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Mark Strand. L’assenza e l’ombra

di Andrea Galgano             18 giugno 2014*

mark-strand-timothy-greenfield-sandersAver amato come accade nelle ore vuote del tardo pomeriggio; lasciarsi andare e concepire un viaggio che alle spalle non lascia traccia di se stesso; affacciarsi dalla casa e vedere una figura che si piega in avanti come per opporsi al vento anche se non c’è vento; vedere i cappelli della gente in paese, gettati via in momenti di passione, sparsi per terra anche se la terra non la si può vedere. Tutto ciò nella vaga luce che ingiallisce, che si fa fioca nell’ora che precede il buio; niente di questo ha valore se non per il piacere che produce, ingigantendo un istante e in fin dei conti facendolo apparire come se fosse vero. E anni dopo imbattersi nella stessa scena — la figura che si piega allo stesso vento, gli stessi cappelli sparsi sulla stessa terra che non si può vedere.

Scrive così il poeta americano Mark Strand (1934), di origini canadesi, nel suo ultimo fulminante libro di prose dal titolo Almost invisible (2012), ora in Italia con il titolo Quasi invisibile (2014) e con la traduzione di Damiano Abeni.

Questo passaggio reca luce non solo sull’immagine modellata come un fascio di passaggi e paesaggi, ma anche sull’essen–zialità delle situazioni, degli oggetti e focus di sguardo e visione:

«Poiché abbiamo attraversato il fiume e il vento offre soltanto un torpido sdipanarsi di freddo cui ci siamo adattati con mansuetudine, senza più aspettarci altro oltre a ciò che ci è stato dato, e senza più chiederci com’è che siamo arrivati in questo luogo, non ci dispiace affatto che niente sia andato come avevamo sperato. Non c’è modo di dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così profondamente distante» (Nasconditi la faccia tra le mani).

Il minimale barbaglio della sua concretezza dilata contorni, si appropria del tempo viaggiante e labile del ricordo e del sogno, diventa disparità di luogo e contorno:

Cara Henrietta, visto che sei stata tanto gentile da chiedermi perché non scrivo più, farò del mio meglio per risponderti. Ai vecchi tempi, i miei pensieri sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della consapevolezza e io li trascrivevo, e pagina dopo pagina risplendeva di una luce che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia contentezza (Una lettera da Tegucigalpa).

Oppure nel Notturno del poeta che amava la luna, la sostanziale affermazione della poesia si ferma come una ferita che sollecita il tempo, affabile e consunta, che tende alla «congiunzione luminosa di niente e tutto»:

Mi sono stancato della luna, stancato di quell’aria attonita, del ghiaccio azzurro del suo sguardo, dei suoi arrivi e delle sue partenze, del modo in cui avviluppa amanti e solitari sotto le sue ali invisibili, senza saperli distinguere. Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato. Lasciamo che la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è nemmeno un tavolo.

Pertanto, Mark Strand, come si legge nella nota di copertina del testo: «agisce con ironia spesso anche beffarda, esprime una sorta di insoddisfazione quieta eppure dominante, pervasiva, che coinvolge un’ampia serie di personaggi: un banchiere, un ministro della Cultura, un viaggiatore, il padrone di una grande villa e tanti altri, tutti collocati in situazioni ambientali particolari, come fossero elementi dei più disparati luoghi e paesaggi».

È la sospensione della storia, impastata di effimero ed eterno a colpire il suo occhio vigile, come accade ne Gli studiosi dell’ineffabile: «[…] Avevo affittato una casa sul mare. Ogni sera sedevo in veranda e mi auguravo di provare un’ondata di sentimento, un flusso di suono infuocato che mi portasse lontano da tutto ciò che avessi mai conosciuto. Ma una sera salii la collina alle spalle della casa e dall’alto contemplai una stradina serrata dove fui sorpreso di vedere lunghe file di persone che si trascinavano in lontananza», la loro opera, infatti, «ha a che fare con il sè».

Nonostante la polvere del loro cammino veli il cielo, uno di questi “camminatori” risponde all’obiezione del poeta: «siamo solo di passaggio, le stelle torneranno».

L’ansia di Strand non si attesta, quindi, solo sul valore ineffabile della poesia, sulla sua permeabilità quasi invisibile, ma sul valore prettamente conoscitivo ed esperienziale che egli chiama «firelit stream of sound» che porta in grembo la ruvidezza dell’inquietudine e del mistero, come una sorta di infinitesima resistenza che tiene.

È un suono profanato che compie la sua ferita nelle cicatrici e indossa l’estate fuggevole, per fermarlo, assisterlo, improntarlo. In Il desiderio del ministro della Cultura  viene esaudito, il suo burocrate «rientra a casa dopo una giornata estenuante in ufficio. Si sdraia sul letto e cerca di non pensare a niente, ma non accade niente o, per essere più precisi, il niente non accade».

Ma in questa propagazione di tenebra e chiarezza futile, egli è paziente, «e pian piano le cose scivolano via – le pareti di casa, il parco al di là della strada, gli amici nella città vicina» e la permanenza del buio, del vuoto e del nulla si affermano in una sorta di amaro divertissement, di ironia sagace e di piacevole contraddizione.

L’incompiutezza è l’abbozzo di una sospensione che attende, protesa, l’ineffabilità di un pronunciamento, il suggerimento di una porta aperta sull’inconoscibile. Il lettore, pertanto, diventa il protagonista di questa sospensione, prossima a dissolversi, ma in tempo per centrare l’andatura dell’essere, come un tramonto spossato o una storia assurda.

In un articolo su “Il Manifesto”del 15 giugno 2014, dal titolo Mark Strand: aspetta, silenzio, Caterina Ricciardi scrive:

Rispetto alle ultime rac­colte (dia­lo­gate per lo più con il per­so­nag­gio «Morte»), la ricerca poetico-esistenziale di Strand con­ti­nua in tale dire­zione ma in ter­mini sem­pre più bril­lanti nell’impiego vir­tuo­si­stico di un wit, un’arguzia, agghiac­ciante. Di fronte alla com­me­dia dell’assurdo che è l’esistere nel mondo, e nel mondo di oggi, il poeta, che corag­gio­sa­mente discende nei sot­to­suoli dell’anima e del reale, non è affatto ras­se­gnato a farsi fer­mare da un silen­zio bec­ket­tiano. L’intento è quello di inter­ro­gare entità inco­no­sci­bili, aprire porte proi­bite, come fecero altri in altri tempi e con altre alle­go­rie, e altri intenti, incluso quello di ritor­nare a rive­dere la luce. L’accostamento non è azzar­dato: le bufere infer­nali fla­gel­lano anche i suoi ‘dan­nati’.

Strand mette in scena il suggello di un’epica sparita e sparsa, abitata dalla moltitudine delle identità e dalla sottigliezza dell’invisibile che instaura un lungo processo meditativo irrisolto che indaga la condizione umana e cerca la salvezza fissata, il punto denso, l’istante che si sporge sul vuoto e, come annota ancora la Ricciardi, mira

alla scan­sione in gal­le­ria di una suc­ces­sione di tableaux vivant, riqua­dri (anche tipo­gra­fici) ani­mati da una consorteria di per­so­naggi, per lo più appar­te­nenti a un’estenuata classe bor­ghese (un ban­chiere, un mini­stro della cul­tura, un gior­na­li­sta, un io qua­lun­que), per­so­naggi appa­ren­te­mente nor­mali e tut­ta­via ritratti alle prese con situa­zioni biz­zarre in nudi interni (una camera da letto, un bor­dello, un castello, un bou­doir matri­mo­niale) o, più spesso, in pae­saggi esterni ino­spi­tali, algidi spec­chi alla Magritte, iper­rea­li­stici e al con­tempo inson­da­bili e miste­riosi. In que­sti cro­no­to­poi del nulla il sog­getto osserva il pro­prio azzeramento nel mondo, oppure, nell’evitarlo, si lascia tra­sci­nare da un incontrolla­bile impulso verso un viag­gio non si sa mai da quale e in quale dire­zione, un viag­gio nell’ignoto che non sem­bra pre­ve­dere arrivi.

Premio MacArthur Fllowship, Pulitzer nel 1999 e poeta laureato, Strand è espressione di un gesto poetico che stanzia i suoi confini tra gli eccessi di presagio e luce (omens of the end), laddove l’aneddoto biografico, la dedica, le immersioni nel buio, manifestano la tensione verso una strana disarmonia e una caccia di istanti:

Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine, / guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà / quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine, / o cosa spererà una volta capito che non tornerà più. / Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto, / quando il tramonto che incendia il prato e la luna piena che lo gela / non compariranno più, non ogni uomo sa cosa invece scoprirà (The End).

Attraverso un’istanza con forte eco leopardiana, egli va a caccia delle ombre, delle assenze riformulate, delle confessioni pastorali che dissolvono i nastri temporali e le dislocazioni di identità e di memoria: «Il sole che cala. I prati in fiamme. / Il giorno perso, la luce persa. / Perché amo quel che svanisce?» (The Guardian).

La sua confessione si richiama alla classicità accesa di Teocrito prima e di Virgilio e Ovidio poi, frequenta certa poesia accesa del ‘600, affermando la sua illuminazione e il suo tracciato antimimetico.

È come se il paesaggio della sua anima manifestasse e dichiarasse apertamente una esclusione, una evanescenza vibrante, come scrive Luigi Sampietro su “Il sole 24ore” del 17 luglio 2011, in una interessantissima recensione alle poesie di Strand, apparse qualche anno fa per Mondadori: «è un detective metafisico che si sofferma sulle tracce di chi — o di ciò– che ora, qui, è assente e non si vede, ma che deve pur esserci o esserci stato. V’è un lato enigmatico, per non dire enigmistico — oltre che, ben inteso, umoristico, — in taluni momenti della sua poesia».

I suoi paesaggi e i suoi spazi, come i campi, i panorami e diorami marittimi e montani, rivelano una struttura compositiva sommersa e racchiusa in un punto di fuga che consuma il destino delle scene e degli attori della sua pagina, in cui si fondono la malinconia irreversibile delle cose perdute, l’ironia e la narrazione comico–surreale: «Da qui sgorga la poesia: abitiamo in un posto / che non è nostro, e, soprattutto, non è noi».

Ecco l’esito di una via vera e reale, lo spiraglio del cielo aperto. L’esclusione e l’assenza riflettono il moto umano del lutto battente e di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, come «i colori che svaporano» e attendono il breve solco della slabbratura della grazia: «In un campo / io sono l’assenza / del campo. / È / sempre così».

L’assenza che si fa prospettiva, come l’avvenimento dei quadri Edward Hopper o le incisioni di M.C. Escher, grande incisore olandese di distorsioni e prospettive, colorano un’illusione che permette la dilatazione dello sguardo e il rovescio della sua avventura: «l’amore che arriva, / la luce che viene. / Ti svegli e le candele entrano a fiotti nel cuscino, / sprigionano caldi bouquet d’aria. / Perfino così tardi gli ossi del tempo splendono / e la polvere del domani s’incendia in respiro».

La tonalità di ombra con cui il malessere e il dolore si schierano, trova solo in una fissità di sponda derisa e mutata, la sua figura agganciata e prossima che «data l’impalpabilità e la sostanza cinerea di fatti e oggetti e desideri lasciati puntualmente fluire, non gli è possibile nascondere un sorriso (ora amato ora distaccato) quando accade che una qualsiasi “situazione compiuta” presuma di stagliarsi e di durare». (Marco Giovenale, in «Poesia», marzo 2005)

Scrive Rosanna Warren:

il protagonista di Strand è un “io”, un personaggio che si sottrae al paesaggio. È una poesia semplice come un teorema, eppure inesauribilmente misteriosa. Come interpretare la reiterata auto asserzione […] che cancella il sé? Forse l’“io” è incorporeo come l’aria di cui prende il posto […] nel suo connubio di astrazione filosofica e linguaggio americano contemporaneo, il poema modula e incarna la riduzione che onora, spostandosi da un “campo” a “campo”, operando espansioni e contrazioni minime alla lunghezza dei versi e consegnando il proprio vuoto all’aria, perché lo riempia dopo ogni strofa.

La natura mitologica del suo pensiero rivela il rovescio che abita lo spazio poetico del simbolo, giacendo nella separazione, come l’io che rinuncia, uscendo da sé e fermandosi sui detriti di ciò che resta: «Mi svuoto dei nomi degli altri. / Mi svuoto le tasche. / Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada», o ancora «Adagio esco ballando dalla cassa in fiamme della mia testa. / E chi non è nato e rinato di continuo in paradiso?».

L’io, che sta «diventando orizzonte» e invoca an island in the dark, solca il suo respiro tormentato e spezzato, come un rito di assenze tremanti e di “sereniani” vuoti radiosi: «lei guardava fisso… / non me, ma oltre me, uno spazio / che poteva essere colmato da qualcuno / che ancora doveva arrivare». (Specchio)

La realtà, collocata sulle impronte sparse del metafisico, regola il tempo che sfugge ai suoi contorni definiti e definibili, e rende il suo magma ipnotico, diretto, fortemente evocativo, come il tramonto, ora della doppia luce e ingresso calmo e lento al buio inevitabile e dissolto: «l’oscurità si fa desiderio, / quando non v’è nulla che non aneli nascere; / i giorni in cui il destino del presente è pienezza di brezza».

L’evocazione è vigoria di respiro e eco quasi kafkiano, arroventato e perduto; respiro cosmico e malinconia di circonferenze espressive, che mostrano la loro ambiguità e la loro caduta, in un tragitto metafisico, nello spazio quintessenziato:

Dove stava scritto che una sera così si sarebbe dispiegata, / oscuramente incidendosi ovunque, o per quel che importa, dove / stava scritto che io sarei rinato di continuo in me stesso, / come sto facendo perfino ora, come ogni cosa in questo attimo, / e avrei sentito la caduta della carne nel tempo, e l’avrei sentita volgersi / silenziosamente, adagio, come se stesse rimettendosi nel verso giusto?.

La connotazione orfica del paesaggio strandiano è capace di soffermarsi sul crinale di un confine, lo abita, sostituisce le ombre con il vertice della descrizione di senso e dell’avamposto delle parole strenui, con il colloquio con un elemento che risplende: «descrivere gli occhi di lei, / la fronte su cui si stendeva la luce d’oro della sera, / la curva del collo, il declivio delle spalle, ogni parte / fino giù alle cosce, ai polpacci, lasciando sgorgare le parole, come suscitate dal sonno, controcorrente, alla deriva, / contro il volere dell’acqua, dove ogni affaticarsi / condannato e futile».

Il paesaggio insegue la sua perdita e cerca la poesia che compie il suo atto vivente e il suo sacrificio nella prospettiva dell’azione: incorporea, evanescente, scomparsa e abdicata: «la storia della fine, dell’ultima parola / della fine, quando narrata, è storia senza fine».

In un’intervista di Luigia Sorrentino, Strand sostiene non solo l’indefinibilità della sua poesia ma anche il singolare pronunciamento, persino comico, dell’opera nel suo compiersi:

Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte. […]

Nella estemporaneità lirica il fasto della poesia coglie la grazia di un’altezza splendida, promuove il canto estraneo delle cose, ma non si annulla, anzi rinviene i processi della sua nascita, in un vocabolario di brume e venti notturni, nell’estrema visione mistica delle luci lunari disilluse: «venne in una lingua / non sfiorata dalla pietà, in versi, oscuri e fastosi, / in cui la morte è rinata e inviata nel mondo come dono, / così che il futuro, privo di voce propria e di speranza».

In una intervista rilasciata a Laura Lilli su “la Repubblica” del 12 luglio 2007, Strand riferendosi a quel «luogo di perpetuo inizio che in sé contiene / ciò che mai occhio ha visto, mai orecchio ha udito, mano / mai ha toccato, ciò che mai è nato in cuore d’uomo», afferma la sostanziale potenza della poesia in un luogo terrestre non soggetto a giurisdizione, a cui il poeta si inchina, consacrandolo, nella sua caducità frammentata.

Altrove su “Il sole 24ore” del 3 luglio 2011, con un elzeviro dal titolo Ritrovarsi sull’isola dei poeti, egli scrive:

È una cosa curiosa: la vita che conduciamo ci consente solo di rado di fermarci a riflettere su ciò che abita nel nostro corpo e, di conseguenza, possiamo diventare così estraniati da noi stessi da aver poi bisogno della poesia per ricordarci che cosa si prova a esser vivi. La nostra abitudine a pensarci in relazione agli altri e a giudicarci in base a come agiamo in un contesto sociale ci rende più vicini allo spirito della narrativa: il comportamento esteriore è più facile da osservare, può essere percepito immediatamente, ed è quindi più semplice giudicarlo. […]

Una poesia, tuttavia, avrà necessariamente un’esistenza nel tempo, se non altro per il modo in cui si relaziona alle opere precedenti, assieme alle quali viene a formare un lungo specchio ininterrotto che, nel fluire dei secoli, ritrae la soggettività umana. È curioso notare come i sentimenti, pur accompagnandoci sempre, siano così difficili da cogliere da sembrare qualcosa di effimero. In genere vi prestiamo attenzione quando si fanno avanti con impellenza, nei momenti critici, quando è più forte l’esperienza della perdita: durante una separazione, per esempio, o in seguito alla morte di una persona cara. È allora che ci rivolgiamo alla poesia perché ci dica quali sono i nostri sentimenti, per mettere in parole ciò che supera la nostra capacità di articolazione. Inoltre, la poesia ha la capacità di conservare il senso di urgenza di tali momenti, permettendoci di riviverli più e più volte: anche quando una poesia è incentrata sulla perdita, il suo scopo è quello di conservare, di trattenere. Vogliamo serbare ciò che sentiamo nel profondo ma in un modo tale da trasformarlo in piacere.

La sintassi, come la sua anima percorre il mito e le sue istanze, il corpo della poesia con il vagabondaggio offuscato che avviene, come un passo disilluso e mortale davanti al buio.

leggi in word Mark Strand. L’assenza e l’ombra

*versione ampliata di Mark Strand. L’assenza e l’ombra in GALGANO A., Mosaico, Aracne, Roma 2013, pp. 453-58.

Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

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Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

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Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014  

 

Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

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L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

tersamorte1MARIO BENEDETTI, Tersa morte

Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.  

 

Il posto di Jorie Graham

di Andrea Galgano             27 marzo 2014

recensioni Il posto di Jorie Graham

sul sito della poetessa nella Bibliografia ufficiale  http://www.joriegraham.com/bibliography

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Si chiama Il posto (Mondadori 2014), la nuova raccolta di Jorie Graham (1950), una delle più alte voci della poesia americana. Dopo la scelta antologica, edita qualche anno fa da Sossella, L’angelo custode della piccola utopia, ci giunge questo testo di scheggia e potenza, acutamente tradotto da Antonella Francini.

Premio Pulitzer nel 1996, dal 1997 al 2003 Chancellor of the Academy of American Poets e premio Nonino 2013, per aver «intarsiato i suoi versi sul mito, sulle dicotomie e polarità dell’esistere, scandagliando e sperimentando profondamente tutte le sensazioni della poesia […] dove la parola ritrova la sua eticità e spiritualità tendendo all’infinito», Jorie Graham è nata a New York nel 1950, ha vissuto fino ai diciotto anni a Roma (e il suo iter sembra attestarsi su Pavese. Montale e prima Petrarca) e ha studiato sociologia a Parigi, prima di terminare la sua formazione negli Stati Uniti, dove oggi insegna, ad Harvard, retorica e oratoria.

L’eidetica di Jorie Graham, quasi di neoavanguardia, «[…] ci fa entrare nella forza magmatica della poesia, la sua capacità di testimoniare l’umanità, di risvegliare la mente attraverso i sensi, le presenze vitali del mondo, una «fiumana di sangue» che procede attraverso un deserto. In una fusione coinvolgente di musicalità poematica e densità narrativa» (Bianca Garavelli, da “Avvenire”, 17 marzo 2014).

Ed ecco che i sintagmi intessuti nella pagina acquistano una scaturigine di terra e ferita, il conflitto (persino quello sociale) e la gioia, il crampo del cuore, il tocco, il registro e la trascrizione dell’atto del reale.

È l’inatteso, il blocco superno della realtà che reclama il suo posto, lo spazio di scoperta del mistero che incide l’inconoscibile, che si appropria dell’amore, del tempo presente dilatato e dell’immaginazione: «E vento accolto dal velo d’acqua. / Guarda: l’accoglienza ha una forma […] Ogni cosa nel sole / improvvisa a ritroso, / buttando giù frasi veloci e nervose […] ogni cosa nel sole che tenta d’incarnarsi attraverso qualcos’altro […] Certo il futuro / un tempo non era affatto là […] Parla della lunga catena a ritroso / all’inizio del “mondo” (come lo chiama) e poi, infine, al grande non / inizio. Sento il no iniziare. / Il seguito ronza leggero intorno a me, / cancella le mie impronte», […] Canta dice l’acqua che ripiomba su acqua più ferma – che scorre dove l’altra si rompe. Cantami / qualcosa (il suono del rompersi basso dell’onda) / (gli accordi dove laggiù deposita materia di vita / sulla rampa di spiaggia) (anche la molteplicità / di profondità e rivestimenti dove sorge la chiarezza come una moltitudine) / (mentre l’onda s’abbatte sul suo frangente) / (per squarciarsi all’unisono) (sul suo rifrangersi) – / canta qualcosa, e cantando dissenti».

La poesia di Jorie Graham  chiede un atto ineffabile, evita di dissotterrare la nostra messa in gioco, invita a rischiare la parola per recuperarla nei fondi, non concedendo distrazioni.

E la parola, scomposta, segmentata e frammentata richiede il suo posto, per inebriarsi di mistero, stare dietro la luce del giorno che «sussulta / dietro di noi / ed è un tesoro immenso per esempio oggi / un uomo a cavallo galoppava / leggero su Omaha / sopra la mia spalla sinistra / giungendo veloce ma / leggero e inaudito finchè non mi sono voltata / senza un motivo / come se ciò ch’è dietro di noi / avesse sussurrato / cosa posso fare per te oggi e io mi fossi appena / voltata a / rispondere e la risposta alla mia / risposta scaturisse dalla battigia nell’ultimo sole in cui lui /loro stavano entrando».  

Il respiro precede così l’incedere del verso e il battito, incalzante e vivido, implora la sua esplorazione, quasi che l’istante proclamasse la sua densità e l’immagine si imporporasse di suoni.

Claudio Magris, in un articolo sul “Corriere della Sera” del 20 gennaio 2013, dal titolo La poesia ricuce il mondo, scrive:

«La sua lirica cattura una totalità mossa, spezzata, mutevole, imprevedibile, multipla e simultanea, che il suo verso epicamente lungo e digressivo o concentrato ed essenziale come quello di un haiku coglie con bruciante verità. La sua totalità comprende l’individuo – i suoi sentimenti, passioni, smarrimenti – ma anche la specie e l’incertezza radicale del suo, del nostro futuro. La sua opera esprime una radicale verità della nostra condizione, la vigilia di un ignoto e sconvolgente cambiamento: la possibile – concretamente possibile – assenza di futuro, la morte della nostra specie o una trasformazione tale da renderla non più umana, da aprire l’era del non-umano. […] Il tempo geologico è tanto più grande di quello storico, ma forse il tempo non c’è, non esiste, perchè nel ticchettio dell’orologio non c’è niente, solo un secondo in cui non può esistere nulla e lo spazio fra un secondo e l’altro in cui egualmente non può accadere nulla, eppure la poesia va alla ricerca di questo tempo e di ciò che esso (forse) contiene; ascolta gli uomini, ma anche la foglia, lo scirocco, il cristallo come le vicende d’amore, gli eventi storici e quelli mai es empre esistiti del mito, «il bagliore che assomiglia allo svanire», perchè ogni Io ha dentro di sè il suo «animale morente». La sua Euridice, come quella che ho cercato di rappresentare anch’io, desidera sparire in quello sguardo di Orfeo che si volta».

Il posto, pertanto, è l’osservazione avventurosa del mondo, il gemito del creato, che, anche quando sembra superfluo, si intride di rivelazione, come scrive in Cagnes sur mer 1950: «Sono l’unica a ricordare / la voce di mie madre nell’ombra particolare / dell’arco romano ricolmo di cielo / che oscura le pietre sulla strada in discesa / da dove lei ora risale all’improvviso. / Come l’arco, la voce e l’ombra / violentemente afferrano il piccolo triangolo / della mia anima, un film muto dove note di piano / diventano un corpo impazzito / per le immagini squillanti dello spirito – patria abbandonata – miracolo da cui / si riemerge vivi. Così qui, io di nuovo / rileggo il libro del tempo,

il mio unico tempo, come se ci fosse un fatale errore la cui / natura non so rintracciare – o la forma –  o l’origine – / prendo la creatura e la riporto / sul posto dove io sono un minuscolo serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa / e tendini e altre cose – già condannata a quest’unica anima – che dicono pesi meno d’una piuma, o tanto / quanto un centinaio di grammi quando cresce – come in un viaggio ripercorro / quelle arterie, il prezioso liquido, il campo di metodi, agonie, / stupori – che io non sprechi gli stupori – / che non uccida per errore fratello, sorella – mi siederò con audacia una volta ancora sul mio inizio […]».

L’espansione dell’opera di Jorie Graham si nutre di una vocalità cosmica e di uno spazio di macerie insalubri, di spaesamenti di mente e mondo, e costringe a non cambiare itinerario di affinamento, per osservare, intingere gli occhi nel tempo per «restituire alla mente, in modo nuovo per ogni generazione, la sua parola e le parole al loro mondo tramite un uso preciso. Ogni generazione di poeti ha questo dovere, e ogni volta deve svolgerlo ripartendo sostanzialmente da zero», per «riportare la parola umana nella cosa immortale; assicurare che il rapporto, anche se per un istante soltanto,  sia vitale e autentico Far sì che le parole siano canali fra mente e mondo. Renderle di nuovo pregnanti».

È la sua personale ricostruzione della parola segmentata nel mondo, il gesto sopravvivente nella strada al margine del campo, «per vedere / nella spumeggiante fine del giorno / il posto dove tutto davvero / risiede, desiderato o sopra- / valutato / dalla mente umana, che può / se lo vuole / portarlo alla luce / con l’immaginazione – non c’è invenzione – oppure c’è – finchè / esiste, la mente può / farlo – […] il mondo ha aperto la sua veste / e tu / eri libera di guardare / senza nessuna / frenesia, nessuna canzone, semplicemente così, polmoni sospesi, le / cesoie sospese / lì nella mano, / la siepe selvatica accanto a te, / e tu puoi – sì – sentirla scorrere / per le sue migliaia / di steli – e più vicino ora / anche lo stelo / esile e solo».

L’osmosi di corpo e mente, la sopravvivenza della parola alla storia e nella storia, l’immaginazione, che non tralascia nemmeno il fare politico, invita alla redenzione e la poesia diviene «un atto di profonda responsabilità spirituale … Io utilizzo la poesia per essere obbligata a rimanere nella storia». come disse a Firenze il 20 dicembre 2006 nel laboratorio della rivista “Semicerchio”, l’azzardo e lo scandaglio abissale delle sue pagine diventano espressione di concrezione di passato e  ferita, di persone e luoghi, in un fertile connubio di comunione.

Recuperare la parola alla sua sopravvivenza, come solcare le retine di una presenza di senso che essa contiene, senza la scheggia di vaniloqui possibili e di ovvietà spezzate, per cercare, infine, il disegno delle danze, la visione delle colline lontane, il trampolo dei sogni.

La scena diviene, pertanto, una gemma di macerie recuperate, di splendente vacuità sulle foschie e laddove la resistenza, la geniale trasposizione umana sono «ancora il segreto del terreno / arato di nostra creazione / respiro dopo respiro».

Scrive Antonella Francini: «Nell’intervista rilasciata a “The Paris Review”, Graham ricorda che Roma ha rappresentato per lei il tempo storico, uno spazio dominato da un «imponente senso della storia», dove la «percezione della dimensione temporale, della vita e delle azioni del passato»  la facevano sentire come un fantasma, «un’anima in pili nell’enorme massa di detriti umani». Al lato opposto della sua esperienza Graham mette il tempo “geologico” del Wyoming, le vaste distese di spazio dove si sentiva ugualmente un fantasma, dove «questioni di giustizia, cause ed effetti della storia svaniscono», dove la coscienza individuale non ha accesso e «qualsiasi assunto sull’importanza degli esseri umani su questo pianeta» deve necessariamente essere corretto. […] Il periodo intermedio della Francia e dell’esperienza politica ha rappresentato invece l’apertura alla realtà, ad «altre forme del presente definite pili dalle idee che dalle sensazioni, dall’immaginazione, dal mito, dalla storia». Queste tre dimensioni possono essere associate ai tre grandi blocchi tematici della poesia di Jorie Graham: il tempo geologico dell’Ovest americano fa da sfondo alla meditazione metafisica, quello romano al tema della storia (personale, collettiva e culturale) e quello francese alle questioni socio-politiche».

È nella dinamica dell’altro e dell’altrove, dalla esperienza e dall’avvenimento della poesia, che può essere rintracciabile la sua origine e l’affettività della sua conoscenza che implorano «la morbida deviazione mutata in bellezza».

Ancora una volta, la parola, come annota Antonella Francini è «scardinata da ogni vincolo sintattico, ma tuttavia risalta e risuona dalla posizione di isolamento in cui Graham la pone avvertendo il lettore postmoderno che, anche se erosa dagli attacchi teorici e dalla retorica, può sempre creare significato. Le parole, così messe sotto il riflettore, impongono ed esigono una ri-definizione, creano una vibrante tensione fra occhio e immagine grafica, rispuntano ossessivamente in una sorta di gioco del gatto e del topo con un poeta determinato a costruire una nuova colonia per il suo “sciame”, a sondare per loro tramite i misteri della vita umana. In quest’appassionata ricerca della minima essenza di lingua e materia, parola e silenzio devono in qualche modo coincidere […]».

La sua poesia proclama il risveglio di una conquista, non solo di forma o di distesa emersa, ma un posto umano che si impenna, si concede, offre il suo fianco vitale, per «Essere una persona / umana e poi donna. / Essere una che ha avuto / abbastanza. / Abbastanza sottosuolo. / Abbastanza giardino / col suo muro alto anche se non alto abbastanza con tutti / gli spioncini a meno che non fossero / soltanto cretti accidentali / da cui vedere / il mondo».

Poi il mondo, che corre famelico, che nasconde le mani. Resta in ascolto l’anima socchiusa, la nota lunga del tempo, come una creatura che abita le soglie e il dolore esaminato, la maestria delle forme umane. Dove un grido o forse, meglio, un canto tralasciano il loro sangue per darsi avvio e pronunciare tutto il loro magma di spaesate gemme.

 

3Dnn+9_2B_pic_9788804635796-il-posto_originalJORIE GRAHAM, Il posto

Mondadori, pp.240, euro 18    

 

  

Graham J., Il posto, Mondadori, Milano 2014.

Id., L’angelo custode della piccola utopia. Poesie scelte (1983-2005), Luca Sossella Editore, Milano 2008.

(a cura di) Graham J.- Lehman D., The Best American poetry 1990, Collier Books, New York 1990.  

Il minimale spasmo di Umberto Fiori

di Andrea Galgano             13 marzo 2014

recensioni Il minimale spasmo di Umberto Fiori

umberto fiori

La lingua poetica di Umberto Fiori (1949) afferma l’artiglio pieno dell’essere che incide il tempo, uno scarto o una frangia di verso che si appropriano del passaggio comune delle cose.

La descrizione dei paesaggi urbani, i protagonisti, spesso periferici, delle sue condensazioni di tempo sollecitano l’anima scorta e memorabile di uno sguardo e di una appropriazione che impara subito il tessuto dell’anima, il suo poema compatto, perché, come scrive Andrea Afribo, nella raccolta antologica, recentemente edita da Mondadori (Poesie 1986-2014) «c’è quasi sempre una storia nelle poesie di Fiori, munita di personaggi, di un minimo ma sufficiente ancoraggio spazio-temporale, e costantemente seriata in due momenti. Il primo, esplicitato oppure solo alluso o dato per scontato, descrive la routine di ogni giorno, rassicurante ma soporifera, protettiva ma devitalizzante. Il secondo sovverte il primo, e lo fa all’improvviso, trafiggendolo con un evento tanto banale e casuale quanto, negli effetti, eccezionale».

È la sopravvivenza di un miracolo che sporge la sua impronta, il tratto improvviso e tenace: «Ogni nome ha ragione, / ed ogni cosa sta / in pace / nel suo nome. / Soltanto il mio / suona come un allarme / nell’altra stanza, / come un rimprovero».

La permanenza della parola poetica esprime il suo fischio lontano, condensa l’essenziale allontanandosi dallo spumoso spazio della ridondanza, dove l’io tocca il suo risveglio: «In piena notte / sui viali scatta un allarme. / Si ferma, e poi ripete / due note acute, tremende, con la furia / di un bambino che gioca. / nei muri bui dei palazzi lì sopra / le finestre si aprono / si accendono. / Tranne la strada / in mezzo ai rami, vuota, / niente si vede. / Si tirano le tende / e si rimane intorno a questo urlo / come si sta in un campo intorno a un fuoco».

Lo scarto del silenzio e dell’allarme non distolgono il miracolo di ciò che accade, come se la poesia inseguisse non la sua sopravvivenza, ma il bagliore dell’avvenimento che condensa i suoi confini, apre spazi, favorisce le sue concessioni quotidiane: «Alte sopra la tangenziale, chiare / due case con in mezzo un capannone. /  È questa l’apparizione, / ma non c’è niente da annunciare. / Eppure solo a vederli / Là fermi, diritti davanti al sole, / i muri ti consolano / più di qualsiasi parola. / Cancellate, ringhiere, / scale, colonne, cornicioni: / ha l’aria, tutto, come se qualcuno / dovesse veramente rimanere».

È la testimonianza dell’io che si spinge fino al suo testimone segnico, dove il “voi”, il “tutti”, la “gente”, il “due” (nella sua prima raccolta Esempi (1992) abolisce, in forma inibitoria, la prima persona) caratterizzano il puntuale crocevia e il ventaglio dell’esistere, come avviene nella raccolta Voi (2009) dove egli sostiene che  «Le due persone in gioco nel libro non si equivalgono; non sono solo impari, sono incommensurabili: è di questo che Io si dispera. Voi è innocente per definizione: è una persona astratta, disincarnata, un generico Prossimo, a cui Io deve tutto e dal quale nulla può pretendere. A Voi spetta il primato morale. Un primato assoluto, indiscutibile. Io è la colpa incarnata, un “difetto” di Voi: solo Io è chiamato a rispondere di fronte a Dio (al Senso, all’Essere) di ciò che fa, addirittura di ciò che è, della sua stessa esistenza. Solo Io muore. Solo Io si perde, si salva. […] questa disparità viene presentata come l’assurdo, il mistero, il santo enigma di cui ogni singolo deve venire a capo» verso ciò che Fiori chiama la sua «parola normale», come afferma in un’altra intervista rilasciata a Fabio Giarretta.

La parola normale di Fiori, pertanto, è l’esito di una fedeltà dichiarata alle cose, che persino nella sua sovente impersonalità concentra le locazioni, le indeterminatezze e laddove il paesaggio urbano, ricolmo di piazze, angoli, anditi lievi, rivela l’illuminazione di uno scavo interiore che si riporta all’esterno, come misterioso segreto concreto di nudità che decide l’intero senso del mondo: «Ecco: le cose. / Dove tutto si perde e manca, / rimangono. Si lasciano / ascoltare e vedere. / Sono vere, le cose, e saranno vere: / per questa promessa anche ora, / nascoste nel loro buio, / anche in corsa, / ti sembrano care e buone».

Annota Andrea Afribo: «Non si cerchi poi di capire in quale città si svolgano i fatti. La ricorrente presenza di strade, viali, angoli di strada, tangenziali, semafori (e ancora sottopassaggi, tram, macchine, giardini, autosilo, piazzale, cantieri, scavi, asfalto) dice chiaramente che siamo dentro uno spazio cittadino o meglio metropolitano. Può essere Milano, ma può essere qualsiasi altra città».

L’evento che si svela coglie rimanenze lasciate come «Una fila di esempi, una serie / di facciate di case, rapide e serie», partecipa all’esperienza di una illuminazione allusa e integrante e che invita all’interpretazione, al passaggio netto, all’esclusione come gemma nativa di una perdita: «Le mie poesie sono nate dalla perdita di una biografia (delle sue nostalgie, dei suoi programmi, dei suoi rimorsi, delle sue promesse); sono nate non da me, dalla mia storia. Qualcosa mi impediva di mettere al centro dell’attenzione non solo la mia personale vicenda, ma qualsiasi elemento che rimandasse a uno svolgimento, a un divenire, a un prima e a un dopo intensi in senso forte. Se cerco l’origine del mio lavoro trovo questa esclusione».

Altrove Umberto Fiori, in un’intervista a cura di Maria Borio su Pordenonelegge.it, sulla mancanza, come cellula dello sguardo, afferma che: «L’occhio ha l’illusione di non far parte della scena che sta osservando: è immate­riale, invulnerabile, domina il mondo. In una poesia di Esempi, d’altra parte, si dice: “Più grande di tutto è lo sguardo / ma le case sono più grandi”. Lo sguardo, insomma, è radicato in un corpo, le cose guardate possono essere (in molti sensi) più grandi di quel corpo e dell’occhio che le osserva e crede di dominarle. Nella Bella vista il verbo “mancare” viene utilizzato in un senso un po’ diverso, come sinonimo di morire, non esserci più. lo chiedo alla “Bella vista” di insegnarmi ad accettare l’inaccettabile: il mutamento, la fine. Lei stessa, l’immensa Bellezza, la potentissima Natura, l’ “eternamente salva”, si è piegata al tempo, è scomparsa (o così sembra): l’uomo, invece, non capisce, non riesce ad accettare di “mancare”».

L’apologia delle sue storie intesse l’appartenenza dell’individuo alla comunità, come rapide di immagini che recano fasci inattesi, epifanie e apparenze di una quotidianità franta ma sempre ricca di exempla e di baluginii di tempo: «Chi potrà più trovarci, / chiedere conto, / domandare perché, / dove cosa? Noi siamo / tre piccioni che beccano / la pozza di gelato sul marciapiede. / Siamo il busto di bronzo, / la targa del furgone, l’altra bottiglia / che porta il cameriere. / Chi potrà dare / torto o ragione?».

Il prodigio del tempo possiede la scheggia di una lezione che sembra non riuscire a rivelarsi, nella potenza di una forza buia, ma che non smette di desiderare l’avvento, l’attesa di spasmo che contiene lo scavo dell’umanità in tutte le sue forme, come l’interno di casa in cui «mentre le stanze passano / e se ne vanno, viene / come una spinta dentro, / come un’invidia. / Ci si sente mancare, / in queste scene. Si è come tenuti fuori. / Ma in fondo poi / vedere come tutto / procede bene / anche senza di noi, / fa quasi ridere. / E si diventa liberi, leggeri: / non si è più lì, si ragiona / come già morti, come / mai nati.[…] / Eppure questo, / questo che tutti vedono / là, nei soggiorni / e nelle camere, non smette di mancare: / essere così chiari / senza saperlo, / stare soprappensiero / un attimo, nel pieno dell’attenzione».

La scrittura di Fiori si appropria, pertanto, di una scena, una scheggia di tempo infilata nel tempo, non si discosta mai da ciò che accade e implora chiaritudine «per spremere una lezione salutare da quei fatti quotidiani che sinteticamente racconta» (Andrea Afribo): «Quello che siamo qui / nell’ansia di questa luce / in questa data, / giorno per giorno va. È frecciame: / schegge, polvere, trucioli».

La sua poesia stuporosa insegue l’imprevisto e la restituzione, il cerchio di una pienezza che si vede e si invoca, la chiarità del limite, la figura forsennata che prepara inattese trasparenze.

«I momenti che preparano l’epifania», scrive Andrea Afribo, «che aprono una breccia liberatoria nel muro dell’abitudine, consistono tutti in zone di scivolamento minimo ma sufficiente, interne all’ogni giorno. Sono piccoli guasti, interruzioni del continuum, imprevisti banalissimi ma inderogabili e disarmanti. Soprattutto sono ingorghi del traffico, ritardi, incidenti con annesso capannello di curiosi, tamponamenti da constatazione amichevole, una lite, uno scontro involontario tra due passanti, il già visto scatto di un allarme, lo squillo di un telefono o di una sveglia nell’appartamento del vicino, eccetera. E poi tutto quanto può capitare in una discussione: perdere il filo del ragionamento, bloccarsi, un silenzio a sorpresa».

L’enunciazione è un longevo dialogo di vuoti in attesa, l’indefinito fronteggiato, la rissa dell’anonimo, ma tutto proteso al miracolo incombente, all’offerta estrema: «Sento le piante crescere, sento la terra / girare. Tutto mi sembra forte e chiaro, tutto / deve ancora succedere».

Nelle sue case, nei palazzi, negli spazi che abitano la gemma miracolosa che sorregge il mondo, la sospensione di Fiori è pronta a donare i suoi fatti, come chi è teso a invocare e gridare fatti e prove e «proprio allora, lontani come sono, / rivedono il miracolo: / che sia una la stanza, / che sia lo stesso / il tavolo dove battono».

 

UMBERTO FIORI

Poesie 1986-2014

Mondadori, pp. 272, Euro 20

 fiori

Fiori U., Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014.  

Id., Tutti di tutti, in «Il gallo silvestre», 11, 1999.

La lancia di Frank O’Hara

di Andrea Galgano                                         16 gennaio 2014

poesia contemporanea La lancia di Frank O’Hara

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Frank O’Hara (1926-1966) ha scritto la sostanzialità della concretezza, l’emergenza sorgiva, la finitudine di una parola-scoppio come una nervosa grazia che irrompe scoperchiata.

Incontrato in un party nel Village, Marisa Bulgheroni così lo ricorda:

 

«[…] stava tra gli altri, pittori, poeti, musicisti, gente di teatro, i protagonisti della Scuola di New York, come un re in incognito, arrivato lì per caso, la polvere del viaggio sulla giacca stinta a righe bianche e celesti, gli occhi irrequieti azzurrovioletti, tagliati in una materia mobile come vento o come neve, intensamente presente benché forse sul punto di andarsene, un perfetto abitante della vorticosa Manhattan delle sue poesie. Già allora la sua grazia nervosa, la sua volontà di vivere e scrivere in un unico gesto, di rendere durevole il precario, di trasmettere alla parola l’istantanea del passo e del respiro avevano per i più giovani la forza di un contagio e la sua stessa vita, scoperchiata, giocata con grandiosità, «tenuta insieme precariamente nella mano veggente di altri», la sua omosessualità, la sua abissale trasparenza di uomo che si riconosce molteplice erano leggenda ancor prima che morisse, nel luglio ’66, in seguito a un incidente simile a uno spettacolare appuntamento. Il suo sand buggy – costruito per corse veloci sulla spiaggia – saltò in aria su una duna di Fire Island, la storica isola, piatta come una lingua di sabbia appena affiorante dall’oceano, dove Thoreau, nel 1850, andò a cercare i relitti del naufragio in cui era perita Margaret Fuller».

Ma se la poesia di O’Hara «non è fatta di strumenti / che funzionano a volte / poi ti lasciano / ridono di te vecchio / si ubriacano di te giovane / la poesia è parte di te», vero è quel che ha scritto Donald Allen, usando la parola record, come registrazione che rifiuta l’aspetto combinatorio del gesto poetico e si attesta alla diretta espressione dell’energia vitale.

È la registrazione dell’esperienza vitale soggiace ad ogni suggestione, movimento, denso incontro.

Nel suo manifesto, Personism, O’Hara giunge a far crollare ogni confine tra la vita e l’arte: «la poesia non è tra due pagine, ma tra due persone».

Questo incrocio di incontri è il nemico dell’astrazione e si incide in una magmatica apertura di suggestione ed emozione: «L’astrazione (in poesia, non in pittura) comporta la rimozione della persona del poeta. […]. Il Personismo, un movimento che ho fondato recentemente e che nessuno conosce, mi interessa molto perché è completamente opposto a questo tipo di rimozione astratta».

L’attestazione pittorico-musicale e la poesia come atto creativo nascono da una lotta furiosa che risale a Pollock, de Kooning fino al realismo immaginario, si richiama a Picasso e i suoi collages, risale ai simbolisti francesi, si appropria di Apollinaire e come scrive acutamente John Ashbery: «[…] parole e colori che potevano essere presi liberamente a prestito qua e là per costruire grandi strutture ariose, mai viste fino ad allora nella poesia americana e in genere in tutta la poesia, più simili alle circonvoluzioni erranti di una mente aperta fino al punto della distrazione. Ne scaturiva una libertà di espressione poetica che era davvero praticabile e che, insieme ad altri tentativi analoghi sul versante tecnico (Charles Olson) e psicologico (Allen Ginsberg), spianava la strada a tutta una generazione di poeti più giovani».

In un articolo apparso su «Poesia» del dicembre 1997, intitolato Frank O’Hara e la poesia dell’emergenza, Roberto Ferdani scrive che «La poesia, in O’Hara, accade, come accade la vita; nasce da (e richiede) un atteggiamento essenzialmente emozionale, destrutturato, immediato; è ciò che fluisce dall’essere quando la logica – luogo di separazione, di finitudine e di temporalità – si arresta e arrestandosi permette lo scorrere inarrestabile del movimento dell’essere fattosi parola. Per lui l’azione poetica non avviene attraverso un atto intellettuale bensì attraverso un’apertura emotiva. […] Frank O’Hara ha composto, attraverso il dire poetico, il suo “diario intimo”. […] Motore e forza unificante della poesia di O’Hara è dunque quell’io che si fa centro di irradiazione e luogo nel quale il fenomenico viene non solo percepito ma ricreato. Di più, l’io multiforme e onnivoro di O’Hara crea se stesso attraverso il contatto con il mondo; si fa cioè luogo di rifrazione del mondo; si dà, keatsianamente, forma».

Ed ecco che l’immersione nella città, con le sue creatività caotiche, impara a cacciare la preda invisibile del tempo, l’immagine che implora e sfugge, il cosmo che si trasforma e l’incontro che mette a nudo.

La poesia di O’Hara non ama l’intellettualismo cieco perché, in esso, non trova la linfa e la sorgente. Il  magma poetico ha bisogno di scivolare come aggredito, di amalgamare suggestioni, depositarsi nel fondo dell’essere.

Pur non trovando né stabilità né protezione, sperimenta la leggerezza di un’emergenza, come scrive ancora Marisa Bulgheroni: «La metropoli è per lui un cosmo compiuto, contenente quanto occorre per sentirsi vivi, il verde sufficiente, vette e gole montane e marine, luce e uomini in movimento: tocca al poeta riscoprirla come natura, vedere nella sua eterogeneità, nella sua discontinua corporeità, un modello di linguaggio alternativo rispetto a quello della tradizione letteraria. Da un lato l’io poetico si nega e si dissolve nel caos dell’esperienza urbana, produttrice di sempre nuovi automatismi fisici e mentali e quindi di inedite associazioni di immagini, di inattese identificazioni con gli oggetti che affollano simultaneamente il campo visivo; dall’altro si rappresenta come punto di riferimento, nucleo di energia psichica, protagonista e possente cronista della velocità di cui partecipa».

L’avvenimento della sua poesia si appropria di un linguaggio che si afferma nei ritmi biologici, come rapidità sollecita e cenno di vertigini e abbandoni. La sua geografia, che attraversa New York quasi sbandando, è la memoria del desiderio che si poggia, gocciolando, sulle cose.

Nessun oggetto finito né un confine accertato, ma una traccia in divenire rapida e riprodotta che si fa colloquio e riferimento, come scrive Nicola D’Ugo: «La poesia di Frank O’Hara costituisce un fenomeno raro e prezioso. Il suo modo di scrivere è colloquiale. La sua sapienza sta nel rendere tale colloquialità priva di scosse retoriche, con andanti minimali e accostamenti di immagini che anziché esaltare l’io poetante riducono qualsiasi argomento socialmente ammaliante ad una dimensione svuotata della sua appetibilità. L’io poetante non si fa voce privilegiata della società, ma uomo, e quest’uomo che ne vien fuori, con le sue debolezze e la sua minuta dignità, è ancora più amabile degli smaglianti contesti sociali cui ha un accesso privilegiato: siano essi di cultura elitaria o d’entourage economico. O’Hara accosta la cultura di massa alla tradizione ‘alta’, alla quale fa sparsi ma puntuali riferimenti, non tanto per sminuirla, ma per mettere in luce che tutta la sua cultura mitica la si ritrova più compiutamente nell’incontro con l’uomo comune e non per questo meno affascinante, come nella celeberrima Prendere una coca-cola con te»: «Non starò sempre a piagnucolare / né riderò tutto il tempo, / non mi piace un “motivo più dell’altro. / Avrei l’istantanea di pessimi film, / non solo di quelli barbosi, ma anche del genere / di prima classe delle megaproduzioni. Voglio esser / vivo quantomeno come il volgo. E se qualcuno / appassionato alla mia vita incasinata dice: “Non è roba / da Frank!”, tanto meglio! Io / non mi metto sempre abiti grigi e marroni, / o sbaglio? No. Per l’Opera indosso camicioni da lavoro, / spesso. Avere i piedi scalzi voglio, / voglio un viso ben rasato, e il mio cuore … / non puoi programmare il cuore, ma la sua parte migliore, la mia poesia, è allo scoperto».

La polisemia dei significati non si apparta con l’io, egli si gioca la vita e l’anima scrivendo, («Quanto è successo ed è qui, un / foglio sfregato contro il cuore / e troppo fresco ancora per la cornice»), spende il lauto pasto dell’esperienza, con la cromatura delle note e dei passaggi instaura rapporti duraturi ed estremi, dove la gioia e il dolore, il pranzo e lo sgomento, toccano gli anelli della vita con trasparenza, fruizione temporale, spazi bianchi di cosmo.

La germinazione dei luoghi non viene corretta da regole e imposizioni, bensì è l’incontro aperto e crudo a divenire istinto di vita che si apre («Sono una casa piena di finestre»), come un «luogo vuoto continuamente sostituito da segni, presenze, abitanti imprevedibili» (R.Ferdani).

Nei Lunch Poems (1964), il poeta della città si immerge in New York, con il suo tocco di attrazione e repulsione, e vive il suo slancio di nervi e sangue.

Il rapimento sensuale è un approdo di latitudini, perché «Mangiare e amare, andare a pranzo e andare a letto vivono in questa poesia come i termini della stessa equazione. Amare è sentire il richiamo del pranzo; pranzare è sentire il richiamo dell’amore» (Paolo Fabrizio Iacuzzi).

Il poeta lotta con le sue parole, l’io che mangia se stesso, si separa e si riunifica (Per il capodanno cinese), rumina il torpore della sua infanzia e adolescenza, immerge il suo atto creativo nel reale: «I Lunch poems non sono soltanto il diario dell’io, ma della memoria dei pasti nel corpo, come avviene nel Diario di Pontormo» (P.F. Iacuzzi).

L’attraversamento teatrale diviene epica del quotidiano, ritorno al punto primigenio dell’infanzia orfana e abbandonata (Allen Ginsberg dirà il suo canto a Frank: «Spero tu abbia saziato il tuo amore per l’infanzia / la tua fantasia per la pubertà / il tuo marinaio per punizione sulle ginocchia / la tua bocca per ciuccio»).

La lunga rapsodia della città è una natura che fa folla del suo io, sono le sue poesie-lance, e non solo poesie di pranzo, che egli scaglia nel languore e nel tremito dell’«umidità luminosa», del suono variegato, della luce dei grattacieli, della scomparsa del tempo nelle rifrazioni e movimenti, in una scrittura di terra dinamica e mordace.

La carne, il respiro di una città che vive, irrora l’io con le sue rapide impetuose e il profumo dolce e malinconico delle epifanie. «La New York di O’Hara partecipa all’infinito dinamismo della vita», scrive Roberto Ferdani, «che non è una qualità delle cose ma un flusso che le attraversa e le sospinge. New York è presa e trasformata così come la luce aggraziata è “sospinta” da un grattacielo all’altro. Questa città è una vasta mappa emozionale; è la geoscrittura di un io che scivola attraverso librerie, cinematografi, negozi ed emozioni private. Tutta la città e i suoi abitanti sono presi da un dinamismo straordinario che O’Hara rende attraverso quell’affabulazione che ha ereditato da Whitman».

Un io che non ha paura della cancellazione delicata nel desiderio, dell’incanto che nasconde dolore e perdita, come imprinting nervoso che avvolge impressioni e precisioni lievi, odori e sapori, come l’aspirazione della sua cucina.

Si consegna al poema che dipinge, all’apocalisse che si mette il vestito della festa e non teme, appunto, i vortici dei venti, la fusione delle lontananze e l’evento sensuale delle assenze rubate, degli amori buttati, delle fusioni dei turbini.

È jazz, pittura, sguardo di caffè, alito vitale, la sua cosmogonia che omaggia gli amici (Pollock, Billie Holiday) e consegna la sua realtà vitale delle sue metafore, l’impulso grafico della sintassi, la percezione che si fa carico dell’esistenza, non per annullarsi ma per dire “io” davanti alle estremità della vita, alle profondità del cibo, alle mancanze, come «un bacio. Sensuale, misterioso, allegro, divertente e alcolico. Molto alcolico» (Allen Ginsberg).

 

O’hara F., The Collected Poems of Frank O’Hara, a cura di Donald Allen, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1995.

Id., Lunch poems, Mondadori, Milano 1998.

Id., Jackson Pollock, Abscondita, Milano 2013.  

Bulgheroni M., Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, Milano 2013.

D’Ugo N., La traduzione di poesia(http://poesia.blog.rainews.it/2011/02/22/la-traduzione-di-poesia-nicola-dugo/)

Ferguson R., In Memory of My Feelings: Frank O’Hara and American Art, University of California Press, Los Angeles 1999.

LeSueur J., Digressions on Some Poems by Frank O’Hara, Farrar, Straus and Giroux, New York 2003.

Shaw L., Frank O’Hara: The Poetics of Coterie, University of Iowa Press, Iowa City 2006.

Smith H., Hyperscapes in the Poetry of Frank O’Hara: Difference, Homosexuality, Topography, Liverpool University Press, Liverpool, 2000.

Le vele di Billy Collins

di Andrea Galgano                                         8 gennaio 2014

poesia contemporanea Le vele di Billy Collins

billy collins

La tensione poetica di Billy Collins (1941), poeta laureato del Congresso degli Stati Uniti nei primi anni 2000, si dispiega in una concretezza visiva che impone altezze d’anima, sollecita slanci e agilità, impone tensioni.

Quando scrisse che scrivere versi è fare «sci d’acqua / sulla superficie di una poesia», come afferma in Introduction to Poetry, egli si attesta sul bordo ruvido e sullo sfioramento agile delle pagine, ma la scrittura è anche «la cartolina illustrata, una poesia sulla vacanza, / che ci costringe a cantare le nostre canzoni in piccole stanze, / o a pesare i nostri sentimenti col bilancino. / Scriviamo sul retro di laghi o cascate, / e aggiungiamo al paesaggio una didascalia convenzionale» (American Sonnet).

Commenta padre Antonio Spadaro:

 «L’occasione per far poesia non è mai in sé elevata né epica. La poesia scaturisce dalla vita ordinaria, dal mondo dischiuso da un dettaglio accolto senza enfasi e retoriche. Qualunque cosa sia – scrive in American Poetrydeve avere / uno stomaco capace di digerire / gomma, carbone, uranio, lune, poesie. Vale per lui l’immagine del granello di sabbia nel quale è possibile, secondo il celebre verso di William Blake, vedere un intero mondo. Si scrive sul retro della realtà, come se si scrivesse su una cartolina. Questo è ciò che ci sembra più tipico della sua poesia: essa parte da un dato concreto, semplice, ordinario, spotless, cioè candido, senza macchia, per aprire questo dato alla ricchezza dell’immaginazione».

La tensione dello sguardo non si ammaina a favore di una semplicistica immersione conoscitiva, bensì sfuma e si bagna nell’ordinario, in cui veleggiare (sailing), come dinanzi a «vaso di peonie / e accanto un  binocolo nero e un fermaglio per i soldi / proprio il tipo di cose che oggi preferiamo, / oggetti che si dispongono quieti su un verso con lettere minuscole».

A vela in solitaria intorno alla stanza (2013) rappresenta il viaggio che diventa, come scrive Franco Nasi, «l’esplorazione di un mondo qualunque, fatto di cose senza importanza, durante il quale il protagonista, un professore universitario di Letteratura, bianco, anglosassone, di formazione cattolica, di origine irlandese, sornionamente seduto nella sua barca a vela, annota gli oggetti del suo soggiorno o trascrive i sogni a occhi aperti che gli capita di fare sfogliando un’enciclopedia. Un diario di bordo redatto in una casetta tranquilla di una periferia borghese, a un’ora di treno da New York».

Gli appunti di Collins, pertanto, inseguono la linea e lo slargo di una nominazione appuntita, in cui la prospettiva trasforma la coltre ordinaria degli oggetti, degli spunti, degli orli o degli angoli, sviluppando quello che lo stesso Nasi chiama acutamente «svolte inattese»: «Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re […] Quant’è più bello disporre dei semplici spazi di casa / che sentirsi schiacciato da un pilastro, un arco, una basilica».

Le sue vele scoperchiano un mondo improvviso, che solo apparentemente appare inanimato. Sembra quasi disarcionare l’inerzia, in un vivido paradosso, che se da un lato, richiama la porzione più viva delle cose, dall’altro ama la sfrontatezza delle azioni e delle vicissitudini, come il bonsai che visto da vicino sembra un enorme albero che permette di toccare l’orizzonte e scorgervi persino una balena, con accanto i fiammiferi-zattere («Guardalo dall’ingresso, / e il mondo si dilata e si gonfia. / Il bottone che gli sta accanto / è ora una ruota di perla, / i fiammiferi Minerva sono una zattera, / e la tazza del caffè una cisterna / che raccoglie la stessa pioggia / che bagna le sue piccole zolle di terra scura e muscosa. / […] Il modo in cui si piega verso l’entroterra, / m’invoglia a farmi strada / fino alla cima del suo fogliame spinoso, / a restare attaccato con tutta la forza / e guardare la furia della tempesta marina, / nella speranza che appaia una piccola balena»), oppure sognare di attraversare a piedi l’Atlantico e provare a immaginare come «debba sembrare tutto questo ai pesci là sotto: / il fondo dei miei piedi che appare, scompare», o ancora versarsi un bicchiere di vino al tramonto e accorgersi di non aver toccato mai la voce di anima viva, salvo poi ricordarsi di aver parlato con la tartaruga, incontrata durante una camminata o la sua cagna, alla quale aveva spiegato che non era ancora ora di cena.

In un articolo su “Avvenire” del 10 dicembre 2011, Roberto Mussapi scrive: «I suoi versi non manifestano alcuna pulsione conoscitiva, ascensionale, nessun senso della finitudine, da cui nasce la poesia. […] Per riempire i teatri e ricevere la corona d’alloro, come è riuscito lui, bisogna scrivere una poesia semplice e fruibile. Come? Abbandonando la grande linea del Novecento americano, Eliot, Pound, Hart Crane, Stevens. Cioè abbandonando monumenti di poesia che da americani sono diventati universali: la grande poesia moderna parla elio tese, poiché eliotianamente pratica il “correlativo oggettivo”: parlare di realtà immateriali e atemporali attraverso immagini concrete».

La dilatazione e il rigonfiamento del mondo spesso acquisiscono non solo humour intenso e geniale, ma anche la sovrapposizione di suoni, l’indizio surreale e lo scarto improvviso.

Ecco cosa racconta in Un altro motivo per cui non tengo una pistola in casa: «Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / Abbaia sempre lo stesso alto, ritmico abbaio / che abbaia ogni volta che vanno fuori. / Si vede che lo accendono quando escono. / Il cane dei vicini non smette di abbaiare. / chiudo tutte le finestre di casa / e metto una sinfonia di Beethoven al massimo / ma lo sento ancora ovattato sotto la musica, / che abbaia e abbaia e abbaia, / e ora lo vedo seduto nell’orchestra / a testa alta e sicura come se Beethoven / avesse inserito una parte per cane che abbaia. / quando alla fine il disco finisce abbaia ancora, / seduto là, nella sezione degli oboe, abbaia, /  con gli occhi fissi sul direttore che lo / guida con la sua bacchetta /  mentre gli altri musicisti ascoltano in rispettoso / silenzio il famoso assolo per cane che abbia, / coda infinita e causa prima dell’affermarsi / di Beethoven come genio innovativo ».

L’acutezza di Collins ama questa sovrapposizione e dilatazione per scrivere la realtà, nell’arguzia di un wit fruibile intenso, che afferma e sollecita misura e discrezione. Se è vero, come egli sostiene, che «Il candore è nipote dell’ispirazione», il suo tratto è una spoliazione e una continua ripulitura: «[…] non esitare a prendere / per i campi e a sfregare il fondo / dei sassi o a spolverare sui rami più alti / della buia foresta i nidi pieni di uova. / Quando ritroverai la strada di casa / e riporrai spugne e spazzole sotto il lavello / vedrai la luce dell’alba / l’altare immacolato della tua scrivania, / una superficie pulita al centro di un mondo pulito» (Consiglio agli scrittori) o come avviene in Purezza: «Mi tolgo i vestiti e li lascio in un mucchio / come se fossi morto sciogliendomi e il mio lascito fosse solo / una camicia bianca, un paio di pantaloni, e una teiera di tè non più caldo. / Poi mi tolgo la pelle e l’appendo a una sedia. / La sfilo dalle ossa come fosse un vestito di seta. / Lo faccio perché quel che scrivo sia puro, / completamente sciacquato dal carnale, / incontaminato dalle preoccupazioni del corpo. / infine mi tolgo tutti gli organi e li dispongo / su un tavolino accanto alla finestra. / non voglio sentire i loro ritmi antichi / mentre cerco di battere a macchina il mio intimo battito».

La sua spoliazione, pertanto, è un nudo slittamento che insegna a percepire il fitto folto di vita e morte. Scrive Charles Simic: «A un poeta come Billy Collins una poesia offre l’opportunità di distanziarsi dalla “Poesia”. Il mai-visto-prima, il mai-sentito-prima è ciò a cui aspirano i poeti del suo tipo. Essi si affidano al loro senso del comico per difendersi da una retorica d’accatto. Per quel che li riguarda, è meglio sentirsi accusare di fare i buffoni o i matti che non avere la taccia di pappagalli e indossare il costume di una qualche antiquata moda letteraria».

Il vestito di Collins non è una «corda legata a una sedia», come certi critici o professori tentano di fare della poesia, per «torturarla finchè non confessi», colpirla con un tubo di gomma «per tirar fuori che cosa davvero vuol dire», anzi, come avviene in Balistica (2011), la sua tensione originaria mira alla linearità dei bersagli, alla primordialità dei passaggi e degli spazi nuovi, alla voce non sovra strutturata, come approdo, tregua e scandaglio di abisso.

Chiede ai lettori di unirsi a lui per iniziare una fitta sassaiola contro gli insegnanti che domandano cosa stesse cercando di dire il poeta (cita a tal proposito Thomas Hardy e Emily Dickinson imbrigliati nella loro incapacità di dire bene ciò che volessero dire), ma alla fine «noi nella classe di Inglese della terza ora della prof Parker / qui al liceo di Springfield ce la faremo».

La sua poesia mal sopporta questa imbrigliatura, l’interpretazione come sponda di senso. Il suo gesto poetico ama le ospitalità, i transiti aperti del mistero, l’accessibilità che introduce a inattesi spostamenti verso «reami di inscrutabilità, dove ci si può avvicinare alla verità solo con un gesto. Se ogni verso in una poesia fosse chiaro allo stesso modo, saremmo privati delle ambiguità e dei segreti di cui la poesia, da sempre, è stata il mezzo migliore di esplorazione; se ogni verso fosse illeggibile non avremmo terreno su cui stare in piedi, non avremmo un posto da cui guardare il grande enigma al centro delle nostre esistenze».

Ecco il fuoco di Billy Collins che porta in giro la sua voce nel mondo, allontanandola dalla vivisezione dell’anatomista. Il suo microcosmo compare per mettere in scena un proiettile che corre preciso, come quello che ha perforato un libro di un poeta non amato, facendo esplodere le pagine. La pallottola perfora ogni anfratto di carta delle poesie della sua infanzia, fino alla foto dell’autore «attraverso la barba, gli occhiali rotondi, / e quello speciale cappello da poeta che gli piace indossare».

Lo humour serve l’ordinario in una grande arguzia associativa, in cui i connubi della sua arte realizzano teatro e abisso, voce aperta e sintassi accesa, poesia di linee e quadro scrostato.

In una intervista rilasciata a Franco Nasi, al quale si deve il merito di aver fatto sfociare la sua poesia in Italia, Collins ricorda le sue influenze. Dal latino imparato senza particolare attenzione, quando serviva messa e poi risultato essere un’ arcana espressione sensoriale, alle rubriche di bridge delle riviste che hanno scoperchiato in lui un orizzonte e un linguaggio quasi esoterici, che riportano a Stevenson e al Settimo Sigillo di Bergman, persino in frasi come «Sud vince con l’asso del morto, prende l’asso di picche e taglia quadri», infine  ai cartoni animati di Warner Brothers.

La suggestione dell’abisso è la sua coperta apertura di una narrazione scomposta e poi continuamente ricomposta, come la morte di un suo vicino di casa con un figlio, che mescola indirizzi e numeri in una strana pioggia di maniche vuote, «Il peso dei miei abiti, non dei suoi / potrebbe essere appeso nell’oscurità di un armadio oggi».

La sua vocazione diviene segno e fenditura di una rivelazione che svolta nell’esistenza, come scelta dell’essere: «Se mai ci fosse un giorno di primavera così perfetto, / reso ancor più bello da una calda brezza intermittente, / da spingerti a spalancare / tutte le finestre di casa, / e ad aprire la porticina della gabbia del canarino, / anzi, a rimuoverla dallo stipite, / un giorno in cui i vialetti di freschi mattoni / e il giardino che scoppia di peonie / sembrassero incisi nella luce del sole / da farti venir voglia di prendere / un martello per il fermacarte di vetro / del tavolino del salotto / e liberare così gli abitanti / dal cottage coperto di neve / perché possano uscire / tenendosi per mano e ammirare / questa cupola più grande azzurra e bianca, / be’, oggi sarebbe proprio un giorno così» (Oggi).

  

Collins B., Balistica, Fazi, Roma 2011.  

Id.,  A vela in solitaria intorno alla mia stanza, Fazi, Roma 2013.

Antonelli S. (ed.), Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti, Elleu Multimedia, Roma 2004.

Darlin R., Billy Collins: Sailing alone around the room: New and selected poems, «http://www.expansivepoetryonline.com/journal/rev112001b.html».

D’Orrico A., Billy Collins senza humour non c’è poesia, in “Corriere della Sera”, 25 settembre 2011.

Hilbert E., Wages of fame: The case of Billy Collins «http://www.cprw.com/Hilbert/collins2.htm».

Simic C.,  recensione a A vela in solitaria intorno alla stanza, trad. di P.F. Paolini. in «La rivista dei libri», 11, 2006.

Spadaro A., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013.

La velatura di Vittorio Sereni

di Andrea Galgano                                         30 novembre 2013

poesia contemporanea La velatura di Vittorio Sereni

vittorio-sereni

«Sereni nasce come un ermetico sui generis, che corteggia il racconto esistenziale e non crede nel primato della letteratura sulla vita; è un evocatore di spiriti, ma tiene lontani gli spiritualisti e Freud; s’inventa uno stile magmatico, ma mai avanguardista o espressionista; è un poeta di oggetti concreti, ma al tempo stesso di trasalimenti e indefinibili umori; abbozza affreschi storici, ma malgré lui, perché la storia gli si impone coi contraccolpi che determina nella vita interiore: dà conto della crisi del soggetto, ma non rinuncia a dire «io», oscillando tra polo lirico e prosastico […]; infine, è a suo modo socialista: però si tratta di un socialismo privo delle coperture ideologiche marxiste, che fa tutt’uno con un illuminismo lombardo d’antan aggiornato dall’eclettica fenomenologia di Banfi» (Matteo Marchesini, da «Sereni,  mito esile e prezioso», “Il Sole 24ore”, 27 gennaio 2013).

La poesia e la moralità di Vittorio Sereni (1913-1983) risiedono nella purezza dell’intesa o in quello che Alfonso Berardinelli chiama «attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni della poesia”».

Era poeta della guerra, Sereni. Una guerra strappata, vertiginosa e perduta. Ma anche poeta-funzionario editoriale. Egli stesso considerava, infatti, questa professione una espressione di concretezza e di rigore, un lavorìo che parte da lontano, investe l’esilità reticente e il pudore della sua pagina, con l’estremo riserbo di una conversazione che tende via via sempre più al monologo, alla trama della perdita e dell’assenza a bassa voce.

Se in molti videro, in lui,  l’uscita della poesia italiana dall’Ermetismo, egli rappresenta una sorta di enclave poetica, uno spazio vibratile e lirico che canta la terra d’Algeria o espone il suo canto al senso segreto del verso.

Scrive Roberto Mussapi: «La dimensione orizzontale di Sereni, così felice nel suo incanto addolorato per i paesaggi albari e serali, per gli istanti di passaggio che segnano la vita della comunità umana, non esclude una sua esplorazione verticale, in profondità. Semmai la prospettiva si sposta dall’uomo in toto, dalla realtà antropologica, all’uomo Sereni, al poeta che fa della propria cronaca doloroso e luminoso campo di esplorazione della vita. Il dominio del chiaroscuro, della tenuità, la mancanza di visionarietà, generano una poesia misteriosa proprio nella sua nitida leggibilità, tremante e nello stesso rivelante». 

La rivelazione, se da un lato conduce all’agglutinamento espressivo, dall’altro condensa la pagina in una registrazione e in una pressione d’attesa: «Programmare una poesia “figurativa”, narrativa, costruttiva, non significa nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illuminazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narrativa si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?».

La fame di realtà tocca il mondo nei sui punti e nei suoi slarghi, spesso umbratili ed fantasmatici, ma egli, come scrive Daniele Piccini su «Poesia» del settembre 2013, «rimase fedele a quel mondo, per molti aspetti: all’opposizione tra una solarità agognata e il senso di una limitazione oscura e angosciosa (insomma al «cortocircuito fra vitalità e morte costitutivo della poesia sereniana», come si esprime Mengaldo); alla presenza, soprattutto, di una “frontiera”, termine e tema massimamente polisemico».

La vita e la morte in limine, così come lo spazio di percussione tra sogno e veglia, come una peripezia del poeta nello spazio urbano, si appropriano di un punto in movimento che conosce l’esilità fissa della gioia e la dolorosa cronaca della morte, la nullificazione minacciosa e la magia fascinosa dei luoghi.

La partenza e l’arrivo identificano il suo tempo e la concreta esperienza poetica, ossia, come afferma Lanfranco Caretti, «il tempo della lampeggiante chiarezza entro l’aggrovigliato flusso dell’esistenza, nel tempo “presente”».

Il rapporto del tempo presente, pertanto, «porta costantemente in sé il proprio passato: non come ingombro o museo memoriale, bensì come attualità, o per dirla con lui stesso, come una somma di “sostanze, ossia di qualcosa di ben più fondo, ben più inamovibile e inalienabile dei ricordi».

La densità e la complessità del presente illumina porzioni di passato sempre in atto, slanci sperduti, fallite assenze, come «toppe d’inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce».

L’esistenza, quindi, slancia la sua paratia in un recupero patrimoniale di esperienze e visioni che si sovrappongono, le sfumature riprendono il vertice dei suoni per dare vita a un gioco di specularità e iterazione, dissolvenza e ricorrenza.

Nell’esordio poetico Frontiera (1941), il caleidoscopio sereniano declina le sue pitture e i suoi idilli in un’ombra sfacelante (molto simili al Coleridge de La ballata del vecchio marinaio), dove il delineamento di figure incerte che si attardano e il viaggio acquoso (Luino e il suo paesaggio di confine-limbo) percorrono la sua linea d’ombra originaria, che transita solo per dissolversi e scomparire, per abbandonarsi nella luce e nello strazio di un congedo sfasato («La svelata bellezza dell’inverno»). Un tentativo di accordare immagini minacciose e silenti con il sotteso delle rotture e della fissità sfumata, in ciò che Silvio Ramat definisce come «passione trepida di romanzo»: «Un altro ponte / sotto il passo m’incurvi / ove a bandiera e culmini di case / è sospeso il tuo fiato, / città grave […] Maturità di foglie, arco di lago / altro evo mi spieghi lucente, / in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo».

La donna-lago, che chiude l’opera, ammalia e nullifica, colloca l’immagine bianca e invernale del tempo in un rapimento inquietante e immobile, in cui la pienezza vivente si sorprende nell’abito mortale dell’inverno e della sua sospensione tacita: «S’imprimeva in me un senso di diffuso biancore, con riflessi metallici, ghiacciati, invernali, quasi avessi a che fare con una metafora dell’inverno; e già questo era fuorviante, quanto più una giustificazione e una caratterizzazione di ordine visivo mi offriva una scappatoia semplicemente sensoriale rispetto alla reale,e fin lì impenetrabile sostanza del testo».

La stessa atmosfera si riscontra in Diario d’Algeria (1947), dove il diarismo culmina nella dolorosa esperienza personale. Catturato a Trapani col suo reparto dagli Angloamericani nel 1943, venne trasferito nell’Africa del Nord nei campi di prigionia di Orano e Casablanca.

È l’esperienza-limite dei fantasmi della Storia, l’essere margine escluso di qualcosa che si svolge altrove, per essere «morto alla guerra e alla pace», sull’orlo indicibile del tempo, sul trabocco metafisico «tra due epoche morte / dentro di noi». Partecipe e inadatto: «Vado a dannarmi e insabbiarmi per anni» o ancora «Ora ogni fronda è muta / compatto il guscio d’oblio / perfetto il cerchio».

Afferma Daniele Piccini: «Sereni, al contrario di Luzi, è il poeta del cimento, della paziente e difficile conquista di un verso, di una scena, di una figura: non procede con la miracolosa facilità che possiamo riconoscere nel fiorentino e, in modo diverso, in Bertolucci, ma con studio, per filtraggi, per condensazioni».

La sua rarefazione è frutto di uno sforzo ed è sempre minacciata dalla paura del silenzio, dell’angoscia di non poter scrivere, da una permanente perplessità. Egli muove da questi limiti interiori, da questi assilli e trova il modo di superarli, anche attraverso una stratificazione di voci e di registri, di suggestioni e di spunti combinati in organismi complessi e sfuggenti».

La sostanziale purezza lirica che si unisce al suo precedente libro fa spazio all’isolamento e all’inazione, al trauma che scocca i suoi segni, alle ferite partecipate. L’essenziale raspamento, che quell’esperienza porta con se, determina un graduale passaggio viandante e poi prigioniero. Il vento, il sole, le nubi sono legati a una dura sostanza corporea, a una geografia incolore, a uno straziato ed esule cromatismo.

Il residuo della vitalità si richiama nei ricordi, quasi salvati, e allo stesso tempo sfumati, perché «la voce più chiara non è più / che un trepestio di pioggia sulle tende». La mancanza, il vuoto, l’isolamento giacciono nel fondo umano la loro immobilità larvale e purgatoriale, «Sereni», scrive Giulia Raboni, «costruisce nella prigionia un guscio protettivo che finisce per rinchiuderlo in una sorta di limbo, non troppo duro da sopportare ma insieme, anche per questo, tanto più colpevolizzante».

Lo scatto e l’affondo distinguono nuove sovrapposizioni, affermando l’esigenza di difendere i tratti degli istanti significativi, per «produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore». È l’esito di una pronuncia nascosta che cerca salvezze antiche, l’io che sceglie in modo privilegiato.  

La trasformazione e l’ampliamento del lessico di Saba e Montale, se da un lato impongono una modernità verso il basso, precipui a un territorio vastissimo, dall’altro contestualizza l’espressione in un movimento preciso e quotidiano, come testimonia Laura Barile nel suo saggio Amore e memoria, ripercorrendo ciò che lo stesso Sereni afferma: «Un istinto incorreggibile mi indusse a riprodurre momenti, a reimmettermi in situazioni trascorse al fine di dar loro seguito, sentirmi vivo […] Perché facilmente una forma di presunta fedeltà alla propria immaginazione si pietrifica nell’inerzia, in una stortura».

La fase di attraversamento nel tempo del dolore e della perdita diviene esperienza vissuta e coltre d’amore: «ama dunque il mio rammemorare / per quanto qui attorno s’impenna sfavilla e si sfa: / è tutto il possibile, è il mare».

La sovrapposizione di piani, pertanto, accende la sua umbratile luminosità, Ancora sulla strada di Zenna testimonia il riflesso di una esclusiva immanenza; Il muro persegue un dialogo notturno con il padre, mentre osserva una partita di calcio davanti al cimitero di Luino («Dice che è carità pelosa, di presagio / del mio prossimo ghiaccio, me lo dice come in gloria / rasserenandosi rasserenandomi / mentre riapro gli occhi e lui si ritira ridendo / – e ancora folleggiano quei ragazzi animosi contro bufera e notte- lo dice con polvere e foglie da tutto il muro / che una sera d’estate è una sera d’estate / e adesso avrà più senso / il canto degli ubriachi dalla parte di Creva»), La spiaggia condensa passaggi epifanici attraverso una conversazione al telefono.

La perlustrazione del vuoto esprime un movimento inconsolabile, il sigillo di qualcosa di inespresso e perduto: «e dopo / dentro una povere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», o ancora «E quante lagrime e seme vanamente sparso», «Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?».

Eppure in Sereni permane, afferma Daniele Piccini «struggente e lucida, direi virile, la suggestione di una gioia che si oppone a quelle ombre e che ne è istantanea e non metafisica risposta. […] La compressione dolente, propriamente angosciosa del discorso di Sereni determina il liberarsi di forze in senso contrario, di fioriture fortunose, che non si attentano a rovesciare il discorso, a risolverlo, ma a tenerlo in una drammatica tensione, in una dinamica aperta a più significati, scaturiti dalla frizione e dalla clausura».

Negli Strumenti umani (1965), l’aggressione alla pienezza della prima persona sembra richiamarsi al silenzio, alla sovrapposizione dei gorghi di voce, all’eloquenza e alla moralità, attraverso «un tentativo», come afferma Franco Loi, «di sfuggire al Narciso, di cogliere, attraverso la poesia, “gli strumenti umani”, le “minime” verità della sua vita, “i minimi atti”, e nel tentare questo la moralità traspariva come specchio, rigoroso varco e “tornasole” per la sprezzata-amata, e tuttavia ovunque riemergente, compiacenza dell’Io».

L’estremo sforzo di riallacciarsi alla necessità delle fatiche, degli amori, della storia degli ignoti diventa il riflesso sulla propria condizione precaria e oscura, in quelle «toppe di inesistenza» che culminano come solitari emblemi e punti ciechi di assenza: «I morti non è quel che di giorno / in giorno va sprecato, ma quelle / toppe d’inesistenza, calce e cenere / pronte a farsi movimento e luce». L’immanenza trema di gioia, come sperpero di disseminata grazia: «con che fermezza che forza quelle mani / tendevano al sonno gli arbusti / strappati all’ultima riva».

Non esiste, in Sereni, un colore lugubre, né un soprassalto metafisico o una lamentazione, ma la materia del mondo è la sorvegliata misura della morte, che accetta la prigionia in un campo senza cromatismi: «L’anima, quella che diciamo anima e non è / che una fitta di rimorso, / lenta deplorazione sull’ombra dell’addio».

Gli asettici inferni delle fabbriche, l’essere visitatori del mondo, la mimesi del paesaggio toccano il buio della mente, il rumore che si somma per divenire straniero, per credere, come sostiene Mengaldo: «alla funzione rappresentativa anche per altri di una sua particolare esperienza, e della “morale” che ne scaturisce; e in questo senso crede ancora, problematicamente, alla poesia».

Il decorso biografico si appropria dei riflussi, della estrema esiguità di un mito esile: «Siamo passati come passano gli anni, / Altro di noi non c’è qui che lo specimen anzi l’imago / Ma ero / io il trapassante, ero io / perplesso non propriamente amaro».

L’agguato e l’insidia della realtà negativa abita la pagina, come comparsa di lacuna e referto estranei, ma non ammutina la serenità vitale della protezione dell’amicizia, dello scoscio sonoro e del lievito quotidiano, volti a eternare, cristallizzare e conferire la transizione vertiginosa e memorabile del passaggio multiforme dell’esistere: «Niente ha di spavento / la voce che chiama me / dalla strada sotto casa / in un’ora di notte: / è un breve risveglio di vento, una pioggia fuggiasca», oppure «Confabula di te  laggiù qualcuno: / l’ineluttabile a distesa / dei grilli e la stellata / prateria delle tenebre».

La rimarginazione tessuta fino all’osso di Stella variabile (1981) compone il suo referto in una spoliazione estrema: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile (/ è il colore del vuoto?».

La trasparenza emorragica dei giorni impone il suo ritardo e il suo rimorso per una mancanza, un’omissione, un ricordo riportato in vita, come aria popolosa. Aveva ragione Fortini, quando scrisse che la poesia di Sereni si muoveva tra indugi elegiaci e scatti di impazienza, quasi a farsi permeare da una crucialità di palcoscenici di varia esistenza e di incertezza.

«Ma da queste situazioni spettrali, prive del risarcimento ideologico che hanno in Montale» sostiene Matteo Marchesini, «Sereni riesce a difendersi. Capita quando intravede un riflesso di quella pienezza vitale che è il suo vero mito. Questa pienezza si rivela nell’amore: ma soprattutto nell’amicizia, e nella grazia dell’efficienza fisica».

Dagli strumenti umani, attraversatori di vita, alla straziata prospettiva stellare, proiettata e dislocata in un ambito memoriale di sogni e trapassi, che trascolora di rinunce, commozioni e stravolgimenti, finisce per «Stringersi / a un fuoco di legna / al gusto morente del pane alla / trasparenza del vino / dove pensosamente si rinfocola / il giorno da poco andato giù / dalle rupi col grido dei pianori / nel vello dei dirupi nel velluto / delle false distanze fin che ci piglia il sonno?».

Il baleno che vive a ridosso della gioia è la stella variabile di un armistizio, verso una memoria che non sfama mai, come il nudo stupore, ricolmo di brivido, verso se stesso, che abbandona e si avvicina alla vita, si sporge dal sogno e dal paesaggio inafferrabile di quel «viandante stupefatto / avventurato nel tempo nebbioso».

 

Sereni v., Poesie e prose, Mondadori, Milano 2013.

Id., Materie prime, in «La Rotonda», Almanacci Luinese 1981, F. Nastro, Luino 1980.  

Aa.Vv., Per Vittorio Sereni. Convegno di poeti, Luino 25-26 maggio 1991, a cura di Dante Isella, All’insegna del Pesce d’oro, Milano 1992.

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Baffoni Licata M.L., La poesia di Vittorio Sereni, Longo, Ravenna 1986. 

Barile l., Amore e memoria. Il rammemorare e il mare di Sereni, «Autografo», vol.V, n.s., n.13, febbraio, 1988.

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Schuerch R., Vittorio Sereni e i messaggi sentimentali, Vallecchi, Firenze 1985.

 

 

 

Walt Whitman e la fecondità dell’essere

di Andrea Galgano                                         20 novembre 2013

Poesia moderna Walt Whitman e la fecondità dell’essere

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H.D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni», e in questa visionaria tessitura si può scorgere come Whitman, con il suo Foglie d’erba, rappresenti il crinale estremo di un canone che racchiude un popolo in un poema, lo accarezza nelle linee storiche e, infine, lo pronuncia: «Gli americani, di tutti i popoli che sono mai apparsi su questa terra, possiedono forse la natura poetica più piena. Gli Stati Uniti in sé, nella loro essenza, sono il più grande dei poemi. […] Qui finalmente troviamo nell’umano operare qualcosa che risponde all’operare maestoso del giorno e della notte».

La voce di Whitman non si nasconde nella prosopopea retorica, bensì, nelle sfumature profonde, insegue la sua freschezza vitale, come «i poeti del cosmo» che «avanzano attraverso tutte le interferenze, gli occultamenti, i turbamenti e gli stratagemmi verso i primi principi».

La celebrazione scolpita, come forza e abbandono, della materia vivente, l’aspetto numinoso della realtà e la sospensione rappresentano il suo territorio unico, laddove «qualunque possa essere stato nel passato, il vero uso della immaginazione nei tempi moderni è quello che vivifica i fatti, la scienza e la vita comune, dotandoli di quello splendore, quella gloria e quella fama che appartengono a ogni cosa reale, soltanto alle cose reali. Senza questa definitiva vivificazione – che solo il poeta o l’artista può mettere in atto – la realtà sembrerebbe incompleta,e la scienza, la democrazia, la vita stessa alla fine, cosa vana».

Se il suo canto si sofferma sull’abbandono alle forme di «cameratismo», «allegria», «soddisfazione», «speranza», la furiosa scultura del vivente e la calura del suo magma introducono, come scrive Giuseppe Conte: «la pulsante istantaneità della vita nella poesia e nel verso. Il vivo del Tempo, l’immanenza, ciò che di misterioso e palpabile lega l’io all’universo. Se esiste una poesia inafferrabile, del puro presente, quella di Whitman è la migliore del genere».

Nato in un villaggio di Long Island nel 1819, tipografo, carpentiere, giornalista, Whitman ha assaggiato le grandi masse democratiche dell’America, come un grande fiume che trascina forze commiste, nei giorni in cui stava diventando una grande Nazione, da New Orleans a Chicago, fino a New York, passando per il Mississippi, i Grandi Laghi e il fiume Hudson, in un’estatica virulenza fiduciosa, nelle forze dell’uomo, nel canto-bardo universale, come «Adamo nel primo mattino, che usciva di sotto il riparo di fronde, ristorato dal sonno» (Figli d’Adamo).

La felice brillantezza del mattino dell’umano impone la sua purezza senza peccato, racchiude il gemito e l’ardimento di una imprescindibilità valoriale, assoluta e primigenia: «Io dico che l’intera terra e le stelle universe nel cielo esistono per la religione. / Dico che nessun uomo è mai stato abbastanza devoto, neppure la metà del necessario».

È la religione che permette l’unione inclusiva e fulgida dello sforzo umano, nell’ Amore e nella Democrazia: «Noi non consideriamo divine le bibbie e le religioni – e io non dico che non siano divine, / Ma dico che sono nate da voi, e da voi altre volte possono nascere ancora».

La lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento, come analizzato acutamente da G.W. Allen, di Shakespeare, di Omero, di Eschilo, del Canto dei Nibelunghi, hanno innalzato il pinnacolo della poesia stuporosa e ampia dell’uomo e del suo definitivo istante, come afferma David Herbert Lawrence: «Senza principio né fine, senza né base né frontone, continua a passar vicino superbamente, come un vento che trascorre senza posa né si può incatenare. Whitman in realtà guardava al prima e al dopo: ma non sospirava per ciò che non è. La chiave di tutto il suo segreto espressivo sta nella stima del momento istantaneo e nient’altro, della vita che si gonfia essa medesima in espressione alla sua reale sorgente».

La feconda prosodia partecipa alla elencazione scandita del mondo. Le novità della scrittura rinomina il mondo in un nuovo parto di energia originaria, come ritmo e pazienza di splendore.  

La poesia è l’Evento del destino, in cui la complicanza, grezza ed entusiasta del suo ritmo panteistico e democratico, apre la sua recitazione.

G.K. Chesterton, soffermandosi sulla «materia per poetare misticamente» che valorizza l’umano in Whitman, in L’umanesimo è una religione? scrive: «Ciò che apprezzavo era quella proposta di una nuova eguaglianza, che non consisteva in uno squallido livellamento, ma in un entusiastico guardare in alto; un grido di gioia sul semplice fatto che gli uomini erano uomini. […] ognuno di essi possedeva quella maestà e quella mistica propria degli dei, pur essendo nello stesso tempo franco e confortante amico», e continuando afferma che «La gloria apparteneva agli uomini in quanto tali; il culto comune andava cercato nell’amicizia e anche la persona meno importante deve poter far parte di questa fratellanza; un negro gobbo mezzo scemo, orbo da un occhio e con tendenze omicide, deve anche lui avere la sua aureola dorata e illuminata».

La poesia che abbraccia, esonda, diviene coraggiosa, che guarda alla gente comune, all’interezza di un popolo, fatta di falegnami, boscaioli, calzolai, diviene immagini di un grido barbarico fresco e spontaneo: «Io canto il sé, la semplice singola persona, / E tuttavia pronuncio la parola Democratico, la parola En masse».

Commenta Giuseppe Conte: «C’è un che di fluido, organico, tempestoso, innocente, progettante, esclamativo in lui, un’enfasi, una volontà predicatoria, un pioneristico respiro vitale, una corporeità selvatica che fonda una saldissima, idealistica fede nella democrazia, una visione attiva del mondo e del linguaggio, […] la poesia di Whitman si pone da un lato come forza eversiva, energia che libera energie, pratica che scardina il conformismo di ogni ordine, dall’altro come canto che celebra, glorifica il presente, la realtà nei suoi aspetti ora minimi, un filo d’erba che nasce, ora solenni, un eroe che cade».

È nel popolo che la Musa trova dimora, il luogo oltre tempo dove esaltare la presentificazione del reale e radicarla in esso, parlando a chiunque: «Ecco, io ti presento, qui oggi, o Musa, / Le occupazioni tutte, i doveri grandi e modesti, / Il lavoro, il sano lavoro e il sudore infiniti, incessanti».

La semplicità gioiosa si affaccia allo spirito del Paese, per «esprimersi letterariamente con la perfetta rettitudine e insouciance dei movimenti degli animali e l’incontestabilità del sentimento degli alberi nei boschi e dell’erba ai margini delle strade».

Ecco la vastità dell’io che tocca il mondo, la sua avventura, la sua dilatazione ricettiva: «Dentro me le latitudini si ampliano, le longitudini si allungano», per essere «Una snella nave che gonfia le vele, piena di ricche parole, piena di gioie» e dove inalare, aspirare con avidità «lunghi sorsi di spazio, / l’est e l’ovest sono miei e il nord e il sud sono miei, / Più grande, migliore son io di quello che pensassi, / Io non sapevo di avere in me tanta bontà. / Tutto mi sembra bello».

La fulgida corrispondenza tra corpo e io, nazione a terra, compone il suo gemito: «Fate che possa contenere tutti i suoni (io grido come un folle) / Riempitemi di tutte le voci dell’universo, / datemi i loro palpiti, anche quelli della Natura, / E le tempeste, le acque, i venti, le opere e i cori, le marce e le danze, / Cantateli, versateli in me, perché io tutto vorrei contenere».

Commenta padre Antonio Spadaro: «Le visioni whitmaniane mai si fermano ad una tensione visiva astratta o vagamente fantasiosa perché il poeta si fa subito veggente del concreto e del reale. Dunque lo appassionano non solo la natura, i suoi campi aperti, le tempeste, le montagne e il mare, ma anche «l’opera dell’uomo» che ”è egualmente grande nell’artificiale – in questa profusione di brulicante umanità – in queste prove di ingegnosità, strade, merci, case, navi – queste frettolose, febbrili, elettriche, masse d’uomini”».

L’ebrietudine della pienezza soffia sulle strade, sulle linee compiute e infinite, sui lacci che sfiorano gli spazi: «Su, anima, non scorgi tu subito lo scopo di Dio? / Che la terra è percorsa e congiunta da reti di strade e di ferro, / Le razze, i vicini sono congiunti perché si sposino e siano sposati, / Gli oceani sono attraversati per avvicinare chi è distante, / E per cucire insieme le terre». La maestà della vita e la maestà del reale in un unico vertice di vertigini esplose.

La pulsazione, la potenza, la passione congiungono la loro visione metaforica, finendo per cogliere il «filo che connette le stelle, gli uteri e il seme paterno» e, come commenta ancora Conte, «per questa visione, tutto è divino, il poeta è divino dentro e fuori di sé, e così santifica tutto ciò che tocca, ed è santificato da ciò che lo tocca».

Il respiro di Whitman cerca la inaugurale vibrazione, la vorace estasi, l’incarnazione della cosa pensata, come barbarico battito dispiegato che insegue la chiarezza materica, la fragranza che sboccia, per giungere, come commenta Spadaro, «alla natura vera delle cose, per vedere le cose con occhi vergini»: «Tutte le verità attendono in tutte le cose, / Esse né affrettano la propria liberazione, né resistono, / Non richiedono il forcipe dell’ostetrico: / L’insignificante è così grande per me, come ogni altra cosa».

Scrive Harold Bloom: «Whitman divideva se stesso (o riconosceva se stesso come diviso) in «my self», «my soul», e «real Me» non è per nulla un Es. […] Questo «Me myself» non è esattamente «bramoso, grezzo, mistico, nudo» e nemmeno «turbolento, carnale, sensuale, che mangia, che beve e procrea». Aggraziato e in disparte, assolutamente equilibrato, affascinante oltre misura, questo strano «real Me» è maschile e femminile, molto americano per quanto non rude, stimolante e in accordo con se stesso. Qualunque cosa sia l’anima di Whitman, questo «Me myself» non può evidentemente avere con essa alcuna relazione egualitaria». Quando l’ «Io» di Whitman si rivolge all’anima, sentiamo un avvertimento».

La sua catalogazione è la declamazione dell’essere, pensato, ricreato, innovato, persino guardato con sfrontatezza, come un cosmo dilatato che si presenta. La maschera del suo io ideale che fronteggia il suo io reale e vero. È in se stesso che ogni uomo è tutto: «Walt Whitman, americano, uno dei duri, un kosmos / turbolento, fatto di carne e ossa», perché ciò che costituisce la sua idealità «non costituisce il mio Io. Ciò che io sono in disparte sta da quanto mi attira e trascina, / Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, in se conchiuso, / Guarda dall’alto in basso, eretto, o piega il braccio su un punto di impalpabile quiete, / Guarda col capo reclinato, curioso di ciò che accadrà, / Partecipe e fuori del gioco, osserva e stupisce».

Lo stupore conosce. Cosicchè «Deluso, respinto, piegato a terra / Oppresso da me stesso, che ho osato aprir bocca, / Conscio ora che tra tante vane parole, i cui echi ricadono su me, non ho mai avuto la minima idea di chi o che cosa io sia, / Ma che di fronte a tutte le mie arroganti poesie il mio vero Io resta intatto, inespresso, tuttora inattinto, / e, ritiratosi lontano, mi irride con beffarde congratulazioni e inchini, / Con scrosci di lontane risate ironiche per ogni parola che ho scritto, / in silenzio indicando questi canti, e poi la sabbia che m’è sotto i piedi, / m’avvedo che non ho mai nulla capito, neppure una cosa, e che nessuno vi riesce, / La natura, qui, in vista del mare, approfittando di me per scagliarsi su me e ferirmi, / Perché ho avuto l’audacia d’aprir bocca e cantare».

Il prodigioso vortice dell’essere si attesta in una radicale novità originaria che esalta l’individuo, il singolo, ma anche la massa e l’eguaglianza, per essere una istintiva e ubertosa libertà, farsi natura, concepire la vitalità come prodromo di desiderio, allegoria sognante di abbagli, larga e piena di moltitudini.

L’esperienza della guerra civile rappresenta la trama ferita di una stagione che apre il sentiero della fatalità e del mistero inesplicabili, ma che scoperchia anche una pietà intensa, visiva, sofferente, persino scolpita, come avviene nella cristica morte di un giovane.

Quasi un vagito che cambia prospettiva: «Dovrò dunque mutare i miei canti trionfali? Mi chiesi, / dovrò imparare a cantare le fredde nenie dei vinti? / e i cupi inni degli sconfitti?».

Oppure geme nella preghiera sofferta di affidamento e di bacio, come tempio di anima navigante che percepisce il nome delle onde lontane: «Prossima è la mia fine, / le nubi già si serrano su me, / il viaggio è contrastato, dubbio, smarrito il corso, / i miei vascelli ecco li affido a Te. / Le mani, le mie membra son divenute inerti, / Il mio cervello, sotto le torture si smarrisce, / si sfasci pure la vecchia mia carcassa, io non mi sfascio, / Mi stringo stretto a Te, mio Dio, mi colpiscano pure le onde, / Te, Te almeno so».

Una foglia d’erba non è meno di un giorno di lavoro di tutte le stelle.

 

whitman W., Foglie d’erba, a cura di Giuseppe Conte, Mondadori, Milano 1991.  

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Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

pdf 96 (23) 20 10 2013 IL DETTATO AMOROSO DI EDMUND SPENSER

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Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

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Andrea Galgano 20-10-2013 Il dettato amoroso di Edmund Spenser