metrica e a volte quella rottura finale che si fa beffa della rima perché riappare un verso quando non ce lo aspettavamo, un verso di cui avevamo dimenticato il suono finale che chiude la canzone a mo’ di ritornello. Come in questo passo del Cancionero de Barbieri che potrebbe benissimo appartenere a La amante del nostro Rafael Alberti: “No pueden dormir mis ojos, / no pueden dormir. / Y soñaba yo, mi madre, / dos horas antes del día / que me florecía la rosa: / el vino so el agua fría: / no pueden dormir”».

In L’alba della violacciocca (Alba del Alhelí, 1925-1926) e in Cal y canto (1926-1927), il romance fornisce ampiezza alla descrizione di una società rurale che è come se fratturasse la festosa ricchezza marina, per assegnare alla pagina il dramma e il mistero.

L’esperimento del futurismo, dell’ultraismo e del creazionismo, si impasta del recupero di Gòngora, per celebrare l’ambizione di un linguaggio ironico e complesso, che celebra, irrora, solleva il mondo a nuovi cieli e gioca con le penombre rapide:

«Biondi, lucidi seni di amaranta, / limati dalla lingua d’un levriero. / Portici di limoni, fuorviati / dal canale che monta alla tua gola. / Rosso un ponte di riccioli che avanza / fa ardere gli avorii tuoi ondulati. / curvo, morde e ferisce i denti esangui, / librandoti nel vento che ti innalza. / dorme la solitudine nel folto, / calza il piede di zeffiro e poi scende / dall’alto olmo al mar della pianura. / Ecco il suo buio corpo che s’accende / e, gladiatrice, come brace impura, 7 fra Amaranta e il suo amante si distende».

Annota José Bergamín:

«C’è castità nella poesia di Rafael Alberti – limpidezza, purezza – sicura, decisa, dura, duratura, severa: di calce e canto. I suoi angeli – o il suo angelo Andaluso (arcangelo tutelare) – gli costruirono quel muro così profondamente andaluso. Di Cal y canto, la poesia di Alberti si innalza e si afferma, verticale, tocca terra, guarda il mare tra due cieli. Rompe e definisce la luce stessa come il muro imbiancato di un compasso o di un cortile di una casa andalusa di tradizione romana. La Siviglia del Rinascimento, Santa Clara, San Lorenzo, non del quartiere ebreo o musulmano. Siviglia becqueriana».

Nel 1927 una crisi violentissima, poetica, amorosa, politica ed esistenziale invade i suoi angoli fioriti e luminosi, producendo un cambiamento repentino di tenebra folta, che diventa un crampo febbrile e rivoltato. Da questo sconvolgimento nasce, nel notturno delle stesure, Sobre los ángeles.

Commenta Vittorio Bodini:

«Gli angeli di Alberti non hanno nulla a che vedere coi begli angeli cristiani, corporei e decorativi: sono enigmatiche sostanze, per lo più periferiche, dell’anima, che trovano nel poeta una perfetta oggettivazione: staccate dalla matrice, esse vivono la loro sintetica esistenza nel modo più autonomo e indipendente. I gesti che compiono sono di una straordinaria nitidezza, senza una sbavatura, sicchè non ultimo fra i pregi di questo libro è il contrasto fra la natura larvale dei suoi soggetti e la pulitissima precisione delle azioni che compiono, e in cui danno a conoscere la loro acuta diversità».

L’allegoria delle figure sintetizza lo strato più oscuro della coscienza che si impone nella fantasmatica crisi interiore. Angeli sconosciuti, angeli dei numeri e senza fortuna, angeli dei colori muti e disillusi, del dolore rappreso e della rabbia, «stelle erranti come bambini che ignorano la matematica», accompagnano i segreti e i sogni più umani e affondano nel loro prato incollocabile ed acre: «Tu non sei sola, dice l’angelo d’amore e morte a Maddalena nell’Andrea Chenier, io raccolgo le tue lacrime, sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Che importa se tutto intorno è fango e sangue? Io sono la vita, sono quello che fa della terra un cielo. Sono l’amore…».

Il successivo Sermones y moradas (1929-1930) si appropria dello strepito delle ombre esangui, per confluire nell’umanità in lotta contro il fascismo franchista, in una poesia rivoluzionaria e marxista (Con los zapatos puestos tengo que morir).

L’appartenenza politica e il matrimonio con María Teresa León (con i viaggi successivi, dopo aver ricevuto dalla Junta para la Ampliación de Estudios, una borsa di studio per l’analisi del movimento teatrale europeo) segnano un’ansia di cambiamento che dirompe sulla scena.

La sua poesia si pone al servizio della rivoluzione sociale, della resistenza e dell’esilio, lanciando la sfida non solo da un verso civile, ma dalla grande aspirazione umana che invoca la strada (El poeta en la calle 1931-1935), in una precisione esatta e lucente: «Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo. Il suo canto raggiunge il profondo allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini».

La semplicità della voce popolare ed eroica scopre la dignità davanti al mistero della morte, alla dignità lucente che cavalca l’aria, all’irrompere dell’avvenimento umano come soglia e legame.

Durante la guerra civile, Rafael Alberti milita nelle file repubblicane e poi fugge in esilio, prima a Parigi, poi in Argentina e infine a Roma. Al dolore per i morti della guerra civile si unisce la lontananza dalla Spagna, dai luoghi della sua anima che «nessuno può risarcire»:

«Fra realtà e fantasia, fra realtà e sogno, fra verità storica e una poesia che chiamano impegnata o non impegnata, io ho cercato di spiegarlo in un libro che si intitola Fra il garofano e la spada. Io credo che un poeta non nasca per parlare della guerra o di politica o di tanti fatti orribili che ci circondano quando apriamo gli occhi al mattino. Allora il dramma è questo, mio e di tanti altri, noi viviamo fra il garofano e la spada, fra la spada e il muro… Viviamo incalzati da una orrida realtà che ogni mattino distrugge i pensieri belli e giocosi, ci spazza via dagli occhi le cose grandi che possiamo vedere, facendo di tutti noi tanti schiavi di situazioni così drammatiche e spaventose che bisogna essere fatti davvero di pietra per non parlarne, perché non si riflettano in quello che si fa… Perché a me piacerebbe parlare del mare che mi ha sempre dato tanta gioia, del mare limpido e puro, incontaminato, libero da navi da guerra, del cielo terso, con le stelle, senza voler sapere che viene attraversato da aerei che lanciano bombe e riempiono la terra di morti, l’aria di grida strazianti… Ci si sveglia al mattino pensando che il mondo è bello, un mondo in cui la gente è buona, i rapporti umani perfetti, e subito ti accorgi che tutto è diverso. Ma davanti alla guerra, un essere umano con un minimo di sensibilità, quale poeta soprattutto, può avere lo spirito, la coscienza di mettersi a parlare d’un uccellino che sta cantando su una rosa. Ecco l’origine di questa durezza che di quando in quando si fa sentire, di questa amarezza, di questi accenti talvolta pieni di coltelli. Sono un poeta che al mattino vorrebbe guardare il vecchio mare di Cadice, dipingere le barche che dipingevo quando ero bambino, i gabbiani, seppellire nella sabbia i testi di geometria, di storia, di latino e pescare: invece… non posso farlo… devo scrivere una poesia tremenda».

L’albero divelto, le cui foglie scoperte e nude gli impediscono di ricevere dalla terra il nutrimento vitale, dal suo golfo di ombre («Cerco di non trovare l’uscita, / di restare sprofondato / nel tuo definitivo, arenato, naufragato/ per sempre,/ Golfo d’ombre») promana il suo grido spezzato: «Certo il mio canto / può essere di qualsiasi luogo. / Ma queste radici spezzate, / ahimè, queste radici spezzate / a volte non me lo lasciano / esser del mondo, e neanche / di quella terra, soltanto di quella / piccolissima parte della Terra». Che è il suo tempio strenuo e felice che affluisce alla luce delle immagini e dei miti perduti, nell’approdo esiliato di una lontananza energica e dura, ma sfrondato di gracile grazia, come le sponde del Paranà (Ballate e canzoni del Paranà, 1953-1954), fresche e allegre nella loro dimensione fruttale, che riportano il baluginio delle terre agli occhi, in una luce irreale che sfronda l’infanzia: «Resta pur sempre la fortuna, il dono / infinito di poter tornare sui remoti / passi che demmo un dì in quei luoghi / che il nostro amore andò creando / come in un sogno» o ancora: «Il fiume appende alla cintura / una scimitarra blu di navi / E sopra, il cielo: un turbante / azzurro con uccelli bianchi».

I luoghi di esilio e esilianti, come Roma, ad esempio, (tornerà in patria solo nel 1977 e sarà anche eletto deputato), in cui diventerà parte del quartiere trasteverino, lamentandosi dei pericoli del traffico in Roma, pericolo per i viandanti (1968) («Lo si chieda al gatto / lo si chieda al cane / e alla scarpa rotta. / Al fanale perduto […]. / E all’ acqua corrente / che scrive il mio nome / sotto il ponte») e sperimenterà l’espressione “lirico grafica”, divengono tappe di un incendio esistenziale e vocalico che tenta di catturare la spazialità dell’essere, per divenire respiro, comporsi di respiro, farsi elegia di atlante perduto (come era già accaduto in Fra spada e garofano (1939-1940), Alta marea 1942-1944, Poesie da punta dell’Est (1945-1946), Ritorni della vita lontana (1948-1956)) e attesa consunta: «Non aveva la rosa compleanni o l’arcangelo. / Tutto, anteriormente al pianto e al belato. / Quando ancora la luce non sapeva/ se il mare nascerebbe maschio o femmina. / Quando il vento sognava chiome da pettinare / e garofani il fuoco e gote da infiammare / e l’acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. / tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo, / Allora, io ricordo che una volta nel cielo…».

Dopo ave ricevuto nel 1983 il premio Cervantes, e successivamente esser entrato nella Real Academia de Bellas Artes di San Fernando e in quella di Bellas Artes di Santa Cecilia perde la sua María Teresa León, nel 1988, vittima di una grave malattia.

Nelle liriche amorose Canzoni per Altair, la donna-stella illumina la vita e la via dell’uomo-poeta, «sei scesa, / stella rivelata dei miei occhi perduti, / e sei caduta su di me, fuoco d’amore / e nel mio sangue hai preso dimora fin da allora», come il confine e la visione che superano il tempo, coltre incantata e «energia astrale».

È interessante notare, come questa ultima finale produzione albertiana, si imponga in modo epifanico e frenetico, nell’attesa del giorno improvviso e nuovo e nel raggio sulla vita nuova poiché «sai bene che in me non muore la speranza, / che gli anni in me non sono foglie ma fiori, / che non sono mai passato, ma sempre futuro». Fino all’abbandono ultimo: «Entra tutta nel mio respiro e portami in volo nei tuoi cieli. Per sempre».

 

 

alberti r., Poesie, a cura di Vittorio Bodini, Mondadori, Milano 1997.

id., Roma, pericolo per i viandanti, Passigli, Firenze 2000.

id., L’albereto perduto, 4 voll., Editori Riuniti University Press, Roma 2010-2012.

id., Canzoni per Altair, ES, Milano 2003.

bo c., Carte spagnole, Marzocco, firenze 1948.

caballero gimenez e., Retratos españoles (Bastante parecidos), prólogo de Pere Gimferrer, Planeta, Barcelona 1985.

hierro j., «Primeros pasos de Alberti», “El Mundo”, 28 ottobre 1999.

paz o., Saludo a Rafael Alberti, in «Vuelta», 166, settembre 1990.

prampolini g., Noi lo chiameremo compagno, in «Il Politecnico», 21 agosto 1947.

tejada j.l., Rafael Alberti, Entre la tradición y la vanguardia, Gredos, madrid 1977.

vivanco l.f., «Rafael Alberti en su palabra acelerada y vestida de luces», in Introducción a la poesía española contemporánea, Guadarrama, Madrid 1961, pp. 600-633.

winkelman a.m., «Pintura Y poesía en Rafael Alberti», Papeles de Son Armadams, 88, 1963.

zardoya c., «El mar en la poesía de Rafael Alberti», in Introducción a la poesía española contemporánea, Guadarrama, Madrid 1961.

 

I destini di Edgar Lee Masters

di Andrea Galgano                                                                                          Prato, 25 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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pdf: 87 25 05 2013 I DESTINI DI EDGAR LEE MASTERS

imastee001p1L’Antologia di Spoon River del poeta statunitense Edgar Lee Masters (1868-1950), con le sue oltre sessanta edizioni in italiano, è il libro che ha avuto più lettori di qualsiasi altro libro della poesia contemporanea. Ne sono stati tratti dischi, come, ad esempio, Non al denaro non all’amore né al cielo (1971) di Fabrizio De Andrè, che ha liberamente tradotto e trasformato nove poesie della raccolta.

Fernanda Pivano, in una serie di articoli del «Corriere d’informazione», ha rievocato la genesi della prima edizione del 9 marzo 1943:

«Ero una ragazzina quando vidi per la prima volta l’Antologia di Spoon River: me l’aveva portata Pavese, una mattina che gli avevo chiesto che differenza c’è tra la letteratura americana e quella inglese. Si era tanto divertito alla mia domanda; si era passato la pipa dall’altra parte della bocca per nascondere un sorriso e non mi aveva risposto. Naturalmente c’ero rimasta malissimo; e quando mi diede i primi libri “americani” li guardai con grande sospetto. Ma l’Antologia di Spoon River la aprii proprio alla metà, e trovai una poesia che finiva così: «mentre la baciavo con l’anima sulle labbra, l’anima d’improvviso mi fuggì». Chissà perché questi versi mi mozzarono il fiato: è così difficile spiegare le reazioni degli adolescenti. Forse mi ricordavano un epigramma di Platone che avevo trovato nell’Antologia Palatina […]; o forse mi piaceva che un poeta ricominciasse a preoccuparsi di quello che succede quando un uomo bacia una ragazza; chi lo sa»

All’uscita della raccolta, Edgar Lee Masters venne paragonato a Dante, Eschilo, Zola o lo stesso Omero, che viene evocato in Blind Jack, ossia Jack il cieco. Oltre agli apprezzamenti per la musica dei versi e la vitalità accesa, arrivarono anche le accuse di realismo sordido e uno strano gusto per la rozzezza e la corruzione.

In Italia, Pavese convinse l’editore Einaudi a pubblicarlo, perché si trattò di «un bellissimo libro che non è poi di liriche, ma di personaggi; un libro che, a detta degli Americani stessi, contiene tutta l’America attuale», avendolo conosciuto grazie ad Antonio Chiuminatto, un amico italo-americano che gli spediva libri introvabili.

Annota Oreste Macrì: «Masters resta un maestro nell’aver scoperto la sorgente poetica del suo popolo, il singolare accento terrestre e familiare dell’essere comune, il piedistallo degli ultimi simboli celati nei duri e allucinati pezzi del reale».

Quando uscì il testo, Masters, pur nascendo con la passione letteraria, era un avvocato di successo che svolgeva il suo lavoro senza entusiasmo. Fu il padre a costringerlo a seguire la sua professione e, durante l’infanzia trascorsa a Petersburg e poi a Lewistown, ricordò di aver provato gli «spasimi per qualcosa che sembrava lontano nella vita, per quando sarei divenuto maturo; ma quel qualcosa era sempre più distante – è distante adesso, e lo sarà sempre».

L’inquietudine febbrile che lo spinse alla lettura di Goethe e a lavorare come strillone, tipografo e portatore di carbone per comprarsi da leggere, più tardi dirà, lo renderà affamato di poesia: «Scrivevo poesie a casa, all’ufficio, dappertutto, sulle liste della trattoria, sulle buste delle lettere».

Jorge Louis Borges, nella sua biografia sintetica di Masters riporta alla luce quel periodo: «trascorse… un’infanzia di acqua e di alberi e di passeggiate a cavallo o in carrozza. E anche di libri, perché nella casa dei Masters vi era uno Shakespeare dolorosamente illustrato, un esemplare delle avventure di Tom Sawyer e uno dei racconti di Grimm».

Dopo aver studiato allo Knox Village, si trasferì a Chicago per ribellione, finendo per lavorare in un ufficio legale.L’idea buona, da tempo coltivata, di scrivere la storia del suo villaggio, gli venne su un suggerimento del direttore di un giornale di St. Louis, il Reedy’s Mirror, che gli consigliò di leggere dei testi dell’Antologia Palatina, una raccolta di epigrammi e epitaffi di più di trecento poeti, a partire dal IV sec. a. C. fino alla tarda età bizantina.

Sotto lo pseudonimo di Webster Ford, iniziò a inviare i primi testi a William M. Reedy che glieli pubblicò, fino a raggiungere i 244, nell’edizione definitiva nel 1916. Nove anni dopo, nel 1924, pubblicò la raccolta The New Spoon River, nel contesto dello sviluppo della vita industriale, ma il successo non fu identico.

Masters visse della rendita dei diritti d’autore, abbandonando l’avvocatura, e continuando, finchè potè, a scrivere numerosi sonetti, lavori teatrali e poemetti storici, ma tutti sfortunati e di scarso successo. Nonostante le interessanti biografie, prime fra tutte quelle di Twain e Whitman e un’autobiografia, morì in disgrazia, per una polmonite, all’età di ottantun anni in Pennsylvania e sepolto a Petersburg.

Il suo epitaffio, To-morrow is My Birthday, tratto da Toward the Gulf, recita: «Buoni amici, andiamo ai campi… / Dopo una piccola passeggiata e vicino al tuo perdono, / Penso dormirò, non c’è cosa più dolce. / Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto, / Camminiamo, e ascoltiamo l’allodola».

L’ «autore di un solo libro», come scrisse Mario Praz, racconta la vita ordinaria degli abitanti di Petersburg, cittadina dell’Illinois, bagnata dal Sangamon, dove fisse fino agli 11 anni e di Lewistown, sempre nell’Illinois, bagnata dal fiume Spoon, dove egli rimase fino all’età di 22 anni.

Le vite degli abitanti del Midwest vengono condensate in pochi versi, come epitaffi sulle loro tombe. Annota Antonio Spadaro:

«Di fronte alla morte non c’è schermo che resista, e così gli epitaffi si rivelano come brucianti confessioni che ora manifestano storie segrete, ora stati di coscienza, ora verità innominabili. Non c’è più velo o barriera: le infedeltà coniugali sono svelate, gli interessi segreti sono dichiarati, le astuzie smontate e le falsità annullate. Ogni esistenza è un microcosmo individuale, che però si innalza a descrivere quel macrocosmo che è la vita umana. Spesso i singoli personaggi ne citano altri, e così è possibile leggere ogni storia da punti di vista differenti: i fili che partono da questi epitaffi si intrecciano tra loro, anche in uno scontro di destini».

La pagina-lapide che inscena dettagli, gesti, frammenti, destina figure nel significato morale delle azioni come exempli, in un linguaggio moderno e quasi monologante, rappresenta l’avvolgimento di una vita immortale.

La poesia unisce le linee misteriose della vita e della morte, identifica, ad esempio, i personaggi nel mestiere che svolgono e nel loro volo di istanti, come accade a Dippold l’ottico: «Che cosa vedete adesso? / Globi di rosso, giallo, porpora. / Un momento! E adesso? / Mio padre e mia madre e le mie sorelle. / Sì! E adesso? / Cavalieri in armi, belle donne, visi gentili. / Provate questa. / Un campo di grano – una città. / Molto bene! E ora? / Una giovane donna e angeli chini su di lei […] Provate questa lente. / abissi d’aria. / magnifico! E ora? Luce, soltanto luce, che fa di ogni cosa sottostante un mondo giocattolo. / Benissimo, faremo gli occhiali così».

Pavese scrive: «[…] vivendo noi tutti nel mondo delle cose dei fatti dei gesti, che è il mondo del tempo, il nostro sforzo inconsapevole e incessante è un tendere, fuori del tempo, all’attimo estatico che ci farà realizzare la nostra libertà. Accade perciò che le cose i fatti i gesti – il passare del tempo – ci promettano di questi attimi, li rivestano, li incarnino, ed essi divengano simboli della nostra liberata coscienza».

Il frammento dell’esistenza diviene il simbolo di un collegamento che la morte ha reso solenne e «inchiodato all’anima». La bruciante confessione, narrata nello stile confacente al personaggio, rende ragione a una commedia umana di tasselli diseguali, che non riescono a nascondere all’infinito il magma del nostro essere, lo specchio impietoso di una emersione personalissima, il gemito di una conoscenza, libera da ogni convenzione, dovere o insano bigottismo, come accade in questo ritratto dell’Editore Whedon:

«Per denaro insabbiare uno scandalo / o divulgarlo ai quattro venti per vendetta, / o per vendere il giornale / distruggendo reputazioni, o vite, se necessario / per vincere a ogni costo, salvo la pelle propria. / gloriarsi in un potere demoniaco, minare la civiltà, / come un ragazzo paranoico butta un tronco sulle rotaie / e l’espresso deraglia. / essere direttore, com’ero io. / poi, giacer mene qui – vicino al fiume / dove sbocca la fogna, / e scatole vuote e immondizie finiscono, / e si nascondono gli aborti».

Considerare la poesia di Spoon River, solo ed esclusivamente per gli aspetti libertari, anti-puritani, per rendere Edgar Lee Masters «un ben misero e trascurabile libellista», è un errore di valutazione in cui si gioca il vigore del testo, che rimane inquadrabile nel «problema del senso dell’esistenza» e «nel problema delle proprie azioni: ardore e problemi essenzialmente morali e di non lontano sapore biblico» (Cesare Pavese).

La domanda d’infinito sull’aldilà è impregnata dal senso del limite e della morte, della fine come premessa autentica di chi ha attraversato, oltrepassandola, la caduta del compimento, in un mondo avviato alla scomparsa, ma non del tutto finito.

Il passaggio di questa persona viva nella fine e anche nella mortificata esistenza quotidiana, tracciata con realismo vivido e con messaggio solenne e universale, rende una perfetta fusione di soggettivismo e oggettività, per «dare una consistenza monumentale a ciò che v’è di più labile e irripetibile nell’animo umano» (Eugenio Montale), in un «verseggiare – conclude Pavese – così sobrio e pacato, che ha semplicemente l’ufficio di segnare il pensiero».

La condizione altra dell’aldilà non conclude «il chimico flusso circolare della vita» e personaggi come Conrad Siever, si aggirano «nel suolo e nella carne dell’albero» o di Marie Bateson:

«Vedete la mano scolpita / con l’indice puntato al cielo. / è questa la direzione, non c’è dubbio. / Ma come si può seguirla? / il bene è astenersi dall’assassinio e dalla lussuria, / perdonare, beneficare gli altri, adorare Dio / senza immagini. / Ma in fondo queste non sono che cose esterne / con cui più che altro si fa del bene a se stessi. / Il nocciolo interno è liberta, / è luce, purezza… ».

L’America degli sconfitti, che promana il suo trapasso come «l’alba della vita / che è pienezza di vita» (Jeremy Carlisle), permane nell’acuta tensione vitale della tomba che è un transito di ombre e non un approdo, come avviene in George Gray:

«Molte volte ho studiato / la lapide che mi hanno scolpito: / una barca con vele ammainate, in un porto. / In realtà non rappresenta la mia destinazione / ma la mia vita. / Perché l’amore mi fu offerto e io mi ritrassi dalla sua delusione; / il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; / l’ambizione mi chiamò, ma io temetti i rischi. / eppure avevo fame di un significato nella vita. / ora so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vago desiderio – / è una barca che anela al mare eppure lo teme».

La coscienza dell’esistenza socchiusa nel coro tragico cerca il compimento ultimo con «tanta sete d’amore e tanta fame di vita» (Minerva Jones) e ogni volta rinnova il suo andamento, verso l’inseguimento di una visione e di una tensione che smonta le vanità e che espone la sua vita ammaccata, eppure racchiude ironia, scacco, profondità.

L’inquietudine non rifluisce nel disincanto, ma anzi, nel vortice di un’eterna attesa promana il suo dramma sacro e di «saggezza evangelica» (Cesare Pavese).

La visione, pertanto, riesce a cogliere il segreto indecifrabile della vita, il mistero di una mistica popolare e semplice, che allorquando tocca frustrazione e durezza, non termina nella protesta, ma rinviene un’apertura ampia oltre il grigiore mortale, oltre l’ansia di una felicità perduta e distrutta:

«La terra ti suscita / vibrazioni nel cuore / e quello sei tu. / E se la gente scopre che sai suonare il violino / ecco, sei costretto a suonare, per tutta la vita. / […] Mai una volta diedi mano all’aratro, / che qualcuno non si fermasse per la strada / e mi portasse via a una danza o a un picnic. / finii con quaranta acri; / finii col violino scassato – / e una risata rotta, e mille ricordi / e nemmeno un rimpianto».

I morti dormono sulla collina, non solo legati alla terra, ma perché ciò che hanno vissuto con il loro vestito di errori, passioni, generosità, meschinità, rappresenta una continuità umana anche dall’altra parte, mentre è in gioco il senso del loro essere e del loro situarsi.

L’attesa di un’esperienza cerca e desidera il destino, nel marmo che compone l’anelito di una visione che accoglie il segreto dell’esistere, per una intima e richiamata promessa.

MASTERS LEE E., Antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 2009.

Macrì O., «Antologia americana», in “La Gazzetta di Parma”, 27 maggio 1957.

MONTALE E., «Celebre e sconosciuto l’autore di Spoon River», in “Corriere della Sera”, 8 marzo 1950.

PAVESE C., Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966.

ID., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1990.

PRAZ M., «Tragica arguzia di Spoon River», in “Il Tempo”, 10 marzo 1950.

SPADARO A., «”Il poeta dei destini”: E. L. Masters. “Antologia di Spoon River”», in «La Civiltà Cattolica», II, 2004, pp. 230-241.

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Andrea Galgano 25-05-2013   I destini di Edgar Lee Masters

Le lettere fatali di Ted Hughes

di Andrea Galgano Prato, 18 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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pdf LE LETTERE FATALI DI TED HUGHES

 

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Hughes è un poeta “fatale” (fate – e composti – è una delle parole che più si notano nei suoi libri, non solo quelli di poesia). Ogni cosa, nel sistema di Hughes, o forse bisognerebbe dire semplicemente nel “sistema Hughes”, dove essere così, quasi suo malgrado, anche quella più accidentale, quella che più sembrava muovere da una volontà maligna ed estranea e, perciò, nemica.

Ogni libro è parte e insieme paradigma del sistema. Per cui l’opera complessiva può essere letta come una serie di stazioni nel lungo, infinito cammino verso l’immagine più compiuta, più precisa, dell’ispirazione di partenza». (Nicola Gardini)

La trascrizione poetica di Ted Hughes (1930-1998), poeta tra i più importanti del Novecento, racchiude la scrittura in un riconoscimento totale e teleologico che, se da un lato avverte la frattura segnica nelle dimensioni dell’esistenza, dall’altro tenta di rammagliare e riscoprire il valore prospettico e profondo dell’esistente e l’antagonismo verso l’illusione, fatale, appunto, dell’apparente: «Siedo sulla sommità del bosco, a occhi chiusi. / Inerzia, nessun mistificante sogno / Tra il mio capo adunco e le mie zampe adunche: / o nel sonno riprovo cacce perfette e mangio».

In una realtà di significanti, lo spazio prospetta una suddivisione di linee e crinali che si dispongono in zone di confine, tra il reale e il simbolico, l’esterno e l’interno.

Il recupero ossessivo di zone d’ombra, che vengono messe a nudo descrivendone l’ampiezza e tentando di smascherare la catarsi mistificante del sogno, è un pangrafismo esistenziale che si inoltra nel mondo vegetale e animale, laddove il gesto del reale è lasciato nel fondo della scrittura. La scrittura diventa primordio di vita: «Non c’è sofisma nel mio corpo: / i miei modi sono di dilaniare teste – / la spartizione della morte. / Poiché l’unico sentiero del mio volo è diretto / Attraverso le ossa dei viventi. Nessuna tesi afferma il mio diritto: il sole mi è alle spalle. / Nulla è mutato dal mio inizio».

La dettatura e dittatura scritta non afferma mediazione alcuna. L’improvvisazione, la lettura della realtà è violenta e piena di abbandono; descrivere rimanda a un contenuto latente, come soggiornare sul taccuino di qualcosa che prende forma e si fa forma, persino attraverso un nucleo mitico, come scrive giustamente Pennati: «La descrizione della violenza è solo l’allegorismo più naturale e più manifesto di un’altra intima umana lotta, più che trasfigurata rispecchiata in animali».

Sullo sfondo delle colline dello Yorkshire, Hughes ricopia un nucleo mitico, non solo spingendo la propria infanzia, con il suo paesaggio nativo e il mondo animale o rivedendo Blake, Shelley, Shakespeare e perfino T.S. Eliot, a celebrare una essenza originaria, ma nel mito, in tutte le sue folgori e cromature, si fonde la parola incarnata e selvaggia:

«Immagino la foresta di questo momento a mezzanotte: / altro è vivo / oltre la solitudine dell’orologio / e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita / … un occhio / un verde fondo e dilatato, / brillante e concentrato, / che se ne viene per fatti suoi / sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe / non penetri la buca nera della testa. / Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio, / la pagina è tracciata».

La parola e la cosa tentano una fusione miracolosa, come guizzo d’istante e nesso stravolto. L’immagine acquista un’esistenza collusa e vibrante, oltre il confine del verso che si annuncia, oltre l’accento dei termini che si perde nel mito, come annota Gardini: «Secondo Hughes ogni creazione poetica si sviluppa da una matrice simbolica ( l’ «evento soggettivo di intensità visionaria») che, per quante trasformazioni attraversi, per quanto irriconoscibile diventi e debba diventare di passaggio in passaggio, costituirà sempre la fronte, il crogiolo di quella certa poesia, l’irriducibile sé (self) del poeta».

Il compito poetico si sostanzia in un ritrovamento di un’intelligenza primitiva e uditiva, per cui

«Le visioni successive evolvono nel tempo nel modo in cui il sé poetico evolve nella sua vita nascosta. Ma nella serie che costituisce l’opera complessiva del poeta, le più antiche sono spesso le più rivelatrici, vuoi perché queste visioni creative assomigliano molto a convenzionali sogni in serie, per il fatto che la prima rappresentazione compiuta è quella che più probabilmente contiene un indice di tutto quello che verrà». (T.Hughes, Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994, p.277).

Il mito originario è la puntuale sostanza dell’essere poeta, la dimensione percettiva più precipua del suo linguaggio, come egli afferma in questa intervista del 1971:

«Più si va a fondo nel linguaggio, meno importante diventa l’immaginario visivo/concettuale, mentre cresce l’importanza del sistema tensivo uditivo,/viscerale/muscolare. Questo perché secondo la biologia i nervi ottici sono collegati al cervello “moderno”, mentre i nervi uditivi si collegano in maniera diretta al cervelletto (cerebellum) – il sistema nervoso primitivo, il cervello primordiale ed animale».

Il primo nucleo mitico e inquieto del poeta è per la Dea (la «Dea Bianca: la donna che lui prendeva per Musa o che era una musa, si trasforma in una donna domestica che vorrebbe a sua volta addomesticarlo»). Lontano dalla sua figura egli ha taciuto gli istinti e le pulsioni delle origini, che ora covano nascoste e minacciose e la fede attuale nella datità dell’esterno e, quindi, dell’oggettività ha, di fatto, negato espressione al mondo interiore.

L’ipertrofia del reale soggiace a due termini, come «anima» e «io»; entrambi vivi nella poesia, spinta poi successivamente alla dimensione pre-logica. In essa trovano il riparo e la riparazione e l’intimo contatto con le forze originarie rituali.

La poesia, quindi, tenta di eliminare gli scompensi tra l’io e l’anima, come egli stesso scrive in questa lettera a David Roderick, del 24 gennaio 1967:

«La poesia […] esprime una vita spirituale il cui centro è la vita sessuale – la speranza è il mezzo migliore che la Natura abbia potuto inventare per andare avanti. Perciò la poesia non è in contrasto con le religioni che chiamiamo pagane, perché queste considerano enormemente Adamo ed Eva e la fertilità e l’energia in generale. Invece è in contrasto con il cristianesimo, perché questo nega la sessualità».

In Hughes la dimensione rituale è il contatto acceso con un mondo paradisiaco, in cui la controversia poetica sostanzia la sua capacità e potenza guaritrice e divinatoria, e in ultima istanza, sciamanica.

Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi di Mircea Eliade rappresenta per lui il centro di una riflessione acuta su chi possa porre il suo spirito al servizio della comunità. Lo sciamano scende negli inferi e rinasce, così come il sogno tesse la storia dell’eroe.

L’angosciosa inquietudine verbale di Hughes, intessuta anche con elementi della psicologia junghiana (aveva letto Tipi psicologici di Jung, sin dagli anni universitari), tocca gli strani movimenti dei cicli vitali, i comportamenti e i riti degli animali e degli insetti, con le loro leggi assolute, come avviene nel localismo dei «cardi che infilzano l’aria estiva / o si crepano aperti sotto una nerazzurra pressione» o i «granchi fantasma che emergono / un invisibile rigurgito del freddo del mare».

Commenta Gardini: «Il signatum metaforico in Hughes non nasce tanto dalla trasfigurazione dell’oggetto naturale, il signans, quanto dall’imposizione a quello di un certo signatum. […] in Hughes certe idee sono così originarie – e così prepotenti- che cercheranno di esprimersi nelle forme più elementari del mondo e, teoricamente, anche quando non ne trovino una adatta, resteranno sempre dietro le parole, come il loro senso».

Il poeta si trova ad essere il centro ricettore delle forze che pervadono e celebrano l’universo, scandaglia le forze e l’urto (la guerra assume la metafora della rappresentazione), sul margine della follia e nel mito.

I gruppi semantici, messi in atto, tentano di collegarsi all’energia universale, nel canto estremo e nella danza spogliata, come abissale e taumaturgica discesa nell’oscuro profondo. L’assoluta fedeltà a una lingua poetica prelogica, corporea e persino averbale, si nutre del suo suolo primigenio, in cui l’essenza della terra, così come la pregnanza della saga familiare, acquista la spartizione delle epoche, in cui madre e padre diventano, all’unisono, mito e storia.

Scrive ancora Nicola Gardini:

 «Questa prospettiva familiare – che, vale la pena ribadirlo, deriva dal paradigma soteriologico dello sciamano e quel paradigma rimanda all’infinito – ci aiuta a osservare in una luce non consueta anche il rapporto tra Ted e Sylvia. Più che un confronto tra moglie e marito, quel matrimonio, nel “sistema Hughes”, è stato un conflitto tra figli: lui figlio dell’Inghilterra, lei figlia dell’America».

 L’Inghilterra di Hughes è realtà mitica e territoriale, tempio atemporale che rimanda alla sua identità di valli e di alture minacciose e incombenti, come la brughiera che aspetta appartata e ritirata, nel suo isolamento e nel suo orrore immobile.

Lo spazio fisico è la linea di orizzonte e di demarcazione di due simbologie di nitore e di senso: la terra e il cielo.

I continui rimandi al viaggio sciamanico e vitalistico percorrono, da sempre, l’attonito equilibrio e il salvifico scompenso di rinascita e tenebra, come il represso che tenta l’ascolto, come via di uscita, e come spinta ascensionale di un tonfo e di una dissoluzione: «Prima che queste ciminiere possano fiorire di nuovo / devono cadere nell’unico futuro, nella terra». Il lungo poema eroico della sua poesia è assieme missione e segno di disfatta di epoche.

Con le ottantotto Lettere di Compleanno, pubblicate a sorpresa nel 1998, Ted Hughes esce dal riserbo della sua persona e della sua vita, con chiarezza e senza ellissi. L’autobiografia, che non perde mai lo smalto eroico ed epico e persino la speranza ineffabile, prende il posto delle idee o del catalogo sciamanico dei fatti che si osservano, con i fiori, gli animali o gli uccelli. È la sua inaudita prefica al lutto che cova tenace il suo urlo e la neve caduta.

Egli mette in scena il teatro del suo rapporto con Sylvia Plath e ci parla delle sue sfaccettature insonni, dei transiti dell’amore e delle nostalgie, dei fatti che hanno attorcigliato nelle spire di dolore e gioia, il controverso e abraso amore per Sylvia che, quando lo conobbe, scrisse così a sua madre, il 19 aprile 1956:

 «Ti racconterò un fatto miracoloso, strabiliante e tremendo e voglio che tu ci pensi e lo condivida in parte con me. È quest’uomo, questo poeta, questo Ted Hughes. Non ho mai conosciuto niente di simile. Per la prima volta in vita mia posso adoperare tutta la conoscenza, la capacità di ridere e la forza di scrivere che ho, e posso scrivere di tutto, fino in fondo, dovresti vederlo, sentirlo… è pieno di salute, è immenso».

Il sentimento oscuro, il lutto scuro che colora e, sembra, delle volte, ammorbidire queste pagine non ha il vertice di un senso di colpa o di una nostalgia umbratile. Sylvia, nell’incontro con Ted, ha destinato la cesura di una vertigine poetica.

Nella poesia intitolata Cappotto nero lei guarda lui che si spinge verso l’acqua del mare e nella sua mente affiora il padre-colosso: «Non mi accorsi / che, mentre le tue lenti si stringevano, / lui mi scivolò dentro».

Giovanni Raboni vide in questo testo una presa di distanza dall’accenno violento di cumuli espressivi e affettivi, scagliati dalla Plath. Lei non è la Musa: è la destinataria di versi compressi e densi che emergono dall’oblio e non solo dal ricordo.

Le sillabe affettive di Hughes sono gestazione di viscere e simulacri irripetibili e unici di episodi, dove la gioia e la morte si intrecciano indissolubili, divenendo fragili e mortali.

Scrive Nadia Fusini: «Il senso della poesia si manifesta nella sua essenza di ricordo; ovvero, di pensiero confitto nel cuore del poeta, vedovo di un’assenza che lo tortura. E lo trasporta nelle caverne della memoria, dove lenta cresce la risposta al dolore».

Il mistero dell’esperienza affettiva, sulle pagine trascina gusti e sapori e anche nella violenza degli scontri e dei margini dei bersagli infedeli, tenta risvegli dall’assenza, sibila racconti nella durata, aspettando si formi una crosta lavica. Nella morte di lei si rinviene la ferita della poesia e dalla sua morte voluta, un richiamo simbolico di fantasmi e ribellioni.

La loro tormentata relazione, dopo il loro incontro a Cambridge, è stata sempre giudicata come la causa principale della fragilità emotiva di Sylvia e le continue infedeltà di lui (che la lasciò per Assia Wevill, morta anch’ella suicida nel 1969, e che poi sposò Carol nel 1970) sarebbero state la causa scatenante del suo suicidio.

Ma queste lettere testimoniano, irrefutabilmente, la presenza di un amore e la paura di un amore, la sua verità, il segreto, come annota acutamente la Fusini:

 «La paura della donna è il pensiero tragico che fa da sfondo al tessuto passionale e immaginifico del canzoniere di Ted. […] In questo studio senz’altro figlio della Dea Bianca di Robert Greaves, […] Hughes dimostra come la cultura occidentale fiorisca e prosperi in un rapporto casuale diretto all’invidia del maschio per quella dea che è all’origine di tutto. […] Il Tutto, l’uomo maschio non lo sopporta. Ne deriva (poiché il femminile è vitale) una alienazione pericolosa per l’individuo in genere; ma estremamente dannosa per il poeta, visto che – così pensa Ted – compito del poeta è di intonarsi ai suoni inauditi del mondo interiore e istintuale e dare loro la misura del verso».

 La morte di Sylvia rappresenta il grado di irrealtà, il tempo ulteriore e ultimo che si fa estremo, l’incanto di un futuro che raccoglie ceneri per tentare di farle rinascere, riportandole alla vita e infine sciogliersi nell’iniziazione a una fonte di battesimi lontani: «Mi sarei allontanato dalla tua porta rossa chiusa / che nessuno avrebbe aperto / con ancora in mano la tua lettera».

Hughes T., Poesie, I meridiani Mondadori, a cura di N.Gardini e A.Ravano, Milano 2008 .

Id., Pensiero-volpe e altre poesie, a cura di Camillo Pennati, Mondadori, Milano 1973.

Id., Lettere di compleanno, Mondadori, Milano 1999.

Id., Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994.

Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974.

Middlebrook D.W., Suo marito. Ted Hughes & Sylvia Plath, Mondadori, Milano 2009.

Wagner E., Sylvia e Ted. Sylvia Plath, Ted Hughes e le «Lettere di compleanno», La Tartaruga, Milano 2004.

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Andrea Galgano 18-05-2013   Le Lettere Fatali di Ted Hughes

Le porte di sabbia lilac-poin​t di Kairouan

di Irene Battaglini                                          Prato, 28 aprile 2013

L’immaginale

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pdf  5. PAUL KLEE 28 04 2013

 «Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte.
Poi pesante e prezioso e reso forte dal fuoco.
Di sera pervaso da Dio e curvato.
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati, verso cieli stellati».
Paul Klee, 1918
 
«L’arte non deve riprodurre il visibile ma deve rendere visibile»
Paul Klee, La confessione creatrice, 1920 – Lezioni al Bauhaus

 

L’universo pittorico di Klee è governato dalle leggi della fisica e del linguaggio dei segni, esposte nelle virtù più eleganti, sofisticate, delicate.

Due sono le anime che si avvicendano nella pittura di Klee, nella recondita armonia della danza degli opposti: la dolcezza estrema di una mano autorevole e formativa, paterna, piena, senza ripensamenti, e la necessaria spinta sconfinante di un bambino che esplora l’universo delle cose e di Dio. Avanguardista per i critici, fu l’esempio silenzioso e rivoluzionario dell’antimodernismo nell’arte contemporanea. Coniugò i tratti appresi dalle tradizioni pittoriche e dallo studio dei grandi ai colori bruni e rossi delle terre e ai freddi viola del cielo, ai verdi dei prati e degli occhi di un gatto, amò l’Italia e la sua anomalia genetica, il suo viversi senza ipotesi, dentro se stessa, la sua storia.

Pittore-uomo tra le macerie classiche, raccoglie uno ad uno quei cocci spenti sotto i quali arde la cenere dell’arte mediterranea. I suoi patchwork cromatici, splendenti più del bronzo fuso dei grandi decori dell’Art Nouveau, di cui pure fu contemporaneo, accendono fuochi di immensa potenzialità espressiva. Le sue linee – le più sottili, quelle del periodo del Bauhaus, dagli anni 20 agli anni 30 –, sono il grimaldello che fa apparire il possibile, il dono del colore, la realizzazione delle possibilità. Eccellenti fulcri generativi per la formazione dei giovani modernisti, allievi di Walter Gropius, di fatto sono veri e propri interventi di psicologia dell’arte, di indagine nelle stratificazioni dell’inconscio dinamico e cognitivo, alla ricerca di impliciti sostegni al necessario, al minimale come essenziale, di leggi che governano mondi sconosciuti alle geometrie euclidee perché a queste precedenti.

Sostiene lo stesso Klee: «Io, a differenza di Kandinskij e di Marc, vivo un mondo intermedio; mentre Kandinskij vive il mondo iperuranico, dove c’è lo spirituale, l’assoluto, l’abbandono del sensibile, Marc vive il mondo terreno, io vivo un mondo intermedio, abitato dai morti e dai non nati, cioè delle possibilità che non si sono date» e ancora «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, gli altri al cuore della creazione, ma non abbastanza vicino». (Paul Klee, Diari, 1898-1918)

Klee non dichiara un rifiuto nei confronti dell’arte contemporanea, – che all’epoca tracciava i primi segni fondamentali, – tutt’altro. Kandinskij e Marc sono suoi grandi amici. Era forse l’unico artista d’avanguardia in grado di leggere il greco antico. Nei Diari dirà che l’Italia classica rimane la base, il punto di partenza per il suo lavoro autonomo. Alcuni mesi prima di morire ebbe un dichiarato riavvicinamento al suo background classico. Già nel 1932, Klee compone il mosaico Testa di atleta (Metropolitan Museum of Art, New York), che recentemente Phyllis Lehmann ha collegato con i mosaici antichi, con le teste di atleti, rinvenuti nelle Terme di Caracalla. Lo studioso ceco Jan Bažant, nell’articolo Klee’s “Senecio” and “senecio” in Rome, (pp. 332-335, 2004, “Umění Art”, Journal of the Institute of Art History, Academy of Science of Czech Republic), argomenta copiosamente le connessioni tra Klee e l’arte classica, scandagliando quelle direzioni spesso trascurate dai critici, che tendono a collocare Klee a ridosso delle linee che collegano le avanguardie al minimalismo e all’architettura di interni, l’astrattismo all’espressionismo elegante, come una sorta di filosofo della forma senza alberi genealogici. Un Klee naturalmente intatto, portatore di una storia senza tempo passato. Ma sono le immagini a tradire questa idea di superficie.

Alla fine della sua vita la bellezza chimerica delle sue figure “astratte” (di fatto vicine alla percezione basica, alla “scena primaria” della storia dell’arte) divengono vere e proprie imago, si pensi alle serie di Eidola, Angeli, Passioni, che somigliano ad un percorso alchemico di approssimazione all’immagine primordiale della morte. Morte che si fa figura, fatto, e costringe Klee ad abbandonare anche il regno della metafora e della rappresentazione. Il visibile emerge nella piena luce, è risurrezione e destino, bianco ritorno al colore in purezza, unito e compatto, il colore spirituale di Kandinskij.

Sono figurette che si addobbano di un pudore intimo, di una lingerie inviolabile, come se racchiudessero nella loro purezza originaria un’etica mai provvisoria dell’identità. Che diventa questione non negoziabile: Klee dipinge, scrive, ed è musicista affermato.

È la discussione intorno al segno che è centrale, mentre i linguaggi possono essere scelti, possono essere sovrapposti. La pittura non è il suo destino, ma il crogiuolo più adatto ad accogliere la sua attitudine a comporre e scomporre, avendone una restituzione immediata e tangibile. Se il lavoro di Klee è la negazione della materia nello studio sulla materia, egli decide di farlo con la metodologia più adeguata: ovvero sul campo, non già adottando escamotage intellettuali, ma confrontasi direttamente con la materia pittorica, elaborando un suo proprio sistema di enunciati a sostenere un’architettura estetica alla sua tensione verso la liberazione dai vincoli della sintassi abitativa che l’uomo organizza scartando continuamente tutti gli input che non riesce ad elaborare.

I tratti di bambino creativo rispecchiano l’adesione alla percezione scomposta, frammentaria e sfalsata che il bambino ha della realtà del mondo sensibile, ma anche il grumo percettivo vitale che costituisce il primo passo dell’uomo nell’universo naturale attraverso i suoi sensi ancora non del tutto perfezionati, nel quale il soffio è nell’atto di essere inspirato, nel quale il verbo è nel punto di essere detto. Quest’uomo balbettante percepisce l’orizzonte e le forme degli animali e il suo muoversi a tentoni, e ancora non comprende del tutto il rapporto che si genera tra loro per triangolarne la posizione. Di fatti, i disegni di Klee non costruiscono un percorso regressivo verso le forme arcaiche, diciamo le forme impresse nel sistema nervoso rettiliano, ma sono un approdo antropologico nella sua ricerca delle percezione immaginale del primo istante, della scintilla dell’origine. Klee sostiene che l’arte debba rendere visibile l’invisibile. Quindi non deve scontornare, dal tutto, l’antico e il primitivo sottraendone il nuovo, ma far vedere quel che l’occhio non ha potuto imprimere in forma segnica, in altre parole fa un lavoro di integrazione e non di sottrazione. In questo sta il suo antimodernismo rivoluzionario. Egli si libera dell’asservimento progressista alla materia e alla tecnica per declinare la sua totale autonomia narrativa e linguistica, ed è questo coraggio a farne uno dei più celebrati ed amati pittori di ogni tempo. Egli piace, perché raggiunge il cuore, perché evidenzia il trascurato, perché alimenta l’occhio desiderante dell’uomo di una tensione mai colma ma sempre sul punto di rivelarsi, alla De Chirico, alla Morandi. Non è mai saturo, non è mai in risposta. Interpretato ed errante, Klee è e si vive, si fa vivere dal mondo, si mette al servizio della dimensione umana, traghettandoci in quel futuro plastico dell’arte contemporanea in cui il dibattito tra l’archetipo legislatore della forma e il versante destruente della materia è sempre acceso. Il lascito di Klee è però molto molto impegnativo. Le riflessioni sulla sua produzione monumentale (si contano oltre novemila opere …) costituiscono un nucleo fondamentale di nodi critici, sui quali ancora si articolano mostre internazionali, cataloghi, saggi, laboratori e piste di ricerca. Ma fu soprattutto un teorico, un filosofo dell’estetica. «L’importanza di Klee per concenzione artistica del Novecento è pari a quella che ha avuto Leonardo da Vinci con il suo De Pictura del Quattrocento, in mezzo non c’è nessun altro che eguagli una pari grandezza», sostiene Giuseppe Di Giacomo (Paul Klee, treccani.it, 2012).

Deborda, colorando, dai confini che egli stesso ha disegnato sulla carta; esprime, dipingendo, una ingenuità cromatica che ha del sublime, che arresta ogni tentativo di collocazione, che declina l’invito alla mattanza del raziocinio.

La pittura di Klee è poetica e sperduta, perché è innamorata del mondo. Egli è da subito abile nella sintesi, ma in realtà in ogni suo lavoro si cela sempre il tema dell’infinito, o meglio del rapporto primigenio tra l’Uomo e l’Infinito. ”Davanti le porte di Kairouan” ne rappresenta l’anelito e l’epifania.

Ha il chiarore dell’alba, Kairoaun, e la tenebra della notte imminente nel deserto. I colori sono dell’ebbrezza delicata, gli sfondi e i protagonisti in primo piano, un tutt’uno con i molteplici orizzonti. L’acquerello del 1914 è di una bellezza impressionante, e – insieme a Cupole rosse e bianche, Case rosse e gialle a Tunisi, Motivo da Hammamet, Il tappeto del ricordo, – Davanti alle porte di Kairouan è una preghiera, un desiderio puro di unione con il mondo, di ritorno al naturale.

La tavolozza cromatica è delicata, eppure i rosa dell’alba sono i viola del tramonto, i grigi colori della polvere sollevata dai dromedari sono pari agli ori della sabbia intrisa di sole sfolgorante. A farla da padrone il rosso. Un rosso che non c’è eppure si percepisce, pervade come un inchiostro liquido e magico tutta la tela di carta, di quegli inchiostri invisibili che appaiono come per magia, appena ti avvicini alla mappa del tesoro. È il rosso della terra, che è contiguo al viola del cielo in assenza del verde. Questi colori giocano a nascondino, si separano, si accoppiano, si rincorrono. L’inafferrabile visione di Klee, è la sintesi del suo amore per il colore, per la pittura, per il creato: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore». Kairouan, 16 aprile 1914.

Robert Frost e la perdita

di Andrea Galgano                                                                                            Prato, 25 aprile 2013

Poesia Contemporanea

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pdf  25.04.2013 ROBERT FROST E LA PERDITA

robert frost

La poesia di Robert Frost (1874-1963) raccoglie a piene mani nella perdita e in essa trova, come scrive Massimo Bacigalupo «il risanamento», il «fare punto momentaneo contro lo smarrimento».

È il cuore, la vetrata centrale della sua poesia. Il rapporto diretto tra poesia e memoria solleva il piano della smaccata atemporalità, del dettato bucolico che non conosce perfezione edenica, ma si riscopre vellutato nella rottura profonda, nella lacerazione e nella follia.

Quando T.S. Eliot lo definì «il più eminente e il più distinto poeta anglo-americano vivente» univa la sedimentazione della cultura anglosassone alla materia rurale e ancestrale della poesia, che unisce il monologo al dialogo, l’inflessione alla creazione fertile dei personaggi.

Nato in California, dove rimase per 11 anni, si trasferì, dopo la morte del padre, con la madre e la sorella nel Massachusetts, dopo essersi iscritto al Dartmouth College e poi successivamente ad Harvard. Non raggiunse mai la regolarità negli studi, lavorando come insegnante, calzolaio e perfino editore dell’opera di D.H. Lawrence.

Il matrimonio con Elinor Miriam White rappresentò la vertigine del suo discorso amoroso, con lei si trasferì definitivamente in Inghilterra nel 1912, dopo gravi dissesti finanziari e psicologici.

All’estero Frost incontrò Pound, che apprezzò e lo aiutò nel pubblicare i suoi testi. La vicinanza e l’influenza di poeti come Edward Thomas, Rupert Brooke o Robert Graves, fu decisiva. Di ritorno negli Stati Uniti, la sua fama divenne conclamata, arrivando a vincere ben quattro premi Pulitzer.

Il New England rappresentò per lui il mistero e la calibrata ancestralità di un movimento espressivo che per guardare il reale, incanala nel discorso, nelle inflessioni colloquiali e nel linguaggio, la tensione metrica che, se per temi si avvicina a Hardy, Browning e Yeats, di contro, sviluppa una peculiare e profonda espressività, unita alla lirica breve, musicale, lontana da ogni unisono vocale, come annunciava egli stesso nel 1913: «Io solo fra gli scrittori inglesi mi sono consciamente proposto di ricavare musica da quello che potrei chiamare il suono del senso».

Quel suono del senso è l’esito di un rinnovamento che inventa una ruralità bucolica e invita chi legge a decifrarne i segreti, le sineddoche, l’ambiguità di un “tranello”: «Bello è il bosco, buio e profondo, / Ma io ho promesse da non tradire, / Miglia da fare prima di dormire, / Miglia da fare prima di dormire».

Il respiro del bosco, ossia di una condizione vivente e vitale, si accompagna al peso della vita e alla tappa ultima del riposo eterno. Esiste sempre un doppio piano nella radice di uno sguardo: da una parte l’elemento naturale che si pone come spartiacque per una condizione successiva, per aprire il tempo poetico alla riflessione del dialogo. La bellezza e la pace hanno sempre una sinistra condizione, in cui l’oscurità dei boschi raccoglie il suo tremore, la sua paura o tragedia, in un originale contrasto. Il suono del senso accompagna il senso del suono, come tensione vitalistica a una suggestione mai dolciastra, a una struttura che pone l’accento sulla condizione umana nelle sue varianti, solo apparentemente, leggere.

Per Frost il senso è un accordo musicale che precede l’esistenza delle stesse parole, in questa vicinanza avviene la vitalità del linguaggio.

In una lezione del 1915, tenuta alla Browne and Nichols Schools afferma: «Quando ascoltate qualcuno che parla, sentite delle parole, certo, ma sentite anche dei toni. Il problema è quello di riportarli, di ri-immaginarli, e di metterli per iscritto […] E il grande problema è questo: come metti su carta questi toni? Come esponi il tono?». E poi successivamente nel 1918 si rapporta a Yeats, intravedendo un possibile accenno di risposta:

 «William Butler Yeats dice che tutte le nostre parole, frasi ed espressioni per avere efficacia devono conservare il carattere della lingua parlata. Dobbiamo scendere al linguaggio di ogni giorno, prima di tutto – alla dura parola quotidiana della strada, degli affari, dei commerci, del lavoro estivo – prima di tutto; ma abbiamo anche un obbligo, quello di elevare le parole di ogni giorno, di dare loro un’impronta di metaforicità».

Se Brewer affermava che Frost «appartiene a una tradizione che deriva dall’insoddisfazione con la melodia “tennysoniana”, e si pone con Yeats, Pound ed Eliot tra i grandi rinnovatori della voce parlante nella poesia moderna», è pur vero che l’interesse metafisico di Frost gioca il suo ruolo decisivo in una doppiezza ironica e tragica, in cui la sottigliezza si accompagna all’eloquenza radicata e ordinata.

La più americana delle questioni poetiche, ossia il rapporto tra la poesia e il parlato, che da noi solo nel Novecento ha visto in alcuni autori un campo profondo di indagine, da Montale, a Giudici fino a Sereni, gioca la sua partita su questo rapporto. Persino William Carlos Williams ricostituirà la tessitura musicale della poesia-prosa, in cui suono e significato corrispondono perfettamente, come equilibrio ragionato tra lingua e parlante.

La stessa rusticità di campagna si allontana dal dettato straniante della vita sociale e l’intonazione omogeneizzante del verso frostiano recupera una tendenza e un avvicinamento all’uso metrico virgiliano, come ha esaminato Brodskij «Frost e Virgilio hanno in comune la tendenza a nascondere il vero tema dei loro dialoghi sotto lo splendore opaco e monotono rispettivamente dei pentametri e degli esametri». L’altezza sonora afferma il flusso della rarità del ritmo.

In un saggio del 1931, Educazione attraverso la poesia, Frost afferma:

«L’educazione attraverso la poesia è educazione attraverso la metafora […] La poesia comincia con metafore superficiali, graziose, decorative, e giunge al pensiero più profondo che conosciamo. La poesia offre il solo modo ammissibile di dire una cosa e intenderne un’altra. Chiedono: “Perché non dici quel che pensi?” Non lo facciamo mai, d’accordo, perché siamo tutti troppo poeti. Ci piace parlare in parabole e accenni indiretti, vuoi per diffidenza vuoi per qualche altro istinto […] Scrivere è tutta questione di avere idee. Imparare a scrivere è imparare a avere idee».

Le labbra socchiuse della verità obliqua di Emily Dickinson, trovano in Frost un alleato complice, come comunicazione tra sé e sé in un linguaggio mai soggiogato e netto, mai povero ma profondamente segnico.

L’originaria trasposizione comunicativa destina la indecidibilità verso la doppiezza dell’espressione, verso il gioco continuativo e arduo dell’esperienza poetica. È la sua forza, il suo non celebrato specchio: «The land was ours before we were the land’s».

Scrive acutamente Massimo Bacigalupo che:

«Frost vive ben diversamente il mondo o il mondo morale (per lui sono tutt’uno), un mondo che non ha facili soluzioni, in cui le persone offrono le loro versioni parziali senza che ne venga indicata una definitiva. L’universo è caratterizzato dalla problematicità, dall’indecidibilità, non in maniera amletica e capziosa, ma a livello immediato di percezione. La moralità in Frost è sensazione, per parafrasare la lode che di John donne fece Eliot: è poesia. L’idillio coi boschi non produce certezze o consolazione, ma rimanda sempre al principio della verità assente».

Il bagliore del concetto e della figura, che egli racimola dall’esperienza elisabettiana di Shakespeare e dal concettismo del Seicento, trova uno stridore tra chi abita i campi e la joi de vivre, tra il contrasto silente tra bianco e chiaro, intento e forma e disegno e assenza.

L’isolamento, l’estinzione e i limiti umani insuperabili, messi in evidenza da Randall Jarrell non chiudono la semplificazione ironica e vertiginosa della sua scrittura, ma aprono a una questione insoluta.

La natura del New England porge il suo barbaglio di comunione con la condizione umana. Un muro con il filo spinato occlude la vista di due persone, dall’altra parte ci sono una cerva e un cervo, da questa, due individui guidati da amore e dimenticanza: «Quasi la terra per un imprevisto favore / Li avesse assicurati che ad essi ricambiava / il loro amore».

L’evento che tocca le due persone annota e glossa la loro affezione, porgendo la specularità di un amore ricambiato tra il loro essere e la terra che guardano.

In Frost non esiste il bozzetto melodrammatico o l’edenica percezione di uno spazio, nonostante la vicinanza con Wordsworth e con la tradizione classica, ma il limite umano rivela la sua intensa precarietà, come ad esempio il vaneggiamento di alcuni personaggi, la scoperta di un adulterio, la lunga incertezza mentale.

La sua pantomima lirica acquista la dimensione del dramma, in cui la fattoria afferma il suo centro propulsivo e fragrante del mondo.

Il mondo di Frost concede inenarrabili effetti di quinta, in cui l’umano abita frequentemente e assiduamente l’angolo convesso di un trapasso, come da una landa felice al nido delle api nelel pareti, come dal dramma domestico alla teatralità dell’idillio (come accade in All revelation), per «destarsi all’esperienza, raccogliere i semi gettati prendendo in mano ogni tondo frutto, assopirsi stanchi e soddisfatti prima ancora di aver spogliato tutto il frutteto».

La conoscenza della notte è un viaggio inesauribile nella perdita, nel sonno, nella distanza cinica e virulenta, con una capacità ironica e spregiudicata che non si nutre di ansia o di inquietudine soffusa e solo nell’agone sconvolge la «satisfaction of superior speech», per convogliare in un terrore ironico di molte voci: dalla metafisico-ironica alla drammatico-teatrale, fino alla satirico-discorsiva, che meditano sulla realtà fattuale, soggettiva e poi universale, ordinata e coordinata in solchi, come testimonia Mietitura:

«Non si sentiva oltre al bosco altro suono che uno, / la mia lunga falce che frusciava al suolo. / Che cosa sussurrava? Non lo sapevo io stesso; / era forse qualcosa sul calore del sole, / qualcosa, forse, sull’assenza di suono – / Per questo sussurrava e non parlava. Non era sogno del dono d’ore vuote, / o facile oro profuso da fata o da elfo: / qualunque cosa in più della verità sarebbe apparsa / debole al fermo amore che ordinò il prato in solchi, / non senza delicate lanceole di fiori / (orchidee pallide), e un fulgido verde serpente fugò. / Il fatto è il sogno più dolce che la fatica conosca. / La mia lunga falce frusciava, lasciava il fieno ammucchiarsi».

Il «New York Times» nel dedicare a Frost un editoriale in occasione del suo ottantesimo compleanno mise in rilievo la sua intensità peculiarmente americana:

 «Poeta intensamente americano, Frost ha toccato quegli aspetti della vita degli Stati Uniti che, pur dopo un secolo di sviluppo urbanistico, ancora costituiscono il nostro comune substrato. Il nostro concetto delle relazioni tra gli uomini, il nostro modo di intendere il lato tragico dell’esistenza e la nostra nozione della speranza restano intimamente legati alle case coloniche ed ai campi appena arati. Frost scrive su un mondo vero di gente vera, riuscendo ad introdurre in esso il lettore che ne ricava il senso di una viva esperienza e momenti di autentica rivelazione».

Il lavoro del poeta abbraccia l’infrangersi del tempo, il suo smarrimento e nascondimento, il ritrovamento di luce, come l’abbandono di un tratturo e il ritrovamento di un calice nascosto e originario in Directive, in essi trova luce e sospetto di ombra.

 

Frost R., Conoscenza della notte e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori, Milano 1999.

Brodsky J., On Grief and Reason, Farrar Straus & Giroux, New York 1995.

Brower R.A., The poetry of Robert Frost: constellations of intention, Oxford University Press, Oxford 1963.

Gardini N., Com’è fatta una poesia, Sironi, Milano 2007.

Jarrell R., Poetry and the Age, Knopf, New York 1953.

Penn Warren R., The themes of Robert Frost, University of Michigan 1947.

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Andrea Galgano.25-04-2013 Robert Frost e la perdita

Il linguaggio poetico di Paul Klee

di Andrea Galgano                                                                                             Prato, 18 aprile 2013

Poesia Contemporenea

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pdf: IL LINGUAGGIO POETICO DI PAUL KLEE

220px-Paul_Klee_1911Il gesto poetico di Paul Klee (1879-1940) persegue il segreto e l’attrazione della genesi, la coltivazione di una ricerca, mai marginale, che non tocca il movimento di una glossa all’opera figurativa, ma sostanzia la percezione linguistica in una accezione significativa e densa, in un tratto omologo all’espressione artistica.

Se nei suoi Diari lo scenario, il divenire e il formarsi della creazione raggiungono l’acme di una continua tensione, i suoi testi poetici non affermano una subordinazione all’atto artistico, ma raccolgono il fecondo rapporto tra l’artista e la creazione, tra la tensione cosmica e la sigla strutturale dell’umano:

«Sguardo retrospettivo. Mi sono posto dinanzi a me stesso, a scrutarmi. Ho detto addio alla musica, alla letteratura. Ho desistito dall’aspirare ad una raffinata esperienza sessuale, rinunciando a quella tale avventura. Anche alle arti figurative penso appena, devo dedicarmi prima a sviluppare la mia personalità. In questo devo essere conseguente e non cedere alle sollecitazioni. Sono certo che solo così riuscirò a trovare poi la giusta espressione nell’arte»

o ancora

«L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico. La liberazione degli elementi, il loro raggruppamento in sottoclassi composte, lo smembramento e la ricomposizione in un tutto da più parti contemporaneamente, la polifonia figurativa, il raggiungimento della quiete mediante la compensazione dei movimenti: sono tutti alti problemi formali, fondamentali per la conoscenza della forma, ma non ancora arte della cerchia superna. Nella cerchia superna, dietro la pluralità delle interpretazioni possibili, resta pur sempre un ultimo segreto – e la luce dell’intelletto miseramente impallidisce».

Dunque, se in questo libro la sua attenzione si rivolge ai meccanismi precipui di indagine, nella sua poesia sembrano assentarsi le cromature, discostandosi da altri poeti espressionisti, come Georg Trakl, ad esempio, in cui la forte pregnanza cromatica ha densità metaforica ed esaurisce il momento della scrittura.

Scrive Giorgio Manacorda, a cui si deve l’edizione dell’opera poetica di Klee: «Nei versi di Klee non si incontrano colori, non affiora una visione cromatica della realtà. I versi di Klee non descrivono il fantasma colorato del mondo, così come non lo descrivono i suoi quadri. […] Il colore è intuito dal lettore come qualità non nominata di una funzione. In questi lessemi («essere incandescente», «incandescenza», «bruciare», «sangue», ecc.)  la valenza semantica prevale sul momento dell’implicito e presente valore cromatico».

Tale valenza si contrappone all’impressione, abbracciando la vertigine di un lessico mitico e simbolico. Il rapporto tra i segni linguistici e la densità espressiva carpisce la forte corposità di metafora e connette la sofferenza dell’esistere alla sensazione panica, al turbamento, all’abrasione, specie quando egli scrive: «Io somiglio al dirupo / dove la resina cuoce nel sole, / dove i fiori scottano», oppure, «Mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio».

Il vocabolario delle immagini, che egli sviluppa, si avvale del pittogramma che si trasforma in icona, ridestando una stretta vicinanza tra la decorazione del passaggio interiore con la simbolizzazione dell’atto figurativo.

Il testo visivo di Klee sottende a una orizzontalità pronunciata e invoca una lettura intrinsecamente temporale, in cui l’enfasi, il volume e il ritmo conferiscono un netto e inequivocabile parallelo visivo.

La metafora incendiaria raccoglie la solitudine nei confronti degli elementi della natura, cambia prospettiva di paesaggio, come un’esclusione sproporzionata e tripudio d’assedio, finestra verbale e visuale: «Come davanti alla tempesta / fuggono gli uomini … / Io sono il timoniere e la mia nave / forte mi porta alla meta» oppure «Io sono cresciuto solo su una landa / (…)  / tempeste andavano e venivano, / avevano spazzato via ogni debole cosa. / (…) Il mio riparo sia intanto solamente il pensiero».

Il momento prometeico di Klee però afferma, rispetto allo Sturm und Drang, a cui potrebbe rimandare, un’apertura alla realtà, come centro di amore e orrore, scultura di frammenti, grido di sole: «Tu sei grande, è grande / la tua opera. Ma / solo grande all’inizio / incompiuta. / Un frammento. // Compila! / Allora griderò l’evviva!».

La sua vertigine tra uomo-artista e divinità raccoglie un confronto solitario, insegue un discorso sul reale che non ha l’enfasi estatica ma «il problema del rapporto con dio è il problema del rapporto (gnoseologico) con il meccanismo che muove l’universo. Dalla dialettica o forse, meglio, dalla contrapposizione tra particolare e universale non nasce nessun misticismo». (Giorgio Manacorda)

La relazione dinamica tra la natura e la metafora è biunivoca e diverge nella sottigliezza di una struttura semantica che nega quest’ultima, per raggiungere la conoscenza dei meccanismi cosmici.

La misura con il dio-cosmo non annulla distanze, ma provoca la sbavatura della sofferenza oltre il margine umano. L’uomo-artista riesce, attraverso la profusione creativa, ad abbracciare e raggiungere l’ordine cosmico. Il risultato è un vortice e una vertigine metafisici: «Pensa di essere morto / lontano e dopo molti anni / ti viene concesso un solo sguardo / verso la Terra. // Vedrai un lampione e un cane / vecchio con la zampa alzata. / Singhiozzerai dalla commozione».

La distanza è una visione che non solo partecipa, ma “vede” il suo processo creativo, attraverso lo svolgimento di una istanza umana sofferta, dura e lenta: «La mia testa brucia da saltare / / Uno dei mondi / che nasconde / deve nascere // Ma prima di creare / devo soffrire».

Il parto creativo avvicina l’anima alla genesi femminile. La donna di Klee ha il nome annunciante di un infinito silente e artefice, plasmatrice e innovatrice della fecondità ideale, come il verde della vita e dell’amore verso Evelina, gioia e aggettivo di una fertile serenità:

«Eveline è un sogno verde tra gli alberi, il / sogno di un bambino nudo nella campagna. / Me ne andai fra gli uomini per non lasciarli più / e fu impossibile essere così felice. / Liberato dal potere di troppo noti dolori / mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio. E ritrovai Eveline, donna / ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate. / adesso lo so cosa volevo quando cantavo. / siate teneri con i miei doni» o ancora «Appoggiati a me / e seguimi se / si apre la terra / chiudi gli occhi. // Fidati del mio passo e del mio / freddo alto spirito. / Così come Dio / saremo in due».

Il chiaroscuro della penombra, del contrasto, di un rinvio di buio alla luce condensano il paesaggio interiore. Laddove egli dichiara di lavorare «sempre in rapporto alle più inconsce dimensioni del quadro», la sua tendenza pittorica e poetica abbraccia l’immaterialità, la astratta precisione e l’astrazione mitica, archetipica e autonoma, come scrive Clement Greenberg: «In Klee il disegno è, per così dire, temporale, o musicale».

Il poeta che disegna le sue partiture di profili o segni astratti, figure e confessioni precarie afferma la sua linea temporale-musicale, come conferma ancora Greenberg: «La linea di Klee indica, conduce, allaccia, congiunge. L’unità si attua per mezzo di relazioni e di armonie che giocano attraverso aree neutre la cui presenza è più una presunzione che un fatto».

Il verso si ricollega proprio ai segni che determinano l’arte, al mistero dei suoni, vicini più a sostantivi che ad aggettivi, indicati dal tocco verbale per «dare ordine al movimento», per offrire consistenza al valore ritmico della lingua.

Ed ecco che il colore, nelle poesie in controluce o in chiaroscuro, diventa gesto che si azzera, vive di assenza, annullato e ridotto a luce, ombra, bivio di buio: «E tuttavia questo genere di colore, nelle mani di Klee, raggiunge una particolare specie di profondità. Non una profondità nella quale gli oggetti rappresentati sono probabili, ma qualcosa di soffuso, respiri di colore che danno un baluginare distante, ambiguo». (C.Greenberg)

Il segno grafico o verbale, differenziato dal processo metaforico, ha una istanza primitiva, originaria come l’arte del Paleolitico, l’equilibrio e il disequilibrio e la coltre di una percezione.

La parola acquista un potere descrittivo che «ha il compito di completare e precisare le impressioni» e la continua oscillazione tra poesia e arte figurativa e musicala determina il motivo potente e fragile di una vicinanza che possa formalizzare il vissuto e il mistero indicibile: «In fondo essere poeta non dovrebbe ostacolare l’arte figurativa. E se dovessi decidermi per la poesia, Dio sa cosa altro vorrei fare».

La profonda parentela tra la pagina dipinta e quella scritta non contiene solo la fissazione di uno spazio, ma la stessa sospensione dell’oggetto determina la perdita dello spessore esistenziale.

Quando Klee si muove dal modello all’archetipo rintraccia una linea articolata ed elementare, rende appieno l’univocità del segno come affermazione piena, come sonda di un rapporto complementare di ordine e caos: «L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico». L’estrema iconizzazione del testo poetico realizza mimesi e replicabilità, promuove un codice speculare di rovesciamento e  ripetizione per leggere il caos e ristabilire l’ordine che non muta.

Il cardine sistematico del testo rispecchia la scacchiera cromatica della figurazione e della costellazione e visualizzazione di altri significanti. Esiste, pertanto una variante codica tale per cui sia i testi e sia gli ordini vengono presi come varianti di un ordine invariante, come annota Giorgio Manacorda: «L’operazione di Klee tocca un tale grado di astrazione e di formalizzazione da presupporre un allontanamento definitivo dall’ordine dei referenti extra-testuali, in direzione (viceversa) della fondazione di strutture archetipiche che poi vengano costantemente «replicate» dai testi e «iconizzate» in essi».

Roman Jakobson in un interessante testo che indaga la produzione poetica di Holderlin, Brecht e Klee: «Una sorprendente unione di trasparenza radiosa e di magistrale semplicità con multiformi indicazioni permette, al Klee pittore e poeta, di dispiegare un’armonica combinazione di molteplici procedimenti sia sulla superficie di una tela sia nelle brevi note di un diario».

L’acuta sensibilità, che unisce la profondità chiaroscurale ella miniatura verbale e il concetto grammaticale alla geometria della visione, permette l’organizzazione del movimento creativo in relazioni logiche che costituiscono il senso profondo e complesso di visibile e in-visibile, di domanda ed enigma: «Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione ancora troppo poco vicino».

La fine ha trovato l’inizio.

KLEE P., Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Guanda, Parma 1995.

ID., Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano 2004.

ID., Diari 1898-1918. La vita, la pittura, l’amore: un maestro del Novecento si racconta, Net, Milano 2004.

AICHELE PORTER H., Paul Klee Poet/Painter, Boydell & Brewer Ltd., Woodbridge 2006

GREENBERG C., Saggio su Klee, Il Saggiatore, Milano 1960.

JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002.

WyMAN S., The Poem in the Painting: Roman Jakobson and the Pictorial Language of Paul Klee, Word & Image: A journal of Verbal / Visual Enquiry, Routledge 2004.

 

La poetica del terrore di Alfred Kubin

di Irene Battaglini

L’immaginale                                                                                        Prato, 16 aprile 2013

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ALFRED KUBIN - THE LAST KING, 1902La vera funzione dell’Arte è rivelare la bellezza nascosta, l’impronta divina che è in tutte le cose.

Roberto Assagioli

 

 

 

 

 

Alfred Kubin,The last king, 1902

 

Alfred Kubin è assai vicino al segreto della materia oscura.

Conosce il linguaggio arcaico dei sogni in bianco e nero, sfolgorante tripudio di colori indicibili all’occhio umano, colori animali, viaggi – fuoco alla scoperta di forme di vita aliene perché non ancora note, con cui stringersi negli appartati silenzi di una giungla aperta solo all’inconscio e al sogno.

Popolazioni di piccoli esseri con zampe e piccoli occhi sanguinari, di creature o-scene, prive di pudore e di ritegno, inghiottite dallo stomaco eterno del tempo arcaico.

Un tempo senza meridiane, demarcato dalle sfumature rese con la violenza strabiliante dello stilo che incide la pietra-carta. Non privo di effetti destruenti su colui che guarda, salvato di quando in quando da figure più amabili e mai dolci, mai tenere. Ma dotate di una qualche ispirazione simpatetica. Figure quasi vergini che deflorano la pupilla, ignare della propria immane forza ctonia. Una bella dormiente è di fatto cadaverica, un caro animale domestico è in realtà l’investigatore pubblico di un devastante tradimento affettivo.

In Alfred Kubin (1877-1959, austriaco di origine ceca) la privatezza del sogno e la vergogna dell’istinto manifesto costituiscono la coppia protagonista di un duplice matrimonio di opposti. Si tratta di vecchi amanti clandestini, di violacciocche, rose e fragole passate, che un tempo furono turgide e splendenti. Il tempo ha distrutto quelle irrorate terre di passione e ha prosciugato tutto, desertificato. Nuove forme di vita hanno popolato quel campo desolato, cittadini nuovi di un cimitero di veli di spose e di giovani martiri in abito da cerimonia. Il funerale è stato officiato e nelle camere scurite dal freddo le pareti divengono luogo di immaginazione perversa.

L’impianto accusatorio della linguistica di Kubin è una sorta di emisfero monco di un mondo che necessita di comprensione e di attesa di una risurrezione. È un universo onirico psicoide, a base di strampalate occasioni di tessitura di storie e di incrocio di segni.

I tratti del disegno e delle incisioni sono sempre trasversali, sottili, chiusi. La definizione, tuttavia, non è mai fumettistica e il tratto grafico tradisce un amore pittorico, sfocia in una grafologia iridata su un fondale opacizzato, è equidistanza dal caos eppure è sempre commistione nel magma da cui sembra emergere l’immagine principale.

Una criminologia immaginale, quella di Alfred Kubin. Che rievoca Lovecraft, e Edgar Allan Poe, di cui fu illustratore in oltre settanta opere.

Gli uomini di molti disegni sono spesso ipocondriaci, malaticci, preda di donne-licantropo, attentati da strategie di autoannientamento, vittime consapevoli e un po’ masochiste di uno schema sovrabbondante e conosciuto.

La copiosa produzione di Alfred Kubin è stata da sempre teatro di riflessioni di ordine psicoanalitico, e ci coinvolge anche come studiosi di psicologia dell’arte per via dell’effetto scenico dell’orrore, che ha una sua ragione di essere anche nell’estetica stessa, se si tiene conto della suggestione che riceviamo in relazione alla forma e alla tessitura di ogni singolo disegno. Simona Argentieri, in «Alfred Kubin: un sognatore a vita» (nel saggio La lente di Freud. Una galleria dell’inconscio, a cura di Giorgio Bedoni), articola la riflessione a proposito del rapporto tra psicologia e arte in Kubin:

«[…] sarebbe assurdo precludersi l’esplorazione dei possibili nessi tra parole e immagini, tra opera e vita quando Kubin stesso ne fa un elemento costante della sua poetica, intrecciando continuamente il percorso creativo con l’autobiografia. Direi anzi che un elemento particolarmente interessante è proprio la meticolosità con la quale egli costruisce la sua teoria su se stesso: l’autodiagnosi di patogenesi traumatica dei suoi tormenti, corredata dalla certificazione degli scritti e dalla preziosa esibizione sintomatica dei disegni. Anche la cura, d’altronde, ha tale qualità autarchica e autoreferente: l’isolamento di dieci giorni in corrispondenza di una crisi, la parentesi buddhista, la scrittura del romanzo L’altra parte che – a suo dire – avrebbe composto di getto in sole dodici settimane come rimedio al dolore della morte del padre.

Come è suo diritto, egli talvolta mente sulla stesura dei resoconti […], tuttavia è vero – come dice Erwin Mitsch (1988) – che su questa base emotiva si fondano il fascino e la forza soffocante che emanano dalla sua opera, che si eleva molto al di sopra della pittura concettuale e allegorizzante dei suoi contemporanei.

Insomma, c’è del metodo, sia pure ingenuo, nella sua follia; e c’è della teoria, sia pure convenzionale, nella sua sommessa infelicità e nella sua fedeltà ad un processo creativo fatto di andirivieni tra disegno e scrittura,che intreccia l’invenzione, il “gioco crepuscolare della fantasia”, le reminiscenze infantili con angosce esistenziali nutrite dalle letture di filosofi quali Nietzsche e Schopenhauer, di scrittori come Poe e Hoffmann, di lezioni di artisti come Klinger, Munch, Redon, Ensor, Goya, Rops… Sappiamo anche che teneva sulla scrivania il famoso libro di Hans Prinzhorn, che era andato a visitare la sua famosa collezione di artisti folli della Clinica Psichiatrica di Heidelberg, con i quali dichiarava una dolente fratellanza umana ed estetica. (*) Così procedeva con immagini e parole alla costruzione dell’immagine di sé, adattando eventualmente la biografia all’arte, che – a suo avviso – è la “conseguenza della vita”. (*) In un articolo pubblicato nel 1922 su “Kunstblatt” ne esalta “i miracoli dello spirito dell’artista che emergono dagli abissi reconditi e imponderabili”».

Nei suoi lavori, quindi, l’urgenza abreattiva del trauma e lo spasmo creativo dello «spirito dell’artista» si accordano in una ricerca violenta di armonia, con l’esito di rovesciare i codici della psicopatologia, che è fondamentalista circa l’identità tra psicosi e assenza di consapevolezza.

I temi della fine del mondo, dell’incubo, della coazione a ripetere, dell’accesso al simbolico della morte in ogni sua declinazione, sono stati ampiamente trattati dai critici e dagli storici dell’arte, che non hanno mancato di esaurire in giudizi talora molto duri la sua talentuosità, innegabilmente mescolata con la mostruosità. Ebbe in vita numerosi riconoscimenti, un’esistenza piena in un clima di grandi eventi culturali, ma anche storici e politici. Fu tutt’altro che estraneo a questa realtà, conobbe e strinse amicizia con le maggiori personalità artistiche e letterarie del suo tempo. In un certo senso, l’impressione è che sia stato confinato a sofisticato e misterioso illustratore del terrifico e del luttuoso. Una sorta di sovversivo dell’estetica, il «polo contrario di Klimt […], il lato notturno della Secessione» (K. Schuster, 1981), nell’andirivieni mortifero di Ade e Persefone, sotto l’invariabile dominio di Crono.  Espressionista della notte, che si abitua quasi a “rubare” lo spazio creativo, iniziando a disegnare dietro le mappe catastali ereditate dal padre.

In un certo senso, la psicoanalisi è stata ed è una chiave di lettura che, in mano ai profani, gioca a favore della patogenesi dell’arte. E Kubin, anche solo per l’autoritratto in cui si disegna decapitato con la testa in un vassoio (illustrazione a Hugo Schmidt, Demoni e storia notturna, Monaco 1922), è preda ambita per la psicodiagnostica la più liberamente proiettiva. Com’è giusto che sia, se si considera che chi espone le proprie opere non può esimersi dall’essere sottoposto ad ogni forma di valutazione. In qualità di ipotesi inconfutabile, possiamo considerarla un punto di intersezione con altre ipotesi anziché una mappa di orientamento. Uno dei problemi filologici che emerge nello studio di Kubin, è la sua versatilità rispetto al mezzo creativo. Scrittore, pittore, incisore, disegnatore, illustratore, grafico (pensiamo agli inquietanti capilettera), usò la penna, l’acquerello e le chine con generosità di segno.  Studiarne le incisioni, significa approcciarsi al suo linguaggio, che è però ampiamente rappresentato nel romanzo L’altra parte e nelle altre produzioni letterarie. Egli illustra il suo stesso libro con l’impeto ribelle dello scrittore ferito dal suo stesso desiderio, ornandolo con lavori scurissimi, intessuti di graffi allucinati, a rappresentare case immerse nella notte deserta, scorci di paesi maledetti, finestre chiuse su muri di silenzio: spazi privi di una dimensione umana, in apparenza. Oppure, in realtà, completamente immersi nella melma che si fa fatica a drenare, che si relega alla notte, all’onirico, al mysterium tremendum.

Difatti fu proprio C. G. Jung (1928) a portare l’attenzione sulla qualificazione archetipica di Kubin, in cui l’abbandono passivo al fantastico e al simbolico assolve una funzione «trascendente, artisticamente valida».

Per la stessa ragione, possiamo articolare la sua collocazione tra i più grandi artisti del suo tempo. Fu cassa di risonanza del decadimento delle cose e del mondo, tanto da meritarsi di essere annoverato tra i “profeti del tramonto” da Vassily Kandinsky: oscuri narratori delle rovine dell’Europa avvolta dalla caligine che segue al crollo degli dei.

In lavori come Bancarotta (1938) o La morte del povero dello stesso anno, sembra assumere su di sé la fortissima responsabilità di un’Austria crocevia di conflitti bellici in un’Europa vessata dalle forze disgreganti. Non si tagliò fuori dal dibattito della sua epoca, anzi ne fu protagonista insieme a tanti nomi illustri, come Mann, Kafka, Jünger, Redon, con cui strinse ampi rapporti epistolari.

Subì l’influenza di maestri come Goya e Bosch, oltre a Max Klinger, che anticiparono quel che i Surrealisti usavano addurre alle fonti inesauribili dell’inconscio.

Alfred Kubin non può essere quindi collocato tra le sponde rovinose di una psicopatologia della scrittura, del segno e del simbolo. I lavori vanno presi tutti insieme e visti come un “arazzo rovesciato”, parafrasando il titolo dell’ultimo lavoro di Andrea Monda e Giovanni Cucci. Il male non può essere spiegato ma al massimo raccontato. E in questo caso disponiamo di un immenso racconto, il romanzo della vita e dell’arte di un uomo che si mette a nudo e ci offre una delle più vaste geografie dell’inconscio, individuale, sociale, collettivo.

Octavio Paz e il regno perduto

Poesia Contemporanea                                                                                    Prato, 12 aprile 2013

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pdf   OCTAVIO PAZ E IL REGNO PERDUTO

di Andrea Galgano

pazOctavio Paz (1914-1998), premio Nobel per la letteratura nel 1990, esprime meglio di ogni altro autore ispanoamericano la capacità di sintesi dello scavo poetico, della esistenza vissuta del testo, di un ermetismo propulsivo e dinamico che unisce linearità e fasto immaginario.

Nato in una famiglia indiano-ispanica dopo la rivoluzione messicana del 1910 (suo padre fu il rappresentante di Zapata negli Stati Uniti, mentre suo nonno fu uno dei primi intellettuali a favore della causa degli indios), ha respirato da subito, come testimonia la sua prima silloge a 19 anni Luna silvestre, la tensione dilatata di un processo espressivo che raccoglie erotismo, comunione, solitudine, morte, come un quadrilatero che innerva la sua arte e il suo gesto poetico.

A 23 anni aderì alla causa dei repubblicani andando a combattere e rompendo poi con gli stalinisti, definendo in modo indelebile e irreversibile una frattura con i totalitarismi di ogni tipo.

Le sue raccolte successive portano i riflessi della guerra spagnola, ma lasciano intatta la nitida scoperta di una fraternità e di una identità che caratterizzerà la sua produzione successiva, aprendo il suo corso mitico alle esplorazioni del reale e all’appartenenza.

Tutta la sua esistenza è stata un germoglio di feconde amicizie e crinali duraturi: Rafael Alberti, Cesar Vallejo, Pablo Neruda.

Rientrato in Messico nel 1938 fonda la rivista “Taller”, incontra Benjamin Peret, si lega ai surrealisti parigini e poi si sposa con Elena Garro. Su consiglio di Neruda entra in diplomazia (lascerà l’incarico nel 1968 dopo il massacro di Tlatelolco) e nei suoi innumerevoli viaggi (Francia, Svizzera, Giappone, India), scoprì la bellezza del misticismo orientale.

Le raccolte di poesie Versante Est e Libertad bayo palabra si alternano a saggi di politica e critica letteraria, fino a raggiungere con la Pietra del sole del 1957, lungo poema sul Messico, considerato da Julio Coràlez il più bel poema d’amore mai scritto in America Latina, la vertigine dell’inno.

Dopo le prese di posizione contro il castrismo, tentando di perseguire una via più democratica, nel 1976 fonda il mensile di riflessione politica “Vuelta”, iniziando, pertanto, una messa a fuoco di emarginati e esiliati, come più tardi testimonierà il bellissimo Il labirinto della solitudine: «La solitudine è il fondo ultimo della condizione umana. L’uomo è l’unico essere che si sente solo e l’unico che è ricerca d’un altro. (…) L’uomo è nostalgia e ricerca di comunione. Perciò ogni volta che sente se stesso si sente come mancanza d’un altro, come solitudine».

Quando ritirò il Premio Cervantes nel 1982 scrisse:

«la libertà, che comincia per essere l’affermazione della mia singolarità, si risolve nel riconoscimento dell’altro e degli altri: la loro libertà è condizione della mia. Nella sua isola Robinson non è realmente libero; benché egli non subisca una volontà estranea e nessuno lo costringa, la sua libertà si dispiega nel vuoto. La libertà del solitario è simile alla solitudine del despota, colma di spettri. Per realizzarsi, la libertà deve incarnare e mettersi di fronte ad un’altra coscienza e ad un’altra volontà: l’altro è, contemporaneamente, il limite e la fonte della mia libertà».

La poesia di Octavio Paz tende alla sponda infinita degli archetipi, solleva il binario dell’attività poetica verso una orditura di sacralità di immagine:

«L’uomo, persino quello avvilito dal neocapitalismo e dallo pseudo socialismo dei nostri giorni, è un essere meraviglioso perché, a volte, parla. Il linguaggio è il marchio, il segno della sua sostanziale non-responsabilità anziché della sua caduta. Attraverso la parola possiamo accedere al regno perduto e così recuperare gli antichi poteri. Quei poteri non ci appartengono. L’uomo ispirato, colui che davvero parla, non dice nulla di suo; per la sua bocca parla il linguaggio»

o ancora «Non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della non-significazione e quello non meno terrificante, della significazione indicibile».

La scomparsa del poeta nella sua voce, in quanto voce del linguaggio, acquista una tensione altra, una rivelazione magmatica e fervida.

Il quadro polisemico che emerge dalla sua lettura è il sedimento in cui la nevrosi, presente in Neruda o Vallejo, si affranca in uno spazio mai soddisfatto, in un’indagine di materia e d’istante senza condizionamenti.

Le mitologie messicane si aprono nell’opera circolare di un tempo originario e primordiale, nella Storia, senza la quale il poema resterebbe disincarnato, flesso:

«prima della storia, ma non all’infuori di essa. Prima, in quanto realtà archetipica che è impossibile datare, inizio assoluto, tempo totale e autosufficiente. Dentro la storia – meglio: storia anch’egli – perché vive soltanto incarnato, ri-generandosi, ripetendosi nell’attimo della comunione poetica. Senza la storia – senza gli uomini che sono origine, sostanza e fine della storia – il poema non potrebbe nascere né incarnarsi; e senza il poema non ci sarebbe nemmeno storia, perché non ci sarebbero né origine né inizio».

Lo splendido istante, che germina nella vertigine, ha, nel particolare, l’estasi di un tempo irripetibile, calato in un solco di dimensione storica, laddove un pioppo, una montagna o un fiume partecipano a una immaginifica trasposizione della realtà e della visione d’insieme.

Scrive  Franco Mogni: «poesia e poetica di Paz rispondono proprio a una peregrinazione verso le origini, alla ricerca di una cosmogonia (o cosmologia?) personale: lungo il percorso affiorano ciclicamente delle strutture pressoché compiute, dei testi singolari per cadenza e tenuta compositiva che in qualche modo chiudono una fase e ne introducono un’altra».

Se nella sua poesia tutto riconduce alla porta di un avvenimento, il desiderio di ricomporre il contesto lacerato dell’uomo segna definitivamente la traccia di una rigenerazione affascinata, di una puntualità dell’istante e del suo fluire e, infine, della sua pienezza.

La pietra del sole assurge una viva compenetrazione amorosa che unisce tempo rigenerato e illuminazione. La poesia e quindi l’amore, qualora fossero anche balbettii silenziosi, riescono a estinguere e estirpare l’umana materia grezza in una fascinazione preziosa, in una non totalizzante conciliazione di contrari, in quanto «poema della riconciliazione degli opposti, in cui la polarizzazione tra tu ed io, presente e passato, si risolve in una corrispondenza universale che mette in comunicazione piani considerati incompatibili».

L’apertura polisemica del tempo al mondo può aprire costellazioni indicibili oltre «il muro verdigno», in una congiunzione che permette l’irretimento di una statica contemplazione:«Tutti si trasfigurano, volando, / ogni fregio è nuvola, ogni porta / immette al mare, al campo, all’aria, ogni / tavola è in festa; conchiglie serrate / cui il tempo inutilmente stringe assedio/ svaniti il tempo, i muri / spazio, spazio / apri la mano, cogli la ricchezza, / raccogli i frutti, mangia dalla vita».

Il flusso dell’esistenza, la luce delle lampade, l’inabissarsi della luce nei cerchi di basalto, sono i frammenti musaici di una flessione rigenerativa, in cui l’Amore definisce il passaggio verso una temporalità accesa, una voce nascosta, una suggestione esuberante di immagini.

Sembra quasi che nell’esilio dell’abbraccio degli amanti il tempo si fermi, ceda il passo all’immensità di istante, dilati le sue coltri a un incondizionato bagliore sacro:

«Tutto si trasfigura, tutto è sacro, / il centro della terra è in ogni stanza, / sempre è la prima notte, il primo giorno, / il mondo nasce quando due si baciano. / Amare è lotta, quando due si baciano. / Il mondo cambia, i desideri incarnano, / anche il pensiero incarna, / il mondo cambia / se due si guardano e si riconoscono» perché «Perdiamo i nostri nomi e galleggiamo / Alla deriva tra l’azzurro e il verde, / tempo totale dove nulla accade/ se non il suo trascorrere felice».

Una fusione che chiarifica il ritmo creatore dell’universo, che fonde la percezione di odori, suoni, presenze e gaie prefigurazioni.

La donna di Paz è indistinguibile dal paesaggio che abita, riflette la natura che si sparge sui vestiti, come un trionfo ricolmo di risorse, come una docile festa disinibita e sparsa. È la persona a determinare il passaggio dal sesso all’erotismo: «Senza la fede in un’anima immortale inseparabile da un corpo mortale, non avrebbe potuto nascere l’amore unico né la sua conseguenza: la trasformazione dell’oggetto desiderato in soggetto desiderante. L’amore esige come condizione a priori la nozione di persona, e questa, a sua volta, la nozione di un’anima incarnata in un corpo».

Nella totalità concreta dell’essere si realizza il compimento di una unicità senza fine, protesa alla sua duplice fiamma, alla zona magnetica tra coscienza e realtà.

L’edonismo di Octavio Paz riflette un misticismo naturale che, come scrive Guillermo Sucre, «non cerca di raggiungere nessuna trascendenza ma di riscattare il corpo originario del mondo», poiché, come scrive lo stesso Paz, «La vita non comincia senza il sangue / senza la brace del sacrificio».

Quando la stilla dell’esistenza percorre le innervature, gli addensamenti, per toccare persino l’evaporazione, il debito della parola al silenzio esalta

«il senso dell’assenza, dell’incarnazione del vuoto, innervatura di un ritmo che dalla nascita alla caduta e viceversa dice e disdice la manque di un incontro, e non fusione, atto a provocare anziché l’armonia dei contrari, la loro trasformazione in un corpo altro: quello del testo, de foglio bianco (in, nel, verso il blanco-bersaglio) sul quale il testo inesorabilmente cresce».

Cogliendo i segni del tempo, è possibile rintracciare l’esperienza sovrannaturale, come dimensione originale e originaria dell’esistenza, come trasmutazione di sé: «Le pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento / Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre / Il vento / si avvera con gli orecchi».

Si assiste a una ricerca urgente di identità, per una natura perduta. In uno scandaglio pietrificato e vibrante, egli scopre un ponte nuovo, la «fiamma nera» dell’infinito, la vertigine e lo spasmo cosmici.

La sola parola afferma la rivelazione di un regno perduto, quasi adamitico. Il poeta si innerva in questa origine, in questa co-nascenza, come copula che annulla il potere menzognero del sopruso e della sua traiettoria sanguinosa di ogni esilio.

La percezione si trasforma in concepimento, la creazione che subissa la descrizione, come lo specchio segreto di un mondo invisibile aperto sul visibile. Ecco, quindi, che l’immagine assurge a un ruolo fondamentale e decisivo: essere promemoria della realtà materiale, in un termine momentaneo e passeggero della magia dell’istante al vuoto succedaneo: «L’ora mi innalza / fame d’incarnazione patisce il tempo / Oltre me stesso in qualche luogo attendo il mio arrivo»..

Il culmine della liberazione poetica, come l’uccello astro e serpente precolombiano Quetzalcòatl, erompe  in una realizzazione altra da sé, in una nudità originaria, in una paternità sofferta e vera, in una lingua madre desiderata, per riappropriarsi e salvaguardare la temperie liberatoria: «Mani e coscienza per cogliere il tempo / sono una storia / una memoria che s’inventa / mai sono solo / parlo sempre con te / parli sempre con me / Cammino nel buio e pianto dei segni».

I segni riallacciabili a Fourier, i romantici tedeschi, come Blake, Novalis e Hölderlin, i barocchi e mistici ispanoamericani, vivono nel fuoco dell’atto creativo, come prominenza salvifica di una dicotomia sofferta e viva: la sonorità del silenzio.

Tra patriottismo e ribellione, attività politica e solitudine artistica, Paz compone il suo ritmo errante, la sua dizione priva di confine, il fulcro dialettico di una «disseminazione germinante» (Franco Mogni) che fonda la fede di un tempo puro, per iniziare un nuovo ciclo, per fondere gli opposti di un flusso misterico, in una corrente alternata. Il ritmo e le immagini rivelano il mondo:«Scorpione che si conficca nel mio petto / sigillo di sangue sui miei anni d’uomo».

Scrive Grace Schulman:

«La poesia di Octavio Paz è una questione urgente perché insiste sulla totalità della vita, l’amore, e le nazioni, una unità che solo l’arte può rivelare. E se io ho sempre saputo che la poesia vive su livelli più profondi dell’essere al mondo, mi comanda la voce di Octavio Paz ad ammettere la giustezza di questa conoscenza. Paz vede il mondo che brucia, e sa con chiarezza visionaria che gli opposti si sono risolti in un luogo al di là di contrari, in un momento di pura visione: in quel luogo, non ci sono frontiere tra uomini e donne, vita e morte. Se la sua poesia incarna il viaggio della mente verso la comprensione, il suo viaggio è il mio viaggio, la sua passione, la mia passione… ».

L’erranza di immagini concepisce lo spirito fuori del dramma della vita, tra lo stupore della quiete e le cicatrici del movimento.

Octavio Paz sa bene che quell’uragano che «s’è piantato in mezzo all’anima» esprime tutta la sua realtà corporea, la sua cadenza rituale e l’ascensione di fuoco acqua, terra e fuoco, uniche espressioni di accesso polimorfo alla parola vivente che riemerge dalla cenere, per scaldare la linfa luminosa dell’essere, in un suono primigenio e in un ragionamento irragionevole: «Vita e morte / Saldano in te, signora della notte, / torre di luce, regina dell’alba, / vergine luna, madre d’acqua madre, / corpo del mondo / cado in me stesso e non tocco il mio fondo, / coglimi dai tuoi occhi, unisci polvere / dispersa e riconcilia le mie ceneri».

Paz O., Vento cardinale e altre poesie, a cura di  Franco Mogni, Mondadori, Milano 1998.

Id., La duplice fiamma. Amore ed erotismo, ES, Milano 2006.

Id., Il labirinto della solitudine, Il Saggiatore, Roma 1982.

Addolorato A., La parola danzante. Octavio Paz tra poesia e filosofia, Mimesis, Milano 2000.

Christ R., The Master of Contraries, in «The Nation», 2 agosto 1975.

Gallagher D.P., Octavio Paz, in Modern Latin American Literature, Oxford University Press, Oxford 1973.

Schulman G., Man of two words, in The Hudson review, vol. xxvii, n. 3, Autunno, 1974.

Sucre G., Paz: la vivacidad, la trasparencia, in La máscara, la trasparencia, Monte Avila, Caracas 1975.

L’orlo di Sylvia Plath

di Andrea Galgano                                                                          Prato, 17 marzo 2013

POESIA CONTEMPORANEA

short link, L’ORLO DI SYLVIA PLATH PDF

L’orlo di Sylvia Plath / Poesia di Luigia Sorrentino, poesia.blog.rainews.it/

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L’11 febbraio 1963, Sylvia Plath (1932-1963) decise di togliersi la vita. Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi, perse il padre, un professore di biologia e entomologo per embolia a soli otto anni e già nel 1953, prima di laurearsi brillantemente con una tesi su Dostoevskij e dopo una eccezionale carriera scolastica, era stata sottoposta a un ciclo di elettroshock dopo aver tentato il suicidio.

In seguito descrisse questa crisi nel romanzo La campana di vetro (1953) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, la cui protagonista, Ester Greenwood, straordinaria studentessa, non ancora ventenne, dello Smith College fa praticantato, a New York presso una rivista di moda femminile. Nel corso della narrazione si scopre che Esther ha una madre vedova e una storia d’amore agli sgoccioli con Buddy, diplomato a Yale e futuro medico.

Lo scontro tra l’afa newyorkese, nonostante la scintillante promessa di vita e la convenzione sociale, rivela il dramma di una mancata integrazione sociale e di un margine di esistenza.

Dopo la laurea, Sylvia ottenne una borsa di studio Fulbright per l’Università di Cambridge, continuando a scrivere poesia e a pubblicare presso giornali e riviste. A Cambridge conobbe il poeta Ted Hughes, che sposò nel 1956, andando a vivere successivamente negli Stati Uniti (insegnò allo Smith College e poi conobbe Robert Lowell), ma dal quale dovette separarsi, dopo che venne a sapere che lui era innamorato di un’amica comune, Assia Wevill, e dopo la nascita del secondo figlio. Sylvia ritornò a Londra con i suoi due figli e affittò lì un appartamento.

L’11 febbraio del ’63 Sylvia Plath si tolse la vita. Mise la testa nel forno a gas di casa, dopo aver scritto la sua ultima poesia Orlo, morendo all’età di trent’anni.

La tragedia e il dramma della sua esistenza, sulla quale è appena uscita un’interessante monografia, presso Castelvecchi, di Linda Wagner-Martin dal titolo Sylvia Plath, ha portato spesso l’attenzione della critica alla lettura della sua opera, in chiave sostanzialmente autobiografica, divenendo persino una figura di culto.

Il vortice fisso del suo grido, il suo bruciante percorso interiore, la frattura con la realtà, affermata, negata e colta appieno, con la sua sanguinante frattura e lacerata suggestione, avverte il dramma e lo spaesamento di un’autonomia, senza cercare riferimenti, seppur presenti e accesi, alla sua vita privata.

È necessario leggere la sua opera, non solo come zampillio fluttuante di estasi, entusiasmo e lacerazione di vita, ma prestando attenzione alla parola scritta, alla sua imponente forza espressiva che si intesse sì di vissuto e esperienza tragica, ma che porta con sé la corrosione di una sproporzione, di una domanda, di un parto espressivo.

La descrisse bene Giovanni Giudici: “L’altro equivoco è quello indotto dalla coincidenza fra taluni aspetti della biografia plathiana (il caparbio impegno contro le difficoltà di un’affermazione prima universitaria e poi letteraria, la lucida coscienza di una distorta interpretazione della femminilità nel quadro del costume vigente e le quotidiane frustrazioni della donna che deve conciliare lo scriver versi con le sue incombenze domestiche e di madre) e i corrispondenti temi dei vari movimenti di liberazione femminile; equivoco che forse avrà fatto andare a ruba il disco delle poesie dette dalla voce dell’autrice, ma che nello stesso tempo ha rischiato e forse rischia tutt’ora di umiliarne la statura al livello della più scontata confessional poetry…”

Come scrive in un lucidissimo articolo apparso il 15 marzo 2013 su «Avvenire», Maurizio Cucchi: “E i testi di Sylvia Plath ci coinvolgono anche se, paradossalmente, ci estraniamo dalla vicenda umana da cui sono sgorgati. E per almeno due ragioni. La prima è nella grande disciplina stilistica, nel rigore della scrittura che in lei si evidenzia fin dalle prove giovanili, e che ne sorregge sempre la tenuta. La seconda è nella potente visionarietà, nella concretezza densissima della sua parola e delle immagini che sa produrre, come un vero e proprio inarrestabile gettito di figure e situazioni”.

Seamus Heaney scrive che Sylvia Plath è “un poeta che crebbe fino al punto di permettersi l’identificazione con l’oracolo e si concesse come veicolo di possessione; un poeta che cercò e trovò uno stile di discorso immediato, animato dai toni di una voce che parla con concitazione e spontaneità; un poeta governato dalla immaginazione auditiva al punto che il suo congedo dalla vita consistette nell’annullare il sé in parole ed echi”: «Anni dopo/ le incontro per strada – / parole aride e senza cavaliere, / battito di zoccoli incessante. / Mentre/ dal fondo dello stagno stelle fisse/ governano una vita».

La libertà e la perentorietà di questi versi permettono, come ha giustamente notato Judith Kroll, una totale identificazione dell’io autobiografico. Ma la rarefazione non concede l’ordine e la classificazione di maniera, restituendo allo sguardo una dilatazione e un passo, che partendo dallo spazio interiore, dilata la sua luce, il suo solco e lo sfogo crudo e febbrile, come lei stessa scrive in questa lettera: «Ogni mattina, quando il sonnifero smette di fare effetto, sono in piedi verso le 5, nello studio col caffè, e scrivo come una pazza: sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita della casalinga mi avesse soffocata».

La sferzata febbrile nasconde margini di cicatrice. Una poesia data, rapida, fulminea. Essa colora lo sfondo di un’immagine metamorfica ed estrema, con la potenza associativa di elementi vicini, stridenti, persino estremi.

L’impulso poetico di Sylvia Plath è una rabbiosa consapevolezza di tenebra, una confidenza di euforia che soffre e che tenta, senza esitazione, di mettersi in ascolto del mondo, percependolo fisicamente e coniugando la versatile potenza espressiva con la realizzazione, estrema, beffarda e sognante di sé. Il sé che può divenire clausura, come cifra personale e tremore nascosto, espresso in  un trasloco aggressivo, come annota Joyce Carol Oates: “A Sylvia Plath non piacevano gli altri; come molti perseguitati, si identificava in modo perverso con i suoi persecutori, anziché con loro che, al pari di lei, erano vittime. Ma non le piacevano gli altri perché fondamentalmente non credeva che esistessero; era razionalmente consapevole della loro esistenza, è ovvio, in quanto avevano il potere di farle del male, ma non credeva che esistessero nella stessa forma in cui esisteva lei, ovvero come individui in carne e ossa, capaci di soffrire”.

L’intonazione, come sibilo di stanze, «litania di sogni, di indicazioni e imperativi», presente in The Colossus, accenna il fervido immaginale di un antico suono lucido di ordine, come annota nei suoi Diari: « La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?»

Esiste sempre un orlo di chiusure al suo passaggio, a quel diluvio ondivago di parole che toccano, febbrilmente, il piano poetico, abitato da un grido e da un bisogno forte di amore, di salvezza che raccolga il pulsare ondoso e ventoso della risacca.

I suoi passaggi non temono cambiamenti di rotta dalla viscosità fangosa e torbida, il suo cielo si apre a un disperato tentativo di muoversi dal limbo escluso e staccato, al tempo dell’attesa, all’esplorazione di una identità vitale che distolga l’io dalla confusione scivolosa della distruzione  e della morte.

Si leggano i primi versi di Olmo che delineano un destino di sogno e di visione: «Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura./ Io non ne ho paura: ci sono stata».

Il fondo di Sylvia Plath è un intaglio di ombre, come l’eco nero finale e profondo di un passaggio da combattere, ed è respiro di una preveggenza libera: «Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo», perché «E io / sono la freccia, // la rugiada che vola/ suicida, fatta una con lo slancio/ dentro l’occhio/ scarlatto, il crogiolo del mattino».

L’accesso ai suoi luoghi rappresentano il battito e il respiro di un movimento libero e intenso, di una voce di ombra che interviene, raccoglie i vetri, racchiude la più profonda sofferenza, per tramutarla nell’ascolto di un esilio estraneo: «è il mare che senti in me, / le sue insoddisfazioni?/ o la voce del nulla, che era la tua pazzia?// L’amore è un’ombra./ Come lo insegui con menzogne e pianti. / Ascolta: ecco i suoi zoccoli: se n’è andato, come un cavallo».

L’intreccio fantastico si accompagna alla coscienza che si esprime, alla voce che si trasforma, all’intensificarsi di una vertigine di tramonti: «Ho patito l’atrocità dei tramonti./ Bruciati fino alla radice/ i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro».

Robert Lowell, nella prefazione ad Ariel, scrive: “è straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath è nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non è mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, seguì il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama (…) In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, non un individuo, nè una donna, nè certo un’altra ‘poetessa’, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche. (…) Tutto in queste poesie è personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire è una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre. Brucia dall’ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell’ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghiacciante nella sua ambiguità virile, ma per la verità Ariel è qui il cavallo dell’autrice. Pericolosa, più potente dell’uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l’altro ostacoli di morte. (….) Ma quanto vi è in lei di più eroico non è la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco modesto, femminile”.

L’enigma e il naufragio colpiscono come un ricordo, “suono e senso si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere” (Seamus Heaney), il limite di un’assolutezza che si spinge fino all’estremo per tentare l’abbandono del ritrovo, per percorrere il cuore di Dio, visto solo idealmente, per ritrovare l’impolverata figura paterna e compiere il corpo, renderlo reliquia, traboccare in un fondale di rivelazioni: «C’è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l’altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos’è la vita». Nel tentativo beffardo e consolatorio, il tocco del dono e della mediazione con la realtà risulta mancante. Intravvede solo squarci di divino nella quotidianità come un attracco forte e sicuro, che però la uccide e la soffoca.

La radice di questa assenza si rintraccia nell’infanzia, Sylvia sente il richiamo fragile della vita, ma non ha l’equilibrio per poterla affrontare adeguatamente.

L’intensità del rapporto con la figura paterna, morta quando lei aveva otto anni, ha significato il bisogno inesausto di avere un ‘porto’ di riferimento grande, forte e capace di salvarla.

I sentimenti che oscillano da una frustrazione, alla sottomissione filiale fino a una nostalgica contemplazione, lasciano lo spazio al disincanto rassegnato: «Di notte mi accoccolo nella cornucopia/ del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento,//E conto le stelle rosse e
quelle color prugna./Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua./Le mie ore sono sposate all’ombra./Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/ sulle pietre nude dell’approdo.». Se suo marito Ted Hughes ha sostituito la figura paterna come presenza maschile, il terrore dei suoi tradimenti rappresenta la eco di un fratturato rapporto familiare.

Anche Dio traspare da un’ossessione (non bastando l’ateismo dichiarato), e la propulsione di una domanda si distende verso Colui che ricerca e trova, poi perde, come descrive in Mistica:«L’aria è un mulino di uncini – / domande senza risposta, / luccicanti e ubriache come mosche/ il cui bacio punge insopportabilmente/ nei fetidi ventri d’aria nera sotto i pini d’estate. // Ricordo/ l’odore morto del sole sugli chalet di legno/ la rigidità delle vele, i lunghi sudari di sale./ quando si è visto Dio, qual è il rimedio? Quando si è stati afferrati e sollevati// senza che una sola parte sia tralasciata, /non un dito, non un capello, e usati, / usati fino in fondo, nelle conflagrazioni del sole, nelle macchie/che si allungano da antiche cattedrali/ qual è il rimedio?».

Come scrive in un bellissimo raffronto tra la Plath e Anne Sexton, Loredana Buccoliero: “La domanda è se dopo l’estasi si possa solo ricorrere a deboli rituali, incapaci di ricrearla, o alla memoria incapace di rievocarla: in ogni caso l’immediatezza dell’esperienza e la sua verità svaniscono e l’unione statica con Dio scema nella tenerezza.  Negli ultimi mesi della sua vita Sylvia è completamente sola, abbandonata, costretta alla vita domestica, «gli dei», bestemmia, «conoscono soltanto destinazioni». (…) Ted Hughes racconta che diverse volte nelle ultime due o tre settimane di vita dice cose come: «Ho visto Dio che continua a raccogliermi da terra» e «Sono piena di Dio». Ma in Years il Dio della Plath è vuoto, amnesia, indifferenza e lei non ha più parole da rivolgergli”.

La spasmodica ricerca di un amore protettivo e senza limiti, di un’accettazione e di un abbraccio sempiterni, quando si interrompono e terminano il dialogo, lasciano serpeggiare la consueta e intima necessità di morte.

Quando incontra l’amore, il Colosso della sua vita, nelle fattezze di Ted Hughes, tutto sembra dare risposta al bisogno ineffabile e inesausto di compimento. Si sbriciolerà tutto presto, dimostrando la debolezza di un tradimento.

Sylvia canta lo strazio di un abbandono che somma ferite e apre cicatrici mai risposte, toccando la verità dell’esistere, il limite e il conflitto: «Il significato cola dalle molecole/ I camini della città respirano, la finestra suda,/ i bambini saltano nei loro lettini./ Il sole fiorisce, è un geranio.// Il cuore non si è arrestato». Il significato deve colare dalle molecole, solo così anche il sole può fiorire.

Dal suo trauma e dalla sua notte fiorisce ed emerge il vincolo furente della sua poesia, «una specie di miracolo ambulante». Il desiderio di rinascita, espresso nella ricolma Lady Lazarus, afferma o meglio sembra affermare, nel suo messaggio estremo un groviglio di resurrezione e una membrana di aiuto. Quando si tolse la vita sigillò porte e si lasciò morire nel forno a gas, dopo aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini, affermando l’infinitesimo baluginio di una continuazione e di un respiro verso un approdo che abbia il volto di pace e di guida di mani.

 

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini

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