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L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 1 settembre 2016

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HouellebecqIl territorio di Michel Houellbecq (1956) scopre l’intima e sorgiva coltre della sopravvivenza, dell’urlo lacerato e della sofferenza dispiegata.

La vita è rara. Tutte le poesie[1] (2016) edito da Bompiani, che raccoglie l’intero corpus poetico, staglia e inizia con un “metodo”, già caro a Orazio e Rainer Maria Rilke, immaginando, come avviene nella prima opera Restare vivi (1991), che

l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a migliorarci. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare, nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare[2].

La strada della poesia vive di questo territorio di sofferenza dispiegata, appunto, che riconosce l’interstizio umbratile del nulla nell’essere, la sua prominenza scura, la peculiare vibrazione del dolore cieco come un nodo che si estende fino all’assenza che si cerca per la memoria, «e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma della propria solitudine[3]».

Restare vivi è condensare la sopravvivenza solitaria della scrittura, per lavorare sul grido articolato dell’incarico della poesia, e il poeta, come un sacro scarabeo,  entra nel suo teatro debordante e fallimentare, ma è un docile fallimento che non ha paura della felicità perché non esiste e che cerca, indissolubilmente, l’eternità:

Il mondo è una sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è un’espansione e uno schiacciamento. Tutte le cose soffrono, finchè esistono. Il nulla vibra di dolore, fino a giungere all’essere: in un abietto parossismo. Gli esseri si diversificano e diventano più complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria. A partire da un certo livello di coscienza, si produce l’urlo. Ne deriva la poesia. E anche il linguaggio articolato. (Dapprima, la sofferenza).

Con Il senso della lotta (1996), la percezione del reale di Houellebecq «lo conduce a una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più consapevole è più incapace di adattamento[4]»: «Ci sono state notti in cui avevamo perso anche il senso della lotta / tremavamo di paura, soli nella pianura immensa, / Avevamo male alle braccia / Ci sono state notti incerte e molto dense».

Esiste sempre una sorta di stanca trasparenza pervasa dalla sofferenza, come se ci fosse un lividore che intesse la superficie invisibile che delimita l’aria, le parti separabili e separate del corpo, il pomeriggio abbozzato dal dolore, l’attesa dell’avvenire non ancora venuto:

Fuori fa molto caldo e il cielo è splendido, / La vita fa volteggiare i corpi giovanili / Che la natura chiama alle feste primaverili / Lei è solo, ossessionato dall’immagine del vuoto, / E sente pesare la sua carne solitaria / E non crede più alla vita sulla Terra / Il suo cuore stanco palpita con difficoltà / Per rimandare il sangue alle sue membra troppo pesanti, / Ha dimenticato come si fa l’amore, / La notte cade su di lei come una condanna a morte (Pomeriggio).

 

Ma la piaga di Houellebecq ha un contrabbando inquieto, l’incrocio senza amore corroso, l’immensità della notte che sfiora gli oggetti esitando, mentre a servizio del sangue si muove l’oscurità. Forse un ricordo di camera di giornate superflue, forse uno splendore azzurro che chiede dolcezza o fine, che sospende l’ultimo giorno precoce di un amore intero da vivere: «E per guardarci ore intere; / Tu spogliavi il tuo corpo davanti al lavabo / Il tuo viso si contraeva ma il tuo corpo restava bello / Mi dicevi: “Guardami. Sono intera, / Le mie braccia sono unite al mio busto, e la morte / Non colpirà i miei occhi come quelli di mio fratello, / Mi hai fatto scoprire tu il senso della preghiera, / Guardami, guarda, Posa i tuoi occhi sul mio corpo”» (Eccezione Rue d’Avron).

L’essenza della realtà e la sua similarità con l’essere lottano, impari, con l’alba livida delle ripetizioni identiche, con il futuro, divenuto anteriore, delle promesse, con la quotidianità divorata da un senso acre di ansia e precarietà che però cerca di trascendere nell’infinità preziosa e nel mistero, purtroppo irrisolto.

L’eternità inseguita allora è un urlo, un magma, un tono di attacco «che possa straziare il silenzio della notte», che possa spogliare  l’interludio di un breve silenzio dalla propria prigione, dalla propria inconsistenza, dal proprio sogno fragile e dall’ultima angolatura della scala, come la vita che si disegna sulle reti urbane o come la presenza nuda del mondo:

 

Muoiono talvolta d’un sol colpo, / Certe sere / C’erano abitudini che facevano la vita ed ecco che non / c’è più niente / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente nero / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante / Non ci sono che oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / Cosa fra le cose, / Cosa più fragile delle cose / Gran povera cosa / Che aspetta sempre l’amore / L’amore, o la metamorfosi.

 

Ma la rincorsa dell’amore all’amore è un quasi-oblio vinto, un desiderio altro di vita, la fine prima dell’inizio, la sopravvivenza delle partenze, la divorato silenzio delle domande inconcluse come chiarore inevaso, il corpo dolente come testimonianza dei crepuscoli anneriti, la confusione della dolcezza lontana e l’anima che cerca il sole nel grigiore livido: «La sera si stabilizza e l’acqua è immobile; / Spirito di eternità, vieni a posarti sullo stagno. / Non ho più niente da perdere, sono solo e tuttavia / La fine del giorno mi ferisce di una ferita sottile».

Contiene una strana ferocia La ricerca della felicità. Ferocia che si dipana per tutta la durata di questo paesaggio interiore, attraverso il margine delle ragnatele urbane, dei luoghi svuotati di ipermercati e posteggi, dove le relazioni sembrano quasi una sorta di soglia di passaggio non riconciliata dove le particelle elementari sono lo sfondo di un’epica lacerata e confusa. Una domanda e una costatazione di amore tremende, una lontananza esclusa: «Perché non possiamo mai / mai / essere amati?».

È come scendere in un gorgo di catastrofe e caos, dove il remoto smarrimento dell’uomo, cavia e pedina, cerca la sua tessitura di speranza e sogno, di esistenza e lucidità di decifrazione.

Non esiste un punto di appoggio, nella notte lucida e attenta, l’orizzonte resta fluido negli orizzonti sgranati ma resta la dissolvenza del desiderio, stanato dall’oblio, irraggiungibile: «Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo il reale».

È la modulazione del tempo ispessito dal mancato contatto con la realtà interrotto, dal freddo di ciò che risulta estraneo, dal tempo ontologico in cui ritrovare la gioia, dalla linea retta delle tracce sicure di ciò che è raro:

I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, / aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso / passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara.

 

Scrive Laura Fusco su “L’Indice”:

La realtà è la solita, “gabbia laboratorio”, e l’individuo, un po’ alla Truman Show, molto cavia e «pedina». Lo sfondo grosso modo quello di Le particelle elementari: metropoli globali, immense «ragnatele» e soprattutto quei luoghi non luoghi come ipermercati e posteggi, scenari di una socialità negata, in cui si consuma l’angoscia di riti collettivi svuotati. Insomma Houellebecq, la sua rivisitazione «epica» del reale, con angeli che volano nella stanza, microbi, metallo, edifici vuoti che rimandano l’eco dei passi, quella sorta di gigantismo, horror vacui e senso di disperante catastrofe che è il mondo. Anche se «non abbiate paura, il peggio è passato, siete già morti». Tutto in modo più “caotico” del solito, come in un “pastiche” postmoderno. O, se si pensa ai suoi ricoveri in clinica psichiatrica, in certi deliri o negli incubi, in cui è la tessitura da cui non si riesce a uscire la sostanza e il pauroso del sogno. Houellebecq è lucido e consapevole, «secondo i medici sono il colpevole»[5].

La studiosa, analizzando l’inseguimento di Houellebecq della matrice dettagliata del reale, continua ancora:

Più che il contenuto del pensiero, scomodo, provocatorio e senza freni, è il flusso la cifra, qui più che nei romanzi. Anche perché nel libro, diviso in sezioni, come critico, saggista e poeta l’autore riesce a scavare e tessere associazioni, scarti, accumuli ed escheriane variazioni sul tema, spostando piani e cambiando linguaggi e prospettiva. «Il luogo magico in cui la parola è canto non esiste» – come la felicità – «ma noi camminiamo verso di esso[6].

Il punto iniziale del suo frattale diviene, allora, una meta irriproducibile in questa vita, come il grido rapido e brevissimo della sofferenza, del dolore, del limite creaturale del corpo battuto e mescolato alla terra come bestia impura, dell’amore sospeso e spento, della malattia e della paura della morte: «Fra cinque ore al massimo il cielo sarà tutto buio; / aspetterò il mattino schiacciando mosche. / Le tenebre palpitano come piccole bocche; / poi torna il mattino, secco e bianco, senza speranza».

Il limite di Houellebecq è l’adesione a una territorialità franta, alla parola quasi bianca degli ospedali, come il gemito della prima sigaretta, come la fame, sempre la stessa, della fase estrema dell’io che

 

parla per e a nome dei poeti e dell’umanità, esorta con furia calma, in una sorta di allucinata ebbrezza, indica una via che è contraddizione, «aderite e tradite subito». L’autore è solo «di fronte all’ininterrotta presenza di sé»: «nulla interrompe mai il sogno solitario che mi fa da vita». E ripropone all’infinito i dettagli di quella realtà frattale e matrigna che è il filtro della mente, specchio che lo chiude in una “non libertà” di sperimentare. Lui capovolge: «il mondo è sofferenza perché libero[7].

 

Questa deriva di incontri e incroci, ore trascorse, insinuazioni bruciate nel silenzio delle cose, incrinature silenziose e profonde, latitudini ricercate, chiede il riposo delle erbe impassibili, del ricordo che nulla cancella, come un tentativo morente di resistere, di essere divenire e tempo presente alla ricerca di una felicità pura e di una via d’uscita dalla paura e dalla mancanza: «Le persone se ne vanno, le persone si lasciano / vogliono vivere un po’ troppo in fretta / mi sento vecchio, il mio corpo è pesante / non c’è altro che l’amore»

La Rinascita (1999) che si compie è un azzardo di ciglia. Come una luce liquida che cola, nonostante il cielo rischiari solo rovine e la pioggia batte forte mentre il sole attraversa le nuvole: «Adesso il  sole attraversa le nuvole, / la sua luce è violenta; / la sua luce è possente sulle nostre vite schiacciate; / è quasi mezzogiorno e il terrore s’insedia».

In questa perdita di cocci e partite perse, in questo disordine amaro e fiori sbocciati, esiste come una brezza inappagata, un limite mortale che interviene nell’universo duro delle realtà sconnesse e della realtà da riconoscere come la vita: «L’anno della parola divina / è ancora da reinventare; / sul mio materasso, rumino / realtà sconnesse».

È un paradiso perduto la rinascita di Houellebecq, giace nel fondo, sembra essere inseguita nel cuore battuto dei colpi oppressi, nella stanchezza della lotta, in quel che muore ma forse non si rassegna a farlo nella luce declina (Nizza) o nell’amore che non basta mai, scavato nella città: «Creatura dalle labbra accoglienti / seduta di fronte, in metrò, / non essere così indifferente: / di amore non se ne ha mai troppo».

Nel sesso indocile, nel cielo vuoto, nella stanchezza del corpo, nel mattino dei giorni che scompare e tutto sembra cancellarsi e coprirsi di sabbia, il tentativo umano è cercare un contatto con un sapore di vita che non si annulli nella catastrofe e nella deriva, che entri nelle vene allontanandosi da ogni bestialità e dalla vita senza scopo.

La sopravvivenza è il cuore affranto verso la rinascita scampata dall’universo a brandelli e sprofondato mentre il corpo freme e desidera carezze. Una mano posata sul cuore, un soffio che diventerà profumo.

Si avverte sempre una sorta di estranea contemplazione, un interludio nella calma tremenda dell’azzurro inevitabile della luce uniforme: «nel disgusto, nel tedio / nell’indifferente natura / metteremo le nostre pelli allo studio, / cercheremo il piacere puro / le nostre notti saranno interludi / nella calma tremenda dell’azzurro», poi «la notte ritorna, fine del sole / sulla pineta inevitabile / e i tuoi occhi sono sempre uguali, / la giornata e completa e stabile» e «In mezzo a questo panorama / di montagne di media altezza / riprendo a poco a poco coraggio, / accedo all’apertura del cuore / le mie mani non sono più impedite, / mi sento pronto per la felicità».

Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza

 

a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso[8],

 

Configurazioni dell’ultima riva[9], edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».

È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione ma che fotografa la densità dell’istante spianato[10] e fuori asse e che segna una precaria solidità: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».

Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza ciclotimica[11] che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.

È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».

L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta[12]».

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente:

 

Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione.

 

Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia:

 

Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica.

Scrive Nicola Vacca:

Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia. Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa[13].

 

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».

Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave[14]».

Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone[15], è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».

L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».

È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremor, avviluppato nella conca drammatica dell’umano:

 

Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / è nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza.

 

Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive

 

nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore[16].

 

Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / è il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, /  Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».

La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane.

È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».

L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale[17]».

Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».

La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».

E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora[18]».

In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo:

 

Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?[19].

 

Bibliografia

Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

  • Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

Id., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.

Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

 

 

 

 

 

[1] Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

[2] Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

[3] Id., ivi.

[4] Id., ivi.

[5] Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

[6] Id. cit.

[7] Id., cit.

[8] Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

[9] Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

[10] Montefiori S., Le mie fotopoesie, in “Corriere della sera – La Lettura”,  12 giugno 2016.

[11] Id., Michel Houellebecq. Il mondo mi sorprende, perciò scrivo poesie: sull’amore, e sulle lavatrici, in “Correiere della Sera – La Lettura”, 25 ottobre 2015.

[12] Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 35-36.

[13] Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

[14] Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

[15] Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

[16] Cfr. Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

[17] Houellebecq M., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

[18] Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

[19] Donati A. – Garavini F., Nota al testo in Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, Bompiani, Milano 2015.

Miguel Hernández: l’assenza verticale

di Andrea Galgano 1 luglio 2016

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Miguel Hernández: l’assenza verticale

La poesia di Miguel Hernández[1] (1910-1942) rastrema il fondo della naturalezza più insolita, si appropria, attraverso un linguaggio annunciato e tellurico[2], del fondale raffermo dell’essere, cadenzando in un battito luminoso, la frequenza di una spezzatura ferita e di un gemito indomito. Affermare la potenza e l’abbandono di questa lucentezza in disparte, contadina e popolare, significa siglare un quaderno di guerriglia e superficie che ritorna all’origine incantata di un’appartenenza.

Se, dapprima, la centralità lessicale si dirige attraverso un ripristino agreste e materico di gioventù e ardore frammentato, successivamente il gesto poetico finisce per levitare «a favore di una riflessione che assume i caratteri soffusi di un accadimento interiore, dove s’impongono le presenze familiari della moglie e del figlio, uniche note positive di conforto e speranza. Il richiamo ossessivo di Josefina, come pure l’evocazione gioiosa del figlio, uniche note positive di conforto e speranza[3]».

La dilatazione dell’esistenza si afferma in una dizione autobiografica affamata ed intensa che attraverso la fatica, la desperanza, il lavoro e il sudore, pedinano lo scranno del futuro, del sangue destinato e della vita in attesa.

Giovanni Darconza, infatti, scrive:

Due le battaglie combattute da Hernández nel corso della sua vita. La prima contro le truppe franchiste e, più tardi, contro la prima fase della dittatura. In questa prima battaglia Hernández soldato è stato sconfitto e imprigionato. Ma anche rinchiuso fra solide sbarre troverà il coraggio di ripetere incessantemente: «Ata duro a ese hombre: no le atarás el alma». Sconfitto nel corpo ma mai nell’anima, nonostante le disgrazie e le sofferenze patite, lo spirito eroico del poeta di Orihuela conserverà fino all’ultimo la speranza di un futuro migliore se non per lui, almeno per il figlio nato all’inizio della contesa, e che Hernández riuscirà a vedere solo in poche occasioni. La seconda battaglia combattuta da Hernández fu molto più dura e insidiosa. Una battaglia più universale, che richiama alle armi tutti gli uomini di ogni nazione e fazione, e non è ristretta unicamente ad un preciso ambito geografico (la Spagna) né ad un determinato contesto storico (la guerra civile). Una battaglia combattuta contro nemici molto più infidi e pericolosi di Franco: il tempo e l’oblio. In questa seconda guerra Hernández è uscito alla fine vincitore[4].

La declinazione dell’assenza, celebrata nell’autobiografia intima[5] e quotidiana di Cancionero y romancero de ausencias[6], vive in un doppio eccesso: vita nella morte e morte[7], come limite e dolore ascensionale, nella vita, sviluppando l’estremità lessicale attraverso una ellittica e occulta trasposizione semantica che muove l’individualità nella storia collettiva[8] del mondo.

La singolarità è l’accesso dell’umano all’universale. L’animata traslazione lessicale, che tocca ogni spostamento metrico ed espressivo, nutre la sua poesia dionisiaca che spinge alla conversione della forza cosmica in passione “installata” nella punta del destino, come sostiene José Antonio Serrano Segura[9].

La verticalità dell’assenza, pertanto, coinvolge anche la cromatura sensuale della creaturalità femminile, vissuta attraverso lo spostamento metaforico dell’impossibile e dell’ inconcepibile[10]. È la ripetizione di una stanza che ricorda lo struggimento e la distanza degli occhi, della voce, del fiato, del corpo, della bocca e del raggio fragile e fatale che non termina, come qualcosa che tutto assomma e ingloba nel suo bene perduto e nel suo tatto in esilio[11].

Esiste un lungo posto di respiri scheggiati dalla mancanza ripetuta e della violenta rigenerazione: «Assenza ovunque vedo: / i tuoi occhi la riflettono / Assenza ovunque ascolto: / la tua voce suona a tempo. / Assenza ovunque aspiro: / il tuo fiato odora d’erba. / Assenza ovunque tocco: / il tuo corpo si svuota. / Assenza ovunque provo: / la tua bocca mi esilia. / Assenza ovunque sento: / assenza, assenza, assenza».

Laddove la fumosa condensazione del presente e del futuro eleva ogni minaccia funerea, Hernández ripone la sorgente del cuore dell’altro nel ventre[12], riconducendo, come afferma Gabriele Morelli, «il sesso alla sua centralità, secondo una concezione sacra e primitiva appresa dalla natura durante la sua esperienza di pastore[13]».

La musica sensoriale si concreta in una gravitazione percezione soffusa, nel porto confortato del presente, contro ogni lontana e indistinta confusione di fugacità, contro ogni oscurità che affiora dalle profondità rare e vane, per attestarsi nella salvazione amorosa e nello svelamento erotico: «Meno il tuo ventre, / tutto è confuso. / Meno il tuo ventre, / tutto è futuro, / vano, passato / sterile, oscuro. / Meno il tuo ventre, / tutto è insicuro, / tutto è ultimo, / polvere e nulla. / Meno il tuo ventre / tutto è oscuro. / Meno il tuo ventre / chiaro e profondo».

La densa costellazione gravida della distanza fa raccogliere all’universo la promanata storia di dense risonanze e gravitazioni, come commenta María Ortega Máñez:

Le parole si affilano come per cogliere la lacerazione del sentimento: da una parte il disamore, espresso con violenza dal giovane poeta, da un’altra parte l’amore, che muove sempre in Hernández da una realtà concreta, quella fisica. Le liriche amorose posteriori a El rayo que no cesa, ispirate quasi tutte dalla moglie Josefina Manresa[14], esprimono la gioia dell’unione con la disperazione della lontananza. Presente o assente, il corpo c’è, emanando una sensualità naturale, predicando l’essenziale materialità di ogni cosa […] Il corpo è infatti talmente integrato nell’amore e nella vita, che certe volte viene esaltato, facendogli assumere una dimensione mistica. In Io non voglio altra luce che il tuo corpo davanti al mio il corpo della donna irradia la luce che illumina il mondo e dà senso all’esistenza del poeta. Corpo e anima, desiderio e trascendenza fanno un tutto senza fessure, cosmico[15].

Il troncamento del tempo ha lampi nel petto che percorrono la nera prospettiva del viaggio, la mutilazione scura  e spezzata che entra addosso nella vita recisa in guerra e nella sospensione infranta: «Ogni volta più presente. / Come se un lampo veloce / ti portasse nel mio petto. / Come un lento, lento / lampo. / Ogni volta più assente. / Come se un treno lontano / percorresse il mio corpo. / Come se una nave nera, / nera».

Scrive Giuseppe Conte:

Miguel Hernández compose versi che sono abitati dal senso dell’assenza ma anche da amore, grazia, innocenza, e da immagini che saldano la condizione privata del poeta a quella delle forze della natura e del cosmo. Se la storia è il regno dell’orrore, il poeta, anche quando compie scelte militanti, vive in un regno antagonista, dove hanno voce il canto di un popolo e il canto del mondo, le visioni, i sogni, il balenare delle immagini più ardite[16].

Spesso la mutilazione si esprime attraverso una disorganica posizione di dettagli che uniscono grido e ferita, morte e ferita, strada e cuore cinereo. L’isotopia del poeta di Alicante è una gradazione di terra riarsa e desertica, come se fosse un urlo di bocca in disparte.

Nel territorio straniero che appartiene ai cani, il cuore resiste ancora in tutta la sua fertile lucentezza e dolcezza, come fulmine fecondo. È l’esito di una astralità sofferta che si espone e, allo stesso tempo, ritrae un mondo dialettico e complesso: «Bocche di rabbia. / Occhi in agguato. / Cani ululanti. / Cani e poi cani. / Tutto deserto. / Tutto riarso. / I corpi e i campi, / i corpi e i corpi. / Che brutta strada, / che cinereo / il tuo cuore, / fertile e dolce!».

La forma dell’assenza diviene suono ferito e specchio disabitato. Come se la voce fosse cinta da un grido speciale di camere solitarie e di foto aride nel vento, ancora una volta, cinereo: «Un vento cinereo / grida nella stanza / dove lei gridava / cingendo la mia voce. / Camera solitaria, / con il suono ferito / del vento cinereo / che grida tutt’intorno. / Specchio disabitato / Intimorita panca / contro l’arida foto, / letto senza calore».

La tragedia che compone il dramma delle terra è una appartenenza e una condanna, al tempo stesso. Concepire la segregata e irrigata Alicante, il lavoro contadino, il combattimento ultimo significa proporre la gemma di un dissotterramento che si espone alla luce, destinare l’inesorabilità alla maternità del principio e della fine alla soglia partoriente, così come alla penetrazione materiale che genera e rigenera il suo eterno ritorno e il suo sangue remoto[17].

Hernández avverte in modo inesauribile e preponderante il dolore della ferita sconvolta. In questo destino di dramma, di fame e di mancanza, la paternità e la dinamica affettiva esprimono una gioia tragica, come scrive ancora María Ortega Máñez:

Il sangue figura questa volontà di vita, è animo per chi combatte; ma allo stesso tempo, si tratta di sangue solamente quando lo si perde, quando si è prossimi alla morte, per le ferite o per la malattia. […] Sembrerebbe quasi che il sangue tracci questo vincolo fra vita e lotta di cui si nutre il tragico. E come il tragico, il sangue a volte si rovescia in gioia: l’immagine del sangue che sgorga si associa al germogliare dei fiori, alla primavera[18].

La disperata vitalità, espressa nei versi in cella, in cui egli legge la lettera della moglie che gli racconta di mangiare pane e cipolla e che il figlioletto inizia a mostrare i primi denti, determina la lacerazione disperata e splendente di una tensione luminosa. Un gorgo di parallele escoriazioni e veglie amorose. La cipolla è la fame, «il ridere è libertà, che «mette le ali», mentre i denti sono un’arma, «cinque minute ferocie». Il bimbo ride, sazio ed ignaro della triste circostanza: ecco la gioia tragica che vince l’abbattimento[19]»:

Nella culla della fame / il mio bimbo stava. / Con sangue di cipolla / lui si allattava. / Ma il tuo sangue, / brina di zucchero, / cipolla e fame. / Una donna bruna, / dissolta in luna, / si versa filo a filo / sopra la culla. / Ridi, bambino, / che ti porterò la luna / quando ne avrai bisogno. / Allodola della casa, / ridi molto. / Il riso nei tuoi occhi / è la luce del mondo. / Ridi tanto, / che la mia anima udendoti / vinca lo spazio. / Il tuo riso mi libera, / mi mette le ali. / Solitudine mi toglie, / carcere mi strappa. / Bocca che vola, / cuore che sulle tue labbra / manda scintille. / Il tuo riso è la spada / più vittoriosa. / Vincitore dei fiori e delle allodole. / Rivale del sole, / futuro delle mie ossa / e del mio amore[20].

O come l’immagine della guerra che tronca e uccide il campo dell’esistere, il grido-tremore delle madri, sollevando la fiamma dell’odio, chiudendo le porte all’amore, nelle bocche giunte come pugni, negli occhi spumati nel nero, per scomparire nell’ansia dilatata di un inganno di frontiere: «Il sangue percorre il mondo, / imprigionato, deluso. / I fiori si dissolvono / divorati dall’erba. / Ansia d’uccidere invade / la profondità dei gigli. / Ogni corpo desidera / di congiungersi ai metalli, / accoppiarsi, possedersi / in un modo terribile. / Scomparire: regna l’ansia / generale, dilatata. / Un fantasma di stendardi, / una chimerica bandiera, / un mito di patrie: un grave, / inganno di frontiere».

Lo strenuo combattimento con il cielo disanimato, l’aiuto contro il vuoto, il corpo ferito e insanguinato divengono la terra di corpi, soli e aurore da desiderare, un frammento d’ombra, un soffio sulla fronte spessa, un ventre di archi, dove ricercare il canzoniere del ventre remoto che possa offrire alla rarefatta, trasparente ed immediata coltre umana l’accensione dell’inciampo tra le nubi e la remota consistenza delle soglie.

In un germoglio abraso che cerca di rinvigorire, attraverso il suo appello, l’anima costernata delle disgrazie e delle passioni, l’incanto del corpo è luce sopravvivente, il pozzo, la palma ascendono ogni sradicamento e ogni congedo[21].

«Il pozzo e l’alta palma / affondano nel tuo corpo / abitato da ascendenze», scrive nel suo lungo romanzo di sperdute folate e ferite, rischiando la materialità per farsi primitivo vortice e anima affacciata sul corpo: «Non affacciarti / alla finestra, / che non c’è nulla in questa casa. / Affacciati alla mia anima. / Non affacciarti / al cimitero, / che non c’è nulla tra queste ossa. / Affacciati al mio corpo».

Lo sguardo della contemplazione unisce poli opposti, condensando il bacio in un angolo di corone e terra da inseguire fino allo zenit di ogni sguardo calato e vissuto. In essa si compie il silenzio delle distanze, l’accensione del ricordo, l’ombra solare, il silenzio delle fiamme e il freddo vestito dove arde il sangue e l’immagine rotta: «Di quell’amore mio, / che resta nell’aria? / Solo un freddo vestito / dove arse il sangue».

La primordialità tragica di Hernández trabocca in tutta il suo luminoso offuscamento, in tutta la sua lacerazione e smania fisica. Torna a baciare l’oggetto amato come uno schianto di precipizi ed eredità sprofondate, vissute in solitudine[22]: «Io tornerò a baciarti, / tornerò, cado, sprofondo, / mentre scendono i secoli / nei precipizi profondi / come ardente nevicata / di baci e innamorati. / Bocca che hai dissotterrato / con la tua lingua il mattino / più lucente. Tre parole, / tre fuochi hai ereditato: / vita, morte, amore. Sono là / sulle tue labbra impressi».

È l’esagerata e provvida sfrontatezza amorosa che spazza l’abisso e lo abita, gemendo nella materia controluce. La sfiorata trasparenza perfetta dell’alba del corpo che annuncia la vetta e il ponente dei fantasmi, sulla fronte, sulla bocca dell’elegia disperata e trasognata e, allo stesso tempo, feconda di lontananze dorate e neri sorsi di erbe scure: «Corpo chiaro, bruno di colore fecondante. / Erba nera l’origine; / erba nera le tempie. / Nero sorso sono gli occhi, lo sguardo lontano. / Giorno azzurro. Notte chiara. Ombra chiara che giungi. / Non voglio altra luce che la tua ombra dorata, / là dove germogliano anelli di un’erba scura. / Nel mio sangue, dal tuo corpo fedelmente acceso, / per sempre è la notte: per sempre è il giorno».

La rivelazione inedita del mondo sfiora e concentra la sostanza essenziale dell’essere e adunano, come afferma María Ortega Máñez:

questa realtà materiale – questa senziente carne aleteante –, catturano poderosamente tutta la vita intorno. Hernández mira al suolo che calpestano gli uomini, alla terra che solca l’aratro, allo scenario reale della vita e della morte, e questa realtà essenziale, fatta di «braccianti», «sudore», «cipolla», «bacio», «sangue», «fiato», impone le sue leggi. Forse è la ricerca di questa autenticità che rende la sua poesia così necessaria. […] La lingua di Hernández è tessuta con questo rude amore per la materia, travagliata da un’attrazione spasmodica per le cose[23].

Ecco cosa avviene in Il pesce più vecchio del fiume:

Il pesce più vecchio del fiume, / avendo egli accumulato / tanta saggezza, viveva / brillantemente oscuro. / E l’acqua gli sorrideva. / E tanto oscuro diventò / (per nulla l’acqua lo svaga) / che, dopo tanto pensare, / prese la strada del mare, / che poi è quella della morte. / Tu hai riso presso il fiume, / bimbo solare. E quel giorno, / il pesce più vecchio del fiume / si tolse il cupo sembiante. / E l’acqua ti sorrideva[24].

Lo sperpero di amore e disamore scandaglia presenze e assenze in una interruzione spasmodica[25]. La smisuratezza del dolore e del taglio umano, la demarcazione compagna dell’anima, il sentiero tacito delle viscere sdoppiano gli ampi gesti della vita e della morte, delle parti scure e fiammeggianti, del sorriso arrogante di fronte la pena e, infine, di tutto il ciglio della vita trascorsa.

Il vissuto è una riemersione di albe e tinte compiute che rappresentano l’inesausta ripetizione, la sofferta antitesi e la pronuncia chiusa di ciò che sbalestra l’intimo («Naufragi percorsero, / più profondi ogni volta / nei corpi, nelle braccia. / Inseguiti, sommersi / da un’enorme distesa / di ricordi e di lune, / di novembre e di marzo, / sbattuti si videro / come polvere lieve: / sbattuti si videro, / però sempre abbracciati») o come l’aia, conforto che accoglie il bacio dopo lo sparo sul monte.

In Figlio della luce e dell’ombra, l’intreccio primordiale dell’amore ha acme trascendente e visionarietà primitiva. L’immagine della donna amata trasfigura la forgiata ombra del potere lunare e femminile, e nella notte che getta la sua ansia avida di potere ed incanto, ella appare in tutto il chiarore notturno, nella vetta dei mattini e dei tramonti.

È il sordo incendio di scontri che abitano le palpitazioni dell’ombra, l’anima vagante, il nido chiuso che spinge verso la luce nascente, l’abbraccio e i baci-lampi, le bocche addosso e il letargo della terra commossa, fino al figlio che nasce dalle oscurità lucenti come semina di astri. Tutto culmina nella nascita dello zenit siderale, un abbraccio nuziale dentro il tempo che accomuna dolore e rigenerazione per tenere la vita in un abbandono di tenerezza, «vita, che grazie alla forza dell’amore, si eleva a trascendenza della carne liberata dal peso e dall’involucro di origine animale. In questa intensa rappresentazione della nascita, di concezione panica e lucreziana, è riflessa l’esperienza giovanile di Hernández vissuta nella conduzione del gregge familiare[26]»:

Vuole che ci gettiamo tu ed io sulle lenzuola, / tu ed io sulla luna, tu ed io sulla vita. / Vuole che noi bruciamo fondendo nella gola, / con tutto il firmamento, la terra commossa. / Il figlio è nell’ombra che accumula stelle, / amore e midollo, luna e lucenti oscurità. / Germoglia dalle sue indolenze e dalle sue cavità, / e dalle solitarie e spente città. / Il figlio è nell’ombra: dall’ombra è sorto, / e al suo nascere infondono gli astri una semina, / un succo latteo, un flusso di caldi battiti, / che spingerà le sue ossa al sogno e alla donna. / L’ombra sta muovendo le sue forze siderali, /  distende l’ombra le sue tenebre stellate, / e investe le coppie e le rende nuziali. / Tu sei la notte, sposa. Io sono il mezzogiorno[27].

La donna poi si avvolge nell’albore di un mattino cosmico. L’alba e il sole pronti a incontrarsi in una penombra socchiusa. Il corpo, ancora una volta, è il territorio dell’anima vibrata al centro della luce, la notte sembra addensarsi e scomparire in questa ora solenne, dove esplodono gli orologi e dove il ventre sta per annunciare la vita nel suo trono luminoso di panni e ombre.

Il cuore affiora nel respiro della nascita imminente, tacendo l’amore nel fiato di ciò che è addormentato e desto: «Non t’amo in te sola: t’amo nella tua gente / e in ciò che dal tuo ventre discenderà domani. / Poiché l’umana specie ho avuto in retaggio, / la famiglia del figlio sarà la specie umana. / Con l’amore sopra, addormentati e desti, / continueremo a baciarci nel figlio profondo. / e nel nostro bacio si baciano i nostri morti, / si baciano i più antichi abitanti del mondo».

La sposa e il figlio rappresentano la gemmazione vibrata di un tempo cosmico che rigenera e ridesta il tessuto sottile del mondo. Il miracolo dell’esistere e del vivente aggiungono la fragilità dolce della tenerezza alla epifania corporea e femminile della donna e all’impeto umbratile e ricolmo della venuta del figlio.

Tutto il tempo poetico concorre a un inseguimento di concretezza e nascita, per cui il tempo del rigoglio diventa alveare di latte e spuma, dolcezza di sangue, fecondità femminile in cui “seppellirsi” e diventare frammento indissolubile[28].

Afferma Gabriele Morelli:

Hernández canta ed esalta il corpo della donna che ha generato, descrive i seni materni come sorgenti che «lottano e si incalzano con bianche effusioni»; sente correre nelle sue vene «un rumore di latte, di piena, di nozze accanto a te, percorsa da flutti sonori». Teso sul suo corpo, ausculta il mistero della vita che nasce, ne descrive le profonde e riposte manifestazioni. I versi, ricchi di simboli e aromi della natura mediterranea, celebrano la sposa ed ancor più il corpo della madre che, dopo l’impeto d’amore, si apre al figlio[29].

Nelle prigioni, nei trasferimenti, nell’occlusione del mondo, nella malattia drammatica che lo conduce alla morte come un’ombra precipitata, il poeta avverte il potere della luce sepolta e di un’ombra senza fine: non esiste cielo o stelle, nemmeno stelle o corpi tangibili, l’aria non ha volo, ma solo la sommità di un lungo lutto di segni violacei e denti assetati di colore.

Tutto è mancante e soffocato nelle dense tenebre, senza trovare l’orma del giorno nei pugni serrati e nella lotta oscura di battiti sordi. È la lacerata promessa di un grido irradiato fino alla fine, come accade in Eterna Ombra (Eterna sombra):

Solo il fulgore dei pugni serrati, / lo splendore dei denti che scrutano. / I denti ed i pugni da tutti i lati. / Più delle mani, i monti si abbracciano. / Oscura è la lotta senza sete di domani. / E che distanza di battiti sordi! / Io sono un carcere con una finestra / su un immenso deserto di ruggiti. / Sono un’aperta finestra che ascolta, / dove vedo tenebrosa la vita. / Ma c’è un raggio di sole nella lotta / che lascia per sempre l’ombra sconfitta[30].

L’estrema lotta che si radica nella stanza interiore di Hernández si muove attraverso una duplicità di fronti, la capacità di soffrire, il presente della morte da un lato («Noi poeti siamo il vento del popolo: nasciamo per passare soffiati via attraverso i suoi pori e per condurre i suoi occhi e i suoi sentimenti verso le cime più belle. Oggi, questo oggi di passione, di vita, di morte, ci spinge in un modo imponente a te, a me, ad alcuni, verso il popolo. Il popolo attende i poeti con l’orecchio e l’anima stesi ai piedi di ogni secolo[31]»), e la carnale dilatazione della dismisura[32] dell’amore dall’altro, spaesando la memoria selvatica e segnando una feritoia di speranza che si spalanca verso una puntualità, sostiene Vicente Aleixandre,

[…] che potremmo definire del cuore: chi ne avesse avuto bisogno nel momento della sofferenza o della tristezza, lo avrebbe trovato al momento giusto. Silenziosamente, offriva la sua gentilezza e compagnia, e la sua parola veritiera, a volte una sola, creava un clima fraterno, l’atmosfera dell’intesa,  su cui la mente che soffre poteva riposare, respirare. Lui, nonostante i tratti duri, aveva la delicatezza infinita di chi non è soltanto veggente, ma ha un’anima grande. La sua pianta sulla terra non era l’albero che dà ombra e frescura. Per le sue qualità umane avrebbe potuto più di tutti i suoi simili, così affascinante nella sua naturalezza[33] (traduzione inedita di Irene Battaglini).

 

Bibliografia

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[1] Cfr. Hernández M., Obra escogida, prólogo de Arturo del Hoyo, Aguilar, Madrid 1962; Poesias completas, edición de Agustín Sánchez, Vidal, Madrid, Aguilar 1979; Poesie, a cura di Dario Puccini, Feltrinelli, Milano 1962.

[2] Cfr. Díez de Revenga, Miguel Hernández en la Estética del las Vanguardias y el 27, Universidad de Murcia, (http://www.miguelhernandezvirtual.es/new/files/07fcojav.pdf).

[3] Morelli G., Miguel Hernández: La vita, l’amore e la morte, in HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014, p.7.

[4] Darconza G., La poetica dell’assenza nei versi di guerra di Miguel Hernández, in «Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne», 2, 2006, pp. 57-58.

[5] Cfr.Pérez Bazo J., Síntesis ética y estética de Miguel Hernández: Cancionero y romancero de ausencias, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp.623-633.

[6] Hernández M., Cancionero y romancero de ausencias, edición de Josè Carlos Rovira, Lumen, Barcelona 1978, Alicante 1985;  Canzoniere e romanzero di assenze, a cura di Gabriele Morelli, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2014.

[7] Pazos Barrera J., La poesía de Cancionero y romancero de ausencias, in Aa.Vv., Homenaje a Miguel Hernández,  Embajada de España, Quito Ecuador, Ecuador 1993, p. 168.

[8] Rovira J. C., Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández: Aproximación crítica, Alicante, Instituto de Estudios Alicantinos 1976, p. 27.

[9] Cfr. Serrano Segura A., La obra poética de Miguel Hernández (http://jaserrano.nom.es/mhdez/).

[10] Rovira J. C., Léxico y creación poética en Miguel Hernández. (estudio del uso de un vocabulario), Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, Alicante 2000, p.133.

[11] Cfr. González Landa M.C., Estudio del Cancionero y romancero de ausencias de Miguel Hernández, Caja de Ahorros Provincial de Alicante, Alicante 1992.

[12] Nel suo memoriale Pablo Neruda scrive: «[Miguel] mi narrava quanto fosse impressionante poggiare il suo orecchio sul ventre delle capre addormentate. Così ascoltava  il rumore del latte che giungeva alle mammelle, il rumore segreto che nessuno tranne quel poeta di capre, ha potuto ascoltare», in Neruda P., Confieso que he vivido, Einaudi, Torino, 1998, p.151.

[13] Morelli G., cit., p.18.

[14] Manresa J., Recuerdos de la vida de Miguel Hernández, Colección nuestro Mundo nº 4, Serie:  Arte y cultura, 2ª Edición corregida y aumentada, Ediciones de la Torre, Madrid 1981.

[15] MÁñez M. O., Miguel Hernández. La circostanza e il tragico, in «L’ospite ingrato» (http://www.ospiteingrato.unisi.it/miguel-hernandez-la-circostanza-e-il-tragico/), 30 dicembre 2009, p.10.

[16] Conte G., La luce dei versi nel buio della prigione, in “Il Giornale”, 18 febbraio 2015.

[17] Cfr. Cano Ballesta J., La poesía de Miguel Hernández, Gredos, Madrid 1971.

[18] MÁñez M. O., cit., p.8.

[19] Id., cit., p.8.

[20] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.147.

[21] Cfr. Zamora G., Miguel Hernández, poeta (1910-1942), El Grifón, Madrid 1955.

[22] Cfr. Zardoya C., Miguel Hernández (1910 – 1942). Vida y Obra – Bibliografía – Antología, Hispanic Institute in the United States, New York 1955, p. 76.

[23] MÁñez M. O., cit., p.6.

[24] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.187.

[25] Cfr. Pérez Nereida L., Vivencia, emoción y mito en la poesía de Miguel Hernández, Universidad de Nueva York, Nueva York 1985.

[26] Morelli G., cit., p. 15.

[27] HernÁndez M., Canzoniere e romanzero di assenze, cit., p.101.

[28] Cfr. Recio Mir A., La última estación poética de Miguel Hernández: símbolos y sentidos, en Aa.Vv., Miguel Hernández. Cincuenta años después, T. II, Alicante – Elche – Orihuela, Comisión de Homenaje a Miguel Hernández 1993, pp. 647-653.

[29] Morelli G., cit., p.17.

[30] Hernández M.,

[31] Id., Dedica del suo libro Viento del pueblo a Vicente Aleixandre.

[32] Balcells J. M., Miguel Hernández, corazón desmesurado, Dirosa, Barcelona 1975, p.202.

[33] Aleixandre V., Los encuentros, Espasa-Calpe, Madrid 1985, p. 194.

Hilde Domin: Il taglio del ricordo in esilio

di Andrea Galgano 1 giugno 2016

leggi in pdf HILDE DOMIN. IL TAGLIO DEL RICORDO IN ESILIO

domin2aIl progetto di pubblicare l’intero corpus poetico di Hilde Domin (1909-2006) trova in Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, terzo capitolo edito da Del Vecchio, una traccia, per così dire, attesa e pronunciata che raccoglie una parte delle poesie, dal 1951 al 1985, che ella stessa aveva scelto per l’intensa raccolta Gesammelte Gedichte (Poesie in raccolta) del 1987, così come le liriche di Der Baum blüht trotzdem (Eppure l’albero fiorisce) del 1999, alcuni testi sparsi e le Poesie dal lascito.

L’intensa nervatura poetica si accompagna ai saggi e alle interviste (Libertà nella scrittura), unendo l’impronta autobiografica (Vita come Odissea linguistica) alla fervorosa concentrazione di indagine e di lettura del reale (Fermare tempo e scopo – Le fasi della poesia tedesca del dopoguerra viste dal Paese e da chi vi ritornò).

Lo sguardo aperto sulle contraddizioni temporali e la ricostruzione della propria vicenda autobiografica, immersa nelle peregrinazioni e negli esili forzati, come il soggiorno in Italia, a Londra e nella Repubblica Dominicana, contraddistinguono la cifra della sua odissea e della sua Resistenza, dove presentare «la fuga permanente come permanente sfida linguistica» e permeare la sua scrittura nella salvazione: «Vengo riconosciuta come un essere della Resistenza, come qualcuno che nuota controcorrente, che si butta avanti ai treni in corsa, come se li potesse fermare, e che trova davvero difficile non sedersi in punta di sedia», o ancora tratteggiando la sua genesi scritturale scrive:

«Quando, dopo la morte di mia madre, di cui qui non parlerò, giunsi al limite, ecco che all’improvviso avevo la lingua che per tanto tempo mi era servita. Sapevo cosa fosse una parola. Mi liberai tramite la lingua. Se non mi fossi liberata, non sarei sopravvissuta. scrivevo poesie. Scrivevo in tedesco, ovviamente. Ma le poesie avevano appena visto la luce che le traducevo in spagnolo per vedere come reggevano in quanto testi. Per guadagnare distanza. Pubblicare, all’epoca, non era in questione. Scrivere era salvarsi».

Nella dimensione di salvazione dall’abisso e di affioramento la parola di Hilde Domin cerca la sua dimora, il nome di ciò che ospita l’identità, dove la semplicità odora di essere umano e ritorna alla lingua, e l’esilio, come afferma Anna Ruchat, «non è vissuto da Hilde Domin come un ripiegamento, bensì come una scelta che continuamente si rinnova e la riconferma come persona il cui radicamento è nella lingua, la sola cosa «permanente» nel continuo cambiamento».

Il lavoro interpretativo sulla parola è l’inizio indiziario di un approdo che sollecita la materia poetica in cui l’autrice muove i suoi passi e in cui il rapporto dialettico tra autore, testo e lettore dimostra che, come sostiene Paola Del Zoppo, «la lettura interpretativa sia di fatto in sé generatrice e non solo relatrice di verità poetica, e come il valore di una poesia non sia limitato alla comprensione dell’intenzione originaria dell’autore».

L’attimo di libertà permesso concede la sua connessione verbale e sociale. Hilde Domin scova il gesto vivente di un approdo nella lettura del tempo e delle sue connessioni sociali, nella consonanza poetica e biografica, e nella disossata verbalità espone la sua stretta ribellione e il suo vorticoso esilio, come condizione e migrazione, innanzitutto, ma soprattutto come genesi edenica espulsa che si attesta sulla lingua originaria e sul plurilinguismo acquisito.

Scrive Roberto Galaverni:

«Diversamente  da altri scrittori esuli, che hanno approfondito il rapporto con la propria lingua soltanto attraverso la sua perdita, sembra che per lei il contatto più stretto, la consanguineità tra parola e cosa, tra lingua e mondo, e dunque l’esultanza per il riconoscimento della loro reciproca appartenenza, costituiscano la condizione stessa della poesia. Anche da questo punto di vista il suo percorso appare piuttosto singolare. «La gioia di poter dire liberamente quello che voglio, come voglio», afferma la Domin, «di respirare liberamente e di sentire la cadenza della lingua in concordanza con il proprio respiro, questa è una delle gioie più grandi dell’essere di nuovo a casa, per uno scrittore». La lettura dei suoi versi risulta così un’esperienza alquanto contraddittoria. Da un lato questa poesia – quanto mai lirica, non c’è che dire – colpisce per  freschezza, immediatezza, evidenza, dall’altro tante volte sorprende per la semplicità, la prevedibilità delle soluzioni, scorrendo via facile facile, troppo facile».

L’immediatezza non sconfina nell’ingenuità, anzi sorprende come la sua parola debba essere pura, scolpita nella essenzialità dilagata, come misura e libertà. La scrittura diventa, quindi, il momento di verità, perché scommette, continua Galaverni, «sulla riconquista di un’alleanza tra la forma e la vita, tra l’uomo e la sua lingua».

Tale centralità, pertanto, ritorna e riconsegna la poesia al suo spazio assottigliato, «non per tornare a chiuderla in una irraggiungibile torre, ma per restituirla al lettore. […] Il lettore e il poeta, accomunati dal pericolo costante di etero direzione, di spersonalizzazione e in ultima istanza di una disumanizzazione, rischiano di ridursi a essere solo esseri umani menomati dall’immagine che se ne crea funzionalmente» (Paola Del Zoppo).

Nominare direttamente l’avvenimento della realtà significa, per Hilde Domin, ritornare all’elementare porzione delle cose, del creato, di ciò che amiamo, e significa, altresì, arrestarsi sull’attrazione umana basica davanti alla datità dell’essere e alla fraternità del Tu, alla ricostruzione di una speranza menomata e franta che diventa necessaria e imminente nella sua pausa attiva: «Meno della speranza di lui / questo è l’uomo / un solo braccio / sempre / Solo colui che è crocifisso / le braccia / spalancate / dell’Io-sono qui» (Ecce Homo).

Commenta Paola del Zoppo:

«Nel primo gruppo di versi Hilde Domin fa i conti con la realtà della natura umana nella sua realizzazione contemporanea. L’essere umano, che si rivela manchevole in due direzioni, è meno di ciò che si credeva di lui, e meno di ciò che Hilde Domin crede possa o dovrebbe essere, perché è un uomo con un solo braccio, unidimensionale. A questa rappresentazione umana fa da specchio ancor più che da contrasto, l’uomo con le braccia spalancate sulla croce, il “crocifisso”, laddove gekreuzigt è qui un aggettivo: l’intenzione di Hilde Domin non è quella di esortare all’obbedienza (richiamando la presentazione di Mosè sul Sinai), né al sacrificio di sé come speranza dell’umanità (il sacrificio di Cristo), né tantomeno, però, con l’inevitabile richiamo al testo nietzschiano, di annullare nel nichilismo una possibilità di esistenza metafisicamente orientata. L’impostazione scettica di Hilde Domin viene qui – e solo poeticamente – formulata e negata in favore di una speranza di segno maggiore. Appiattirsi su un ideale di sacrificio, sia esso anche di grande portata religiosa o antropologica quanto la rappresentazione biblica o evangelica dell’umanità, è comunque pericoloso perché comporta la riduzione della vera possibilità di umanità: «solo l’Io può essere fratello del tu». Il crocifisso è garante di questa possibilità, perché iconograficamente mostra due braccia, e dunque la facoltà di abbracciare, subordinata però alla rinuncia alla condizione di “crocifisso”, all’uscita dalla definizione di sé data dal simbolo».

La poesia lirica e la sua crisi ridestano l’attenzione della poetessa verso una capacità di connessione alla germinazione dell’Io e all’apertura verso l’Altro in tutta la sua peculiare differenziazione, volgendosi alla tensione trascendentale come intima testimonianza che vuole distogliersi dall’annullamento, e al valore della scrittura come difesa che non si piega all’istantanea di consumo per farsi impegno e lotta, rifugio e confessione come «allenamento per la vita», per usare un’espressione cara a Hans Magnus Enzensberger:

«Quando ci si sente molto oppressi, si può trovare rifugio nella lirica. La lirica permette di sfogarsi di più rispetto alla prosa. La lirica si accende come una lampadina. La lirica è costituita più da sofferenza che da gioia. L’essere umano può liberarsi attraverso la scrittura poetica. Sebbene sia ovviamente qualcosa di diverso, l’unico paragone possibile è con la confessione o con una chiacchierata con lo psicoterapeuta. Si ha la possibilità di esprimere ciò che si sta vivendo. Con la lirica si può fare ancora meglio. Io dico che è una benedizione se si può diventare creativi».

È la sua semina, il singolare barbaglio di luce che diventa oggetto fisico e nuove palpebre: «Nell’aiuola / dei miei fianchi / voglio seminare i tuoi occhi / prima che le foglie dorate / cadano e ci ricoprano. / Perché in primavera / con i narcisi e i giacinti / si schiudano le nuove palpebre».

La realtà fratturata segue la sua fascinazione perlacea, giungendo da lontano, si presentifica in una lingua di cieli e carezze scintillanti,, mietendo il cuore con il coltello che ricorda gioie ferite e stelle fidate (Un luccichio, che non si arresta, una lama / a creare un ampio arco, / falce di sole. / Lì giaccio come il prato / e sento il tuo coltello, / mietitore, / Inarrestabile e gelido, / che sutura):

«Il mare, solcato placidamente di perle / e color argento come le ali di una colomba, / giunge da lontano / fino a me e mi lecca / con minuscole onde / ancora e ancora / e non si placa / come fossi il suo cucciolo. La sua lingua morbida / sui miei occhi, / senza sosta / di fronte al cielo bianco, / mi ipnotizza / dal vetro della terrazza / con questi scintillanti carezze / finchè mi lega / con le braccia a penzoloni / alla mia sedia / e di fronte a me / resta sola / la mia macchina da scrivere».

Il focus oggettuale ed esistenziale di Domin si lega alla sua valenza prodromica che attua dinamiche basilari e nodali. L’avvenimento della parola segue all’accadere della realtà e la lirica, portata sul valore esperienziale, compone i suoi scettri emigranti ed esiliati, radicandosi in una scelta lessicale immediata, come immediato è il pronunciamento, in successione, della sostanza vivente e della caccia muta e luminosa, nella genesi depredata della morte e dell’aria assottigliata: «Già alla porta / sollevasti lo sguardo. / Ci guardammo. / Un grande fiore sbocciò / pallido e raggiante / dal mio cuore» (Già alla porta).

Paola Del Zoppo sostiene che: «Proprio tramite la messa a fuoco dei suoi contorni, la parola poetica può liberarsi e restare oggetto universale, e quindi presentarsi al lettore come slegata: è contemporaneamente oggetto pre e a-razionale, ed espressione lucida di una visione del mondo. La lirica più potente è quindi, secondo Domin, una lirica che può rivelarsi quotidiana e innalzarsi a un livello di essenzialità significativa che rende possibile la sua collocazione anche in altri e molteplici contesti».

La fusione con l’esistente, in Hilde Domin, non si risolve nell’annullamento ma rivela e disvela la superficie delle cose, la materia ricoperta dai filamenti dorati, dischiude lo splendore fradicio della sua mineralità dispersa, visitata nella festa o nell’urlo di gelsomino come luce sui seni: «Ah, vorrei uscire / e sdraiarmi sul prato / con le vene aperte / e la pioggia potente / come un treno / deve scorrermi addosso / e farmi bianca / come il letto vuoto di un fiume / o gli anemoni / sulla tomba di mia madre».

La celebrazione della realtà scopre il suo istante corposo attraverso la fuga in uno specifico equilibrio librato di macchie umide e oli rovesciati, persino la stessa sovrabbondanza grida la sua solennità tormentata e frammentata, il miracolo soffice, la prominenza dell’umano come sbocco e vertigine di significato.

Sono i suoi segnali che, come i fiori bianchi, «succhiano una scorta di sole / per la notte», aprono le ferite dilatate e amate del cuore cardinale e sottovoce combattono il superfluo. Nella distanza vergine si scoprono rose e magie, come se la parola, riempiendo ogni fessura del tempo resistente, riuscisse a essere pietra vivente, oracolo luminoso, arazzo germogliato nelle radici, e polvere di sogni: «[…] e il cuore / diventa pesante di dolcezza / come un frutto pieno di zucchero. / Dopo viene trapiantato / come semi di grano dai fossati / al solco dolorante / e la ferita viene curata con la saliva / di baci leggeri. / E il grano / una felicità morta / mette radici e germoglia. / Tutte le vene ne hanno l’odore / finchè le punte delle mie dita / sono rosee / come quelle di un bambino».

L’esigenza esistenziale di comunicazione della parola ricerca l’anticipo delle fioriture, dove denudare segreti e partecipazioni all’intimità dell’essere, dove porgere la propria vociata lingua, calligrafare l’autentico, determinare la scelta esatta del volto di ciò che c’è, determinare il perimetro del territorio del linguaggio nell’attrazione indifesa e raccolta come immagini chiarificate per una seconda nascita («Chiedo alle parole di tornare da me / attiro tutte le parole / indifese / Raccolgo le immagini / i paesaggi vengono da me / gli alberi le persone / Nulla è lontano / tutti si riuniscono / c’è tanto chiarore»), e, infine, soggiogare le lacrime nello iato insanabile di gioia e mancanza, pelle e orlo: «Le parole sono melagrane mature, / cadono al suolo / e si aprono / Tutto l’interno si volta all’esterno / il frutto denuda il suo segreto / e mostra il suo seme, / un segreto nuovo».

L’esilio domestico si realizza in finestre piene di luce per trovarsi, dar respiro al cuore nelle case, svegliare la profonda nudità dell’essere che apre il mondo, facendo terminare l’estraneità delle stagioni che scuriscono e imbiancano e le corride dei frammenti: «Le teniamo strette / queste chiavi, / viaggiamo con esse, / noi esiliati, / anche noi. / Il cuore, la tua vecchia / casa, / ha finestre piene di luce, / i volti all’interno / sono estranei. / Solo nel sogno / potresti entrare / con queste chiavi / che da sveglio / pesano così tanto nelle tue mani» (Chiavi di casa), come le strade che accumulano bellezza: «Violette orlano la strada, / occhi di fiori di fragola, / mughetti. / Il cuculo m’accompagna / di richiamo in richiamo / lungo una strada / che non è la mia. / Bordata di fiori sì / ma non la mia. / Guardando gli altri / mai mi sono chiesta / se la strada sotto i loro piedi / fosse la loro», o  attraverso l’approdo proscritto che inventa la destinazione, per farsi promessa di nome eterno e “necessarietà” oltre la distruzione: «Mi sono data il nome / mi sono chiamata / con il nome di un’isola. / È il nome di una domenica / in un’isola sognata. / Colombo scoprì l’isola / una domenica di Natale. / Era una costa / a cui approdare / si può sbarcare / qui gli usignoli cantano a Natale. / Si dia il nome, disse qualcuno / quando sbarcai in Europa, / dalla sua isola» (Poter approdare).

La dinamica del nostos permea il tracciato della sua tensione attraverso riferimenti biblici, letterari e autobiografici, designando l’odissea cifrata dell’esistenza, come avviene in Nell’antro di Polifemo, in cui, «nella personalissima mitopoiesi di Domin», scrive Anna Maria Curci,

«Ulisse che fugge con i suoi compagni si affianca a Sisifo che si oppone alla coazione e ad Abele invitato a rialzarsi dopo essere stato ucciso da Caino. È la dimensione plurale della fuga che emerge chiaramente nelle tre quartine di Nell’antro di Polifemo,  precedute, a loro volta,  da un distico che fa invece preciso riferimento all’io lirico: «Der blinde Riese greift wieder nach mir», «Il gigante cieco torna a ghermirmi». Lo scenario torna a essere una Höhle, un antro, una caverna, una cavità – […]. Le immagini proposte attingono a quanto narrato nell’Odissea: Ulisse e i suoi compagni sono aggrappati al vello dei capi del gregge del ciclope, che, oramai accecato, ne tasta il ventre man mano che questi, varcando l’ingresso, si recano al pascolo.  Il verbo «fortgehen», che ricorre, sempre nella grafia «fortgehn», per ben tre volte nella prima e nella seconda delle tre quartine, la prima volta all’infinito («Andarsene») e nelle due ricorrenze successive, in una anafora, alla terza persona plurale («se ne vanno»), lancia la fune allitterativa a «fliehen» («fuggono») e «Flucht» («fuga») della terza e conclusiva quartina. Il procedere per anafore che caratterizza tutto l’impianto ritorna anche nella conclusione della prima e della seconda delle quartine, «unter der zählenden Hand», «sotto la mano che conta». La condanna si ripete, la minaccia della coazione, come per Sisifo, incombe costantemente, la fuga è condizione permanente. Solo la coscienza di tale condizione, sembra suggerire Domin, è antidoto al soccombere, all’essere schiacciati proprio da quell’obbligo alla coazione contro il quale il “suo” Sisifo si era ribellato».

Il dolore confonde i contorni degli anni, nei giorni che gridano la loro pretesa e le loro gocce, dove solo l’ostinato ha bisogno di essere solo nell’attimo del tulipano morente, dove le porte chiuse e dischiuse accendono luci, e gli stessi occhi toccano l’attimo smisurato e rimpicciolito del cuore in viaggio su lontananze distese e germogli di silenzio, tesi all’estremo: «Eppure l’albero fiorisce / Sempre gli alberi sono fioriti / anche per l’esecuzione capitale / Fiori di ciliegio e / farfalle / il vento li trasporta / anche nel letto del / condannato / Proseguono / portatori di fioritura / senza voltare il capo / con i filari luminosi / Più d’uno ti dice una parola / oppure sei tu a credere che parli / passando / Perché c’è così tanto silenzio» (Eppure l’albero fiorisce).

È la scelta che celebra le cose, le ricorda, le inscena, traccia il solco amoroso degli orli smussati piantati nel fondo e delle perdite come chiare ombre, si abbandona alla caduta e alla forza dello splendore vagante delle quotidianità azzurre, per essere in fuga, e dissolti, da ogni vento, e dove «le voci dure / e colme dei resistenza / quando il giorno finisce / e tu dolcemente / rinunzi allo splendore».

Nella raccolta La pelle del pianeta, Hilde Domin precisa lo scorrimento lento e poroso della sua striscia di carta, come un urlo che dà forma all’umano, pretendendo l’ “impossibile” coraggio civile, conoscendo la familiarità del «con- dolore» che annulla ogni perspicace distacco, e come afferma Paola Del Zoppo,

«ci conduce attraverso tutto il suo mondo poetico strappando la pelle del pianeta che ci contiene, in una successione di fasi di riappropriazione ed esaltazione della propria umanità. […] Attraversando la Storia sul Tokaido Express, Hilde Domin rielabora poeticamente e ripiega il tempo e lo spazio per trovare una sincera relazione con se stessi nella doppia “casa” dei poeti, il cui «paese si fa sempre più grande» e accogliente. La superficie terrestre si contrae i confini si ritraggono per far sì che si va via e si rimane, perché si vive nella parola «persino in parole di diverse lingue», o per scelta ci si impegna con fatica per avere residenza nella «parola tedesca». Ma se questo ritorno diventa una chiusura, l’acquisizione di un punto di vista univoco, perde il proprio valore di apertura all’altro. L’uomo tornato al presente è parte della storia e del dolore del luogo in cui si trova, e vi deve imprimere attivamente la propria umanità, «aprendo le braccia», per abbattere un lungo di muri che inevitabilmente hanno radici nel bisogno degli esseri umani di costruire la propria identità tramite somiglianze e differenze e non nella consapevolezza profonda della propria forza individuale».

La spodestata libertà smerigliata da riempire con schegge di vetro, la chiarità della scrittura che trascina detriti e macerie ma segnando «il sempre e il comunque di ogni lettera», la nostalgia che fa scorrere la terra tra le dita e delimita il nomadismo del tempo buio raccolgono la sopravvivenza di un’orma instancabile che tiene stretta i lembi delle ferite, rammenda e strappa il fiato mai stanco della luce posteriore della storia, per abitare la parola e aggrapparvisi.

Nella sillabazione della classificazione delle mura (Classificando mura), dai disegni sui tessuti, alla muraglia cinese di porcellana, fino alle mura di Avila e quelle senza porte di Ettore e di chi è senza documenti, Hilde Domin «traccia in pochissime sillabe una linea attraverso la storia della narrazione del mito e delle religioni connotando tragicamente la figura di chi è scacciato o non accolto, per associare a essi un muro che assume i contorni dell’assurdità, il muro di Berlino, un muro tra fratelli, «ognuno dalla sua parte». La dolorosa realtà viene scarnamente presentata superando ogni possibile giustificazione simbolica o narrativa: i muri più ripidi, resistenti e lunghi sono gli invisibili muri dell’indifferenza umana muri di schiene, veri e propri Mauern aus Menschenfleisch («muri di carne umana»)» (Paola Del Zoppo).

La scarnificazione della superficie e del superfluo serve alla poetessa per entrare nel mistero del reale, proferendo il suo discorso elementare, la sua tensione inesorabile non inerte che attraversa il tempo e lo spazio per riempirli di verità e senso, la sua altalena che si alza sui fuochi che bruciano, per cadenzare la lingua in un fiato che riporta a casa.

domin_il_coltello_che_ricordaDOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio editore, Bracciano (Rm) 2016, pp.461, Euro 19.

 

DOMIN H., Il coltello che ricorda, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2016.

CURCI A. M., Più scettica di Brecht, più fiduciosa di Benn: Hilde Domin (http://www.senzazuccheroblog.it/maggio-di-poesia-1-anna-maria-curci/), 5 maggio 2016.

DE MARTIN M. P., Hilde Domin: viaggio verso la parola, in «Miscellanea 3» (1996), pp. 225-230.

GALAVERNI R., La «seconda vita» di Hilde Domin, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2016.

RUCHAT A., Hilde Domin, «Il coltello». Una odissea linguistica, compagna dell’esilio, in “Alias Domenica, supplemento de Il Manifesto”, 14 febbraio 2016.

 

Rita Dove: The exact Grace

by Andrea Galgano, May 1 2016

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Rita Dove: The exact Grace

The Rita Dove’s poem (1952) has the deep nature of experiences that sweep the depth of the past. In the radicalism of existence, her poetry marks, in a complementary way, the integrity and dimension of the possibility, as a category that establishes the existence, shapes it remaining in the affirmation of the human being, enriches it for the profoundness and plasticity of perception, «through the overlapping points of view: that of the “official” history and, indeed, the counterpoint of another story, more lateral. For Rita Dove the identity is the personal access to the experience, but an experience that is immediately halved between the need to know and outdo herself, towed along by a force recasting every social and cultural value, and in that discovery and free apprenticeship of the world of which carrier is the poem, “language at its most distilled and most powerful”, according to the definition of the poet», as claimed by Federico Mazzocchi.

Born in Akron, Ohio, the Pulitzer Prize for poetry in 1987, for a collection of poems Thomas and Beulah, in 1993 and until 1995 was named Poet Laureate of the United States by the Library of Congress, and was the first African American and Poet Laureate the second to receive the Pulitzer, with the addition, in 1999, the post of Special Consultant in Poetry to the bicentenary of the Library of Congress.

The poetry of Rita Dove, therefore, doesn’t confine itself only to the verticality of the original roots, but rather explores the world as a confrontation and openness, poetic habit and substance of redemption. The ineliminable evidence of the reality is the result of the keynote of human music which it transmits, perception, dream-like vision of the layout that sounds the everyday miracle through the accuracy of a union: between memory and imagination, unveiling of belonging and detail achieved by the proportion and rigor, between individual and collective destiny that join the wide range of historic element and private memory, negotiating, as claimed by Pat Righelato, «her artistic space with grace and determination».

Today it’s possible to learn about her magnetic and vertiginous poetry, with her personal choice, published by Passigli, entitled The discovery of desire. Personal Anthology, edited by Frederick Mazzocchi, that gives back to us her shiny minimum threshold and her intense journey chasing its imaginative filament to understand, reconstruct and discover the human tension to ultimateness, understood as meaning and sense of wonder.

Roberto Galaverni writes: «The nature of her commitment is indeed deep, never one-sided. The sacrosanct claims of ethnic equality, social, sexual, in her verses there are only because there is initially the reality, and not vice versa. She starts from the reality, not from the need for redemption; looks and recognizes the sanctity of life, for this she knows what are human rights and freedom».

Her debut collection, The Yellow House on the Corner (1980), draws the bow of the lived «more domestic and natural, indeed the “yellow house on the corner”; it’s in this minimum lab of emotions that the poet ripens her sense of identity. A debut book but already in the border: the house is on the corner, ready to temptation of the journey. They are, in fact, the years of the first stay in Germany (in Tubingen, from 1973 to 1975, for a scholarship) and the meeting with the German writer Fred Viebahn, whom she married in 1979 “(F.Mazzocchi).

The heart of her endeavour overlaps two alternate and juxtaposed universes, whose crevices of meeting mess the imaginative dispositions in a contemporary intimacy of roots and speculative itinerary, substantiated in the focused imagination of experience, and in which the intensity of the expressive forms discloses the curtains of childhood, adolescence and the present life through a symbolic expressive geometry.

The expanded dilation of reality hinges in color ellipse of destinations and dyes drifting up, proposes in an abstract and figurative transparency which frees the score of spirit.

«Nature and mind are in harmonious abstraction», Pat Righelato says, «even the scent of flowers would bea an encumbrance to this transparency, the clearing and expansion of space. The transcendence, the sense of open space, takes place within the space of the room: «jerked free, hinged into butterflies», transformed and expanded yet remain incisively angled»:

«I prove a theorem and the house expands: / the windows jerk free to hover near the ceiling, / the ceiling floats away with a sigh. / As the walls clear themselves of everything / but transparency, the scent of carnations / leaves with them. I am out in the open / and above the windows have hinged into butterflies, / sunlight glinting where they’ve intersected. / They are going to some point true and unproven».

The sorrowful memorial density that seeks the fullness of a refuge, the meeting-clash of cultures, the wound of urban geography as resilient spasm of unfortunate and afflicted sounds destine the living matter of rolled up memory in an hook of sky and agonal and detailed metaphor, as «split / pod of quartz and lemon», where there isn’t consolation but is found the weight of the re-harvested memory moving: «When morning is still a frozen / tear in the brain, they come / from the east, trunk to tail / clumsy ballerinas. / How to tell them all evening / I refused consolation? Five umbrellas, five / willows, five bridges and their shadows!/ They lift their trunks, hooking the sky / I would rush into, split / pod of quartz and lemon. I could say / cthey are five memories, but / that would be unfair. / Rathers pebbles seeking refuge in the heart. / They move past me. I turn and follow, / and for hours we meet no one else» (Five elephants).

The last poem of the book “Ö”, vocalic expression of awe and wonder, also becomes the word in Swedish means “island” and that «has changed the whole neighborhood», transforming and revealing the estrangement of ordinary in acute portion of elsewhere («When I look up, the yellow house on the corner / is galleon stranded in flowers. Around it / the wind. Even the high roar of a leaf-mulcher /  could be the horn-blast from a ship / a sit skirts to the misted shoals»), trespassing and adhering to the exact word that trembles in an extensive and precise pleasure («the present extends its glass forehead to sea / (backyard breezes, scattered cardinals)»).

At the height of precision, the measure gives form to boundless: it’s the artistic rigor to give vitality to the exploration, is the power of word to shape the language, such as outstanding flow which provides a new language to the things: «and if, one evening, the house on the corner / took off over the marshland, / neither I nor my neighbour /  would be amazed. Sometimes / a word is found so right it trembles / at the slightest explanation. / You start out with one thing, end / up with another, and nothing’s / like it used to be, not even the future».

Museum (1983) innervates all the facts of history in a sort of raised relief. Here, says Federico Mazzocchi, «Rita Dove seems to look beyond their own experience, but seemingly distant and remote events are still interrogated and in a sense “authenticated” by her own experience».
The history of the submerged smallest details provides the fiber of an emblem fixed in consciousness, individual and collective narration that makes up the silence of a museum recalling that, on the one hand, welds the event in a meticulous detail line, and on the other outlines figures (Catherine of Alexandria, Catherine of Siena, the greek subject, Shakespeare, Boccaccio and Fiammetta, Nestor, Christian Schad, the pianist Champion Jack Dupree) in confined conditions, in a figurative and old context as evidence of life, to enter, sympathetically, in a perfect game of dialogues and vitality.

Here too, the memory doesn’t cover with dust but returns, with care, the outcome of a regenerated time, the temporary projection of a consciousness bud and cramp shining. The memory of grape sherbet, that her father was preparing for Memorial Day, is the held reminiscence that transpires in his «gelled light» of losts, in the taste of lavender and in the grassed-over mounds, like the miracle of enjoyed existence that illuminate its presence and its clarity of gelatin and grace: «After the grill / Dad appears with his masterpiece – / swirled snow, gelled light. / We cheer. The recipe’s / a secret and he fights / a smile, his cap turned up / so the bib resembles a duck. / That morning we galopped / through the grassed-over mounds / and named each stone / for a lost milk tooth. Each dollop / of serbe, later,/ is a miracle, / like salt on a melon that makes it sweeter. […] We thought no one was lying / there under our feet, / we thought it / was a joke. I’ve been trying / to remember the taste, / but it doesn’t exist. / Now I see why / you bothered, / father».

Parsley commemorates the massacre of twenty thousand blacks, by order of the dictator of the Dominican Republic, Rafael Trujillo, because they cannot pronounce the letter “r” in perejil, the Spanish word for parsley. Rita Dove performs here a choral drama with image precision, alternating the perspectives and points of view: from the scurrilous pronunciation of the executioners, embodied in their disquieting abyss of compulsion and obsession, to the innocence of the victims in the rain that punches the cane fields: «For every drop of blood / there is a parrot imitating the spring. / Out of the swamp the cane appears».

The Rita Dove’s imaginative symbolism even reveals its uncensored opposite of  death sentence, as stated Therese Steffen, describing the abyss of colorless crumbs of a blackened language that contrasts with the outside landscape. The parrot and dismayed tear of the general for a dark memory like black light that kills the shattered human rim and sweets dusted with sugar on a bed of lace. So the language follows the image, takes possession of horror and drama in an original perception, as claimed by Helen Vendler, but turns at the point where the poem «widens the reality from within, finding its measure in this “sense more wide”, that is what animates it and with flatters it. That’s how Rita Dove shows us how the historical duration can be perfectly combined with the perception of individuality, and how the time can suddenly move to a plan that certainly doesn’t transcend, but that reveals the real hidden face» (Federico Mazzocchi).

The story of Thomas and Beulah (1986) is dramatized and reformulated, inlaid rebuilding the life of grandparents to trace «the essence of my grandparent’s existence and their survival, not necessarily the facts of their survival. […] One appropriates certain gestures from the factual life to reinforce a larger sense of truth that is not, strictly speaking, reality». (Conversation with Rita Dove, edited by Ingersoll E. G, University Press of Mississippi, 2003, p. 66).

The fusion of the lyrical moment with the broader narration comprises the stage of history, under different perspective angles which act as glue between the experiences. The depth and symbolic density connect the color scent of a universal point to interstitial of a story, in which «Thomas and Beulah are the warp of the cloth, while national and international events are the woof» (Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).

Dove joins in a chromatic consistency situations and actions. The act of an individual becomes the universal matrix and contrast of existence: the transparent objectivity, mandolin and straw hat, two Negroes leaning and silver falsetto, the mud and the moon, the yellow bananas and still the Thomas’ ruffled silver and his yellow scarf, the Beulah’s loving blanket and pearly, the brown chestnuts and green island gathered in a torrid night of thickening and gently shirred waters describe the fullness which is announced in the drama that finds the desire and it generates unfinished gestures, until then the halo of poetry enters modifying history, lightening it, and the note of pain could be brushed.

The epiphany of the promises of love beneath the airborne bouquet, «was a meadow of virgins / urging Be water, be light. / A deep breath, and she plunged / through sunbeams and kisses, / rice drumming / the both of them blind», the dusted everyday life, the morning saturated by beauty and dream of eyes, the death that huddles, stroke and recovery («She stands by the davenport, / obedient among her trinkets, / secret like birdsong in the air»), the engraved clearness of memory awaken the time of the lacks, figures and and the tragic distances and reveal the sudden and fragmented height of being.

The rapid and relational imagination of Grace Notes (1989), (the musical notes that embellish and adorn the main melodic line), underscores the warning of grace in the freedom of every detail and extensive collection of expectations, every embellishment underlying the hidden and secret rhythm of real that leads back to a live event: the singular stars and trees like horses in their ascent and bright lymph, the women of the islands that move through Paris and inventing their destinations, the evening of the bees fleed in a old folk’s home in Jerusalem, where in the minimum air “a needlepoint / with raw moon as signature. / In this desert the question’s not / Can you see? but How far off? / Valley settlements put on their lights / like armor; there’s finch chit and / my sandal’s, / inconsequential crunch. / Everyone waiting here was once in love».

The love that pervades and bedews Mother Love (1995), in which is transposed a modern version of the myth of Demeter and Persephone, involves and keeps the myth waiting hanging around for a symbolic and pervasive sense, places the autobiography (the relationship with her daughter Aviva) in a incited suggestion of protection, freedom and achieved destiny.

Counterpoint the memory of the Sonnets to Orpheus, the poet made his circumnavigation of salvation of vital fragments from disintegration and the violation: It’s the charm that protects days, the door that transforms the myth in a contemporary presence of breath and punctuation that aligns the images.

The parenthetical voice of the mother warns her daughter to go straight to school and not to talk to strangers but when Persephone picks up a narcissus, sees the earth opening up in its source of kidnapping and terrible abyss of light, «as a knife easing into / the humblest crevice».

The violence of the trauma («Who can tell / what penetrates?»), the shutdown of the dark, lost brilliance that becomes the phrase-abuse and terrified gloss of dark sheen («It was as if / I had been traveling all these years / without a body, / until his hands found me – / and then there was just/ the two of us forever: / one who wounded / and one who served»), change of points of view, Persephone’s estrangement, in her footfall that hovers pass the Demeter nuclear relationship crossed by a rich and inconsolable tension as dispersed harvest, «Nothing can console me. You may bring silk / to make skin sigh, dispense yellow roses / in the manner of ripened dignitaries. / You can tell me repeatedly / I am unbearable (and I know this): / still, nothing turns the gold to corn, / nothing is sweet to the tooth crushing in. / I’ll no task for the impossibile; / one learns to walk by walking. / In time I’ll forget this empty brimming, / I may laugh again at / a bird, perhaps, chucking the nest – / but it will not be happiness, / for I have known that» (Demeter mourning).

Often it happens that myth streghe out in the sunken story of daily epic, as becomes in On the Bus with Rosa Parks (1999), in which it’s faced «a cameo of characters and events» where, as stated Federico Mazzocchi, «Rita Dove points some joints of the battle for civil rights of black people, but to prevail are still the invention and drama; not a claim perspective, but rather a “meditation on the history and the individual”, an approach that well frames the phrase of Simon Schama that opens the eponymous section: “All history is a negotiation between familiarity and strangeness”. Rosa Parks is the woman that in 1955 she refused to give up her seat to a white man on the bus and therefore she was arrested, triggering the reaction of the Martin Luther King community. Yet the inspiration of the book seems to be of a different kind: “We are on the bus with Rosa Parks” is the phrase said for fun by the daughter of the poet during a move. No contradiction, because to investigate what is out of history also means for Rita Dove take an interest in the primordial and innocent look in which the nature is not yet the culture».

Her poetry seems to bring out, once again, two proportions and disproportions, as if the single time, the call of the past and return, the ghosts, the Rosa’s simple flame, the portrait of childhood at the time when «the earth was new / and heaven just a whisper, / back when the names of things / hadn’t had time to stick; / back when the smallest breezes / melted summer into autumn / when all the poplars quivereded / sweetly in rank and file …», can be revisiting the dawn of glorious shadows on the open blank page, as in a his sweet and profound poetry, for «If you don’t look back, / the future never happens. / How good to rise in sunlight, / in the prodigal smell of biscuits – / eggs and sausages on the grill. / The whole sky is yours / to write on, blown open / to a blank page».

It’s the everyday life calling, the cutting of landscape glimpsed from this bus of affection and history, with all its ellipses and expansions, which allows the minutiae of detail to discover the secret and universal side of reality, its motion hidden , its belonging and the intensive relationship between music and words: «I was pirouette and flourish, / I was filigree and flame. / How could I count my blessings / when I didn’t know their names? / Back when everything was still to come, / luck the leaked out everywhere. / I gave my promise to the world, / and the world followed me here».

The Edenic scene of the All Souls’, taken from American Smooth (2004), shows Adam and Eve held out to appoint the voices of animals and the time of paradise and, from that moment, Mazzocchi said, «the words break the “music” of silence, leaving man and woman in a kind of perennial nostalgic dance»: «Before them, a silence / larger than all their ignorance / yawned, and this key walked into / until it was all they knew. In time / they hunkered down to business, / filling the world with sighs – this anonymous, / pompous creatures, / heads tilted as if straining / to make out the words to a song / played long ago, in a foreign land».

The American Smooth is a form of ballroom dancing in which the partners are free to be released each other and allow improvisation and individual expression. Therefore, Rita Dove performs its dance of nostalgia and elevation, kneading and doing live the lyricism with a new rhythm, a new piece of history that is revealed, such as the Hattie McDaniel’s black moon crossed, the first African American actress to win an Oscar .

The thin line of verses moves through this polyphony of grace and form, independence, opposition and soft sinuosity of spells, which are absorbed by the dance, from the face and gestures. The gesture of the dance is proportional to the poetic gesture, following both the dance of things, which are modeled in the air of «achieved flight» and «that swift and serene / magnificence, / before the earth / remembered who we were / and brought us down».

The Sonata Mulattica (2009), centered about the figure of the mulatto violinist George Bridgetower, remembered for being the first performer and the initial dedicatee («the lunatic mulatto») of the Kreutzer Sonata by Beethoven, that he revoked and attributed the dedication to Rodolphe Kreutzer, presumably to a dispute concerning a woman.

The Rita Dove’s work chases omitted existence, plumbing the inner fold of the removed Other and his exotic childhood («I am the Dark Interior, / that Other, mysterious and lost; / Dread Destiny, riven with vine and tuber, / satiny prowler slithering up behind / his dorme and clueless prey»), the monologue and muster intimacy of the characters (as in Haydn leaves London: «I close my eyes / and I feel it, a bass string plucked at intervals / dragging our bilge out to the turgid sea – / a drone that thrums the blood, that agitates / for more and more…») and animated and living symbology of reality through the nature of public and private memory, such as cropping plush green and the squandered score in the fury of Beethoven’s Eroica, transcribed in the air and breathed in the cool of pure sound. Here too, the human gesture is the gesture of the book, as the Billy Waters’ crippled angle («Crippled as a crab sugary as sassafras») or the symbolic and living gesture of the Moor sculpture with emeralds.

Humanizing and dramatizing her material footprint, the author aligns unusual and rare pictures, blends, in five movements, the genres, touching the precariousness in the note that prevails, and creating another time in the time, she opens continuously rhythmic cracks to the forgotten sounds and finally, drawing the unspeakable in a collection of targeted grace and primitive syllables. Accurate.

Rita Dove - la scoperta del desiderioDOVE R., The discovery of desire. Personal anthology, edited by Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18.50.

 

 

 

 

DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.

The Underside of the Story: A Conversation with Rita Dove with Stan Sanvel Rubin and Judith Kitchen (1985), in Ingersoll E. G., Kitchen J., Rubin S.S., The Post-Confessionals: Conversations with American Poets in the Eighties, Fairleigh Dickinson Press Rutherford 1989.

Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in «Kentucky Philological Review» 14 (1999): 27-31.

Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003.

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GEORGOUDAKI E., Race, Gender and Class Perspectives in the Works of Maya Angelou, Gwendolyn Brooks, Rita Dove, Nikki Giovanni and Audre Lorde, Thessaloniki, University of Thessaloniki 1991.

HARRINGTON W., The Shape of Her Dreaming: Rita Dove Writes a Poem Intimate Journalism, Sage, Thousand Oaks 1997.

KELLER L., Sequences Testifying for “Nobodies”: Rita Dove’s Thomas and Beulah and Brenda Marie Osbey’s Desperate Circumstance, Dangerous Woman.” Forms of Expansion: Recent Long Poems by Women, University of Chicago Press, Chicago 1997.

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WOODS L. P., “Sonata Mulattica: Poems” by Rita Dove, “Los Angeles Times”, 17 may 2009.

 

Rita Dove: La grazia esatta

di Andrea Galgano 1 maggio 2016

leggi in pdf RITA DOVE: LA GRAZIA ESATTA

Rita Dove: La grazia esatta

Il canto di Rita Dove (1952) possiede la natura profonda di esperienze che percorrono la vastità del vissuto. Nella radicalità dell’esistenza, la sua poesia segna, in modo complementare, l’integrità e la misura della possibilità, come categoria che fonda l’esistenza, la plasma permanendo nell’affermazione dell’umano, l’arricchisce per la profondità e la plasticità della percezione, «attraverso il sovrapporsi dei punti di vista: quello della storia “ufficiale” e, appunto, il controcanto di un’altra storia, più laterale. Per Rita Dove l’identità costituisce il personale accesso all’esperienza, un’esperienza che tuttavia si trova subito dimidiata tra l’esigenza di conoscersi e superarsi, al traino di una forza che rifonde ogni valore socio-culturale e in quella scoperta e libero apprendistato del mondo di cui è vettore la poesia, «il linguaggio al suo massimo di distillazione e potenza», secondo la definizione della poetessa», come sostiene Federico Mazzocchi.

Nata ad Akron, Ohio, premio Pulitzer per la poesia nel 1987, per la raccolta Thomas and Beulah, nel 1993 e fino al 1995 è stata nominata Poet Laureate of the United States dalla Biblioteca del Congresso, ed è stata il primo Poet Laureate afroamericano e il secondo a ricevere il Pulitzer, a cui si aggiunge, nel 1999, la carica di Special Consultant in Poetry per il bicentenario della Biblioteca del Congresso.

La poesia di Rita Dove, pertanto, non si confina solo nella verticalità delle radici originarie, bensì esplora il mondo come confronto e apertura, abitudine poetica e sostanza di riscatto. L’evidenza ineliminabile della realtà è l’esito della nota fondamentale della musica umana che essa trasmette, la percezione, la visione onirica del layout che scandaglia il prodigio della quotidianità attraverso l’esattezza di una unione: tra memoria e immaginazione, tra svelamento di appartenenza e dettaglio raggiunti dalla proporzione e dal rigore, tra destino singolo e collettivo che congiungono l’ampio raggio dell’elemento storico e la privata memoria, negoziando, come sostiene Pat Righelato, «il suo spazio artistico con la grazia e la determinazione».

Oggi è possibile conoscere la sua poesia magnetica e vertiginosa, con la sua scelta personale, edita da Passigli, dal titolo La scoperta del desiderio. Antologia Personale, curata da Federico Mazzocchi, che ci restituisce la sua baluginante soglia minima e il suo viaggio intenso che insegue il suo filamento immaginativo per comprendere, ricomporre e scoprire la tensione umana all’ultimità, intesa come significato e meraviglia di senso.

Scrive Roberto Galaverni: «La natura del suo impegno è infatti profonda, mai unilaterale. Le sacrosante rivendicazioni di eguaglianza etnica, sociale, sessuale, nei suoi versi ci sono solo perché esiste dapprima la realtà, e non viceversa. Parte dalla realtà, non dal bisogno di riscatto; guarda e riconosce la sacralità della vita, per questo sa cosa sono i diritti dell’uomo e la sua libertà».

La sua raccolta d’esordio, La casa gialla sull’angolo (1980), tende l’arco del vissuto «più domestico e naturale, appunto la “casa gialla sull’angolo”; è in questo laboratorio minimo di emozioni che la poetessa matura la propria percezione identitaria. Un libro d’esordio ma già di confine: la casa è sull’angolo, pronta alla tentazione del viaggio. Sono, infatti, gli anni del primo soggiorno in Germania (a Tubinga, dal 1973 al 1975, per una borsa di studio) e dell’incontro con lo scrittore tedesco Fred Viebahn, che sposerà nel 1979» (F.Mazzocchi).

Il cuore della sua impresa sovrappone due universi alternati e giustapposti, le cui fenditure d’incontro scompigliano le disposizioni immaginative in un contemporanea intimità di radici e di itinerario speculativo, sostanziato nella fantasia concentrata dell’esperienza, e dentro cui l’intensità delle forme espressive dischiude i sipari dell’infanzia, dell’adolescenza e della vita presente attraverso una simbolica geometria espressiva.

La dilatazione espansa della datità della realtà si incardina in un’ellissi cromatica di mete e tinte fino alla deriva, si propone in una trasparenza astratta e figurativa che libera lo spartito dello spirito. «La natura e la mente sono in armoniosa astrazione», afferma Pat Righelato, «persino il profumo dei fiori sarebbe un ingombro a questa trasparenza, rimozione e espansione di spazio. La trascendenza, il senso dello spazio aperto prende posto dentro lo spazio della stanza: «si sono incardinate su farfalle», trasformate ed espanse rimangono ancora incisivamente angolate»:

«Dimostro un teorema e la casa si espande: / le finestre in un balzo si librano sino al soffitto, / il soffitto con un sospiro va alla deriva. / Appena le pareti si sono spogliate di tutto / ma non della trasparenza, l’odore dei garofani / se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto, / e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle, / dove si congiungono un raggio di sole riluce. / la loro meta è un punto vero e indimostrato».

La non consolata densità memoriale che ricerca la pienezza di un rifugio, l’incontro-scontro di culture, la ferita della geografia urbana come spasmo resiliente di suoni disgraziati e afflitti, destinano la materia vivente della memoria avvoltolata in un’arpionatura di cielo e in una metafora agonale e dettagliata, come «gusci scissi di quarzo e limone», dove non avviene consolazione bensì si rinviene il peso della rievocazione franta in movimento: «Quando il giorno è ancora una lacrima / congelata nel cervello, giungono / da est, code nelle proboscidi, / maldestre ballerine. / Come dir loro che per tutta sera / ho rifiutato ogni consolazione? Cinque / ombrelli, cinque salici, cinque ponti e la loro ombra! / Sollevano le proboscidi, arpionano il cielo / nel quale mi getterei, gusci / scissi di quarzo e limone. Potrei dire / che sono cinque ricordi ma / ciò non sarebbe giusto. / Piuttosto sassolini che cercano rifugio nel cuore. / Mi passano oltre. Io mi volto e li seguo, / e per ore non incontriamo nessun altro» (Cinque elefanti).

L’ultima poesia del volume “Ö”, espressione vocalica dell’esclamazione di stupore e meraviglia, diventa anche la parola che in svedese sta a significare “isola” e che ha «cambiato l’intero vicinato», trasformando e rivelando lo straniamento dell’ordinario in acuta porzione di altrove («Quando alzo lo sguardo, la casa gialla sull’angolo / è un galeone arenato sui fiori. Tutt’intorno / il vento. Persino l’acuto rombare di un trita foglie / potrebbe essere la sirena di una nave / che lambisce banchi di pesci nebulizzati»), sconfinando e aderendo alla parola esatta che freme in un piacere esteso e preciso («il presente porge la sua fronte di vetro al mare / (nel cortile brezze, sparpagliati cardinali rossi)»).

Nel momento più alto della precisione, la misura dà forma allo smisurato: è il rigore artistico a dare vitalità all’esplorazione, è il potere della parola a forgiare il linguaggio, come flusso sospeso che offre una nuova lingua alle cose: «e se, una sera, la casa sull’angolo / decollasse sopra alla palude / né io né il mio vicino / rimarremmo stupiti. A volte / si trova una parola talmente esatta che / freme alla minima spiegazione. / Cominci con una cosa, finisci / con un’altra, e nulla più / come era prima, nemmeno il futuro».

Museo (1983) innerva tutti i fatti della storia in una sorta di bassorilievo raccolto. Qui, sostiene Federico Mazzocchi, «Rita Dove sembra guardare oltre la propria esperienza, ma eventi apparentemente lontani e remoti sono ancora interrogati e in un certo senso “autenticati” dal proprio vissuto».

La storia sommersa dei dettagli minimi fornisce la fibra di un emblema fissato nella coscienza, la narrazione individuale e collettiva che compone il silenzio di una rievocazione museale che, da un lato, salda l’evento in una meticolosa linea di dettaglio, dall’altra delinea figure (Caterina d’Alessandria, Caterina da Siena, il soggetto greco, Shakespeare, Boccaccio e Fiammetta, Nestore, Christian Schad, il pianista Champion Jack Dupree) in condizioni circoscritte, in un ambito figurale ed antico come evidenza di vita, per entrare, simpateticamente, in un perfetto gioco di dialoghi e vitalità.

Anche qui la memoria non si impolvera ma restituisce, con scrupolo, l’esito di un tempo rigenerato, la proiezione temporanea di un germoglio di coscienza e crampo splendente. Il ricordo del sorbetto di uva, che il padre preparava per il Memorial Day, rappresenta la trattenuta reminiscenza che trapela nella sua «luce agglutinata» delle sperdutezze, nel sapore di lavanda e nei cumuli ricoperti d’erba, come il miracolo dell’esistenza gustata che illumina la sua presenza e il suo nitore di gelatina e grazia: «Dopo la grigliata / ecco Papà con il suo capolavoro – / neve vorticante, luce agglutinata. / Lo acclamiamo. La ricetta è / un segreto e lui reprime / un sorriso, col cappello all’insù / così che la falda sembri un’anatra. / Quel mattino galoppammo / tra cumuli ricoperti d’erba / e ad ogni lapide demmo il nome / d’un dente da latte perduto. Ogni cucchiaiata / di sorbetto, più tardi, / è un miracolo, / come sale su un melone che lo rende più dolce. […] Ci sembrò che là, sotto i nostri piedi, / non giacesse nessuno, / ci parve tutto / uno scherzo. Ho provato / a ricordare il sapore, / ma non esiste. / Ora capisco perché / ci tenevi tanto, / padre».

In Prezzemolo (Parsley), viene rievocata la strage di ventimila neri, per ordine del dittatore della Repubblica Dominicana, Rafael Trujillo, perché incapaci di pronunciare la lettera “r” in perejil, la parola spagnola che significa prezzemolo. Rita Dove compie qui un dramma corale con precisione di immagini, alternando le prospettive e i punti di vista: dalla scurrile pronuncia dei carnefici, calati nel loro inquietante abisso di compulsione e di ossessione, alla innocenza delle vittime nella pioggia che trivella i canneti: «Per ogni goccia di sangue / c’è un pappagallo che fa il verso alla primavera. / Fuori dalla palude spunta una canna».

Il simbolismo immaginativo di Rita Dove rivela persino il suo contrario non censurato di sentenza di morte, come afferma Therese Steffen, descrivendo l’abisso delle briciole incolori di una lingua annerita che contrasta con il paesaggio esterno. Il pappagallo e la lacrima sgomenta del generale per un ricordo scuro come luce nera che uccide l’orlo umano disastrato e i dolci spolverati di zucchero su uno strato di pizzo. Così la lingua segue l’immagine, si appropria di orrore e dramma in una percezione originaria, come sostiene Helen Vendler, ma si volta nel punto in cui la poesia «allarga la realtà dal suo interno, trovando la propria misura in questo “senso più largo”, che è ciò che la anima e assieme la lusinga. È così che Rita Dove ci mostra come la durata storica possa essere perfettamente congiunta alla percezione dell’individualità, e come il tempo possa d’improvviso spostarsi su un piano che di certo non lo trascende, ma che ne svela il volto più vero e nascosto» (Federico Mazzocchi).

La vicenda di Thomas e Beulah (1986) viene drammatizzata e riformulata, ricostruendo a intarsi la vita dei nonni materni per rintracciare «l’essenza dell’esistenza e della sopravvivenza dei [propri] nonni, non necessariamente i fatti della loro sopravvivenza. […] Ci si appropria di certi gesti della vita fattuale per rafforzare un senso più largo della verità che non è, strettamente parlando, realtà» (Conversation with Rita Dove, a cura di Ingersoll E. G., University Press of Mississippi, 2003, p. 66).

La fusione del momento lirico con la narrazione più ampia compone il palcoscenico della storia, sotto le diverse angolazioni prospettiche che svolgono il ruolo di collante tra le esperienze. La profondità e la densità simbolica connettono il profumo cromatico di un punto universale a quello interstiziale di una storia, in cui «i personaggi sono tessuto mentre eventi nazionali e internazionali sono la trama» (Moving Through Color: Rita Dove’s Thomas and Beulah in Kentucky Philological Review 14 (1999): 27-31).

La Dove unisce in una consistenza cromatica situazioni e azioni. Il gesto di un singolo diventa matrice universale e contrasto di esistenza: l’oggettualità trasparente, il mandolino e il cappello di paglia, i Negri appoggiati e il falsetto argenteo, il fango e la luna, il giallo delle banane e ancora l’argento crespato di Thomas e la sua sciarpa gialla, la coltre amorosa e perlacea di Beulah, il marrone delle castagne e il verde dell’isola raccolti in una notte torrida di acque ingrossate e dolcemente increspate descrivono la pienezza che si annuncia, nel dramma che scopre il desiderio e genera gesti incompiuti, finchè poi l’alone della poesia entra nella storia modificandola, rischiarandola, e la nota di dolore possa essere lambita.

L’epifania delle promesse d’amore sotto il bouquet in volo, «una prateria di vergini / che intonano Sia l’acqua, sia la luce. / Un respiro profondo, per gettarsi / nel sole, in mezzo ai baci, / sotto uno scroscio di riso / che li acceca entrambi», la quotidianità spolverata, il mattino saturato di bellezza e sogno di occhi, la morte che rannicchia, l’infarto e la guarigione («Lei è in piedi davanti al divano, / docile tra i suoi ninnoli, / nell’aria i segreti come un canto d’uccelli»), la tersità incisa del ricordo destano il tempo delle mancanze, delle figure e delle distanze tragiche e palesano l’improvviso colmo frammentato dell’essere.

L’immaginazione rapida e relazionale di Abbellimenti (1989), in inglese grace notes (le note musicali che abbelliscono e ornano la linea melodica principale), sottolinea l’avvertimento della grazia nella libertà di ogni dettaglio capillare e collezione di attese, di ogni abbellimento sotteso al segreto ritmo nascosto del reale che riporta a una tensione di avvenimento: le stelle singolari e gli alberi come destrieri nella loro linfa ascesa e luminosa, le donne delle isole che planano, percorrendo Parigi e inventando le mete, la sera delle api volate via nella casa di riposo a Gerusalemme, dove nell’aria minima «un ricamo ad ago / con la firma tersa della luna. / Qui nel deserto la domanda non è / Lo vedi? Ma Quanto è lontano? / Gli insediamenti nella valle indossano le loro luci / come armature; c’è il parlottio dei fringuelli / e i miei sandali, / con il loro irrilevante scricchiolio. / Chiunque qui attende, un tempo fu innamorato».

L’amore che pervade e irrora Amore materno (1995), in cui viene trasposta una versione moderna del mito di Demetra e Persefone, coinvolge e fa sospirare il mito in una accezione simbolica e pervasiva, dispone l’autobiografia (la relazione con la figlia Aviva) in una suggestione sobillata di protezione, di libertà e di destino che si compie.

Contrappuntando la memoria rilkiana dei Sonetti a Orfeo, la poetessa realizza il suo periplo di salvazione dei frammenti vitali dalla disintegrazione e dalla violazione: è l’incanto che protegge i giorni, la porta che trasfigura il mito in una contemporanea presenza di fiato e la punteggiatura che allinea le immagini.

La voce parentetica della madre avverte la figlia di andare direttamente a scuola e di non parlare agli sconosciuti ma quando Persefone raccoglie un narciso, vede la terra aprirsi nella sua scaturigine di rapimento e terribile chiarore di abisso, «come un coltello che cala / nella più umile fenditura».

La violenza del trauma («chi può dire / che cosa penetra?»), lo spegnimento del buio, la brillantezza perduta che diventa sintagma sopruso e atterrito splendore di cupa lucentezza («Fu come se / in tutti quegli anni avessi viaggiato / senza un corpo, / finchè le sue mani non mi trovarono – / nulla sarebbe più esistito / all’infuori di noi due: / l’uno che feriva / e l’altra che serviva»), lo spostamento dei punti di vista, lo straniamento di Persefone, nel suo rumore di passi che aleggia varcano il rapporto nucleare di Demetra attraversata da una tensione ricca e inconsolabile, come messe dispersa: «Niente può consolarmi. Potete portare seta / per far sospirare la mia pelle, dispensare rose gialle / come fa qualche vecchio dignitario. / Potete continuare a ripetermi / che sono insostenibile (e questo lo so): / eppure, nulla tramuta l’oro in granoturco, / non vi è nulla di dolce per il dente che vi si frantuma. / Non chiederò l’impossibile; / a camminare si impara camminando. / Col tempo scorderò questo mio traboccare di vuoto, / potrò sorridere ancora a / un uccello, forse, che abbandona il nido – / ma non sarà felicità, / poiché quella, io, l’ho conosciuta» (Demetra in lutto).

Spesso accade che il mito si distenda nella storia sommersa dell’epica quotidiana, come succede in  Sull’autobus con Rosa Parks (1999), in cui viene affrontato «un cameo di personaggi ed eventi» dove, come afferma Federico Mazzocchi, «Rita Dove evidenzia alcuni snodi della battaglia per i diritti civili dei neri, ma a prevalere sono ancora l’invenzione e il dramma; non una prospettiva di rivendicazione, bensì una “meditazione sulla storia e l’individuo”, un approccio che ben inquadra la frase di Simon Schama che apre la sezione eponima: “Tutta la storia è una negoziazione tra familiarità ed estraneità”. Rosa Parks è la donna che nel 1955 rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus e perciò fu arrestata, scatenando la reazione della comunità di Martin Luther King. Eppure lo spunto del libro sembra essere di tutt’altro genere: “Siamo sull’autobus con Rosa Parks” è la frase detta per gioco dalla figlia della poetessa durante uno spostamento. Nessuna contraddizione, perché indagare ciò che è fuori dalla storia significa anche per Rita Dove interessarsi di quello sguardo primordiale e innocente in cui la natura non si è ancora fatta cultura».

La sua poesia sembra far affiorare, ancora una volta, due proporzioni e sproporzioni, come se il tempo singolo, la chiamata del passato e il ritorno, i fantasmi, la semplice fiamma di Rosa, il ritratto dell’infanzia al tempo in cui «la terra era nuova / e il paradiso solo un bisbiglio, / al tempo in cui era troppo presto / perché i nomi delle cose attecchissero; / al tempo in cui le più tenui brezze / scioglievano l’estate nell’autunno / quando tutti i pioppi stormivano / dolcemente nei loro ranghi e schieramenti…», possano far rivisitare l’alba di ombre gloriose sulla pagina bianca spalancata, come recita una sua poesia dolce e profonda, poiché «Se non ti guardi indietro, / il futuro non accadrà mai. / Quanto è bello svegliarsi con il sole, / in un prodigo odore di biscotti – / uova e salsicce sulla griglia. / L’intero cielo è tuo / per scriverci sopra, spalancato su una pagina bianca».

È la vita di ogni giorno a chiamare, il taglio del paesaggio intravisto da questo autobus di affetto e storia, con tutte le sue ellissi e dilatazioni, che permette alla minuzia del dettaglio di scoprire il lato segreto e universale della realtà, il suo moto nascosto, la sua appartenenza e il rapporto intensivo tra musica e parola: «Fui piroetta e ghirigoro, / fui filigrana e fiamma. / Come avrei potuto contare le mie benedizioni / quando nemmeno sapevo il loro nome? / Al tempo in cui tutto doveva ancora venire, / la fortuna trapelava da ogni luogo. / Feci la mia promessa al mondo, / e il mondo mi seguì sino a qui».

La scena edenica di Giorno dei morti, tratto da American Smooth (2004), mostra Adamo ed Eva protesi a nominare le voci degli animali e il tempo del paradiso e, da quel momento afferma Mazzocchi «le parole infrangono la “musica” del silenzio, lasciando uomo e donna in una sorta di perenne danza nostalgica»: «Dinanzi a loro, un silenzio / più vasto di tutta la loro ignoranza / si spalancò e in esso si addentrarono / finchè non fu tutto ciò che sapevano. Col tempo / si rintanarono negli affari, / riempiendo il mondo di sospiri – queste creature anonime, / boriose, / le teste inclinate quasi nello sforzo / di carpire le parole di una canzone / cantata tanto tempo fa, in una terra straniera».

L’American Smooth è una forma di ballo liscio, in cui i partner sono liberi di rilasciarsi a vicenda e permettere l’improvvisazione e l’espressione individuale. Pertanto, Rita Dove compie la sua danza di nostalgia e elevazione, impastando e facendo convivere il lirismo con un nuovo ritmo, con una nuova porzione di storia che si palesa, come la nera luna solcata di Hattie McDaniel, prima attrice afroamericana a vincere un Oscar.

La sottile linea dei versi si muove attraverso questa polifonia di  grazia e forma, di indipendenza, di opposizione e di sinuosità morbida di incantesimi, che vengono assorbiti dalla danza, dal volto e dai gesti. Il gesto del ballo si proporziona al gesto poetico, seguendo entrambi la danza delle cose, che si modellano nell’aria del «compiuto volo» e della «repentina e placida / magnificenza / prima che la terra / ci ricordasse chi fossimo e ci riportasse giù».

La Sonata Mulattica (2009), incentrata sulla figura del violinista mulatto George Bridgetower, ricordato per essere il primo esecutore e l’iniziale dedicatario (“il mulatto lunatico”) della Sonata a Kreutzer di Beethoven, il quale revocò e attribuì la dedica a Rodolphe Kreutzer, presumibilmente per un litigio riguardante una donna.

Il lavoro di Rita Dove insegue un’esistenza omessa, scandagliando la piega interiore dell’Altro rimosso e della sua giovinezza esotica («Sono l’Interno Oscuro, / sono l’Altro, misterioso e perduto; / Destino Spaventoso, lacerato da vite e tubero, / predatore satinato che sguscia dietro / alla sua preda spacciata ed ignara»), l’intimità monologante e adunata dei personaggi (come in Haydn lascia Londra: «Chiudo gli occhi / e lo sento, una corda grave pizzicata a intervalli, / che trascina la nostra sentina verso il mare rigonfio – /  un basso continuo che martella il sangue, / che si agita e non è mai pago») e la simbologia animata e vivente del reale attraverso la natura della memoria pubblica e privata, come il ritaglio felpato di verde e la partitura sperperata nel furore dell’Eroica di Beethoven, trascritta nell’aria e inspirata nella brezza del suono puro. Anche qui il gesto umano è il gesto del libro, come l’angolo sbilenco di Billy Waters («sbilenco come un granchio / dolciastro come birra di radice») o il gesto simbolico e vivente della statua di Moro con smeraldi.

Umanizzando e drammatizzando la sua orma materica, l’autrice allinea immagini inconsuete e rarefatte, mescola, nei cinque movimenti, i generi, toccando la precarietà nella nota che predomina, e creando un altro tempo nel tempo apre di continuo crepe ritmiche ai suoni dimenticati e, infine, adesca l’indicibile in una collezione di grazia mirata di sillabe primitive. Esatte.

 

Rita Dove - la scoperta del desiderioDOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015, pp.157, Euro 18,50.

 

 

 

 

DOVE R., La scoperta del desiderio. Antologia personale, a cura di Federico Mazzocchi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2015.

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L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 9 febbraio 2016

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140dfd1d3f499Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza «a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso», Michel Houellebecq pubblica ora Configurazioni dell’ultima riva, edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, che fa seguito nel suo territorio poetico a Rester vivant (1991), La ricerca della felicità (1992), Le sens du combat (1996) e Renaissance (1999), rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».
È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».
Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.
È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».
L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta» (La verità della poesia, p.35-36).

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente: «Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione».
Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia: «Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica».
Scrive Nicola Vacca:

«Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia». Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa».

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».
Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave».
Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone, è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».
L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».
È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremore, avviluppato nella conca drammatica dell’umano: «Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / È nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza».
Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive «nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore».
Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / È il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, / Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».
La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane. È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».
L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale».
Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».
La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».
E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».
In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo: «Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?».

6339956_966185HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

HOUELLEBECQ M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.
ID. – LÉVY BERNARD H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.
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(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

Le egrette bianche di Derek Walcott

di Andrea Galgano 12 gennaio 2016

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Le egrette di Derek Walcott

È incisione di stupore e gratitudine il nuovo lavoro di Derek Walcott (1930), Egrette bianche, scritto alla soglia degli ottant’anni, premiato con il T.S. Eliot Prize for Poetry e pubblicato oggi da Adelphi, con la traduzione di Matteo Campagnoli.
Walcott scompone e ricompone il disegno della sua sprezzatura nell’enigma intarsiato, nell’immobilità misteriosa e segreta delle figure, come se si addensasse il grumo esploso della luminosità del puntuale splendore, come se tutto richiamasse a un compito antico e forgiato, così come dichiarò nel discorso pronunciato per il Nobel nel 1992: «C’è un’esultanza fortissima, una celebrazione della fortuna, quando uno scrittore è testimone degli albori di una cultura che si definisce da sé, ramo dopo ramo, foglia dopo foglia, in quell’aurora foriera di autodefinizione, ed è per questo che, specialmente in riva al mare, è una bella cosa che l’alba diventi un rituale. Poi il sostantivo, “Antille”, s’increspa come acqua che inizia a luccicare, e i suoni delle foglie, delle palme e degli uccelli sono i suoni di un dialetto giovane, la lingua natia. Il lessico personale, la melodia individuale che ha per metro la biografia di ciascuno si unisce, con un po’ di fortuna, a quel suono e il corpo si muove come un’isola che si risvegli».
Le Antille che hanno smarginato il cielo, rintuzzando le nuvole, scoperchiando la memoria epica di una ricomposizione franta e di un proscenio misurato in cui il luogo scrive di se stesso, con le lingue degli alberi, con l’accenno della narrazione che inseta la lontananza vicina delle stelle, ora ridesta il confine di uno spodestato soggiorno di crepuscolo e perdita, come oggi gli scacchi saldati simili alle statue dei soldati dell’imperatore cinese e dove «Il moto genera perdita»: «Gli scacchi stanno ritti sulla scacchiera, rigidi / come quei guerrieri d’argilla grandezza naturale […] Ogni soldato ha fatto un voto, ognuno ha giurato / di morire per l’imperatore, il clan, la nazione, / di diventare una pedina, eretta e senza fiato / all’ombra o sotto il sole obliquo, priva di ore – / da creta a creta, inflessibilmente inodore. / Se i voti si vedessero, loro forse vedrebbero i nostri / come scacchi immutati nella luce mutevole / sul prato dove il frangente impavesato s’inerpica / e le palme ondeggiano alla musica del tempo / sul silenzio degli scacchi».
La simultaneità di tempo e storia che coniuga passato e presente è balsamo supino, simile a una gioia nascente che dilaga e il cuore diventa sete inestinguibile di ritorni e approdi, aggrappato al fradicio detrito luminoso: «Il sole di gennaio spalma il suo balsamo / sulla pancia supina della terra, ombre che hanno sempre / combaciato con le loro forme, vi combaciano / di nuovo. / I frangenti diffondono un benvenuto. / Accettalo. Guarda gli spruzzi dell’onda che esplode / come un gatto che s’arrampica su un muro, fa presa, / scivola e s’arrende; all’inizio , le sue unghie / si agganciano poi scivolano in una rapida caduta / nella spuma ondeggiante. Questo è il cuore, al suo rientro, / che cerca di aggrapparsi a tutto ciò che ha lasciato, / come le cose salate non fanno che accrescerne la sete».
In queste mappe umane, la pittura di Walcott condensa il suo segno feriale, la furia sospesa e adamitica, la sua uscita, trascendente e metafisica, che incede alla maniera di un itinerario uscito da una scena paradisiaca, in cui il ritmo diventa l’incantagione di una “post-mortalità”. Scrive Fabrizio Sinisi: «All’uomo che viaggia, che cerca, che si Sforza di “riconquistarsi” identificandosi nella straordinarietà del mondo e della propria azione in esso, viene restituito, con l’umiltà di chi ritorna a casa, il proprio io. E non è un clamore, ma una promessa, l’aurorale inizio di un compimento: l’uomo viene riconsegnato a sè».
Allora, le egrette bianche si sospendono nel loro candore e nello sfacciato biancore, proclamano un’esuberanza che dispone il tracciato dell’io che, come scrive Franco Marcoaldi, «sempre incontra la presenza impetuosa dell’acqua, immancabilmente trasformata in canto – come del resto il vento, la luce, il volo degli uccelli, «il lampo di una foglia». Ché questa è una poesia corale, a cui concorrono esistenze anonime, senza voce, se non fosse per la presenza sapiente di chi finalmente sa farle rivivere nei versi. Irriducibile a ogni scuola, «il meticcio dello stile» procede sospinto da una prodigiosa energia linguistica e immaginativa, becchettando in ogni dove come il piccolo airone bianco a cui la raccolta è intitolata».
Scrive Walcott: «L’eleganza di quelle egrette bianche dal becco arancione, / ognuna una brocca che incede, gli olivi fitti, / i cedri che consolano la furia di un ruscello torrenziale / nella stagione delle piogge; in quella pace / di là dai desideri e di là dai rimpianti, / alla quale infine potrò forse arrivare, / con le palme che si afflosciano al sole come portantine / con sotto ombre tigresche. Saranno lì / dopo che la mia ombra con tutti i suoi peccati / sarà entrata in una verde boscaglia di oblio, / con lo spuntare e il calare di cento soli / sopra la Valle di Santa Cruz quando amavo invano».
Roberto Mussapi commenta: «Egrette sono uccelli, bianchi, qui come merletti, segni tra cielo e terra […] Segni del passaggio del tempo, del moto che consuma: straordinario poeta di viaggio e avventura, di mare, isole, movimento acqua (dopo Melville non esiste epopea di mare fino a Derek, scrisse Brodskji) Walcott coglie nel bianco uccello la metafora stessa dell’apparire nel mondo, il volo dell’esperienza, dell’amore, della parola. […] Un viaggio continuo, segnato dal senso dell’età, dell’approssimarsi della fine della vita terrena».
Le incisioni serafine diventano incrinatura di luce e gemono i tuoni. Una domanda di riparo, un perfezione che incede nel fulgore e nella quiete dibattuta, dove questi uccelli punteggiano «le isole / lungo i fiumi, nelle paludi di mangrovie o nei pascoli, / planano sugli stagni, poi si equilibrano sul dorso / setoso di una giovenca, o sfuggono al disastro / durante gli uragani, e beccano le zecche / con colpetti elettrici come fosse un puro privilegio / studiarli nella loro mitica pretesa / di aver attraversato il mare in volo dall’Egitto / col faraonico ibis, le sue zampe e il becco arancioni / profilati nella quiete per adornare una cripta, / poi si lanciano con ali che, sbattendo più rapide, / sono sicure come quelle di un serafino quando sbattono».
Luigi Sampietro sostiene che: «Walcott è un poeta che pensa con gli occhi. […] Uomini, donne, animali, pesci, fiori, piante, nuvole, onde del mare, rocce, volumi, chiazze, sfumature, echi, suoni e movimenti invisibili dell’aria, tutto ciò che Walcott nomina è come se diventasse degno di essere battezzato. Sicchè il nulla della realtà storica dei Caraibi si dissolve alla luce di un paesaggio in cui è sempre in atto il miracolo della creazione. La nascita quasi melodrammatica di un nuovo giorno».
Ma è lo stupore la sottile perpetua e ideale freschezza della profondità, l’irruzione di un passo impacciato, il cielo e la pagina del prato: «L’ideale perpetuo è lo stupore. / Il prato verde e fresco, gli alberi tranquilli, la foresta / laggiù sulla collina, poi, il bianco ansito di un’egretta / che irrompe nella cornice poi atterra e si assesta / coi suoi passi impacciati fino a fermarsi, eretta, / un emblema! […] La pagina del prato e questa pagina sono un’unica cosa, / un’egretta stupisce la pagina, lo sparviero alto stride / sopra una cosa morta, un amore che era pura punizione».
La storia delle egrette è un’ inesorabile coltre di sorprese, di ritorni nella pioggia chiara e illimitata, di colori come cascate e nuvole, di addii e consolazioni come preghiere o come gli amici andati e che stanno andando via, di consanguinei istinti che assomigliano alla pena della pagina e alla lingua «al di là delle parole», impronunciabile e levata nell’ornato fruscio di pioggia e foglie : «Con l’agio di una foglia che cade nella foresta, / un giallo pallido che rotea sul verde – la mia fine. / Presto verrà la stagione secca, le colline arrugginiranno, / le egrette affondano i colli ondulanti, chinandosi, / becchettando vermi e larve dopo la pioggia […] / Condividiamo lo stesso istinto, il vorace cibarsi / del becco della mia penna, quel raccogliere insetti / che si dimenano come nomi e ingoiarli, col pennino che legge / mentre scrivo e scrolla via quello che il becco rigetta».
La memoria strinata delle acacie è analogia di sogno e visione: le ombre emaciate, i terreni selvaggi o la libertà di inseguire i nomi nel vento limpido delle sagome distanti. Walcott, pertanto, disegna la voce nelle pagine delle nubi, come se le bizzarrie fuori tempo fossero impronte magiche di gratitudine.
Le figure annodate nel ricordo, come August Wilson o Oliver Jackman, divengono capitoli e quarti di luna, un calipso provato che destina una nuova nascita di amore profondo e di gioia inesprimibile, perché, come scrive Viola Papetti: «Derek Walcott è uomo di teatro e sa bene che la sua personale odissea deve legarsi a una situazione, a un tema, a un protagonista, ossia a se stesso e alle libere e sapienti egrette bianche, sue alter ego. Le felici tessere poetiche che compongono questa eccezionale autobiografia, perfette e compiute in se stesse si legano, l’una all’altra con movimento fluido, iridescenti di sensazioni visive e uditive, ma anche oscurate a tratti da cineree ombre di morte, morte della sua poesia, dell’amata, del corpo stanco».
È nel ritorno che la compressa lucidità di Walcott trova il suo adagio-firmamento, il perseguimento di un alone sorpreso che si consuma nelle consonanti di ghiaia della Suite siciliana, nel dolore stridente dai balconi di pietra e nel cuore bruciato di siccità, come il canto bloccato «in un dolore senza via d’uscita, in suoni e colori vorticosi, in barocche volute che secretano il senso e la pena. Fuori dalla pastorale caraibica, nel bagliore di una violenta illuminazione, rintocca l’antica tragedia: impotenza e colpa. Una figura femminile, amata, tradita, morta, nemica, lo perseguita o gli sfugge, in quel paesaggio infuocato, splendido e ostile. La pace lo attende di ritorno a St Lucia, e l’isola si racconterà in ondate silenziose, in strade che si potranno leggere, e sul filo dell’orizzonte si disegneranno navi, golette, antiche canoe. Ma una nube ricopre la pagina, scivola via, e la pagina resta bianca, per sempre monda di scrittura».
Le immagini della Sicilia sono ovali di memoria, dettagli intensi e visi cocenti: l’amore da lontano, perduto e vissuto, uno stormo di ragazze che cinguettano, le sirene premature, la vecchiaia rattrappita che colpisce l’ulissica passione sproporzionata ma non la elimina nel suo itinerario di ritorni. O ancora il ciclo spagnolo, con le trame andaluse e luci solari dell’olio d’oliva, fino alle ciglia come nere falene e la doppia sostanza di nacchere, ossa e tacchi.
La poesia di Walcott albeggia sui dettagli italiani (Siracusa, Recanati, Milano, Umbria, Rimini, Capri): sono fogli di occhi rapidi, romitaggi memoriali destinati agli amici e ricordi impregnati del profumo alfabetico dei luoghi, laddove la lussureggiante fecondità degli istanti crea e ricrea un mondo non già perduto ma che ama incresparsi in grandi riquadri. È l’orma d’Italia a interessare ogni estrema gioia, ogni spasimo creato che si inclina e balbetta respirando: «Sono stupefatto dai girasoli che roteano / negli enormi prati verdi sopra il mare indaco, / sbalordito dal loro aureo silenzio, sebbene cantino / con l’impercettibile brusio degli orologi sopra Recanati. / Davvero si voltano verso il tramonto, proprio come un esercito / obbedirebbe agli ultimi ordini di un impero in declino, / ruote bloccate sullo stesso solco prima delle stelle / imbullettate e del fuoco vagante delle lucciole, / poi si afflosciano a terra con lievi tonfi come meteore / esauste? Nella nostra vita altrove, i girasoli / crescono solitari, ma in questa regione costiera / puoi trovare interi campi del loro potere terreno / steso come il mantello di un principe rinascimentale, / le loro insegne avvizziranno, i loro elmi d’oro / riempiranno il vuoto».
Qual è il luogo della poesia? Dove essa può spandere l’orizzonte dei ciottoli di vari colori, dove può esprimersi come mosaico rivestito? Quale stupore serve alle insenature tremolanti? Una salvazione della natura che sana nell’impero perduto, un ettaro dove «il mio cuore sia ridotto a brandelli come i merletti del mare, / di vedere come le sue ali si colorano quando un gabbiano / prende il volo».
E poi ancora si rinviene Londra nella macchia invisibile che si propaga, la New York del Village tra le macchine da scrivere divelte e le vene che gemmano, Amsterdam e la sua acqua che mormora tra le aie striate e le chiatte ormeggiate, gli stendardi di Barcellona nel crespo violetto e negli occhi che colano. L’enumerazione dei colori del mondo frequenta così arie azzurre, i quadrati di luce, le stelle fuggenti, i crinali verde-azzurro, l’epitalamio della stagione delle piogge, gli acri di terra e, infine, i mutamenti marini.
Il mare, per Walcott, è appartenenza, brama oscena di isole, dita sommarie che si posano sugli scalpelli e portano le lontananze dimenticate delle onde frante alla pace arancione del crepuscolo. La descrizione delle onde che marciano, la liquidità memoriale le la vocalica consonanza delle reti lucenti di ogni passaggio lagunare, sciorinano ogni aliseo instancabile fra le navi corsare: «Volo come l’airone ardesia verso luoghi desolati / verso le costole di un relitto abbellito da musco, / dove l’egretta dispiega le ali per non vacillare / sulla prora dove i granchi si appostano; / finito, tutto quel vigore con cui ho cercato / una vita più ricca di questa ricerca stentata».
Scrive Luigi Sampietro: «Lo scenario, per non dire la visione, è per qualche attimo, addirittura dantesco, ma è come se Walcott, all’altro capo del mondo, queste poesie le scrivesse a futura memoria, da rileggere e portare con sé quando sarà il momento, perché il paradiso – l’estrema gioia che è nella fruizione della bellezza, del mondo creato, seppur segnata da qualche cicatrice – è per lui qui, ora, su questa terra».
Le cicatrici di Walcott divengono, quindi, velate, come la Martinica in mano alla foschia, sospinta dagli uccelli, dove «una lettera / di là dai versi bianchi e accecanti dei frangenti, / dalle cotte merlettate e le congregazioni dello scisto. Non ho spedito alcuna lettera / benchè sbattesse al vento, / la tua isola è sempre nella foschia della mia mente / con gli uccelli sospinti dal vento qua e là sopra il mare / nel loro creolo vocio di vocali […]».
L’aggregazione di immagini sfodera una feconda opulenza lirica. Walcott, cinematograficamente, ci presenta la sfera del suo mondo in dettaglio, la memoria della sua anima peregrina, la sfrontatezza ancestrale della sua anima che affiora, come le nuvole del ritorno: «Questa pagina è una nuvola tra i cui bordi / sfilacciati appare a tratti un promontorio / di montagne che poi si nasconde ancora, / finché quello che affiora dall’azzurro adesso terso / è il mare solcato e, intera, l’isola che si chiama da sé, gli orli ocra, / le valli sprofondate nell’ombra e una spirale di strada / che unisce i villaggi dei pescatori, i bianchi e silenziosi flutti / dei frangenti lungo la costa, dove una linea di gabbiani sfreccia / verso il porto sempre più grande di una città senza rumore, / le sue strade diventano più vicine come lettere leggibili, / due navi da crociera, golette, un rimorchiatore, canoe ancestrali, / mentre una nuvola lenta copre la pagina che ritorna / bianca e il libro finisce».

cab5930e93d1e32067c42c96ae18d6f1_w240_h_mw_mh_cs_cx_cyDEREK WALCOTT, Egrette bianche, Adelphi, Milano 2015, pp. 189, Euro 19,00.

WALCOTT D., Egrette bianche, traduzione di Matteo Campagnoli, Adelphi, Milano 2015.
ANNIBALDIS G., I versi dei volatili ispirano Walcott, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 27 dicembre 2015.
MARCOALDI F., Viaggio in Italia nei versi di Derek Walcott, “La Repubblica”, 8 novembre 2015.
MUSSAPI R., Mare e mito, Derek Walcott invita a un nuovo viaggio, “Avvenire”.
PAPETTI V., Trascendenze di versi in punta d’ala, “Il Manifesto”, 15 novembre 2015.
SAMPIETRO L., Candide garzette del ritorno, “Il Sole24ore”, 1 novembre 2015.

SINISI F., Ritorna lo straniero. E la vita può sedersi finalmente a tavola, «Tracce – Litterae Comunionis», 1, gennaio 2016.

Kandinsky: il colore del suono

di Andrea Galgano 15 dicembre 2015

leggi in pdf  Vassily Kandinsky: Il colore del suono

Wassily Kandinsky, vers 1913 /Gabriele Münter /sc
Kandinsky: il colore del suono

La poesia di Vassily Kandinsky (1866-1944) assume i segni architettonici di un’improvvisazione pittorica che inventa una lingua che trasfigura e crea il mistero vivente, un’intuizione palpabile che attraverso i segnali della nostalgia per la forma perduta condensa il tempo nel colore puro, che sente la forza e la composizione di un controcanto sentimentale in tutta la sua specifica potenza e palpito e, in questo senso, come sostiene Vittorio Sgarbi, «la pittura astratta non è soltanto sperimentazione ma è pittura psicologica e, in nessun pittore come Kandinsky, questo elemento psicologico è così fortemente presente».
Pertanto, tutta la sua opera, come scrive Roberta Scorranese, «è attraversata da un sentimento vivo, riconoscibile, palpabile: l’insoddisfazione. Mai sazio, prese i colori delle sue terre d’origine e ne fece astrazione: punti, linee, superficie. Ma non era ancora abbastanza: l’arte non riesce a riprodurre, diceva, “l’ora più bella delle giornate di Mosca”. Non era solo una questione di stile o genere: la pittura, da sola, non era sufficiente a raccontare quel mondo che giocava a dadi con la guerra, con le rivolte sociali» e poi, soffermandosi sul valore sinestetico dei versi dell’artista russo continua: «[…] in lui la sinestesia non era soltanto una forma retorica: era una poetica precisa. Dipingere e scrivere versi, comporre musica o imbastire riflessioni teoriche, erano semplicemente la stessa cosa. […] Ecco perché la poesia di Kandinsky non è solo poesia: è, insieme, suono, colore, gesto, linea, punto, superficie».
Il suo punto fiammeggiante si attesta nell’estremo desiderio di cogliere i nessi profondi del mondo, l’anima stremata e segreta, la frantumazione illuminata di una coltre casta, la sinestesia musicale di una linea selvaggia e incrociata, poi Mosca, la duale e mobile, regina che splende nel suo grido intagliato di gioia irraggiungibile che, come dice egli stesso, «si liquefa in questo sole, diventa una macchia che fa vibrare tutto il vostro essere interiore, come lo squillo in una tromba frenetica» (W. Kandisnky, Sguardi sul passato, p. 15):

«Il rosa, il lilla, il giallo, il bianco, il turchino, il verde pistacchio, il rosso fiamma delle case e delle chiese si uniscono al coro con il prato di un verde folle e il mormorio profondo degli alberi; e insieme è la neve dalle mille voci canore e l’allegretto dei rami spogli e infine la cintura della rossa muraglia del Cremlino severo, diritto, silenzioso. E sopra tutto, come un grido di trionfo, come un alleluia immortale scoppia la linea bianca intagliata, rigida del campanile di Ivan Velikij. La testa d’oro della sua cupola tende verso il cielo una nostalgia acuta ed eterna. La sua sagoma slanciata è, tra le stelle multicolori o dorate delle altre cupole, il vero sole di Mosca» (ibid., p. 15).

Ancora il tormento chiaro spodesta il suo limite, il suono vivo di una rinascita che in ogni particolare diventa figurazione riscoperta e istante denso come un volto mostrato, il coro dei colori che invade tutto il sistema percettivo:

«Tutto ciò che era inerte, fremeva; tutto quello che era morto, riviveva. Non soltanto le stelle, la luna, le foreste, i fiori tanto cantati dai poeti, ma anche il mozzicone nel portacenere, il bottone di madreperla che vi fissa dal ruscello, bianco e paziente, il filo di corteccia che la formica stringe con tutte le sue forze e trascina fra l’erba alta, verso mete indeterminate e importanti; un foglietto di calendario che una mano cosciente strappa dalla calda comunità degli altri fogli. Tutto mi mostra il suo volto, il suo essere profondo, la sua anima segreta che tace più spesso invece di parlare. Fu così che ogni punto, ogni linea immota o animata per me diventavano vive e mi offrivano la loro anima. Questo bastò a farmi scoprire, con tutto il mio essere e con tutti i miei sensi, le possibilità dell’esistenza di un’arte da determinare e che oggi, in contrasto con l’arte figurativa, è chiamata “arte astratta”». (ibid., p.16).

La scoperta della “divisione” dell’atomo introduce, nell’artista, lo spasmo di un crollo, di una vaghezza incerta e improvvisa, destinando la fatalità di un vacillamento mitico che elabora lo stremo dell’irregolare traduzione geometrica lirica, dei contrasti giustapposti e infine delle lontananze delle terre magiche, percorse da un’oscurata dimensione sognante dell’oggetto assorbito che crea il mondo, si appropria delle screpolature cromatiche, isola il suo stupore selvatico.

«L’arte, per molti punti, è simile a una religione» perché, scrive, «il suo sviluppo non dipende da invenzioni nuove che cancellano vecchie verità per consacrare nuovi errori, come avviene per la scienza. Il suo sviluppo procede per illuminazioni repentine, simili al lampo; per esplosioni, come i razzi di un fuoco d’artificio esplodono nel cielo per comporre il mazzo finale di stelle multicolori. Queste illuminazioni rischiarano di una luce abbagliante nuove prospettive, nuove verità, che, in fondo, non sono che lo sviluppo organico, la crescita organica della saggezza prima […]» (ibid., pp.40-41).

Nel 1913, Kandinsky pubblica la sua prima raccolta di poesie Suoni, trentotto testi in versi liberi, accompagnati da 55 xilografie che cercano la percezione visiva della sonorità. Ogni pronunciamento verbale è costituito, secondo Kandinsky, da tre elementi che si intrecciano e si intersecano nel calco figurativo, nel mero suono e nella rappresentazione ecoica del reale: «1) da una rappresentazione puramente concreta o reale (per esempio il cielo, un albero, l’uomo); 2) da un suono che si potrebbe dire fisico, ma che non si presta a una definizione verbale chiara (si può esprimere come agiscono su di noi le parole “cielo”, “albero”, “uomo”?); 3) da un suono puro, poiché ogni parola possiede la propria sonorità, peculiare a essa soltanto».(cfr.W. Kandinsky, Tutti gli scritti: vol.II: Dello spirituale nell’arte, scritti critici e autobiografici, teatro, poesie).
In Colline, l’incipit rimanda a un calco stereotipato della collina, prosegue attraverso una personalizzazione di territorio, si chiude nella definibilità dell’eco umana:

«Una quantità di colline, in tutti i colori che uno può e vuole immaginarsi. Tutte di diversa grandezza, ma di forme sempre uguali,ossia solo una: grosse in basso, gonfie ai lati, piane e tondeggianti in alto. Dunque colline semplici, abituali, come uno le immagina sempre e non le vede mai. Fra le colline serpeggia uno stretto sentiero semplicemente bianco, ossia né azzurrastro né giallino, né tendente all’azzurro né al giallo. Un uomo che indossa un lungo mantello nero, senza pieghe, che gli copre persino i talloni, va per questo sentiero. Ha il volto pallido ma con due chiazze rosse sulle guance. Anche le labbra sono rosse. Porta a tracolla un gran tamburo e lo suona. L’uomo cammina in modo assai buffo. Talvolta corre e percuote il tamburo febbrilmente, con colpi irregolari. Talvolta procede con lentezza, forse assorto nei suoi pensieri, e suona il tamburo quasi meccanicamente, con un ritmo molto lento: uno…uno…uno…uno…Talvolta addirittura si ferma del tutto e batte come il coniglietto bianco dal pelo morbido, il giocattolo che noi tutti amiamo. Quest’immobilità non dura però a lungo. L’uomo ricomincia a correre e percuote il tamburo con colpi febbrili, irregolari. Come del tutto sfinito, l’uomo nero giace lungo disteso sul sentiero bianco, fra le colline di tutti i colori. Accanto a lui sono i tamburi e anche i due mazzuoli. Ma eccolo già in piedi. E riprenderà a correre. Tutto ciò l’ho visto dall’alto e prego anche voi di volerlo osservare dall’alto» (ibid.).

Le interne polarità cromatiche si esprimono in coppie di opposti, in cui il blu e il bianco segnano quiete e distanza, come in Visione: «Blu, blu si alzò e cadde. / Appuntito, sottile fischiò e s’introdusse, ma non passò da parte a parte. / In tutti gli angoli è rimbombato. / Grassobruno rimase impigliato apparentemente per tutte le eternità. / Apparentemente. Apparentemente. / Devi solo stendere di più le tue braccia. / Di più. Di più. / E devi coprirti il viso con panno rosso. / E forse non c’è ancora stato uno spostamento: soltanto tu ti sei spostato. / salto bianco dopo salto bianco. / E dopo questo salto bianco di nuovo un salto bianco. / E in questo salto bianco un salto bianco. In ogni salto bianco un salto bianco. / Non è certo un bene che tu non veda il torbido; poiché nel torbido c’è davvero. / Perciò anche tutto comincia…..È scoppiato…..».

In Aperto, invece, Kandinsky crea un’ossessione recitativa, attraverso un ritmo al contrario, definito nello schema eco-gestalt-calco, spogliando le canne dal verde: «Ora nell’erba verde lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Or nella bianca neve lente dileguanti. / Ora nascoste nella grigia mota. / Giacquero a lungo: grosse lunghe nere canne. / Giacquero a lungo. / Lunghe canne. / Canne. / Canne».
La forma acquista sintesi, si spinge verso una forte dinamica grafica che discioglie il dato reale nel contrasto e nella tensione, e il dizionario cromatico, messo in atto dall’artista russo, rappresenta il termine libero di un’esplosione di confine: «I primi colori che mi fecero grande impressione sono il verde chiaro e brillante, il bianco, il rosso carminio, il nero e il giallo ocra. Avevo allora tre anni. Quei colori appartenevano a oggetti che non rivedo più chiaramente, come rivedo, invece, i colori» (Sguardi sul passato, p. 11).

O come scrive nel volume Lo spirituale nell’arte, a cui lavorerà alacremente dal 1904 al 1909, tra i boschi di Murnau in Baviera: «Chi ha sentito parlare di cromoterapia sa che la luce può avere effetti sull’organismo. Più volte si è tentato di adoperare la forza del colore per curare varie malattie nervose, e si è osservato che la luce rossa ha un effetto vivificante e stimolante anche sul cuore, mentre la luce azzurra può portare ad una paralisi temporanea. [….] Questi fatti dimostrano comunque che il colore ha una forza, poco studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. […] In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» (p.46).

È lo spirituale che rende possibile la costruzione di una grammatica pittorica che è profezia oracolare, incisione assoluta del tempo interiore, svegliata dopo il periodo del materialismo, protesa e rivestita dalla ricerca della libertà. L’illuminazione kandiskiana rinuncia alla mimesi naturale per appropriarsi della semantica cromatica e del frantume dei suoni che oltrepassano il linguaggio: «Partiamo dall’idea che l’artista, al di là dell’impressione che riceve dal mondo esterno e dalla natura, accumuli continuamente un tesoro di esperienze nel suo mondo interiore. La ricerca di forme artistiche che esprimano la compenetrazione di tutte queste esperienze, la ricerca di forme che eliminino il secondario per esprimere il necessario, insomma la tendenza alla sintesi ci sembra la caratteristica che in questo momento unisce un sempre maggiore numero di artisti».
«L’arte», come annota Elena Pontiggia, «è una creazione della storia. E dunque l’arte spirituale che sta per manifestarsi è il segno di un’età nuova: l’età dello spirito. Il soggetto del suo libro non è l’arte, è la spiritualità. E se la situazione della pittura è analizzata con particolare attenzione […] i continui riferimenti alla poesia, alla musica, al teatro, alla danza, l’aspirazione a un’arte monumentale che sia una sintesi delle singole espressioni dimostrano che Kandinsky si interessa alla pittura solo perché è un aspetto dell’arte. E si interessa all’arte solo perché è un aspetto dello spirito».

La parola che si dispone come puro suono interiore, è la Stimmung di una percezione evocativa che accosta suoni e segni grafici, rumori e figure geometriche, in una dinamica sonora e visiva che attrae e distanzia. La sua opera rappresenta l’esito di una vita interiore, ricollegata con l’esigenza di un’esperienza di epifania mistica, perché la forma, in un movimento ascensionale progressivo, nasce con lo Spirito e creata per esso: «Notai allora con mio grande stupore che questa esigenza è sorta sulle basi che il Cristo erige a fondamento dei valori della Morale, che questa visione dell’Arte è una visione cristiana e contiene in sé al tempo stesso gli elementi necessari per ricevere la terza rivelazione, la rivelazione dello Spirito». (ibid., pp.42-43).

La cromestesia rappresenta il trait d’union con l’anima, laddove, come suggerisce Elena Pontiggia: «La scelta di un colore o di una linea, di una parola o di un suono non dipende dall’arbitrio dell’artista. L’abbandono dell’imitazione verista non comporta una libertà soggettiva assoluta. L’adozione di una certa forma avviene anzi in base a una legge fondamentale, che Kandinsky chiama principio della necessità interiore. Necessaria è quella forma che sa parlare all’anima e sa raggiungere l’anima delle cose. La necessità coincide allora con l’efficacia espressiva, nel duplice senso di una capacità di comunicare con l’interiorità e di comunicare l’interiorità. L’artista sceglie la forma interiormente necessaria, cioè quella più adatta a rivelare la divinità».
Ecco allora che il dominio della forma si adatta al contenuto per diventare urgenza, narrazione della lotta dei toni che nascono dalla necessità interiore, vivono in essa e sfociano nella totalità espressiva che arriva persino all’ “eliminazione” degli oggetti, scovandoli nell’ultimità della loro presenza, per farsi “penetrazione” di stile e personalità nella trama oggettiva dell’arte, dove il punto dell’anima è il respiro al quale rimanere fedeli: la forma, pertanto, addensa non solo l’estremità delle superfici ma rappresenta la risultante di una vibrazione celata nell’interiorità: «Se [… ] ci accontentassimo dell’accordo di colori puri e forme autonome», dice Kandinsky, «creeremmo solo delle decorazioni geometriche paragonabili, grosso modo, a una cravatta o a un tappeto». Scrive in Inno: «Dentro culla l’onda blu. / Panno rosso lacerato. / Cenci rossi. Ondate blu. / Vecchio libro accantonato. / Sguardo noto in lontananza. / Piste oscure dentro il bosco. / Tenebrosa si fa l’onda. / Dove il panno rosso affonda».

Lo sguardo dell’artista, allora, posa la tela degli occhi sulla vita interiore, sull’apocalisse che cerca la germinazione sacra, appropriandosi di una ierofania del sentimento che destina la luce a un firmamento polifonico e segreto di colori «I tubetti sono come esseri umani, di grande ricchezza interiore, ma dall’aspetto dimesso, che improvvisamente, in caso di necessità, rivelano e attivano le loro forze segrete».
In Campana, Kandinsky sperimenta la vibrazione prodotta da un suono indipendentemente dalla sua connotazione: «Disse una volta un uomo a Bela Crkva: “non lo farò mai, mai.”
Esattamente nello stesso tempo una donna diceva a Mühlhausen: “carne di manzo con salsa di barbaforte”. Entrambi hanno detto ciascuno la propria frase, e proprio così e non altrimenti andò la cosa. Ho in mano una penna e con essa scrivo. Non potrei scrivere se fosse scarica.
L’animale grande e forte che aveva provato molta gioia a masticare e a ruminare, fu stordito con rapide mazzate, dal suono cupo sul cranio. Stramazzò. Una ferita apertagli nel corpo lasciò via libera al sangue. Un sangue denso, viscoso, dall’odore forte scorse via per un tempo che parve infinito. Con quale meravigliosa abilità fu strappata via la pelle spessa, calda, vellutata, ricoperta da peli bianchi e bruni ben disposti. Pelle scuoiata e carne rossa odorosa, fumante.
Paesaggio molto piatto, che si perde alla vista in tutti gli orizzonti. In fondo a sinistra un piccolo boschetto di betulle. Fusti, ancora molto giovani, di un bianco delicato; rami spogli. Solo campi bruni, arati a piccole strisce rettilinee. Al centro di questo cerchio gigantesco c’è un piccolo villaggio, formato da poche case di un bianco grigiastro. Esattamente in centro un campanile. La piccola campana obbedisce al movimento della fune e fa: deng, deng, deng, deng, deng…».

La poesia diviene un’associazione di script mentali che vengono uniti in una sorta di lungo recitativo immaginifico, laddove il segno grafico, il brandello onirico, il suono affilato si uniscono a una variante cromatica che strappa la vita, come in Primavera: «[…] La vecchia casa scivola lentamente giù dalla collina. Il vecchio cielo azzurro si nasconde disperato fra i rami e le foglie. / Non chiamarmi! / Il suono rimane disperatamente sospeso nell’aria, come il cucchiaio in un minestrone compatto. I piedi rimangono incollati all’erba. E l’erba vuole trafiggere l’invisibile con le sue punte. / Solleva alta l’ascia sopra il tuo capo e colpisci! Colpisci dunque! Le tue parole non giungono fino a me. Esse pendono dai cespugli come stracci bagnati. / Perché là al bivio non cresce nulla, e solo c’è questa putrida croce di legno? Le braccia hanno trafitto l’aria a destra e a sinistra. E l capo ha forato il cielo. Dai bordi strisciano sofferenti nubi rosse e blu. E fulmini le lacerano e le fendono là dove meno te l’aspetti e risanano senza lasciar tracce le loro punture e le loro spaccature. E qualcuno parla, parla — parla — / Sei di nuovo tu, tu uomo frivolo? Di nuovo tu?».
Seguendo le guide ispirative di Dante Gabriel Rossetti, il simbolismo estremo e tragico di Stefan George, lo spunto complesso di Maurice Maeterlinck, Kandinsky ricerca la cattura dei suoni in forme («L’universo risuona e solo l’artista è capace di catturare questi suoni e di tradurli in forme»), il punto («Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell’interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura») come legame di silenzio e segno («Il punto geometrico è un ente invisibile. Esso dev’essere definito anche un ente immateriale. Dal punto di vista materiale il punto equivale allo zero. In questo zero sono però nascoste varie proprietà “umane”. Ai nostri occhi questo punto zero – il punto geometrico – è associato alla massima concisione, al massimo riserbo, che però parla. Così il punto geometrico diviene l’unione suprema di silenzio e parole»), la linea come traccia dinamica («La linea geometrica è un ente invisibile. Essa è la traccia lasciata dal punto in movimento, quindi un suo prodotto. Essa è sorta dal movimento – e precisamente attraverso l’annientamento della quiete suprema in sé conchiusa nel punto. Qui ha luogo il salto della staticità al dinamismo. La linea costituisce dunque la massima opposizione dell’elemento pittorico primigenio – il punto») e, infine, la spodestata dimensione oggettuale: «Volto. / Lontananza. / Nube. / …. / …. / C’è un uomo in piedi. Impugna una lunga spada. La spada è lunga e anche larga. Molto larga. / …. / …./ Egli cercò spesso di trarmi in inganno e, lo ammetto, gli riuscì anche, di ingannarmi. E forse troppo spesso. / …./ ….. / Occhi, occhi, occhi…occhi. / …. / …./ Una donna magra e non giovane, ha in testa uno scialle che le sta sul viso come uno scudo e lo fa rimanere in ombra. / La donna tira con la fune il vitello, che è ancora piccolo e non si regge con sicurezza sulle gambe sbilenche. Talvolta il vitello corre dietro di lei con buona voglia, talaltra non vuole. Allora la donna lo tira con la fune. Il vitello inclina la testa e la scuote e impunta le gambe- Ma le gambe sono deboli e la fune non si strappa. / …./ …./ Occhi guardano da lontano. / La nube sale / …. / …../ Il volto. / La lontananza. / La nube. / La spada. / La fune» (Suoni).
Nel 1925 disegna la Linea curva libera verso il punto, un disegno a inchiostro su carta, «come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma», esprime l’irriducibilità delle cose e la «perfetta esemplificazione del suo intento: rendere chiara e pura una dinamica pienamente reale e umana. Questa dinamica è l’attrazione esercitata sulla linea (la nostra vita) da un punto (l’altro, l’ospite inatteso). Un qualcosa che, per quanto smaterializzato nella rappresentazione di Kandinsky, produce, come lui stesso aveva scritto, «una vibrazione del cuore». E forse le curve che accompagnano la traiettoria potrebbero essere proprio lette come la rappresentazione di questa vibrazione…» (Giuseppe Frangi).
In Canto, egli dipinge le percezioni frante e chiastiche del mondo plastico: «Seduto è un uomo / nel cerchio angusto, / nel cerchio angusto / un uomo ossuto. / È soddisfatto. / È senza orecchi. / È privo d’occhi. / Del rosso suono / del solar globo / non sente traccia. / Ciò ch’è crollato / pure sta in piedi. / Ciò ch’era muto, / intona un canto. / Sentirà l’uomo / che non ha orecchi / e privo è d’occhi / del rosso suono / del solar globo / fievoli tracce» o in Bianco-corno, in cui la rarefazione del bianco sovrasta la compattezza del viola e l’interno della figuralità.
In questa contrazione di linee, dove solo apparentemente l’io sembra essere rilevato dalla geometria e dallo sperdimento astratto, l’insorgenza umana si ritrova in tutto il suo vitale vigore, come una linea convessa (dalle braccia di Dio ad Adamo), misteriosa e assoluta, che chiama alla purificazione e alla salvazione del proprio manto di frammenti: «Il contatto dell’angolo acuto di un triangolo con un cerchio non ha un effetto minore di quello dell’indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo. E se le dita non sono anatomia o fisiologia, ma qualcosa di più, ossia mezzi pittorici, il triangolo e il cerchio non sono semplice geometria ma qualcosa di più: mezzi pittorici. Accade così che talvolta il silenzio parli più alto del rumore e che il mutismo abbia una voce eloquente».

Kandinsky-Linea curva libera verso il punto
Linea curva libera verso il punto

KANDINSKIJ V., Lo spirituale nell’arte, a cura di Elena Pontiggia, SE, Milano 2005.
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ID., Tutti gli scritti: vol.I:Punto e linea nel piano, articoli teorici, i corsi inediti al Bauhaus, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi) 2015.
ID., Tutti gli scritti: vol.II: Dello spirituale nell’arte, scritti critici e autobiografici, teatro, poesie, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi) 2015.
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Giorgio Orelli: la trafittura dell’attenzione

di Andrea Galgano 12 novembre 2015

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Giorgio Orelli: la trafittura dell’attenzione

La trasparente immanenza di Giorgio Orelli (1921-2013) ticinese, scomparso novantaduenne nel novembre 2013, dopo una operosa e intensa attività di insegnante, traduttore, critico e studioso, formatosi sotto il magistero di Gianfranco Contini a Friburgo, abita una collocazione di margine e confine, che diveniva, tuttavia, come scrive acutamente Massimo Raffaeli, «virtualmente debitoria di testualità più centrali», laddove «una coscienza metalinguistica sovraordinata» avevano finito «in un primo momento con l’iscrivere nel senso comune l’idea che si trattasse di un poeta di grande dignità e rispettabilità ma privo di una propria e aggettante fisionomia. Né lo aveva favorito la precoce inclusione nella celebre antologia di Luciano Anceschi, Linea lombarda (’52), che lo riconosceva tra i più promettenti post-montaliani ma lo collocava ai bordi di una tradizione regionalista e, per così dire, «laghista». Solo il tempo avrebbe detto che immediatamente alle spalle di Orelli c’era sì Montale ma buon ultimo di una risorgiva che, transitando da Pascoli, si originava dal grande invaso di Dante».
Lo spasmo dell’attenzione intiepidita e dislocata al frammento, come testimonia la severissima scelta de L’ ora del tempo (1962) che raccoglie le produzioni precedenti, avviene nello specchio vigile di una presenza che segue il disegno dell’occasione oggettuale, riconosciuta in una affabilità quotidiana che crea sorprese e impronte corpose e immanenti, che oscilla, come annota Francesco Napoli, tra «disegni prevalentemente portati per tratti incisi e graffiti, animata da personaggi il cui accento realistico, pur evidente, sembra orientarsi verso vaghe valenze simboliche. E ci sono altre significative presenze, animali, comuni e non, formanti un autentico “bestiario” di più certa valenza simbolica».
La riduzione a frammento permette al poeta di incidere il suo spazio vitale, attraverso il ritaglio dell’istante, in una zona dicibile.
L’ora del tempo, allora, vista in una dimensione di calco dantesco, fa prevalere lo sguardo contrastato e contrastante di un tempo avverso e in fuga, quasi sversato dalle mani: «Penso l’inverno di questo paese. / Bianca stanza, orto solo, frutto nudo. / Scordati degli uccelli, i fili, i rami. / Di rovere le foglie, così brune, / se un soffio le trascorre come scricchiano: / colei che ne ha parlato è già lontana. / Penso la neve sozza, e intanto fugge / questo reo tempo, il cielo si fa bianco. / Contro l’occhio pervaso di sclerotica / la banderuola non si muove più» (Di gennaio).
Oppure la densa apertura dell’essere si rinnova in una trafittura che lascia segni ma cerca la sua propria fenditura di nascita: «ogni anno è un anno che passa. / Ogni sera c’è un vecchio che si sporge / dalla finestra, getta gli occhi / sulla strada, vuota rapido il vaso, / chiude in silenzio le imposte. / (Non vedo spesso che un candido braccio.) / Le madri sanno lunghe trafitture. / Ma ogni anno che passa è tuttavia / un figliolo che nasce» (Paese), dimostrando la correlativa presenza di due mondi accostati e incisi, racchiusi in una scrittura balba, tra i giocatori di carte e le capre che si rincorrono, urtandosi: «Le capre, giunte quasi sulla soglia / dell’osteria, / si guardano lunatiche e pietose / negli occhi, / si provano la fronte / con urti sordi» (Sera a Bedretto).
Scrive Tommaso Lisa:
«Nel suo fine gioco fonico-semantico frasi fatte, elementi linguisticamente opachi elevati, tramite la tecnica del tassello verbale, s’intrecciano al prestigio araldico di emblemi. Tecnica alla base dell’impersonalità della poetica dell’oggetto filtrata attraverso Eliot, la cui cifra traspare nelle descrizioni degli interni di Prima dell’anno nuovo, o in strutturazioni del décor vissuto come correlativo di situazioni esistenziali».
La concisione del tempo, la memoriale densità aggrumata, l’assembramento oggettuale, la lacerazione dell’aria, divengono cadenza di bozzetti e scansioni naturali che destinano il tempo a una cronologia segnata e netta di una sperdutezza corriva: «Per noi silenziosi / e freddi nelle mani che toccano / le canne del fucile chiamerà / la luna il tasso fuori dalla tana? / Ora sono fuggiti gli scoiattoli / che si rincorrevano a coppie sui pini: / la sera che ascoltiamo le canzoni / spegnersi tra le stalle dove crepita / acre la nostra infanzia, / forse gloriosamente / muore l’estate. / AI boschi bruni, alle pietre più grige / ci riconosceremo: anticamente / fedeli come gli occhi degli amici. / E sarà il tempo che le pernici / desteranno col loro canto i pascoli» (Per Agostino).
Quella stessa estate vola improvvisa, come un vuoto valicato di giorni, inscritto dalla mente: «[…] Siamo pochi, la sera un pastore / ci conta alla solita svolta / del sentiero, / toccandoci con la sua frasca la schiena. / Fischiano uccelli divisi / e valicano i limiti del nostro giorno: / ne resta un vuoto dove la mente inscrive / l’aquila che segnò lenta la fine / d’un’estate, d’un anno» (L’estate).
L’inclusività oggettuale coglie l’ora esatta in una istantanea segnata, come sostiene Lisa, in un «calco del reale incastonato nel testo […] per depotenziarne la carica emblematica e riportare la percezione del soggetto alla materialità del dato»: «In quest’alba che quasi non odora / di fieno e di letame / i padroni di tutto il Viale / della Stazione sono tre piccioni / partiti insieme da presso l’ardita / bottega ove si vende / l’orologio che segna / l’ora esatta per tutta la vita» (L’ora esatta).
La preclusione minuta di Orelli attraverso «una poesia degli istanti bloccati, del senso di valico insuperabile tra il soggetto e la realtà», che commenta Lisa «[…] mantiene il maggior distacco nella descrizione delle cose, degli interni, mostrandosi un realista nel rappresentare le situazioni in modo fotografico, aggiungendo una pronunciata pulsione scopica che sfiora il feticismo quando il microcosmo cantonale ricorda l’iperdettagliata campagna pasco liana, rinnovando l’ossessione per il “nido”, inventario di oggetti caricati affettivamente. Con questi scenari ticinesi a fare da amalgama, gli oggetti aprono l’autoreferenzialità del testo, intessuto di citazioni in un contesto colloquiale, a una dimensione extra-linguistica, definendo, attraverso la precisa rilevanza dei nomina, la saldatura tra la poetica dello sguardo […] e il fenomeno esteriore, portatore di nient’altro se non di sè».
L’elencazione esclusa e memorativa si coagula nelle impossibilità epifaniche dell’età adulta, mentre il fanciullo, «dondolando sul baratro, a metà / del suo viaggio, pareva uno spauracchio / con un secchiello in una mano, l’altra / stretta ad un cappio» e «per arrestarsi gli è bastato un piede, / un urto dolce, e già lieto sul prato / andava, colmo di latte il secchiello».
O ancora, la traboccante memoria acerba libera il frangimento di ogni ordine. I fanciulli che godono della protezione di santi sconosciuti, che appartengono al trambusto, si appropriano di un dialogo naturale infinito e senza cesure: «Ma se trabocca una memoria acerba, / è la trottola, ancora, liberata / da giovanili e fiduciose mani, / che sbaraglia l’immobile pattuglia / dei birilli ordinati in campo aperto, / s’insinua vittoriosa tra le mura, / a travolgere gli altri, i più codardi, / col consenso dei santi sconosciuti».
Questa memoria colpita e franta racchiude due linee che si intersecano pur non appartenendosi: la linea che non cade del fanciullo e l’interrogazione scoperchiata e sospesa dell’adulto nell’intermediaria posizione animale che connota il tempo, in un inventario trasfigurato e rarefatto di panorami e viste: «Perché il cielo è più ingenuo / splendono bacche rosse, / fanciulli seminudi / giocano coi superstiti camosci. / Gli scoiattoli uccisi / si sono ritrovati per salire / in lunga fila dal Padreterno / a perorare la mia causa» (Perché il cielo è più ingenuo), o dove la caccia strepita e la martora riconduce a una morte che restituisce la vita in tutta la sua arsi drammatica: «A quest’ora la martora chi sa / dove fugge con la sua gola d’arancia. / tra i lampi s’arrampica, sta / col muso aguzzo in giù sul pino e spia, / mentre riscoppia la fucileria»).
L’espressa gamma linguistica si attesta in un caleidoscopio che coglie l’arazzo dei contrari, il dettaglio sospeso delle alternanze come schermi di esistenza sparsa che non recidono, come annota Raffaeli, «quella antica radice percettiva: piante, animali, esseri umani popolano la poesia di Orelli senza l’ambizione di essere dei simboli o delle allegorie, sono presenze, figure, voci che si stagliano ad altezza d’uomo e si muovono nell’orizzonte d’attesa della pura normalità. Lo spazio e il tempo le immettono al presente e nel campo acustico/visivo con una naturalezza da brividi proprio perché nulla (nessuna metafisica, nessun credo, nessuna poetica predeterminata) le vorrebbe mai lì. E si direbbe che esse esistono, o che tornino a farlo, soltanto come tracce o impronte di una vita che è o che comunque è stata vera, dopo tutto e nonostante tutto».
Scrive Pier Vincenzo Mengaldo: «Questa attenzione smussa continuamente gli effetti di sorpresa che pure la poesia di Orelli produce col suo cannocchiale ora aperto ora rovesciato a cogliere il “piccolo”, e produce continue soste nella realtà, vista piuttosto nei suoi dettagli costituitivi che come massa: è notevole, in un poeta che mette in scena tante “cose”, l’assenza dell’enumerazione caotica, mentre è invece frequente l’anafora che separa e scandisce. Psicologicamente, ne nasce qualcosa che, senza escludere affatto la malinconia, si può chiamare ilarità».
Ma in questo occhio caleidoscopico, la ricca nomenclatura della realtà si comunica attraverso l’oggetto, la linea, la sfumatura. Procede in una vertiginosa pazienza che, montalianamente, offre la sua luce di bufera, virata di acciughe-rondini e foglie nei fitti argenti: «Tu credevi che fosse uno scherzo del vento / controcorrente: fitti argenti, scompigli / d’un attimo, là, presso gli scogli del molo. / ma erano le acciughe: lontane dai pesci più grossi / facevano bizze stupende fingendo le rondini quando / s’impennano nel volo e virano, le foglie / dei gàttici, la gola del ramarro, / le punte dei piedi d’Ilaria / toccate da una luce di bufera».
Il racconto mai disfatto di Orelli, messo a fuoco, nelle Sinopie (1977) è diario balneare e narrazione che porge il ritmo abile a saltare, come la trama del reale costituito in immagini trasparenti e frammentarie che riferiscono gli abbozzi preparatori dell’affresco umano («D’altri / pure vorrei parlare, che sono già tutti sinopie / (senza le belle beffe dei peschi dei meli) / traversate da crepe secolari») che giacciono sulle conversazioni, sui quadri familiari, sull’attraversamento di suoni e presenze in una quotidianità usuale e sfumata: «Calmo, limpido il mare / che prende e dà memoria / e a te darà sopra tutto salute. / Il cielo in qualche zona / ha l’azzurro nutrito dal ferro / delle ortensie sul Ceneri. / «Vieni», dici, « fa’ il morto, / è così facile.» A me / che appena il vivo so fare».
«Nell’arte di raccontare “per sinopie”», sostiene Antonio Porta, «Orelli è “il maggior fabbro”, il suo procedere per disegni nervosi prepara il miracolo della fioritura finale,quando, per un istante, appare il colore e il racconto non si conclude pur concludendosi, nel senso in cui l’immagine o il movimento finali tengono il discorso aperto e nello stesso tempo gli imprimono una direzione di significato».
Il suo arazzo intriso di colori, in «un arcobaleno allegro e muto», sosta nella quotidiana scena del mondo, dove la familiarità delle cose si incontra con l’attenuata disposizione della vita vivente e vissuta e dove l’ampiezza dell’ambiente ticinese fa sgorgare la sfuriata di una piccola danza di elementi, il cui continente irriducibile, come annota Silvio Ramat, diviene terra varia, «in quanto aspra e gentile, sognante e pratica, gremita di segni d’operosità industriale e tuttavia prodiga di robinie […] e di gelsi, di superstiti rogge e di marcite. Sinopie dà semmai più rilievo al bosco e al monte, al “fiorito errore” dei pendii, motivi di una quotidianità che si conferma prevalentemente extraurbana, e misteriosa la sua parte».
Orelli scrive, infatti, in Momento ticinese: «Proprio allora suonò mezzogiorno / s’udirono gridi / di bambini, e dall’ombra del nostro campanile / apparve, coperto di lamine per gli uccelli dei ronchi, / un vecchio. / Ed io ora mi chiedo: a che serve ricordare / come lampeggiava nel sole? come, / senza vento, strideva».
«Con il passare del tempo», scrive Pietro De Marchi, «del nostro ritratto non rimane che la sinopia: si smarriscono i vivaci colori della primavera e dell’estate della vita, ai quali allude la beffarda presenza della vegetazione rigogliosa, i peschi e i meli che ad ogni ciclico rinnovarsi della bella stagione si caricano di fiori e di frutti. I colori, nella poesia di Orelli, sono un senhal della vita, una «epifania del visibile nelle sue determinazioni più terrene e familiari», come ha scritto Maurizio Chiaruttini».
La naturale fenomenologia del dato, fatto di apparizioni e brevi passaggi che mutano il gesto e l’azione, si condensa in un’aperta mutevolezza di registri espressivi e stratificazioni fattuali (epigrammi, appunti di diario, racconti di viaggio, epistole satiriche), che diventano l’orlo del mondo dentro lo sguardo, la sua orbita d’attesa, serbando, come scrive Massimo Raffaeli «la memoria di attimi, la loro miracolosa perfezione, a eternarli se possibile in un giro veloce di versi che dallo scatto della clausola andasse a ritroso per successive vibrazioni, per onde acustiche e contrappunti fonici. Sono, queste, le adnominationes (paronomasie, figure etimologiche, poliptoti, anadiplosi) per cui la sua poesia va famosa ma, queste, non sono mai l’esibizione di una sapienza retorica bensì la necessaria intramatura, con ogni evidenza fonosimbolica, per cui l’immagine e la parola si incontrano ovvero il suono e il senso, in connubio e/o conflitto, si richiamano e infine si combinano», alternando ogni possibilità linguistica.
Con Spiracoli (1989) che richiama le fessure nella roccia per le quali entra il grotto d’aria, Orelli realizza il suo spezzone sull’orlo delle narrazioni, come se si scrivesse sulle briciole, come se si portasse aria negli interstizi delle geografie umane.
Scrive Tiziano Rossi:

«Le sue magiche e un po’ ipnotiche ambagi verbali sanno crescere pian piano su di sé, introdotte dal percorso che via via esse aprono, ma traducono soprattutto una straordinaria consonanza con le increspature del mondo, così sfrangiato e mobile. Ogni perdita del filo argomentativo, ogni smarrirsi in centrifughe minuzie si rivelano infatti come altrettante prensioni (e inglobamenti) di realtà apparentemente liminari, e come salutari rovesciamenti della gerarchia delle cose: l’effimero si fa eterno, lo splendore si appanna, il microcosmo vibra e si pronuncia…. È per questa via che la natura manifesta tutta la propria dovizia di sembianze e correlazioni, e ci intriga: ghiandaie, mosconi, faine, piccioni, corvi, asini, mucche, merli, capre, cicogne, nibbi, salamandre, farfalle, e glicini, betulle azalee, meli, girasoli (presenze che possono intersecare i nostri giorni) compongono sottili disegni sui quali non pendono verità decisive, né massime etiche generali. Le figure del regno vegetale e animale sono sia oggetto che oggetto di stupore, si atteggiano talora in pose ben educatamente impettite, talaltra salutano gli umani (e forse li giudicano) o additano insoliti spazi di libertà, e anche patiscono agguati, trasmutano, corrono pericolo e meritano compassione; ma in ogni caso il loro “meraviglioso” non è qualcosa di conferito a priori e non ha metafisiche valenze: la natura, insomma, è proprio naturale e non riducibile ad unum».

La farcitura linguistica di Orelli rappresenta l’orlo di una fascinazione improvvisa che aggiunge scene rasoterra, versi e luoghi pronunciati in una preziosa destinazione di fogli familiari e vertiginosi, dove si evidenzia la brevissima alternanza «fra il realistico e lo stilizzato, fra il “buttato via” (come si dice a teatro) e il letterario e il prezioso, tra il quotidiano e quello che possiamo chiamare il suo personalissimo surrealismo del quotidiano: con una sottilissima capacità di suggerire la natura sfuggente di quanto ci circonda. Ma anche di disegnare attraverso di esso […] l’immagine di quanto lo trascende e ci trascende, la lontananza di ciò che è vicino. Orelli, sempre molto autocosciente, ha scolpito tutto ciò in un bell’endecasillabo ossimorico che chiude una poesia di Spiracoli, nel «verzicante eterno dell’effimero» (Pier Vincenzo Mengaldo).
Ma è in questo verzicante eterno dell’effimero che si scova la disadorna appartenenza a luoghi e persone in un cerchio familiare, al frammento che scheggia il tempo e la vita, come sentenza polifonica e ironica, come esclamazione e interrogazione che appuntano e squinternano l’esistenza in un colloquio di radici: «È un attimo / diceva dentro il casco / quel peso mosca incavigliato in rossa / Kawasaki, / morosa stinta schiva / Povero cristo svagato è andato / poco dopo a insaccarsi che neanche / un kamikaze di Allah, / lei se l’è / cavata chi sa come, dicono» .
La linearità bandita che proclama il suo canto scorciato e profuso rappresentano, come annota ancora Tiziano Rossi, «il frutto agro ma necessario di una specifica porzione dell’essere, la propaggine imprescindibile di quella particolare (e maligna) cellula di realtà».
L’appartenenza alla materia vivente tratteggia la sua fenomenologia che cerca la vita dove si manifesta, il frammento che si piega alla gemmazione, al «colore difficile da dire», al territorio minimo che allude senza riferire.
L’asimmetria dei suoi alati tremori che origliano il «fresco smeraldo in l’ora che si fiacca», l’incerto confine come figura che si libra e traccia che si fonda nel profondo memoriale, condensano la trafittura di un mosaico, che come sottolineato da De Marchi e Beretta, contribuisce a far virare il testo «da una “scaglia” di fatti oggettivamente indeterminati ad un frammento-apologhetto liricamente vivido, che racchiude una narratività in potenza», e sottolineando come la visio di Orelli sia maggiormente tesa a una protrusione di alterità allegorica.
La fascinazione inclinata e araldica, per usare una espressione di Mengaldo, diviene quadrante visivo di una sibillina arcadica che ammaina il fiato in una densità di istante.
E in questo segreto consumabile, spesso il contraltare, come descritto da Beretta in Certo d’un merlo il nero, «è un’allegoria che ha come oggetto la morte – una “danza macabra” nella quale nel breve volteggiar di qualche giorno (quattro contati, poi l’ultimo è indefinitamente detto «un mattino») sono le trasformazioni di forma e di colore di un volatile ucciso e rimasto schiacciato «nel breve buio d’un sottopassaggio» (v. 4) a parlarci di una vitalità e sopravvivenza che, ancora una volta, è materica – qui addirittura obbediente alle leggi della chimica organica».
Il riscatto della vista, l’orlo che tocca i fiati di nebbia, l’essere che deborda senza coordinarsi, invocano ogni lontananza di incenerimento, sistemano, disseminandosi, le loro variazioni ancipiti e innalzando ogni morte stanca: «Così che di sull’orlo / più d’una nuova potè raccontarmi / lo spazzino-necroforo / esperto solo di trasmutazioni / rapide / e in un mattino / pareva lentamente incenerirsi / ma nei fiati di nebbia del ritorno / ancora suppurava / toccati di bianco volani andavan variando / protesi verso piogge / sottili, già primaverili».
La nuova vita che si annuncia poi si destina attraverso le petrarchesche esortazioni finali a una infinitesima variazione di orli e, come scrive ancora Beretta, «la presenza mai venuta meno dei “vivi” resti del volatile permette, si intuisce, allo «spazzino-necroforo» che non sa scorgere l’infinitesimale vita che ancora anima il merlo morto, dei commenti “di circostanza”. In questa “allegoria che ha come oggetto la morte”, come l’ho chiamata, l’elemento umano è dunque “cieco” […] e confinato all’«orlo» dell’evento positivo e portatore di speranza – la morte-metamorfosi del merlo»: «ditelo ai merli sui marmi invernali / prima che i fiori del diavolo / moltiplichino il becco / delirino azalee».
La permeabile cangiante mutevolezza cromatica, misurata attraverso l’interazione linguistica, come sostiene Ariele Morinini, che apre Il collo dell’anitra (2001), partendo da un passo del De rerum natura di Lucrezio (II 798-805), dispone l’interrogazione dell’io sulla frangiatura della luce indicibile che risplende, sulla vita, innanzitutto, ma anche sulla corteccia delle cose scostate, sviluppando una linea retta continuativa con le precedenti raccolte: «[…] Già nella luce stessa trasmuta un colore / se rifulge perché lo percuote obliqua o diritta; / così cambiano al sole le piume dei colombi / che di torno alla nuca coronano il collo, / e infatti talvolta sono rosse di fulgido piropo / e paiono talaltra mischiare all’azzurro il colore / dei verdi smeraldi», così come vibra la remota bellezza scialacquata di Altri cardi: «Viola del non-pensiero / neanche a due passi da me / astronauticamente / remota, perché / giochi alla donna assente / se perfino la fascia / d’ozono si risente / con te, con questa tua / bellezza scialacquata / di bar in bar e a zonzo / sul quai?».
È come se le cromature si dispongano a celebrare le lettere della luminosità, il passaggio cangiante delle cose, dove «i fiori lilla sui gambi e lì, / perfettamente combaciando le ali, / ognuna su un fiore pareva / suggere il paradiso»: «Non conosco l’azzurro / tuo preferito / che hai visto solo in Egitto / e il nostro esiguo cielo / di rado ti rammenta / e nemmeno, fra tanti, il tuo giallo: / non forsizia o mimosa, ma se mai / ginestra, con quel verde / tenace nel pietrisco, corniolo se mai, / quelle ombrelle graziose, o la nuova / farfalla che a un tratto ritorna / gialleggiando con altra / dove lucertole vagano liete / fra i nostri resti mortali».
I quadranti di Orelli, allora, poggiano la loro ascesi sull’epigramma funebre, l’invettiva, la prosa rammemorativa, la sospensione infantile che inventa linguaggi, il dettato allusivo e l’estate racchiusa in fascicoli. L’immagine del destino si racchiude nei cerchi familiari, nella «prossimità creaturale e nel distacco», come scrive Mengaldo, tra uomo e animale, nella bicicletta che guarda il mondo e lo ferma, nel riepilogo che annuncia istanti irriducibili e scandisce il ritorno allo scavo lessicale, ai dialetti che accertano scene autonome, alla citazione incastonata e, infine, alla «duplice declinazione dell’eteroglossia aleatoria dei frammenti di conversazione che si riverberano per «blocchi impensati» nel parlato interiore». (Agostino Casu).
Scrive il poeta: «”Noi che ci siamo conosciuti al margine di noi.” / Sì che / non è strano se non ti ho detto / ciò che sapevo ti sarebbe stato / a cuore più di tante altre cose: / se l’ho ucciso quel falchetto o no. / No, non l’ho ucciso, non / perché allora volevo che vivesse, / e mi chiedo: era un nibbio coda lungo- / forcuta? Una poiana / dall’iride variabile? un astore / cinerino? O quel becco / azzurro era d’un gheppio? / “Nevica, e le mimose / già fiorite si piegano.” A presto» (A Cristina), o quando ricorda gli amici Luzi e Sereni, quando tutto bastava a colorare le ore, persino un umano specimen: «Venendo in questo posto per me quasi / di vacanza in ogni giorno dell’anno / estero sottomano che bastava / a colorarci stranamente l’ora, / ho visto, seduto su un carro / di fini tronchi grigi / un ragazzo: di schiena, viola stinto / il berretto, un ginocchio / alto piegato a spostarmi / l’occhio dal lago alla neve dei monti, / così lucente a tratti / che in corpo non pareva più vivo».
L’orlo della vita, libro che si attesta sulla terminazione dantesca, che il poeta non è riuscito a terminare ed organizzare, ci permette di tracciare, grazie alla cura di Pietro De Marchi, l’estremità orelliana in tutta la sua concisione poetica, nella brevità episodica che rammaglia le occasioni transitorie e, in definitiva, il suo abbandono alla visione della realtà e delle sue peculiari relazioni, in tutte le sue minute trafitture e ascensioni splendenti: «Sembra eccessivo l’odore/ di gelsomino in cui vo ringioito / da una farfalla / bianchissima che vòlita / vantandosi di nulla / e in cima alla salita controvento / sbietta verso un giardino, / si posa su un corimbo/ di melo, si fa fiore» (Farfalla).
Commenta Massimo Raffaeli: «Orelli sembra tornato allo stampo più antico, a una specie di idillio, l’immagine segue il moto lieve quasi di un haiku, che il metro asseconda, la lingua assapora i nomi delle piante e si imbeve della loro patina in evidente stato di soddisfazione. Ma non c’è affatto idillio, semmai c’è un rito lento, inesorabile, di metamorfosi per cui la farfalla che sembrava svagata e perduta a un certo punto cambia direzione, trova il proprio ramo, si confonde con un fiore e, alla lettera, di colpo si fa fiore: nulla lo lascerebbe immaginare ma questo è uno dei modi possibili, e tra i più singolari, per alludere senza alcuna retorica a ciò che un giorno fu detto il sogno di una cosa».

È l’apertura di una frequenza iconica che poggia il suo significato sul ricordo e sul cerchio familiare, sul fantastico dell’infanzia e sugli spiragli dell’adolescenza, sulla liminale coscienza di episodi di viaggio, sul tempo della vecchiaia in tutte le sue sfaccettate epifanie, come vite in disparte, tratteggiate da pochi intimi lampi di umanità primigenia, fino all’oggettualità desueta della buca delle lettere, ad esempio, dove come scrive De Marchi, «l’io lirico si rammarica per gli effetti nefasti della razionalizzazione, che fa inopinatamente scomparire le gialle cassette della posta dai muri dove se ne stavano tranquille da decenni, come da sempre, circondate da una “natura naturale”, abbandonata a se stessa e quasi fasciata d’eternità».
È l’orlo della vita che dispone sull’abisso e sul suo margine d’ombra, il lembo che giaciglia e l’altalena che lascia cicatrici.

Giorgio Orelli - tutte le poesieGIORGIO ORELLI, Tutte le poesie, a cura di P. De Marchi, con introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 2015, pp. 480, euro 22.

ORELLI G., Tutte le poesie, a cura di P. De Marchi, con introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano 2015.
AA.VV., Poesia degli anni Settanta, a cura di Antonio Porta, prefazione di Enzo Siciliano, Feltrinelli, Milano 1979.
AA.VV., Per Giorgio Orelli, a cura di P. De Marchi e G.Torelli, Casagrande, Bellinzona 2001.
BERETTA A., Le «Metamorfosi» di Giorgio Orelli. Lettura di «Certo d’un merlo nero» da Spiracoli, e confronto con una redazione precedente finora inedita, «Per leggere», XII, 23 (autunno 2012), pp. 25-46.
BERNASCONI Y., Gli animali di Giorgio Orelli: “L’ora del tempo”, in «Rivista svizzera delle letterature romanze: fascicolo italiano, 2008, pp. 59-68.
BONALUMI G.- MARTINONI R., MENGALDO P.V., Cento anni di poesia nella Svizzera italiana, Armando Dadò editore, Locarno 1997.
CASU A., recensione a GIORGIO ORELLI, Il collo dell’anitra, Garzanti, Milano 2001 in «Semicerchio», (http://semicerchio.bytenet.it/articolo.asp?id=558)
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ID. – RAMAT S., Un arcobaleno allegro e muto. Per gli ottant’anni di Giorgio Orelli, in «Poesia», giugno 2001.
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Thomas Merton: il poliedro del silenzio

di Andrea Galgano 25 ottobre 2015

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Thomas-Merton
Thomas Merton: il poliedro del silenzio

La poesia di Thomas Merton (1915-1968) significa sfiorare la parola scritta nella modalità, come scrive Bianca Garavelli, «più naturale per esprimere emozione e pensiero» e la vitalità dei suoi versi

«è commovente: davvero trasmettono un profondo amore per la vita, e una gioia nel descriverla, capaci di suscitare ispirazione. Una sorta di contagio benefico che induce ad aprirsi alla bellezza, anche attraverso le realtà più tristi o cupe. Tutte le immagini del mondo sembrano fondersi come onde di un unico mare, ogni istante assume la consistenza preziosa di una gemma, il respiro della creazione diventa musica. […] si intuisce come la poesia di Merton tenda a una fluida dimensione poematica, infusa dalla tradizione dei Salmi: ogni movimento umano, ogni frutto, ogni oggetto (le tonache dei confratelli, una bufera, una quaglia) diventa la nota di una sinfonia perenne, che confluisce in una grande preghiera corale, di cui la poesia è anticipazione. Nella duttile sintesi dei versi, echeggiano le intuizioni di un’anima che nel silenzio e nella solitudine ritrova la pienezza, si abbandona all’abbraccio di Dio».

Pertanto, la poesia rappresenta il movimento di una trasformazione spirituale e propedeutica alla preghiera e agli interrogativi del vivere, in tutta l’ultimità estrema, e come «accesso a una “visione altra” della realtà, la quale supera il materialismo, ma che a un certo punto l’uomo di fede deve superare abbandonandosi all’azione di Dio in lui. Nell’artista, invece, tende a prevalere un atteggiamento più attivo, tipico dell’esercizio della creatività» (Christian Albini): «Segrete / Parole vegetali, / Acqua non scritta, / Zero quotidiano […] O pace, benedici questo luogo folle: / Silenzio che non tramonta / Ama l’inverno quando la pianta tace».
Recentemente Papa Francesco, nel viaggio apostolico negli Stati Uniti, ha ricordato Thomas Merton, nel celebre discorso al Congresso del 24 settembre, assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day:

«Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri». Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni».

La parola che sagoma e ricerca, il tempio dell’anima come passaggio e transito verso un respiro che sia cifra d’Eterno e ressa inquieta, destina la sua profondità a ricercare Dio in tutte le sfumature della realtà. Scrive Marco Roncalli:

«Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione».

La tessitura mistica della sua trama poetica diviene l’esito di una stanza interiore che viene ridestata da una vibrazione e da una scoperta che riconcilia. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti, da madre statunitense e padre neozelandese, si trasferisce a Douglaston, vicino New York nel 1916.
Dopo la perdita della madre, ammalatasi e morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre (morirà nel 1931 di tumore) alle Bermuda e poi di nuovo in Francia, vive la sua esistenza di tormento e inquietudine, pacificandosi dapprima con la conversione nel 1938 al Cattolicesimo e poi nel 1947 pronunciando i voti solenni nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky: «Incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché, avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica».
Nel 19 marzo del 1958, Merton, all’epoca maestro dei novizi del suo monastero, annota nel suo diario: «Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta quella gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri anche se di razze diverse».
Commenta Enzo Bianchi:

«È lo stupore di scoprirsi appartenente all’unica umanità, senza esenzioni e privilegi, uno stupore che spazza via l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di diversa specie, pseudo-angeli, “uomini spirituali”, uomini di vita interiore. […] Ed è lo stupore […] dell’ateo libertino che resta incantato dagli scritti di Etienne Gilson e Jacques Maritain e, dopo pochi mesi di frequentazione della chiesa del Corpus Christi a New York, viene battezzato. È lo stupore del giovane docente universitario che, solo tre anni dopo il battesimo, scopre un’abbazia trappista nel Kentucky rurale e chiede di esservi ammesso come novizio. Sarà ancora lo stupore del monaco provato che cerca un’impossibile conciliazione tra il voto di obbedienza a una comunità cenobitica e il crescente desiderio di una solitudine eremitica. Ma anche lo stupore di chi scopre che, man mano che si ritira dalla frequentazione degli altri – confratelli, amici, frequentatori del monastero – sente crescere in sé una solidarietà cosmica, un farsi carico delle speranze e delle sofferenze della propria generazione».

Il poeta sente vibrare lo stupore, la riconciliazione che assona, la contemplazione che abbraccia il reale come segno, come crittografia sacra che ricerca, senza risparmio e nello spasmo, il compimento, l’abbraccio, il senso nascosto e vitale e la scena in cui il mondo accade dove la terra raccoglie il cielo: «Vento e una quaglia / E il sole pomeridiano. / Cessando di interrogare il sole / Sono divenuto luce, / Uccello e vento. / Le mie foglie cantano. / Sono terra, terra […] Quando avevo un’anima, / quando ardevo / quando questa valle era / Solo aria fresca / Hai pronunciato il mio nome / Chiamando il Tuo silenzio».
Scrive Christian Albini: «Merton contempla i boschi, gli animali, gli uccelli in volo, la notte, ma anche i grattacieli e la vita sfrenata delle città, le guerre, i disordini razziali e sente vibrare in tutte queste realtà il soffio dello Spirito, come presenza o come appello. Invece che metterlo a tacere, cerca di lasciarlo parlare, prestandogli la propria voce».
E questo sentimento inquieto a lasciare, in tutte le sue dieci raccolte di poesia, lo stampo di una Presenza che pervade mito e sogno, il silenzio (Tutti questi alberi / Così trasformati / Stolti / Si chinano adoranti / Le colline dormono / In trapunte ghiacciate / Mi immergo fino al ginocchio nel silenzio / Dove la bufera solleva nubi e punge), il dolore («Poiché tra le macerie del tuo aprile Cristo giace ammazzato, / E piange tra le rovine della mia primavera: / L’oro delle Sue lacrime cadrà / Nella tua mano debole e abbandonata, / E ti riscatterà a questa terra: / Il silenzio delle Sue lacrime cadrà / Come campane sulla tomba straniera. / Ascoltale e vieni: ti reclamano a casa») e le bufere precoci, l’amore prima dell’alba come nascita e emanazione («E quando le loro voci lucenti, linde come l’estate, / Risuonano, come campane di chiesa sul campo, / Cento Luteri polverosi risorgono dai morti, incuranti, / Scrutano l’orizzonte cercando la smorfia sdentata / delle fabbriche, / E annaspano, nel grano verde, / Verso i richiami sonori del treno merci dell’ovest»), la protesta e l’ironia, il disegno delle linee che chiedono respiro al mondo creato e alle particelle che lo compongono: «Quando nessuno ascolta / Gli alberi quieti / Quando nessuno nota / Il sole nella pozza / Dove nessuno sente / La prima goccia di pioggia / O vede l’ultima stella / O accoglie il primo mattino / Di un mondo smisurato / Dove inizia la pace e termina la rabbia: / Un uccello, immobile, / Guarda l’opera di Dio: / Una foglia che vortica, / Due fiori che cadono, / Dieci cerchi nello stagno. / Una nuvola sulla collina, / due ombre nella valle / E la luce colpisce la casa».
Commenta Christian Albini: «In coerenza con la logica dell’incarnazione, la contemplazione, in quanto consapevolezza della vita autentica, può essere raggiunta solo nell’umanità, non estraniandosi da essa. La poesia, perciò, può consentire di vedere il mondo intero e le vicende della vita come sacramenti, segni di Dio e del suo amore all’opera nella nostra esistenza».
I luoghi, allora, diventano corali dipinti, perforano l’aria del monastero che diventa città di Dio in una minuta di destino e compimento, solleva la panoramica di un’appartenenza alla variegata bellezza che circonda ed entra in comunione, in quanto segno intuito e vissuto della mano di Dio.
Il monaco, come Elia, si mette in cammino e l’io si risveglia in tutte le sue urgenze elementari. È la sua stanza il punto di sguardo. Ma è una stanza che pronuncia la sua appartenenza e la sua dipendenza all’infinita Genesi, a Dio che si incarna e tocca ogni infinitesimo umano, che si introduce in modo non prevedibile e non previsto, facendo luce sulla verità di noi stessi: «Il seme, come ho detto, / Si cela nella zolla ghiacciata. / Modellate dai fiumi, le pietre / Non se ne curano né lo sentiranno mai, / E coprono la terra coltivata. / Il seme, per natura, aspetta di crescere e dare / Frutto. Per questo non è solo / Come le pietre, o le cose inanimate: / Voglio dire, solo per natura, / O solo per sempre».
La vera ascesi non è elevazione sulle dinamiche mondane bensì entra in comunione: con l’umano unico e irripetibile. Ed ecco che la poesia diventa umana questione e preghiera, si fa religiosa, perché la realtà lo, lo annuncia ogni giorno qui e ora silenziosamente: «Io sono l’ora stabilita, / L’«adesso» che taglia / Il tempo come lama. / Sono il lampo inatteso / Oltre il «sì», oltre il «no», / Il presagio della Parola di Dio. / Segui la mia strada, ti porterò / Verso soli dai capelli d’oro, / Logos e musica, gioie senza colpa, / Scevre di domande / E al di là delle risposte: / Poiché io, la Solitudine, sono il tuo sé / Io, il Nulla, sono il tuo Tutto. / Io, il Silenzio, sono il tuo Amen!».
Afferma Albini, «Non perché sia uno scrivere riguardante questioni religiose, ma nel senso di essere una scrittura che è in sé un’attività religiosa, dal momento che produce parole mediante le quali Dio agisce, anche indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzione del poeta. Sono “parole per Dio” nella misura in cui ci liberano dalle prigioni create dalla nostra mente o dalla società, risvegliandoci alla realtà autentica».
Questa poesia costruita nel silenzio compone le sue fiamme di visione, presentendo e vivendo ciò che accade, prefigurando, profeticamente, ogni crollo e apocalisse, come tensione e vertice di ogni genialità: «Come sono state distrutte, come sono crollate / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’ acciaio / fuse da quale terrore? / […] Quali fuochi, quali luci hanno smembrato, / nella collera bianca della loro accusa / quelle torri d’argento e d’ acciaio/ colpite da un cielo vendicatore? […] Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo / velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci: / “Questa fu una città/ che si vestiva di biglietti di banca”».

Scrive, infatti, Luigi Giussani:

«Come mai può accadere quell’avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall’urto di quell’incontro – per cui la vita s’incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s’insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l’avvenimento accade? Poiché non c’è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell’elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d’altro. Qual è dunque la causa dell’avvenimento, la causa per cui quell’avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» – poi, non allora? Nel momento dell’incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell’avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo). La causa di quell’avvenimento, di quell’incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l’energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce – che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («… concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto».

E l’avvenimento allora provoca, insorge, destina il sangue a una domanda di eternità non preclusa, e siamo chiamati a sperimentare questa resurrezione discreta, come crepa di dimore intime e cenno pregato, ultimo indizio di una gioia cara che rende puro i cieli come sorgente.

merton
THOMAS MERTON, Che la mia sete diventi sorgente, Àncora, Milano 2015, pp.96, Euro 12,00.

MERTON T., Che la mia sete diventi sorgente, a cura di Christian Albini, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Àncora, Milano 2015.
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