Archivi categoria: poesia contemporanea

Il sogno individuativo di Roberto Bolaño

di Andrea Galgano 1 luglio 2018

leggi in pdf IL SOGNO INDIVIDUATIVO DI ROBERTO BOLAÑO

PRIMA PARTE

Roberto Bolaño (1953-2003) scrive la sua precaria galleria di suono e il suo itinerario di miraggi e dirupi onirici. Ne I cani romantici[1], pubblicati ora per le edizoni Sur, con traduzione di Ilde Carmignani, che vinse in patria il “Premio Literario Ciudad de Irún 1994”, racchiude testi scritti dal 1980 al 1998.

La nudità danzante dell’avanguardia (sotto un arcobaleno di fuoco) si sposa con la frantumata vitalità superstite, la rinascita della ripetizione, lo straccio sporco e intimo che deve sopravvivere per contenere, come ha detto Elias Canetti «la maggiore e la più pura quantità di vita[2]».

Precedentemente, in Tre[3], Bolaño avverte la rapsodia deserta del «sogno dei coraggiosi morti per una chimera di merda», gli spostamenti temporali delle asimmetrie, lo spettro misterioso della narrazione che affronta la trama della storia attraverso l’eliminazione del caos[4] e la disperazione della ragione. Affrontare la scrittura significa dimorare nell’inabitabile, inseguire, da detective, il doppio volto della realtà, la sconfitta, («Sono stato dentro il paradiso come osservatore e naufrago, là dove il paradiso aveva la forma del labirinto»), e il sogno come illuminata dismutazione di oblio.

Nell’esplorazione del dettaglio, dagli autunni di Girona all’invisibilità dell’io e all’Oñar, Roberto Bolaño condensa le atmosfere rarefatte del particolare in una nascita di morte e splendore. Condensare la nascita in una contaminazione di precarietà e flusso è percepire l’urgenza sorgiva di una dislocazione, di una registrazione di atti e metafore che affermano la pulizia elementare della lingua.

Il vertice puro della sua poesia è il deserto che la anima, scrive i contorni esiliati, stanchi, assetati e affamati. La vita che si esprime allo zenith dell’illusione, dell’illuminazione spodestata, dell’atomo dell’avventura (Arcimboldi, i realvisceralisti, le puttane assassine) e della malattia, in ciò che Filippo Polenchi ha chiamato «contagio dei deserti[5]», perché la poesia è l’universo che squaderna  e straborda il labirinto e lo spazio cancellato, rappresentando la ricerca della verità, l’epifania e la potenza del linguaggio nella geometria aliena, diventando:

una gigantesca isola, quasi un continente, nei cui viali assolati o nei bui cunicoli della capitale dell’orrore si aggirano senza scopo, come mossi da una insopprimibile necessità interiore, una moltitudine impaurita di esseri umani, individui i cui libri e le cui storie sembrano aver perso per strada l’intima motivazione del loro stesso essere racconto e narrazione. Il labirinto è, in fondo, un cimitero e la poesia e la letteratura sono i ferri del mestiere del detective-poeta, il bisturi con cui lo scrittore seziona le colpe storiche e individuali del proprio tempo in uno spazio che, come la Avenida Reforma di Amuleto, «si trasforma in un tubo trasparente, in un polmone cuneiforme da cui passano i respiri immaginari della città»[6] e appunto in un «cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto».[7]

Così come aggiunge Alice Pisu:

«L’autore entra ed esce dal suo testo e, mentre immagina i suoi personaggi, vede il deserto, il vuoto, quel nulla che riempie ogni cosa e che gli permette di osservare la sconosciuta. Una solitudine profonda si nutre di sogni e disperazione, tra inquietudini e paure racchiuse in un caleidoscopio che  esi muove «con la serenità e la noia dei giorni». Ciò che si allontana può essere chiamato deserto, roccia con aspetto d’uomo, scrive Bolaño. La realtà può avere tante facce, anche essere “coniata nel vuoto”: risiede in questo la profonda differenza tra Bolaño e i suoi contemporanei, la consapevolezza che la realtà raccontata dal personaggio che appare da uno schermo bianco o la proiezione del sogno sono solo lati di un cristallo, quella che richiamerebbe l’immagine dell’esattezza o della vaghezza per Calvino. Credere di poter raccontare la realtà percependola come l’unica sarebbe illusorio perché, come scriveva Richard Linklater, anche il solo pensare ad altre direzioni le rende realtà distinte, che vivono una propria esistenza: «Ogni tuo pensiero crea la propria realtà [..] come se tutto ciò che decidi di non fare si separa dal resto e diventa una realtà a sé».»[8]

Nella poesia rilasciata come straccali, il poeta compie la sua passeggiata onirica lambendo Virgilio, Borges, Perec, Lihn, Teller e Parra ma anche frequentando il nitore recluso di Emily Dickinson o la pienezza di Whitman. La narrativa e la poesia si mescolano in una intuizione di notturni e stelle distanti, disfano le loro impronte in una irruzione di scontro e fertilità selvaggia che irrompe nel discorso e lo comprime fino a farlo saltare[9] attraverso l’esilio dell’essere:

«Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, errando e ammazzando, sbagliando e chiedendo perdono, maniaco-depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che poi abbiamo sviscerato mille volte e poi altre mille, come detective latinoamericani persi in un labirinto di cristallo e fango, viaggiando sotto la pioggia, vedendo film dove c’erano vecchi che gridavano tornado! tornado!, guardando le cose per l’ultima volta, ma senza vederle, come spettri, come rane in fondo a un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaco-depressivi nell’immensa sala dell’Inferno dove si cucina il tuo Umore».

Le mute cose respirano il loro diorama di dilatazioni e incarnazioni, il dettaglio degli indizi occultati, il crivello dell’orrore e il paesaggio acuto del dolore e della disperazione alla fine del mondo[10], fino al postumo respiro degli eventi:

«LA REALTA’. In qualche modo che non saprei spiegare la casa sembrava toccata da qualcosa che non c’era quando me n’ero andato. Le cose sembravano più chiare, per esempio, la mia poltrona mi sembrava chiara, brillante, e la cucina, anche se piena di polvere attaccata a strati di grasso, dava un’impressione di bianchezza, come se potessi vederci attraverso. (Vedere che? Nulla: altra bianchezza.) Allo stesso tempo, le cose erano più nette. La cucina era la cucina e il tavolo era solo il tavolo. Un giorno cercherò di spiegarlo, ma se allora, due giorni dopo essere tornato, appoggiavo le mani o i gomiti sul tavolo, provavo un dolore acuto, come se stessi mordendo qualcosa di irreparabile».

La consumazione del tempo celebra il tempo del proprio febbrile apprendistato oltre la sconfitta, la stratificazione dell’ombra e della carne, la povera bandiera dell’arte e dell’infinito, per afferrare anche l’impronta dell’oasi che

«è sempre un’oasi, soprattutto se uno esce da un deserto di noia. in un’oasi si può bere, mangiare, curarsi le ferite, riposare, ma se l’oasi è di orrore, se esistono solo oasi di orrore, il viaggiatore potrà confermare, stavolta in modo inoppugnabile, che la carne è triste, che arriva un giorno in cui tutti i libri sono stati letti e che viaggiare è un miraggio. Oggi, tutto sembra indicare che esistono solo oasi d’orrore o che ogni oasi va alla deriva verso l’orrore».[11]

I cani romantici restituiscono il mondo di una smarrita e avvolta precisione che lega sogno e incubo attraverso indicatori spaziali e temporali. Lo svolgersi del vivente si esprime in una raffigurata protrusione, in un soggiorno apprensivo di soglie, in meccaniche di ombra che restituiscono dolore e contorsione ma che, però, riportano l’apice dell’indefinitezza  e del miraggio. L’epica del sogno ha sperduta incisione e fonetica ombrata, tocca la perdita come ferita di realtà e efferatezza di un’immagine che include l’apogeo della sua malinconia vitalistica, che avvicina la guancia alla guancia della morte, come «spettacolo strano, lento e strano»:

«A quel tempo avevo vent’anni / ed ero pazzo. / Avevo perso un paese / ma guadagnato un sogno. / E se avevo quel sogno / il resto non importava. / Né lavorare né pregare / né studiare all’alba / insieme ai cani romantici. / E il sogno viveva nel vuoto del mio spirito. / Una stanza di legno, / in penombra, / in uno dei polmoni dei tropici. / E a volte mi guardavo dentro / e visitavo il sogno: statua immortalata / in pensieri liquidi, / un verme bianco che si contorce / nell’amore. / Un amore sfrenato. / Un sogno dentro un altro sogno. / E l’incubo mi diceva: crescerai. / Ti lascerai alle spalle le immagini del dolore e del labirinto / e dimenticherai. / Ma a quel tempo crescere sarebbe stato un delitto. / Sono qui, dissi, con i cani romantici / e qui resterò».

Il 20 luglio 2003 al quotidiano cileno “El Mercurio”, Bolaño afferma: «La mia poesia e la mia prosa sono due cugine che vanno d’accordo. La mia poesia è platonica, la mia prosa è aristotelica. Entrambe abominano il dionisiaco, entrambe sanno che il dionisiaco ha trionfato».

Giorgia Esposito così commenta:

«Tutta l’opera di Bolaño – entrambe le cugine che vanno d’accordo – canta la sconfitta dell’apollineo, attraverso una molteplicità di voci: da quella del calzolaio che, in Notturno Cileno, non vede realizzata la sua Collina degli Eroi, alla voce della madre della poesia messicana, Auxilio Lacouture, che, in Amuleto, si trova faccia a faccia con l’ombra dei suoi figli – una massa di bambini, unita solo dalla generosità e dal coraggio – che cammina inevitabilmente verso l’abisso. Ma l’abisso, ricorda Bolaño in Tra Parentesi, è anche l’unico posto dove si può trovare l’antidoto alla malattia che affligge Apollo. Per essere poeti occorre scandagliare il fondo inesistente del portafiori di Poe, quello che contiene tutti i crepuscoli e le porte segrete dell’inferno, che il poeta può contemplare, ma giammai varcare: più in là c’è solo la morte, e con essa innumerevoli storie di «generazioni sacrificate sotto la ruota e non raccontate» («I passi di Parra», I cani romantici). Bolaño era un sopravvissuto, un testimone, impegnato in una lotta contro il tempo, contro la malattia, che ha voluto dare voce ai poeti morti bambini, a quelli che non hanno potuto raccontare, ai cani romantici che hanno attraversato, con lui, le strade polverose del Messico, inseguendo assassini, puttane e poetesse».[12]

L’iniziazione poetica si conferma nella oscura rappresentazione di strade di ghiaccio nella sala di lettura dell’inferno. I suoi sogni conoscono il sentiero disertato della grazia, il bar e Soni dove si celebra l’immagine della poesia greca e la perdita della luce dei vetri sporchi prima di chiudere gli occhi, Ernesto Cardenal, Orfeo e Edna Lieberman e il suo sangue che gira come la luce di un faro, la puttana Lope, Città del Messico, i versi di Jimenéz che riportano isole che si gonfiano, si uniscono e si separano, Dino Campana e i fantasmi guardiani del sogno, e i crepuscoli annegati di Barcellona. E poi ancora il sanguinoso giorno di pioggia come un mondo scalzo e scarno, una cortina di giunchi «che si apre e ci sporca», gli artiglieri insieme. Pertanto, i paragoni, le metafore dell’aria libera muovono l’incontro sghembo dell’anima con il cuore sporco, malvestito e pieno d’amore, con lo spavento che arriva a toccare le stelle, che arriva a piangere di notte e ad avere le labbra febbricitanti nei villaggi abbandonati: «Solo la febbre e la poesia danno le visioni. / Solo l’amore e la memoria. / Non queste strade né queste pianure. / Non questi labirinti / Poi la mia anima finalmente incontrò il mio cuore».

Guido Mazzoni sostiene che le sue metafore «aprono il regno delle Idee: sovradeterminano ciò che esiste qui e ora, nella limitatezza del proprio essere – così, e lo fanno significare altro; liberano la vita particolare dalla propria tautologia, la redimono dalla finitezza, la rendono interessante[13]», e Ilde Carmignani, soffermandosi sulla tendenza al lirismo cursi (patetico, sentimentale, kitsch) e affermando il ritmo fratturato, il silenzio e  il punto di cesura di Bolaño, aggiunge:

«La mia sensazione, come traduttrice, è che la poesia, l’antico infrarealismo o realvisceralismo, irrompa spesso nella scrittura di Bolaño, e nel modo più inaspettato: è lo scarto repentino, l’espressione imprevedibile, l’immagine surreale, una specie di tempesta elettrica nel cielo notturno, per usare un’immagine ricorrente nei suoi romanzi. Mi dà sempre l’impressione di una rottura, come se la superficie della prosa si squarciasse di colpo per far emergere singole espressioni, frammenti talvolta minimi di frase che appartengono a tutt’altro linguaggio, un linguaggio molto più metaforico e spesso surreale».[14]

La poesia, dunque, frequenta l’incavo di ogni fondo, si immerge nuda in un lago senza confini, ama l’alveo del sogno, fino all’occhio di Dio. L’abisso del poeta sopporta di tutto, la lotta, l’esilio, il tempo sfrangiato dell’illusione, la morte e la malattia, la povertà minima e assassina a cui consacrare l’ostinazione e la volontà («Sulla strada dei cani, là dove non vuole andare nessuno. / Una strada che prendono solo i poeti / quando non gli resta altro da fare»): «La poesia entra nel sogno / come un palombaro in un lago. / La poesia, la più coraggiosa di tutti, entra e cade / a piombo / in un lago infinito come il LochNess / o torbido e infausto come il lago Balaton. / Contemplatela dal fondo: / un palombaro / innocente / avvolto nelle piume / della volontà. / La poesia entra nel sogno / come un palombaro morto / nell’occhio di Dio».

A proposito del respiro lirico ed epico della sua scrittura, che si impregna del soffio vitale che si trova nei condotti di sopravvivenza, Vasco Brondi scrive:

«Un paio di settimane fa ho suonato a Torino alle OGR era una serata pensata da Nicola Ricciardi per il Salone del Libro, mi hanno chiesto di fare un concerto acustico dove le canzoni si mischiassero alle letture e ho pensato che Bolaño poteva aiutarmi, ho pensato alla sua solarità anche quando parla di sparatorie, a quel soffio vitale che hanno le sue pagine. E mi sono ricordato di quelle ultime poesie di Tre che sono suoi sogni messi in fila. Sogni come sempre tra letteratura e vita, come sempre tra l’emisfero sud e l’emisfero nord. Con persone che si inseguono o che sono immobili da anni oppure irrazionalmente felici, e libri che vanno a fuoco, traduttori pazzi che traducono De Sade a colpi d’ascia in mezzo a un bosco, una legione di Tori Meccanici, spiagge dimenticate».[15]

L’inseguimento dello splendore rappresenta l’esito di questo scavo infinito, di questa coltre che si riconosce nel sogno che arriva a copulare persino con la morte. L’amore e il sangue compiono il passo salvifico nella notte: «sei come lo zoppo che l’amore ha trasformato in eroe: / non tornerai mai nella tua terra (ma qual è la tua terra?), / non sarai mai un uomo saggio, be’, nemmeno un uomo / ragionevolmente intelligente, ma l’amore e il tuo sangue / ti hanno fatto fare un passo, incerto però necessario, in mezzo / alla notte, e l’amore che ha guidato quel passo ti salva».

Nella sua consistenza viscerale, quasi primordiale, si rinviene l’amore, la consumazione dei letti bui, la nostalgia del non vissuto sulle labbra dove sgorgano i paesaggi dell’adolescenza mentre fuori cade la pioggia.

Nella bellezza e nella miseria: «Breve come la bellezza, / la bellezza assoluta, / Quella che contiene tutta la grandezza e la miseria del mondo / E che è visibile solo a chi ama».

Roberto Galaverni afferma:

«Ciò che più colpisce, semmai, è come questa costellazione, questa specie d’intensità e di spirito sodale che sono anche un miraggio d’armonia e di perfezione, siano diventati un elemento fondamentale della sua opera narrativa. La prosa di Bolaño non vuol essere di per sé poetica, non scimmiotta i ritmi, le clausole, insomma il passo del verso. Costantemente poetico è invece il suo tema. La poesia entra dappertutto: nell’esistenza e nell’immaginario dei personaggi, nella macchina narrativa, nella storia passata e, ancor più, nell’orizzonte d’attesa del racconto. Assieme alla violenza del potere, alla solitudine, alla disperazione, la poesia costituisce un’autentica ossessione, anche se, a differenza delle altre, come qualcosa di non dato. Potremmo dire allora che sia la vera posta in gioco di questo scrittore, ma una posta perduta, irrecuperabile, eppure, forse proprio per questo, costantemente allusa».[16]

Roberto Bolaño sogna i suoi detective, in cui approntare la sua anima segugia e versata, attraverso i volti amati o la donna che salvò la vita. Egli tocca la notte interminabile contemplando l’orrore e l’incubo peggiore e sa che essere nel fondo significa poi emergere nella pupilla dello splendore, nello strazio macchiato dell’abbraccio dello sguardo e nei frantumi innominabili:

«Sognai dei detective perduti nella città oscura. / Sentii i loro gemiti, le loro nausee, la delicatezza / Delle loro fughe […] Vidi i corridoi pieni di poliziotti, / Vidi liste di domande rimaste irrisolte, / Gli archivi ignominiosi, / E poi il detective / Tornare sul luogo del delitto / Solo e tranquillo / Come nei peggiori incubi, / Lo vidi sedersi per terra e fumare / In una camera con sangue secco / Mentre le lancette dell’orologio / Viaggiavano impaurite nella notte / Interminabile».

E dentro il respiro del sangue si rinviene tutta la potenza di un limite che se, da una parte, annuncia la fitta dell’essere («Strana ciurma imbarcata su una rotta / miserabile, strade cancellate dalla polvere e dalla pioggia, / Terra di mosche e lucertole, cespugli rinsecchiti / E tempeste di sabbia, l’unico teatro concepibile / Per la nostra poesia»), dall’altra testimonia il seme e il sudore e le lacrime di un tempo unico, di una veglia insonne in un hotel di paura e percezione inadempiente («Sei tu il rapinatore, lo stupratore, il ruffiano inetto / che si aggira per le strade inutili del sogno»): «nelle icone trasparenti della passione messicana, / si annidano il grande monito e il grande perdono, / quella cosa innominabile, parte del sogno, che molti anni dopo / chiameremo con vari nomi che significano sconfitta. / La sconfitta della poesia vera, quella che noi scriviamo col sangue».

Lo smarrimento di Bolaño concentra il dramma errante della meta in un corpo a corpo con il dettaglio, gli spigoli avvizziti, la moto e le tracce, Mario Santiago e i poeti perduti del Messico, o i passi di Nicanor Parra sull’orizzonte infinito. Nel territorio della grazia abbandonata, permane però una speranza smarginata e una dimensione innominabile, una resurrezione avvolta come una musa nel buio «ritrovato ai margini / Del sogno più remoto, / Nelle partizioni del sogno finale, / Sul sentiero confuso e magnetico / Degli asini e dei poeti»:

«Un’allegra canzone d’addio. / E forse sono i gesti di coraggio quelli che / Ci congedano, senza risentimento né amarezza, / In pace con la loro gratuità assoluta e con noi stessi. / Sono le piccole sfide inutili – o che / Gli anni e l’abitudine ci hanno permesso / Di credere inutili –  quelle che ci salutano, / Quelle che ci fanno cenni enigmatici con la mano, / In piena notte, sul lato della strada, / Come figli nostri amati e abbandonati, / Cresciuti da soli in questi deserti calcarei, / Come lo splendore che un giorno ci attraversò / E che avevamo dimenticato» (L’asino).

 

[1] Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

[2] Cfr. Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

[3] Id.., Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.

[4] Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

[5] Polenchi F., Roberto Bolaño e il contagio dei deserti, (http://www.labalenabianca.com/2017/04/10/roberto-bolano-contagio-dei-deserti/), 10 aprile 2017.

[6] Bolaño R., Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010, p. 16

[7] Ibidem, p.71.

[8] Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.

[9] Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

[10] Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

[11] Bolaño R., Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017, pp. 135-136.

[12] Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

[13] Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), p. 235.

[14] Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

[15] Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

[16] Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani Edizioni SUR, Roma 2018, pp. 160, Euro 16,50.

 

Bolaño R., I cani romantici, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2018.

  • Tre, traduzione di Ilde Carmignani, Edizioni SUR, Roma 2017.
  • Amuleto, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2010.
  • Il gaucho insopportabile, traduzione di Ilide Carmignani, Milano, Adelphi 2017.

Bajani A., Scorribande poetiche di Roberto Bolaño, in “Il Manifesto”, 14 maggio 2017.

Brancati F., Roberto Bolaño, poeta, (http://www.leparoleelecose.it/?p=31196#_ftnref13) 20 febbraio 2018.

Brondi V., Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie, in “La Stampa”, 9 giugno 2018.

Canetti E., Massa e potere, Milano, Adelphi 2015.

Carmignani I., Mistero Bolaño. Conversazione con Ilide Carmignani, a cura di Marco Montanaro (http://www.leparoleelecose.it/?p=22282), 10 marzo 2016.

Esposito G., “I cani romantici”. Le poesie di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/i-cani-romantici-le-poesie-di-roberto-bolano/), 28 aprile 2016.

Galaverni R., L’incubo di Bolaño abita lo stesso sonno dei sogni, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 24 giugno 2018.

Mazzoni G., “Totalità e frammenti. 2666 e la narrativa di Bolaño”, in «Allegoria», XXVII: 71-72 (2015), pp. 230-237.

Montesano G., Bolaño. In realtà volevo fare il poeta, in “La Repubblica”, 10 aprile 2017.

Montieri G., I cani romantici sulla strada di Roberto Bolaño, (http://www.minimaetmoralia.it/wp/cani-romantici-sulla-strada-roberto-bolano/), 14 giugno 2018.

Pisu A., Nella stanza di Bolaño, in “La Repubblica – Parma”, 3 maggio 2017.

 

 

 

Al Berto. La febbre della vitalità

di Andrea Galgano 12 giugno 2018

leggi in pdf  AL BERTO. LA FEBBRE DELLA VITALITÀ

Esiste una nudità offerta che spiana la metafora del proprio essere davanti al mondo, in tutta la sottigliezza vagabonda, in tutta la vitalità che consuma, nella brevità lessicale che naviga nella realtà, sporgendo la parola e il suo territorio di suono, malattia e fragilità errante, di mescolanza liquida che innalza forme vive.

La poesia Al Berto (1948), pseudonimo di Alberto Raposo Pidwell Tavares, poeta e pittore portoghese nato a Coimbra, ci viene ora restituita, grazie alla pubblicazione, per l’editore Passigli, di Orto di incendio[1], a cura di Federico Bertolazzi che afferma:

«In una specie di riscrittura del medievale Horto do Esposo, opera anonima a cavallo tra il XIV e il XV secolo, in cui la rinuncia ai beni terreni è fatta in virtù dell’unione con Dio, il libro di Al Berto si colloca sul versante opposto e, calandosi profondamente nella vita, mostra tutta la consapevolezza della responsabilità e del rischio che fanno parte dell’incontro con il proprio vero volto. Questo, che è l’ultimo libro pubblicato da Al Berto, concentra in maniera mirabile la sua potenza stilistica, mostra un grado di rarefazione frutto di una lucidità serena, anche se disperata. La forza delle immagini, il mistero di certi riferimenti, la passione come strumento di conoscenza, la carezza dell’esistere sul mondo, tutto qui si ritrova in un itinerario umano nel corpo vivo della vita, con la consapevolezza che mai potremo sapere che cosa ci attende dall’altro lato dello specchio».[2]

Horto de Incêndio, pubblicato in Portogallo nel 1997, per Assírio & Alvim, rappresenta il vertice finale della poesia di Al Berto, morto il 13 giugno 1997, a causa di un linfoma, a soli 49 anni. Ecco cosa scriveva, nel 1991, il poeta, in questo suo rapido ritratto:

«Al Berto (Alberto Raposo Pdwell Tavares) è nato a Coimbra, l’11 gennaio 1948, ed è vissuto a Sines fino all’adolescenza. Ha frequentato il corso di Pittura della Scuola António Arroio e il corso di Formazione Artistica della Sociedade Nacional das Belas-Artes, a Lisbona. Nel 1967 si esilia a Bruxelles, dove frequenta la Ècole Nationale Supérieure d’Architecture e des Arts Visuels. Nel 1971 abbandona definitivamente la pittura, riconoscendosi sempre più come “autore di testi letterari”, parallelamente alla sua attività di animatore culturale e all’esperienza più recente come editore, iniziata dopo il ritorno in Portogallo, nel 1975. Da allora vive fra Lisbona e Sines, dove ha cercato invano i riferimenti fisici della sua infanzia, “distrutti da un progresso nero fatto non pensando alle persone ma al plusvalore”».[3]

La rarefazione, la frabilità translucida, i segni e la paura (come testimonia il suo primo libro Medo del 1987, Premio Pen Club, raccolta antologica ampliata poi nel 1991 e, postuma, nel 1998) come campi emblematici di incanto e cifra onirica, il corpo come segno dell’anima indifesa[4], il tremore consapevole della nascita[5], il grido ribelle e frangibile della letalità mortale e il disordine vitale della notte visitata e onnivora riportano a una condizione di nudità e di bruciore finale:

«ascoltami / che il giorno ti sia terso e / a ogni angolo di luce tu possa trovare / alimento sufficiente per la tua morte / va’ dove nessuno ti possa parlare / o riconoscere – va’ per questa porta / d’acqua vasta quanto la notte / lascia che l’albero di cassiopee ti copra / e che le folli avene che l’acido ha arrugginito / si innalzino nella vertigine del volo – lascia / che l’autunno porti gli uccelli e le api / a pernottare nella dolcezza / del tuo breve cuore – ascoltami / che il giorno ti sia terso / al di là della pelle costruisci l’arco di sale / la dimora eterna – il mare per dove fuggirà / l’etereo visitatore di questa notte / non dimenticare la nave carica di fuochi / di desideri fatti polvere – non dimenticare l’oro / l’avorio – le sessanta compresse letali / a colazione».

Federico Bertolazzi sostiene che:

«Questa nudità si riveste della parola come di un manto che, tra i panneggiamenti della metafora, ora vela ora svela i frammenti di una ricerca interiore che sia capace di trovare un volto per la complessità dell’allegria e dell’inquietudine, dell’amore e dell’abbandono, della passione e della solitudine, e che possa, chissà, essere in grado di spiegare anche il mistero dell’esistenza del mare e della morte».[6]

Se la parola rappresenta, dunque, il centro della sillabazione del silenzio che permane sull’aridità delle pietre, se non riesce a permanere nel dicibile fino all’afasia e alla trasformazione, porgendo il magma di sé, noi «continuiamo a ripetere i gesti e a bere / la serenità della linfa – risaliamo lungo la febbre / dei cedri – fino a toccare il mistico / arbusto stellare / e / il mistero della luce ci fustiga gli occhi / in un’euforia torrenziale».

Nell’odore delle cose dimenticate, un dito incendiato accenna nella polvere una finestra d’oro e di vento:

«[…] ma se la notte verrà / piena di luci illeggibili di veli / di orologi fermi – spiega le ali / ferisci l’aria che ti soffoca e non muoverti / così che io resti a vederti frantumare / ciò che penso e più non scrivo – ciò / che ha perso il nome e si beve come cicuta / accanto al precipizio del tuo corpo / poi lascerò il giorno avanzare con la barca / che prende il volo e porta le cattive notizie dei giornali / e l’odore spesso delle cose dimenticate – gli occhiali / per vedere il mare che non vedo più e un dito / incendiato / che accenna nella polvere una finestra d’oro / e di vento».

Nella poesia di Al Berto permane una torrenziale sinuosità febbrile che se, da una parte, raffigura una sfida alle convenzioni e all’omologazione, dall’altro caratterizza lo sperpero di una virginale fatalità («la mano grigia dell’inverno perdura sul viso / di coloro che sonnolenti viaggiano dentro / questo piccolo tumulo di serenità»).

La dolenza dei richiami del mare del mito distrutto rilegge la memoria[7] («Si affacciò sull’altro lato dello specchio / dove il corpo si fa aereo fino alle ossa / la notte gli restituì un altro corpo che scorreva / verso l’abbandono di un segreto ritorno…poi / ripose la passione di lontani giorni nel sacco di tela / e dal fondo nostalgico dello specchio / sorsero gli improvvisi occhi del mare») e rappresenta il dolore acuto della propria mitografia («il dolore di tutte le strade vuote»).

Un punto a cui aggrapparsi per attraversare il vivente, l’urgenza sterminatrice dell’inchiostro, il corpo generato da un istante di panico verso ciò che inquieta e non si definisce, ma rimane ferito: «andrai da solo dentro la vita / le braccia distese come se entrassi nell’acqua / il corpo in un arco di pietra teso simulando / la casa / dove mi riparo dal mortale bagliore del mezzogiorno».

L’incendio del dolore inesprimibile e sisifeo del tempo afferma ciò che Antonio Ramos Rosa ha chiamato «sovranità della forza erotica sommersa dall’impulso verso la morte»: «ecco il mondo fiabesco delle ferite incurabili / l’inferno / anche quando dormi gemi abbandonato / al rantolo della pioggia sulla vetrata e al vento / che danza sulla persiana / non saprai mai della tua metamorfosi / in pantera aerea – proibirò che passeggi / sopra i sentimenti e sopra i mobili / e che ti vendichi / dell’abile seduttore di fiere».

Così come la casa rinviene un abisso disciolto di memoria e fuochi che affogano nel segno e nella traccia di un presagio di sillabe diafane e specchio di presagi («ti guardi allo specchio / ti attribuisci un nome un corpo un gesto / dormi / con l’albero di saliva delle isole – con il vento / che trascina con sé questo scroscio di fosforo e / questi presagi di tranquille ossa»), dove fantasmi di impotenza, abbandono e nulla («in questa casa sopravvive solo la memoria torbida / delle poesie amate – nessun altro nient’altro / all’infuori della parete di fango e della scatola di scarpe / piena di sillabe preziose / e un tavolo piccolo / con un albatros impagliato per vigilarti l’anima»), e acheronti di buio e sogni sono avvolti in un isolamento di appartenenze e congedi, dove «il cuore degli uomini / è una rosa nomade e calcarea»:

«guarda / come la terra è un velluto che scorre dalla bocca / alla bocca – triste nettare avvelenato / contro le labbra che si congedano dalla casa / dagli affetti / dagli amici / dalle cose insignificanti e / dalla strada che non torneranno a vedere / isolati dagli altri / pernottando nel torpore avido dei fiumi avanzano / distesi sul fondo della pesante barca – eterei / entrano con calma nella città demolita / nella fessura di questo tempo pestifero / che non gli appartiene più».

Il testo-corpo di Al Berto ha «potere apotropaico in questo mondo inquieto, e il gesto che le dà forma è ampio e totalizzante: le metafore che crea spazializzano una sospensione del tempo, prolungano l’attesa; come l’ekfrasi è collocata davanti all’opera, così la metafora in Al Berto dice e racconta il gesto[8]».

Ma se la metafora corporea è stata l’epicentro insaziabile di una tensione scandalosa di emancipazione ed enunciazione di sé (sesso, droga, rock’n’roll) e ha definito l’individualità, proiettando la rappresentazione degli ideali collettivi, come accaduto negli anni ’70, la sessualità (e in questo caso l’omosessualità) rappresenta il passaggio dell’essere per raffrontarsi da una parte con la propria anima, dall’altro con la frammentazione, la deriva dei margini, il ritaglio libertario, il mosaico delle tendenze culturali e l’insonnia nelle città inospitali («eppure conosco / tutti gli angoli dell’immonda città che amo / eppure soffro di insonnia – imito il gufo / l’ubriaco folle / gesticolo come chi non sono più e un altro non sarò»): «archiviamo l’amore nell’abisso del tempo / e al di là della nera pelle del dispiacere / presentiamo vivo / il passeggero ardente delle sabbie – il viaggiatore / che irradia un odore di violette notturne / accendiamo allora una fiamma sulle dita / ci svegliamo tremoli confusi – la mano bruciata / vicino al cuore».

Se Sines, città marittima della regione dell’Alentejo, che diede i natali anche a Vasco de Gama, esprime l’apice di un legame osmotico e il punto di paragone dell’essere, Lisbona, (emblema del Portogallo dove finisce la terra e inizia il mare e dove il confine ultimo del mare termina perché esista la terra) richiama le prime luci dell’alba, il deserto di malinconia, le ferite d’asfalto, la finisterra del corpo, i piatti di cenere, ricordando la vertigine amara della finitudine e della transitorietà di Cesário Verde con le spalle al mondo[9]: «platani bianchi si stagliano luminescenti nello sguardo / di chi ci guarda contro un cielo disperato – giardino / di iris gigli palme coperte di rugiada e / il ponte che ci porta ai campi del sud – lisbona».

O ancora il paese ombroso e di silenzio, dove «il vento ti porta l’odore dei tropici / dei tamarindi fioriti dei viali e dei fieni / primaverili delle pianure – il vento / ti protegge – ti porta via nell’alato acido / delle brine e delle incertezze», diventa il paese immobile divorato dal sole nel momento in cui il brivido del canto si sparge per le vie, nel panno riarso del tempo, nei traghetti vaghi e nei vicoli: «ma lisbona è fatta di fili di sangue / di province attese davanti ai caffè / di vuoto sotto un cielo plumbeo che adombra / i giardini di statue spezzate».

La provvisorietà temporale, raccontata dal poeta, si configura come transito neutrale e straniero[10], si delinea come tenebra sparsa tra la sofferenza del corpo e l’anima concitata, malinconia inerte e dimora del silenzio che innalza solitudini fino alla distruzione[11].

La mappa della ricerca del tempo perduto e della entità memoriale si afferma nella sinestesia oggettuale, nella liquidità e nella sperimentazione dell’abisso. La luminosa visione delle cose si accompagna all’oscurità piretica di luce, come sisma di orchidee e cenere bruciata:

«soffia un vento lungo il petto del marinaio – vento / grigio capace di spegnere i gesti che restano e / di pulire i passi incerti per le vie del molo / vento / un vento che ti scuote le vene i tendini / fa vibrare i muscoli e il sartiame – come l’albero / che si stacca dalle viscere del mare / corre / corre un vento lungo le fessure della pelle – vento / di polvere arrugginita che apre ferite negli animali vivi / incollati alla memoria dove / un serpente si è immerso nel sangue e / comincia a folgorare / soffia un vento lungo il petto del marinaio / risveglia la fioritura pallida del plancton – spazza / la notte e lava le mani dei condannati a morte / corre un vento / vento di febbre – sisma di orchidee che si calma / quando accendi la luce e apri le ali / vibri e prendi il volo».

In orto, la condizione genesica di appartenenza si lega al bagliore interiore e al dramma della propria condizione, divenendo il luogo della coscienza e dell’abbandono:

«la linea dell’orizzonte è una lama / taglia i capelli alle meteore – taglia / le guance degli uomini che spiano il palco / notturno delle invisibili città / scorre una linfa argentea verso il cuore dei ciechi / e il sonno li tormenta con i suoi sogni vuoti / si addormentano sempre / prima che la cenere degli occhi arda e si disperda / nel fondo della lunga distanza si sente / un lamento scuro / quando l’alba si alza nell’orto / degli incendi / proseguono il cammino / con la voce avvinta da una corda di gigli / i ciechi / sono il corpo di un fuoco lento / un roveto / che si accende all’improvviso dal dentro».

Nell’ultima parte del libro, Morte di Rimbaud, detta a voce alta nel coliseu di Lisbona il 20 novembre 1996, l’enunciazione di Al Berto insegue la bordura del viaggio sfinito rimbaudiano, avvolto nell’ignoto, come congedo estremo, anticipazione, abisso e circolazione finale, compresa nella e dalla morte: «la verità è che ho passato la vita a fuggire, di città in città, con un sussurro tagliente sulle labbra. / e ho attraversato città e vie senza nome, strade, / ponti che legano una tenebra a un’altra tenebra. / cammino come ho sempre camminato, dentro di me – / squarciando paesaggi, solcando mari, divorando / immagini».

È la visione della caduta, l’impossibilità del ritorno e di ogni invenzione comprensibile, rilasciando un’inerzia che riduce le distanze e apprende la parola nella sregolatezza dei sensi, nei miraggi, nel deserto che squaderna ogni universo da ricostruire nella alterità veggente.

Il contorno e la separazione, il rumore prezioso delle sillabe e ancora la febbre di uno specchio rotto. Il veleno delle vertigini, fino all’ultima fuga, accende il firmamento dell’anima e il vento che fa scomparire e la scrittura per imparare a morire.

[1] Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

[2] Bertolazzi F., L’altro lato dello specchio, in Al Berto, cit., pp. 13-14.

[3] In Bertolazzi F., cit., pp.7-8.

[4] Monteiro M. H., Horto de Incêndio (Entrevista a Al Berto), , in, «Hablar/Falar de Poesia», n.º 1, 1997.

[5] Kirkup J., Obituary: Al Berto, (https://www.independent.co.uk/news/people/obituary-al-berto-1249902.html), 10 luglio 1997.

[6] Bertolazzi F., cit., p.8.

[7] Cfr. Lugarinho M. C. Mnemosyne e a lírica angolana. Dissertação de Mestrado em Literaturas de Língua Portuguesa, PUC-RJ, 1993, p.7.

[8] Bertolazzi F., cit., pp.10-11.

[9] Cfr. Silveira J. F., da Verso com verso, Ângelus Novus, Coimbra 2004.

[10] Cfr. Martelo R. M., Em parte incerta, Campo das Letras, Lisboa 2004.

[11] Cfr. Amaral F. P., O mosaico fluido, Assírio & Alvim, Lisboa 1997.

Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018, pp. 113, Euro 14,50.

Al Berto, Orto di incendio, a cura di Federico Bertolazzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2018.

Kirkup J., Obituary: Al Berto, (https://www.independent.co.uk/news/people/obituary-al-berto-1249902.html), 10 luglio 1997.

Lugarinho M. C. Mnemosyne e a lírica angolana. Dissertação de Mestrado em Literaturas de Língua Portuguesa, PUC-RJ, 1993.

Martelo R. M., Em parte incerta, Campo das Letras, Lisboa 2004.

Monteiro M. H., Horto de Incêndio (Entrevista a Al Berto), in, «Hablar/Falar de Poesia», n.º 1, 1997.

Silveira J. F., da Verso com verso, Ângelus Novus, Coimbra 2004.

 

Kathleen Jamie e il centro dello sguardo del mondo

di Andrea Galgano 14 maggio 2018

leggi in pdf KATHLEEN JAMIE E IL CENTRO DELLO SGUARDO DEL MONDO

La compagnia più bella (The Bonniest Companie)[1] di Kathleen Jamie (1962), che ha vinto il Saltire Society Book of the Year e il Poetry Book of the Year, ed è stato ora edito da Medusa, nella elegante traduzione di Giorgia Sensi, consegna l’energia ciclica e immutata del mondo, il viaggio dello spazio naturale[2], la sottigliezza dei confini, che diventano agoni temporali e spostamenti memoriali che incidono la densità infranta del presente come gemme ibride, attingendo anche dagli eventi scozzesi referendari del 2014, che si sono conclusi con la vittoria del “No”.

La poesia scorge, così, il confine liminale di lingua e affermazione. Nella sconfitta e nella terminalità rattrappita, il tempo della rinascita annulla ogni frantume, raccontando lo splendore numinoso della Scozia, il temporale come canto stregato, la ribellione dell’autunno e la madre persa negli occhiali:

«Dunque eccoci qua, / abbattuti e sfiniti, / ammantati di speranze in frantumi, / (un’onesta povertà). / Riposte le nostre bandiere, / le foglie secche di alberi striminziti / volano nelle piazze deserte, / e il vento / – foriero d’inverno – / / fruga fra le statue di granito / – e così via e eccetera. / Tutto ciò lo sappiamo. È martedì. Di nuovo in piedi. / Oggi si ricomincia» (23/9/2014).

Giorgia Sensi scrive:

«Il mondo naturale in The Bonniest Companie è, in genere, più familiare che in precedenti raccolte, meno selvaggio. Non ci sono balene e squali elefante ma cigni, un topo-ragno, aironi, falchi pescatori che lei stessa può osservare col binocolo dalla finestra della cucina, molti merli – il merlo della poesia “Merle” «è il centro dello sguardo del mondo», rondini e rondoni, e tanti altri (Jamie è un’esperta ornitologa). È significativa questa commistione di selvatico e domestico, di quotidiano, spesso presente all’interno di una stessa poesia. Per esempio in “The Heronry” la voce parlante, che in questo caso possiamo identificare con l’autrice stessa, in una giornata di febbraio decide di andare a vedere se gli aironi si sono già radunati nel solito posto non lontano da casa, prende la bicicletta e corre là, non prima, però di aver compiuto un gesto quotidiano e molto pratico, essere andata a comprare il giornale e il pane. […] Quello di Kathleen Jamie è un mondo naturale e in continuo movimento, ed è fonte di rinascita, di conoscenza».[3]

Unire la folgorazione naturale alla specifica dimensione quotidiana consente di precisare la luce di un cambiamento, il territorio identitario e il dramma di una demarcazione di corsa splendente e colpita. Vi è, in Kathleen Jamie, una sorta di fragilità spaesata, una vitalità mai ridotta che si dischiude («Su, facciamo sosta qui, riprendiamo fiato / e inaliamo il dolce profumo di quella ginestra / che è in fiore oggi / guardiamo laggiù in fondo per miglia, da ora / e fino a che non ritornerà la lince, e il lupo»):

«Portatemi al fiume, ma non subito, non con questa raffica gelida, che da est / con furia sale su dal mare / come un iroso pastore – / e quanto a voi oche, nate sull’Artico, che sembrate a vostro agio / nei nostri campi, / che bisogno c’è di tornare al nord al più presto – / neve sui monti, zolle arate e ghiacciate – / così da settimane, e ci basta / – ma quando verrà la mia ora, / lasciatemi andare come il toporagno / proprio qui sul sentiero: spinto dal vento su quel suo pelo da moscerino, / colto a metà pensiero, a metà corsa».

Il legame tra contemplazione e finitudine lambisce strappi di quotidianità e stupore: gli aironi sono pronti per radunarsi «negli allampanati salici dell’isola», in una scintillante promessa di bellezza eveniente.

Jamie esplora l’iniziazione del particolare a una esatta destinazione della realtà. Le cose nude si accompagnano alle radici, agli spostamenti, alle terre percorse come una vitale e feriale disposizione di immagine, che diventa parte nevralgica del Tutto, unione sacrale di “visibile invisibilità”:

«Quel merlo tra i rovi / sull’argine esterno / non sa di esser nato / non sa di esser gloria e parte / di questo mattino domenicale / in stile nord-atlantico. / Dal becco giallo il canto scende / alle prime celidonie dell’anno; / la gola pulsa. Con un artiglio giallo / gratta l’orecchio sinistro / Tra poco si dissolverà la nebbia / a rivelare il Rum Cuillin / coperto dalla neve di marzo, e le acque del Minch / ma per ora è il merlo / il centro dello sguardo» (Merlo)

Irene Battaglini afferma:

Kathleen Jamie è una poetessa che richiede una comprensione contro-intuitiva, un modo di essere “letta” che ella stessa pretende dal lettore insegnandogli a leggere tra i chiasmi dei livelli organizzativi del discorso. Il suo sguardo oscilla dalla terra al cielo con la rapidità di un falco, e con la voracità di sguardo di chi sa cogliere i colori netti della natura, le sue indicazioni chiare, i segni della magnificenza nelle cose piccole; e si muove trasversalmente, con moto ondulatorio, come un sisma d’acqua contro la corrente superficiale, nell’oceano delle grandi emozioni umane, quelle di appartenenza, di scelta, di nascita e morte. E sembra riuscirci con un ampio ricorso alla metafora paradossale, come un ampio ventaglio che si muove al ritmo di una musica silenziosa, come se le parole fossero i tasti di un pianoforte, e il pianoforte fosse il ventaglio che come un pentagramma antico cambia la sua chiave di lettura su basi nascoste, il cui mistero sta nel vero cuore della poetessa. Un cuore sconosciuto forse anche a se stessa, orientata a capire il mondo, ad averne una qualche ragione, abitata da un talento che si ritira nelle segrete stanze delle cose apparenti. [4]

La pulsionale bellezza della realtà scopre, nel dettaglio, la genesi della rappresentabilità, l’ombra infinitesima della lontananza e del moto delle cose. L’autrice insegue ogni germinazione nutrita, i passaggi ellittici senza grumi ma che però avvertono tutta l’imprevedibilità di una ricognizione che mischia finito e infinito:

«Una gran bella arrampicata, ora il giorno è quasi concluso / sulla collina di fronte al rifugio – / un ruscello asciutto, poi una nocca di basalto / come un trono, / se mai volessi far regina / tra felci tremolanti / qualche pecora al pascolo. / Già le Isole Occidentali / profilano rosa polverose all’orizzonte, / e come il prodigo al locale notturno, / il faro di Scalpay / continua a lampeggiare la sua firma / tre raggi bianchi ogni venti secondi» (Il faro).

L’attesa di una liberazione salvifica come nascita («Sto aspettando il sorgere della stella / – forse un pianeta / che ogni sera s’impiglia / tra i rami ancora spogli / del sicomoro / incorniciato dalla tua finestra più piccola / e là sembra palpitare e tremolare») tremola e accade, per lasciare alla parola un interstizio nel mondo: «Su, tentiamo la sorte qui con il mortale, / il banale e il mortale, / e passeggiamo tra le distese di armeria rosa / della scogliera, / le zaffate di guano di procellaria che ti prendono alla gola / e lasciamo che si apra uno spazio / tra parola e mondo / pizzicato dal vento, tremante» (La scogliera).

Sono ricordi di stupore inatteso e febbrile come fioriture («eppure esito, in attesa / che la mia anima pigna / sobbalzi al tocco del mondo»), svolte e ricordi che determinano l’esistente in una conclusa e radiosa domanda elementare di compimento: «Una notte, in braccio a mio padre / fui portata dalla nostra villetta di mattoni / a vedere le stelle sopra il bagliore delle acciaierie».

O ancora il nitore di una adesione che cerca il suo acquisto di voce alta e di ricordo intarsiato: «Sulla mia altalena rossa volai / in alto, fin dove consentivano / le catene di ferro, il cielo / verso cui mi lanciai non si degnò / di accogliermi; spiegai le ali, / stordita da quel blu, dalle nuvole ribelli – / torna, disse la Terra / ho la tua ombra».

E poi il tremore dei nidi che solcano timori di perdite e indugi come abbandoni: «[…] invece eccola! Apparsa come d’incanto / da pioggerella e foschia di marzo, gli artigli gialli / a uncino sull’orlo roccioso – / l’occhio che tutto abbraccia / mentre plana di nuovo / sui nostri tetti e il firth».

L’orizzonte di Kathleen Jamie ha una rigogliosa prospettiva di sguardo che si protende e prolunga nella soglia di ogni veglia stazionata – dalle foschie delle vallate alla piena delle stagioni o alle primavere arrampicate nella vecchiaia, come se il mondo dovesse sorvegliare la sua genesi, i silenzi e la lingua del cielo che sopravanza l’essere: «Da troppo tempo / non guardo il mare / per dieci interi minuti! / l’orizzonte che brilla come una chiave magica, / un nitrito di spuma ai piedi della scogliera, / e tutti i silenzi del cielo, i suoi dialetti… / Ecco ora arriva un turbine di vento / tutto vestito di grigio / e si precipita verso la terraferma – / uno sbaffo di arcobaleno / stretto come la borsa della spesa / nella mano destra».

La sua ornitologia diventa una descrizione epistemologica di volo e di attitudine alla cadenza, al colpo del respiro, alla decrittata spoliazione della realtà, per affermarla, avvertire ogni sporgenza o precipitazione, custodirne la potenza e attestarne la profonda freschezza delle linee vaste di marea:

«Una pergola sul mare, un capanno da giardino, / messo assieme con legni raccolti in spiaggia e arredato / di un divano sfondato / è qui che sono seduta, / e mi sforzo di coltivare la filosofia del prendere-o-lasciare / sulla linea di marea, felice di rimanere / finchè l’ultimo piccolo merlo / lascia il nido / incastrato nella rosa canina alla mia sinistra. / Di tanto in tanto padre merlo / saltella attraverso il comune quadrato erboso, / inclinando la testa. / Amico, è il mare che senti, vasto e giusto / oltre quelle dune, oltre la tua contezza di merlo, / ma io cosa so? Maggio è di nuovo disteso / per tutto l’emisfero settentrionale, e oggi / è il mio compleanno. Chicchi di grandine improvvisi / pungono questo asilo provvisorio. Non è ancora finita» (Pergola).

Lo splendore attonito si attesta davanti al mistero e al segreto del vivente, per essere parte non esclusa di un giacimento protratto di sé, in cui ogni particolare celebra l’apparizione stupefatta di ogni sconfitta della ripetibilità, attraverso la capacità di visione che illumina sugli ottenebramenti di – quasi nulla- che la vita tocca e conosce: «C’è mistero nel giardino dietro casa […] Della pioggerella / che fa luccicare il susino / l’ombra della catasta di legna, / il porta noccioline che vibra / quando un passero prende il volo – / e queste margherite / tutte accampate sull’erba / – le stesse della settimana scorsa, dell’anno scorso, stesse / ma non identiche / a quelle che osservavo da ragazza / innocenti e senza pretese / tutte ricevono la loro parte».

In Le cerve (The Hinds), che dà il titolo alla raccolta, allude alla vecchia ballata Tam Lin, dove il cavaliere viene salvato da un’intrepida e aristocratica fanciulla, Janet, rimasta incinta al loro primo incontro. La Regina delle Fate si lamenta con rabbia e afferma: «Si è portata via il più bel cavaliere di tutta la mia compagnia».

Il senso di stupore placato, libertà e abbandono (Le bacche), determinati da questi probabili cervi rossi,  eliminano ogni sentiero alienato, attraverso l’agilità vigile della loro energia. I balzi, i movimenti dello sguardo, le visibilità individuali («poi a turno saltare, / saltare il torrente scuro di torba / da poco rigonfio») che tracciano pienezza, l’antropomorfismo enfatico, la topografia mimetica, l’epica minima, che riporta alle illuminazioni percettive di Kavanagh[5], accordano suoni e rime, in un gesto fluido che non consente indugi e promettono inviti trascritti senza ritorno, oltre ogni argine.

Giorgia Sensi commenta: «In un sogno a occhi aperti, l’autrice incontra diciannove cerve, che con aria regale la fissano e in modo seducente la invitano ad andare con loro, sarà felice – sembrano dirle – a un costo, però, quello di non più ritornare[6]».

Nella fissazione, che sembra frenare ogni movimento, vi è un rallentamento che esclude ogni ritorno, portando energia flessibile, libertà, indipendenza, passo dell’anima nella voce profonda della notte e solstizi come passaggi di luce: «La luce del giorno è al massimo, e ha ancora da fare qui, / almeno così pensa – / ma i rondoni della città sono nascosti / sotto le gronde misteriose / ed è quasi mezzanotte. Poi è finita – / solstizio: una porzione di meno per noi, / una di meno lasciata nel vaso».

La dimensione memoriale è l’esito di una relazione con ciò che si è perduto, guardato con tenerezza modulata nella ricerca di incontro (come The Stair – La scala, dedicata alla nonna) e nella lingua scozzese che meglio affina la dimensione memorativa.

Esiste una dolce e fitta oscurità che lega ricordo e presente, come in The Girls (Le ragazze) in cui i richiami e le rievocazioni scheggiano l’estate nel crepuscolo imminente o nella drammatica Smarrita (The Missing) che riconduce l’allungamento ellittico delle strade a un’assunzione di responsabilità. Non sappiamo come finisce la sua storia e quella di Sandra McQueen, apprendiamo l’apparenza di una scomparsa, di un attimo vibrato e breve che segna e conclude.

Vi è, dunque, in Jamie una vivida sproporzione memoriale e un orlo frastagliato di realtà, che desume sì dalla rievocazione, ma lo riporta in una condizione di attualità emersa, come la penisola di Fianuis, nelle isole Ebridi:

«Bene, amico, eccoci qui di nuovo, / a goderci l’ultimo mezzo miglio fino all’orlo frastagliato della terra / per vedere cosa ci è stato imbandito qui, sparso sul manto erboso – / piume di gabbiano, conchiglie sbiancate, / un intero maschio di foca, essiccato, / esausto per la fregola / (bussiamo sulla testa di cuoio, ma non c’è nessuno in casa). / Cambiamento, cambiamento – gridano le sterne laggiù / sulle rocce verso il mare / nubi in fuga e bacio salato – / tutto il resto è temporaneo, / noi e tutte le nostre opere. / Ecco perché ci piace qui, credo. / Ascolta: una breve pausa, / le note di una pispola piccole come semi» (Fianuis).

Il tentativo di recupero assomiglia a una migrazione che decifra l’esistente in una raccolta condensazione di immagini, che descrivono il singolo gesto come un’approfondita bellezza di suono e visione. Come se la realtà, appunto, dovesse essere registrata, non tanto in una percezione realista quanto piuttosto in un’affermata meta, che ora ripropone Hölderlin, ora asserisce ogni segno possibile che resiste a ogni dileguo di sgomento e congedo. Per farsi intreccio, ascolto e luce sulle maglie («Sento ancora il prurito di quella maglia che portavo, / verde a puntini marrone fatta ai ferri, / assorta su quella spiaggia / a raccogliere una conchiglia dopo l’altra. / Dov’è finita / – la lampada, e tutto quel ricamo / che illuminava / senza sprecare luce?»):

«Ricordi quel cigno? Quello selvatico che trovammo / sul prato col collo inerte, la testa rivolta a nord come un segnale, / e tu ti chinasti ad aprirgli l’ala? / Io prestai scarsa attenzione / all’elenco che facesti delle sue parti: copritrici, ulna, primarie / non sopportavo quel posto, le burrasche e il ruggito del mare / ma quell’aria – quella era una dichiarazione! / Un’ala per il vento, una potenza del bagliore del quarzo! / Un varco radioso / che si poteva aprire e da cui fuggire… / Trascinammo il cigno a ridosso di una vecchia diga / lo coprimmo per bene, una pietra bianca, / poi ci arrampicammo su fuori dal vallone. Al crinale / di nuovo, fummo investiti da una bella raffica di vento, / procedemmo incespicando, mezzo euforici, mezzo sgomenti» (Migratorio I)

 

[1] Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

[2] Cfr. Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

[3] Sensi G., Introduzione, in Jamie K., La compagnia più bella, cit., pp. 10-11.

[4] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

[5] Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.

[6] Sensi G. cit., p.11.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018, pp. 131, Euro 16.

Jamie K., La compagnia più bella, a cura di Giorgia Sensi, Medusa Edizioni, Milano 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

Power P., The Bonniest Companie by Kathleen Jamie, (https://www.thelondonmagazine.org/the-bonniest-companie-by-kathleen-jamie/), Dec 22, 2015.

Rumens C., Poem of the week: The Hinds by Kathleen Jamie, (https://www.theguardian.com/books/booksblog/2015/oct/05/poem-of-the-week-the-hinds-by-kathleen-jamie), Oct 5, 2015.

 

Endre Ady: la spietata ribellione

di Andrea Galgano 18 aprile 2018

leggi in pdf  ENDRE ADY. LA SPIETATA RIBELLIONE 

Endre Ady (1877-1919) respira il portale introiettivo del gesto poetico attraverso la lacerata semplicità della sua visione, in cui le linee intonacate dell’essere scolpiscono l’ardore bruciato della ribellione e della irresolutezza, vivendo, come afferma Roberto Galaverni:

«fino all’estremo la contraddizione tra la fedeltà al proprio Paese natale e un desidero di apertura verso l’Europa occidentale, di rinnovamento culturale, etico e politico. […] Da un lato era legato al fondamento più antico della pianura magiara, dall’altro era radicalmente antinazionalista, da una parte si riconosceva estraneo alla religiosità pratica, dall’altra aveva introiettato il linguaggio e l’immaginario della Bibbia fino a farne una chiave d’interpretazione della realtà tutta».[1]

La recente pubblicazione di un corpus di testi, per Marsilio editore, de Il perdono della luna. Poesie 1906-1919[2], a cura e traduzione di Gabriella Caramore e Vera Gheno, consentono alla ritrovata bellezza di una voce improntata alla incombenza di una lotta[3], di affermare una sproporzione protesa alla salvezza e a un segno breve di vitalità indomabile.

La scrittura, quindi, rappresenta il solco lucente di una ferita di sole e ghiaccio, l’istinto tenero e tenace di una fierezza, che, se da un lato, scompone la confessione in una cicatrice umbratile, dall’altro espone la sua luce scura di misura breve e dismisura dell’anima, fino alla ricerca di un prodigio benedetto, di un allontanamento dalla feriale brutalità o di un incantamento.

Roberto Galaverni scrive ancora:

«L’opera poetica di Ady, infatti, sembra intesa anzitutto a esprimere la singolarità drammatica e ineluttabile, il vigore e insieme la deiezione del destino individuale del poeta. Ma il fatto è che tutto questo viene additato al contempo come il carattere più proprio e, anzi, come lo stesso retaggio antropologico del popolo ungherese […] L’eccentricità, anzitutto linguistica, rispetto alla realtà europea (le sonorità secche, la musica franta dell’ungherese, che Emil Cioran considerava comunque la lingua più bella del mondo), l’isolamento culturale, l’arretratezza economica, le condizioni di sudditanza politica, il sentimento di un destino sempre e comunque ostile, il desiderio di riscatto: quanto più questi versi cercano di dare forma alla fisionomia e alla vicissitudine particolari di un uomo, tanto più, e senza alcuna retorica, danno voce e sentimento a un popolo (che infatti in quei versi si riconobbe con totalità d’adesione di cui non molti poeti hanno avuto privilegio di godere)».[4]

La sua ferita rovente è l’indice  di un tormento netto e reciso che non si espropria, non dice no alla lucentezza ma avverte tutto il peso del suo ritrovamento, della sua basica elezione celebrativa, del suo destino che brucia e germoglia come dura spunta, oltre lo strazio che desidera, che compie, che affama la vita:

«Sono ferita rovente. Brucio, dolente. / Mi strazia la brina, mi strazia la luce, / te voglio. Per te sono venuto, / anelo ancor più tormento: te voglio. / Che bianco, ardente, in te il fuoco si alzi. / Fanno male i baci, i desideri. / Tu sei il mio tormento, la mia geenna, / ti desidero. Ancora. Ti desidero. / Straziato di desiderio, insanguinato dai baci, / sono ferita rovente, ho fame di nuovi tormenti, / tormenta anche tu me, l’affamato. / E sono ferita. Baciami. Bruciami. Baciami».

Irene Battaglini afferma:

«Novalis scrisse che «la poesia guarisce le ferite inferte dalla ragione». E la ragione di Endre Ady è tagliente di consapevolezza, «Straziato di desiderio, insanguinato dai baci, / sono ferita rovente». Un verso che celebra il dominio della ragione, della coscienza, della verità che squarcia veli di Maya. Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale, un potere che Endre Ady utilizza per trasformare la sua ideazione in poesia. Diventa selce, fuoco, sentimento, desiderio di morte. In questo anelito di tremore – solo apparentemente privo di timore – verso le cose del mondo, sembra attendere un ultimo stupore, un’ ultima speranza. A poco vale tutta la coscienza delle cose, a poco arrivano tutti i pensieri, senza quel Tu a cui il poeta manda la sua ultima rosa legata di rinuncia. È una poesia che rinuncia alla negazione, alla seduzione. È una poesia che rende ragione dell’immanenza, che vi si intrude come si apre una porta segreta e primaria, che vuol “vedere” a tutti i costi, e ne sostiene il costo emotivo. Fa pensare a quegli uomini, a quelle donne, disposti al dolore più grande per conservare la verità dei propri ricordi».[5]

È l’esito di una dolenza di grembo, di una funestata genesi che dà rilievo alla coltre smodata del suo essere, all’inappagamento, al rado passaggio delle cose, alla lontananza che è fuga, distesa di sogno, lingua che percorre rivincite, si imbeve di congedi, affermando, infine, la spuria lacerazione di ogni germinazione. Come bacio baciato a metà su labbra di sangue:

«Un bacio baciato a metà / come fuoco ci divampa innanzi. / Fredda è la sera. A tratti corriamo, / corriamo piangendo, / e non arriviamo. / A tratti sostiamo. In un abbraccio cadiamo. / Bruciamo. Tremiamo di freddo. / Mi scosti da te. Le mie labbra di sangue. / Di sangue le tue labbra. / Nemmeno oggi ci uniremo. / Di un bacio assoluto, potremmo, infine, / in pace morire. / Ma serve quel bacio, ci chiama quel fuoco, / e tristemente diciamo: / domani. E ancora domani».

Nato a Érmindszent nel 1877 (oggi Căuaș in Romania), appartenente a una famiglia della piccola nobiltà decaduta e poi povera, di educazione calvinista, frequenta le scuole medie di Nagykároly e Zilah, e i corsi della facoltà di giurisprudenza alle università di Budapest e Debreczen.

L’attività giornalistica (nel giornale «Nyugat») e i continui spostamenti a Parigi («Scrosci pure la tempesta, e sibili il fogliame, / straripi il Tibisco sulla pianura magiara. / Il bosco dei boschi mi ricopre, / e anche da morto mi nasconde / la mia grande Parigi, la mia grande foresta fedele»), dove conosce Diosyné Brüll Adél, già comparsa a Nagyvárd, moglie di un ricco uomo d’affari, ribattezzata Leda, mitologia interiore e tormento, altezza d’amore e armonia di spasimo, gettano il seme di una profonda divisione della sua anima, vissuta nel perenne agone di un confronto epocale, che fu:

«da un lato sbarazzarsi del militarismo austro-tedesco-magiaro e dell’arretratezza ideale-culturale-sociale di quella parte della società ungherese che pendeva piuttosto verso la Russia zarista e gli arretrati Balcani, complessivamente additati e bollati come “asiatici” nel consueto, quanto colorito modo di esprimersi di Ady, e dall’altro lato guardare a Occidente.[…] L’Occidente del progresso e dello sviluppo socioeconomico-culturale, delle idee moderne e avanzate, l’Occidente del Nuovo: la nuova letteratura, la nuova arte, le nuove idee, dal movimento di liberazione dalla società classista a quello di emancipazione della donna, e via dicendo, insomma l’Occidente della grande cultura, sinteticamente ed emblematicamente individuato nella Parigi e nella Francia del primo Novecento».[6]

L’amore di Ady è fame, consumazione in un abbraccio, scontro, ardore febbrile, una cenere che ha i prodromi della malattia, la sifilide, contratta durante la relazione con l’attrice Marcella Kun, che lo tiene in ostaggio, e poi la frequentazione di locali malfamati, l’alcool e la sperdutezza.

La lettura dei grandi poeti simbolisti, nel loro territorio assoluto ed estremo, sono percepiti in tutta la loro peculiarità e voluttà vicine: «L’estate ha nuovi rapaci, / sbattono giovani ali di sparvieri, / infuriano scontri di baci. / Via dall’estate, voliamo, inseguiti, / fermandoci in tempi di autunno, / le piume arruffate, innamorati. / Ecco le nostre ultime nozze: / ci squarciamo le carni a vicenda / e sul fogliame d’autunno crolliamo».

Il turbamento ebbro segue il vortice della passione, dell’inappartenenza, della tenerezza che si congeda, fino alla lacerata linea di rabbia dell’essere, alla disperanza di sangue e oro: «Imploro il destino perché la tua sorte / mai più si mescoli alla mia sorte stellare. / Non mi importa dove vai a finire, nell’immondizia o tra i gorghi del mare. / Io ti facevo esistere, io ti avevo scoperta. / Provata del mio sguardo, tu più non esisti, tu non sei niente».

Nella poesia di Ady avviene un nitore rapace, una versificazione che è scontro e inseguimento, al tempo stesso, di uno squarcio aperto alla profondità sorgiva della parola che diviene slancio leso, che esce dalla retorica fino al crollo, alla deviazione, alla bestemmia (come il poeta di Hortobágy che «Mille volte pensò cose sublimi. / Pensò alle donne, al vino, alla morte. / Ovunque altrove nel mondo / sarebbe stato un sacro cantore. / Ma se osservava i compagni – sporchi, / ebeti, in brache – se osservava il suo gregge, / seppelliva veloce il suo canto: / erompeva in bestemmie. O fischiava») e al silenzio stremato dell’anima mesta, legata alla cavezza. Immagine dell’io e del popolo:

«Inizia il viaggio. Andiamo all’autunno: / stridenti, piangendo, ci rincorriamo, / due sparvieri dalle ali stremate / L’estate ha nuovi rapaci, / sbattono giovani ali di sparvieri, / infuriano scontri di baci. / Via dall’estate voliamo, inseguiti, / fermandoci in tempi di autunno, / le piume arruffate, innamorati. / Ecco le nostre ultime nozze: / ci squarciamo le carni a vicenda / e sul fogliame d’autunno crolliamo» (Nozze di sparvieri su foglie secche).

Poi l’immensa pianura, arrestata e inavvertibile e la maggese, messa a riposo di un terreno per restituire fertilità, dare fecondità, promettere fioritura. Nel sonno di terra, il suo paesaggio dell’anima, sopita dalla terra, è trafitto dal vento che sghignazza e piaga. È il territorio del suo essere, desolato e disteso verso una gioia lievissima, un profumo di lontananza che è fuga e rifugio impenetrabile, come la lingua, la voce, la malinconia franta di paludi e volute di nebbia, brillio insondabile tra luce di scintille e desiderio in attesa. Così come salita lungo i vulcani in trionfo, la sete di argini, la scomparsa nel mare rosso-oro:

«Percorro una distesa selvaggia: / sul’antica terra fiorente, / ora gramigna e sterpaglia. / Conosco questo campo selvatico: / è il maggese ungherese. / Mi chino sul sacro terriccio; / sulla terra intatta qualcosa di guasto. / Ehi tu, erbaccia del cielo protesa, / dov’è finito il fiore che c’era? / Da viticci selvaggi accerchiato, / spio l’anima sopita della terra. / Profumo di fiori da tempo appassiti / mi seduce, stordisce. / Silenzio. Gramigna, sterpaglia e malerba / mi copre, stordisce, mi abbatte. / Un vento soffia alto, sghignazza / sul grande maggese ungherese» (Sul maggese ungherese).

La ripresa e la riscrittura di temi biblici si alterna, poi, ad annunciazioni incandescenti, laddove le storie dei patriarchi e dei profeti, la disperazione e la speranza, il lessico della colpa, l’attesa compiono un parabola di scontro – e un signum contradictionis – dapprima con se stesso e poi con Dio. La sonora potenza verbale dà vita a un’epica raggrumata e sconfitta che ricorda nell’oblio senza luce, che sfiora il bagliore senza raggiungerlo, che rivisita le dimore della storia con orgoglio e con lacerazione oppressa.

La vastità della debolezza imprime il desiderio di Dio, come spasmo e strazio. Ady ne avverte il suo segno, la cifra della sua presenza ma, nello stesso tempo, anche la sua distanza, il suo mistero, l’insondabilità del suo enigma. Nella contraddizione si compie tutto l’itinerario contrastato della propria eveniente creaturalità, che si arrende, proclama la sua opzione negativa e cerca l’ultimità costretta di un “sì” senza radici, nell’incompiuto déracinement dell’anima :

«Sì, Dio, in qualche forma, esiste, / in fondo a ogni nostro pensiero. / Sempre per lui noi suoniamo campane / e, oh, ahi, alla sua sinistra io siedo. / Il Dio di misericordia, / a lungo invisibile e muto, / solo a volte ci risuona nel cuore / con pesanti rintocchi di campane. / Quel Dio non ci viene incontro / per aiutarci nel nostro tormento : / Dio è l’Io e il martirio, / il proposito e il bacio, tutto è Dio. / Dio è un grande immenso signore, / fatto di tenebre e di splendori, / inquilino tiranno e tremendo : / i millenni lo hanno deposto nelle nostre anime. / Dio è la semplicità, / prova fastidio per i troppo buoni, / prova fastidio per gli inquiti / e i variopinti gran sognatori. / Dio me non mi ama / per averlo lungamente cercato, / ancora non la’vevo trovato, ma già / l’avevo canzonato e sfidato. / Dio, in qualche forma esiste, / in fondo a ogni nostro pensiero. / Sempre per lui noi suoniamo campane / e, oh, ahi, alla sua sinistra io siedo».

Massimo Cacciari scrive:

«Anche Ady […] è il mistico di questo tempo della miseria, il mistico «che non può trovare delle forme da nessuna parte», che è costretto a partire da stesso, a creare da sè. Parte per scrivere la sua Bibbia – e non può che ritrovare la propria poesia. E l’ateo che crede, ma il cui credere non può superare l’ateismo. La sua fede gli conferma l’ateismo, così come è nel proprio ateismo che egli può credere. Il dissidio dostoevskijano tra profezia e romanzo assume qui l’aspetto del contrasto, altrettanto insuperabile tra salmo e lirica».[7]

La salmodia di Ady percepisce, così, l’empito voluttuoso di una domanda claudicata, un sussulto impetuoso[8] che impone sillabe rastremate («Gli occhi miei altezzosi tutto d’un tratto / rimasero ciechi. Morì la mia giovinezza. / Ma lui, imponente, splendente, / io lo vedrò per l’eternità»), invocazioni e suppliche violente, tremore di domanda e «”lamentazioni” che urtano contro il fallimento dell’idea di Dio, ma anche contro l’imprescindibilità di quell’idea[9]»:

«Siamo solo in tre sulla grande pianura: / Dio, io e una maledizione contadina. / So bene che tutti moriremo, / ma io lancio forte un grido spietato. / Io da solo non temo, non tremo, / tanto ormai il mio guscio è di Satana. / Eppure conservo la pianura e il suo Dio / assieme a quella maledizione contadina. / Qui ormai è inutile tutto, in autunno, / in inverno, e primavera, e nella lenta estate. / Sulla grande pianura non ci sarà prodigio, / se noi, noi tre, non proviamo a resistere».

Gabriella Caramore commenta:

«Lo scenario è quello, desolato, della grande pianura ungherese. È in quel deserto che si consuma il dramma di tre diverse solitudini: quella di un Dio inconsolabile e lontano, quella del poeta, l’uomo che «non deve tacere», e quella di un paese che non riesce a trovare riscatto. Intorno a questa sorta di tragica trinità – che vede implicati un Dio distante e impotente a salvare, un uomo predestinato e maledetto, e un popolo tra i dannati della terra – lavora il pensiero poetico di Endre Ady, che nella sua vita ribelle, nella sua lingua audace e spezzata, ha saputo dare nuova voce, agli albori del xx secolo, alla tradizione poetica del suo paese, ma anche a un “pensiero poetante” che riflette insieme sul destino dei popoli, sulla condizione degli oppressi, su un Dio che non salva, e sull’impossibile felicità degli esseri umani».[10]

Ecco, dunque, i suoi schianti e i suoi abbracci corti come tagli:

«Si dissolve il lutto scuro dell’anima mia: / con grande luce accecante Dio si palesa / per soggiogare ogni mio avversario. / Nasconde il volto ancora, lo cela / ma il suo occhio di sole con pena grande / su me lentamente indugia sovente. […] Lui nel mio cuore l’ho già rintracciato, / l’ho rintracciato e l’ho abbracciato, / e nella morte tutt’uno saremo».

Oppure, come accade nella poesia Sotto il monte di Sion, dove Dio, con la barba arruffata e bianca, lacero, tremulo, corre ansimando senza meta. Suona campane, con il suo mantello rattoppato, picchiando la bruma. Il poeta inizia a fiutarne l’odore, mette la sua anima in ricerca e si pone in attesa di un incontro, quando ardevano i sassi con fiamme robuste. Nonostante la carezza dell’essere, vi è tra Lui e il poeta un’obliata smemoratezza. Resta quel fiuto che cerca di brandire la sua carezza nascosta, la sua fierezza titanica, la promessa che combatte contro lo sprofondamento, l’abisso, il sogno pesante di una nube lontana e, in definitiva, il nulla: «Credo, incredulo, in Dio. / […] / In questo vasto mondo tutto è mistero, / perfino Dio, se esiste. / E io, povero perseguitato, / sono il mistero di tutti i misteri».

In questa zoppia inesausta c’è tutta la vertigine chiaroscurale di Ady. Una postura sghemba, un tentativo di resurrezione non risolto, uno sfondo furioso su una domanda livida, eppure ricolma: «Tra grandi, rossi ascessi di nebbia / mi guardava sornione un finto sole, / quando dissi: / alzati e sii libero. / Forse a Budapest, forse altrove. / A malapena ho qualche ricordo / del mondo di prima, / ma tristemente sono risorto. […] E ancora dissi: io non so / chi sono. Sono vissuto? Sono vivo? / Sono il nome di qualcuno / o erede del triste / nome di un morto?».

Una dimora smarrita e fonda in un tempo di miseria incancellabile: «Qui nella valle dei Tatra c’è un lago / scintillante, pulito, selvaggio. / Vi cerco dentro i secoli, / la mia vita, / i canti che schiudono le tombe. / Cerco vicinanza a me stesso, / al Tempo che vola via, / allo specchio, alla magia, / per riconoscer mici dentro. / E si ferma la Vita / e so che ormai non c’è nulla, / nessuno vive più / e niente è vero».

E nell’atto della poesia si celebra tutto l’infinito gesto di ciò che parla e richiude il silenzio e la lingua muta: «Guai a me se tacessi, / o guardassi lassù, verso la luna. / Un gemito, uno schianto. / Un solo passo, e il principe buono, Silenzio, / già mi avrebbe schiacciato».

La parentela con la morte tenta di far rilucere la strenua gemmazione di ciò che è escluso, di ciò che si ferma o sfiorisce, attraverso il lampo di un amore sfuggente o di un’alba fredda che fonde Amore e Morte:

«Io sono parente della morte / amo l’amore che fugge, amo baciare chi / se ne va. / Amo le rose malate / donne sfiorenti bramose, / atmosfere d’autunno / amare e radiose. / Amo l’avviso spettrale / dell’ora crepuscolare, / della Morte sacra e grandiosa / la sosia giocosa / Amo chi parte, / chi si sveglia e chi piange, / e in un’alba fredda, piovosa, i prati / coperti di brina. / Amo la stanca rinuncia, / il pianto asciutto e la pace, / rifugio di saggi, poeti / e malati. / Amo i delusi, i mutilati, / e quelli che si sono fermati / amo chi non crede e chi si è turbato: / questo è il mondo che amo […]»

Il cuore che precipita nella rovina scompone l’accento di una malinconia accagliata, ma avverte anche la piena consapevolezza di un canto in piena che deve far rilucere, dar coraggio oltre il silenzio, cantare ciò che appartiene alle fessure del popolo, far vibrare la strada come compito e dare il singhiozzo di una terra nuova che giace nel profondo ma diviene sporgente nella modernità.

La parola, quindi, si forma in una primigenia animale, in uno sperpero bohème di disperato e vitale entusiasmo, che è cantico, figlio del tempo e inscritto nella tragedia di un paese, come accade nel Canto di un giacobino magiaro:

«Dai polpastrelli il sangue ci sgorga / ogni volta che ti tastiamo. / Tu, povera, sonnolenta Ungheria, / chissà se esisti, e se noi esistiamo? / Forse possiamo aspettarci di meglio? / Le anime e gli occhi ci fanno male; / chissà se un giorno mai si potrà svegliare / di popoli servi questa Babele? / Perché mille torpide voglie, alla fine, / non sanno formare un forte volere? / Perché la pena magiara, slava, valacca / non rimarrà nient’altro che pena».

La sintassi della vita del popolo ungherese vive del pronunciamento di una estranea destinazione ai contesti occidentali e laddove si rende più chiarificato il conflitto, la contesa e l’assuefazione alle grandi potenze, più forte è il sogno, la stimmung, il crocevia e la cavità della predestinazione: «Come pietra lanciata nell’aria che sempre per terra ricade, / mio piccolo paese, sempre di nuovo, il tuo figlio a casa ritorna».

Nel crocevia di bellezza e libertà vive la contaminazione della liberazione salata, la lacrima appartata senza redenzione, la furia della pena inguaribile e la propria triste «magiarità»: «Qui è più salato il pianto, / e insoliti anche i dolori. / Sono Messia mille volte / i Messia magiari. / Mille volte potranno morire, / e non recherà salvezza la croce, / perché mai nulla poterono fare, / oh, mai nulla poterono fare», o ancora: «Né lieto avo né discendente, / né parente né conoscente, / non sono di nessuno, non sono di nessuno».

A proposito della «magiarità», Gabriella Caramore sostiene che Ady se ne serve:

«con dovizia, per dire da un lato la miseria soprattutto morale, in specie delle classi medie, la meschinità piccolo-borgehese o dei piccoli nobili decaduti che non si stancano di adulare i potenti; dall’altro la sottomissione di un popolo senza speranza, che talvolta ha sussulti di lotta, ma non arriva a cambiare fino in fondo il corso del suo destino».[11]

Nella sua ultima raccolta, prima della morte, Alla testa dei morti (1918), si riscontrano gli allarmi e le urgenze che hanno disegnato la trama della sua esistenza: l’orrore, la perdita, la fine, la veemenza e l’accento, il mistero magmatico di Dio:

«Fu una strana, / strana notte d’estate. / I tronfi signori dappoco si fecero strada / l’uomo giusto sparì dalla contrada, / rubò persino il ladro più schizzinoso. / Fu una strana, strana notte d’estate. / Sapevamo che l’uomo è caduco / e che è in debito grande d’amore, / malgrado ciò fu strana la svolta / del mondo vissuto e di quello d’una volta».

Vede il disastro, il naufragio e l’abbandono, il male e la deriva, la parola cattiva e la permanenza della luna che perdona, che custodisce l’umano nell’inumano, il seme sotto la neve, lo sfoglio dell’Apocalisse, fino all’ultimato e indomito respiro nella capanna di terra: «Com’è fredda questa capanna di terra. / Com’è eroico l’essere umano, / se con ideali e sogni bruciati / oggi, ancora, non vuole morire […] / La vita oggi è un debito orrendo, / chi oggi pianifica non ha nessun piano, / la paglia delle fedi è cenere umida, / ma vivere comunque bisogna».

[1] Galaverni R., L’odiosamata patria del magiaro in fiamme, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 aprile 2018.

[2] Ady E., Il perdono della luna. Poesie 1906-1919, a cura di Gabriella Caramore, traduzione di Vera Gheno e Gabriella Caramore, Marsilio, Venezia 2018.

[3] Vedi: Zaccuri A., Ady in duello con la Bibbia, in “Avvenire”, 23 marzo 2018.

[4] Galaverni R., cit.

[5] Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

[6] Ruspanti R., «La confessione del Danubio». Endre Ady e l’intellettualità magiara della monarchia austro-ungarica tra Occidente e Mitteleuropa », in Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué, Roberta De Giorgi, Andrea Del Ben e Lisa Gasparotto (a cura di), Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, Udine, Forum, 2011, pp.147-148.

[7] Cacciari M., Metafisica della gioventù, in Lukács G., Diario, Adelphi, Milano 1983, p. 130.

[8] Vedi: Lukács G., Cultura estetica, a cura di Marinella D’Alessandro, Newton & Compton, Roma 1977.

[9] Caramore G., L’uomo che non vuole morire, in Ady E., cit., p.31.

[10] Caramore G., cit., p.11.

[11] Caramore G., L’uomo che non vuole morire, in Ady E., cit., p.18.

Ady E., Il perdono della luna. Poesie 1906-1919, a cura di Gabriella Caramore, traduzione di Vera Gheno e Gabriella Caramore, Marsilio, Venezia 2018, pp. 280, Euro 18.

Ady E., Il perdono della luna. Poesie 1906-1919, a cura di Gabriella Caramore, traduzione di Vera Gheno e Gabriella Caramore, Marsilio, Venezia 2018.

Battaglini I., Lezioni alla Scuola di Psicoterapia Erich Fromm di Prato, a.a. 2017-2018.

Cacciari M., Metafisica della gioventù, in Lukács G., Diario, Adelphi, Milano 1983, p. 130.

Galaverni R., L’odiosamata patria del magiaro in fiamme, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 aprile 2018.

Lukács G., Cultura estetica, a cura di Marinella D’Alessandro, Newton & Compton, Roma 1977.

Ruspanti R., «La confessione del Danubio». Endre Ady e l’intellettualità magiara della monarchia austro-ungarica tra Occidente e Mitteleuropa, in Andrea Csillaghy, Antonella Riem Natale, Milena Romero Allué, Roberta De Giorgi, Andrea Del Ben e Lisa Gasparotto (a cura di), Un tremore di foglie. Scritti e studi in ricordo di Anna Panicali, Udine, Forum, 2011, pp. 147-154.

Stancanelli E., Endre Ady, il poeta dei desideri che amava i tramonti a Via Veneto, in “La Repubblica”, 5 settembre 2010.

Zaccuri A., Ady in duello con la Bibbia, in “Avvenire”, 23 marzo 2018.

Le rifrazioni di Elio Pecora

di Andrea Galgano 22 marzo 2018

leggi in pdf LE RIFRAZIONI DI ELIO PECORA

Il nuovo lavoro di Elio Pecora (1936), Rifrazioni[1], appena edito da Mondadori, restituisce  un assorbimento originario e uno stupore frammentato di splendore che afferma la cristallinità umbratile e lucida di un movimento di memoria, adesione al presente, scena cromatica.

Attraverso i lembi dell’essere, è nell’ombra[2] che si situa la parola incrunata, l’attesa azzardata, l’esplosione di colori nudi, la voce che ansima, come l’istante racchiuso nelle palpebre chiuse, nella lampada accesa fino all’alba, nella corrispondenza dei nomi.

L’esergo che apre il testo è del grande poeta esule Josif Brodskij. Un debito, un’apertura, una fessura riflessa: «Che funzione abbia la poesia davvero non lo so. È semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono».

Questo passaggio è lo sbocco che intitola un gesto di origine, nato nel reale e nel reale custodito. Attraverso la densità profonda, Pecora attinge il repertorio luminoso dell’attesa, del silenzio incontaminato e dell’ultimità munifica dell’essere: «E tutto sarebbe perduto se dal cuore chiuso / non affiorasse inattesa una nube violetta, / l’odore di un cibo, una voce al telefono, / il libro lasciato sul tavolo ancora da leggere. / Così il mondo intero si popola di storie concluse, / di passaggi, di soste, e un dio munifico / disegna nel cielo vasto e chiaro un arcobaleno».

Vediamo la pienezza dei brandelli, occhi, passi, vigilanze, abbandoni invigilati, ombre scalzate dalla memoria, vicinanze interrotte: queste sono le rifrazioni, le incidenze, le deviazioni luminose di una grazia screpolata. L’ombra tesse la sua diacronia, il suo silenzio, l’attimo aggrappato alla necessaria incorporazione della bellezza:

«Dice che se un quarto è soltanto luce / e la verità iniziale, se ce n’è una, va cercata / nel buio: che poi è il niente non più niente… / Dice che se così poco ha finora compreso / e in quel poco nemmeno può più giovarsi del nulla… / Dice, e insiste a dire, che sente di galleggiare / in uno spazio intoccato e pure continua / ad avere fame e sete e non desiste la paura / del soffrire. E ancora s’innamora di un fiore, / del profilo minuto dell’adolescente / che gli siede a fianco nell’autobus affollato, / e ancora guarda estatico la luna sui giardini, / lo inebria la pioggia scrosciante sui tigli. / Dice che il vuoto, il niente, il buio / – quelli sui quali vanno indagando nello sprofondo / e da minaccia sono divenuti un’immensa promessa – / sa di portarseli dentro, cosmi e particole, / e di esserne traversato e abitato / mentre li abita e li traversa».

La consegna relazionale delle immagini addensa una complementarità contrastante. L’intima relazione tra luce ed ombra costituisce il senso, il conflitto, il contrasto intenso, il lato origliato di splendore, come il solco di una terra scura che ritorna al lampo della sua origine, che annaspa nel fango occhieggiando le stelle: «Dove sono finiti i giorni, le ore, / quando, chiuso in un solco di terra scura, / attese parole, sillabe, giri di frase / che finalmente significassero / la consegna inspiegabilmente promessa? / È smisurato il silenzio che succede al rumore, / è il niente, il vuoto privo di voci di echi, / e, se prima è la paura e l’orrore, dopo / è l’incognita di una nuova salute».

L’osservazione di Pecora, dunque, prepara al viaggio nell’ombra, al fondo del rumore, al colloquio dell’arsi della parola che fa vedere scorci minimi e zone finissime che scandagliano, proteggono, assillano l’anima dolorosa e splendente delle cose, la manifestazione del tempo, la soglia tattile degli antri come degli accordi emersi, come da un’eternità immisurabile o un’attitudine di meraviglia:

«Sa che se molto accade nella sua mente / – un gioco misto a paura, idee a cento watt / e infervorati scandagli – molto, ma molto di più / accade di fuori, in quel che chiama mondo / ed è un immenso rimescolio di crescite, / sparizioni, feste, ruberie, delitti, progetti, prospetti, / rovine e tanto altro. E sopra e intorno / e sotto cieli ruotanti, vuoti da perlustrare, / spaventose minacce, strepitose promesse. / E lui qui, vestito del suo poco, rinchiuso / nei suoi sonni che sognano. È questo / il tempo in cui passa, l’ora in cui sosta […]».

Adriano Napoli afferma:

«Poesia è osservare il tempo nell’assenza di ciò che continuiamo a vedere: nella memoria, nel nome che ci chiama da una distanza, nelle ore perdute, colme di redenzione. Guardare il tempo è in fondo una metamorfosi. Per questo l’immagine del giardino che ci accoglie fin dalla soglia di questo libro screziato di colori e umori, persuadendoci con sensazioni tattili (quasi una fisica della percezione, antidoto alle astrazioni incolori dell’impoetico modernariato attuale), ci appare come l’emblema materico di una realtà che si avvera tutt’intorno nel suo incessante fluire, nell’attimo del suo trascorrere che è al contempo forma, manifestazione – l’unica possibile – dell’Eterno. Il giardino è l’angolo in sé conchiuso, non dissimile dalla coscienza umana, da cui guardiamo immobili (con Pitagora e con Proust; con Ovidio e Bergson) la forma esatta ed effimera delle cose trascorrere, rifrangendosi, in un altrove. E la poesia stessa, altro non è che questo incanto, tenero e malinconico, di sentire il tempo, da un angolo silente e ombroso («quel che chiamiamo Sublime / sta nell’ombra»), da un’ansa della coscienza esposta ad esso, fino a percepirne (come ci ricorda in un bellissimo saggio Pietro Citati) la liquidità».[3]

Attraverso la proiezione, la ricognizione, la scissione e l’identificazione, il gesto del magma poetico frequenta ogni volto o parola che si immerga nel reale e ne viene toccato: dal dolore, dalla morte, dall’assenza, dalla allegria del respiro, dal buio dello specchio e dalle chiamate delle vicinanze.

La poesia ricerca i frammenti per rinnovarli e avvertire il segno del mondo, la sua crittografia e la sua contrazione. Ma il mondo del poeta non è un cosmo di frantumi, poichè lo sguardo pienamente umano vigila la densità dell’istante, per vivere la compiutezza intera di ogni tensione, come pagina leggera in un pugno o specchio accordato di lunghezze epifaniche.

L’oralità trepida sfiora l’inattendibilità di ogni richiamo e abisso, come urgenza, innanzitutto, e poi come confronto instancabile con l’esistenza e la poliedrica nudità di ogni forma («Al crepuscolo la luce è uniforme, / ogni cosa si mostra nella sua nudità. / Ma che resta all’uomo del suo crepuscolo: / che del suo entrare nella vita, / che del suo uscire nella morte?»): «L’ora è ferma e lucente, un pigolio / si spande fra i castagni e gli ulivi; / al desiderio basta il desiderio / di una felicità solo sfiorata».

La sparizione delle cose, innervate nel loro limite buio e luminoso, confrontate nel passato perduto e nelle soglie dei ritorni, non è, quindi, un enigma rovesciato, o una annichilente rapsodia inconsistente, è pausa del tempo, che, nella poesia, trova il suo ritmo di lingua e di relazione e di appartenenza. In definitiva, la sua luce ultima e verbale riconosce e mostra tutto il suo vigore stremato che non si nasconde, bensì si offre, porge il suo ordinario mistero del vivente che risillaba ogni speranza, nonostante l’ora precipiti, mentre corre un altro tempo in questo tempo («è l’ansa dove il sogno della mente / non conosce durata, / la parola che tenta se stessa / esatta, svelata»):

«V’è un’ora della notte quando il sonno, che fino allora / ha retto il suo oscuro governo, d’improvviso si squarcia / nella veglia. Subito, uno dietro l’altro, come torme / di cani affamati si presentano i pensieri più cupi, / le minacce più funeste. E ogni ardire si sfalda. / Del passato non resta nemmeno una stilla di bene, / non v’è rimedio al peggio che spinge da ogni parte: / cova in ogni parola, si nasconde dietro ogni faccia. E solo / se riesci a trovare la forza di accendere la lampada, / di tornare alla pagina del libro lasciato prima / che il sonno t’avvolgesse, solo allora arriverai / a risillabare la speranza. (Trapela dalle imposte / socchiuse la prima luce dell’alba, livida, incerta.)».

È il tempo della scrittura arresa, il sogno vivo e riflesso, come se tutto possa essere placato, i segni smisurati, l’attesa amante che ritorna, il pianto che punge gli occhi, le torme e il grido che scorge l’abisso chiaroscurale e i cumuli delle ombre e «sa che da questi verrà un frutto, un fiore, / una foglia minuscola. Sa pure / che la parola non è più di un cenno, un avvio / per un altrove nemmeno ancora intravisto».

C’è nella poesia di Pecora questa tensione sorgiva per la parola emersa, non sottratta e rifratta, appunto, nelle categorie dell’anima, che rimandano a una appartenenza unica e, a volte, infeltrita dal rumore taciturno ed esploso che strappa, incaglia, arreca discordanza.

Come se essa dovesse risalire dalla nostalgia, dalla memoria confusa, dal bagliore dentro l’addio, e dal legame di conquista e perdita, si fa giardino concluso che non nutre disfacimenti e oblio nella sua luce striata di ombre.

Come una testarda voglia di restare attraversa l’amore, il vento tenue della gioia e le incrinature dei sogni:

«È solo un recinto il giardino / di verdi che svariano, / e i bianchi e gli azzurri degli ibischi, / il rosso tenero dei lillà, / le dalie gialle e amaranto… / E un tempo senza ore, / una luce striata di ombre. / Solo un recinto il giardino / dove il cuore e la mente si alleano / in una chiusa dimenticanza. / Qui è intero lo stare, / un punto di tutto, / la grana taciuta di una voce / che non si conosce».

Nella dimensione onirica, poi, tutta la lava delle impressioni e delle percezioni, così come il fiato delle parole slegate e delle veglie, tornano in un cenno di spazi, in una figuratività sconosciuta o forse confusa, ma sempre generativa nei suoi luoghi anteriori (come il testo dedicato a Roberto Deidier) e nei crepuscoli venati.

La scena del testo riporta ancora l’affresco dell’ombra. Ne Lo spessore dell’ombra, sezione decisiva e importante del libro, dove gli addii agli amici divengono la dimora della parte oscura. Amano frequentare l’Ombra ma allo stesso tempo riemergono in un incontro vivo. Essi «svariano nel giardino d’estate», si mostrano nella sospensione e nella luce che declina.

Tornano vivi in un assedio, avanzano come sommessi nel loro passo e nel loro respiro, come sponde di sogno o scaglie lacerate, «un’ansa, uno specchio nel tempo immisurabile», perché l’aria è piena di anime in una città senza nome: il padre Arsenio, andato per mare, la madre Elena («le labbra carminio, il bracciale di perle e smalto, / il sorriso trattenuto di chi ha vinto») e la sorella di lei Maddalena, il fratello Osvaldo, raccolto nella stupefazione o le care figure, attinte nella dimensione familiare e della sua terra, gli amici poeti Luciano Erba, che tra le ombre parla incagliando e ride del suo nome lucente, e Dario Bellezza («Non fu facile soprattutto / per quel suo dio truce e vendicativo / che minacciava gli inferni al fanciullo / incantato dalle parole e invaghito / da un bene colmo, eccessivo»).

E poi ancora Elsa Morante, «la manichea dagli occhi di agata / l’aspra dispensatrice di sentenze, / l’amica tenera che poteva mutarsi / nella più spietata nemica, / e nemmeno la padrona irridente / la serva che storpiava i cognomi / del manipolo curvo dei fedeli», Aldo Palazzeschi in una danza chiara di parole, Amelia Rosselli nella sua musica incomparabile di incagli, cieli segreti e farfuglii, Elsa de Giorgi, Alberto Moravia nella sua energia raggrumata, Juan Rodolfo Wilcock, Francesca Sanvitale e infine il pianto interrotto di Sandro Penna che splende nell’allegria dell’essere.

Nell’interno della sua estensione poetica, il recinto diviene sia la forma di un riconoscimento dettagliato e sia una appropriazione di alito disparso. L’appropriazione è una custodia e una sottrazione, uno svolgimento di ferite che cerca un nuovo gemito di sicurezza e un atto smisurato verso la totalità, nella strenua ricerca di un approdo oltre il vuoto, la domanda dischiusa, il labirinto dei suoi mostri e il suo lutto:

«Qui conoscemmo l’amore e le sue disfatte, / amico che torni a chiamarmi, è quieta la voce, / da chi sa quali distanze, e ancora domanda / se il bene fu rimanere nel cerchio che stringe, / se il canto fu solo un motivo fiacco, stonato. / Pure la sola durata è in questa luce scarna / che al dolore resiste, anche dove più fortemente / colpisce e infetta (meno grave la resa), / invece prosegui incontro a un altro mattino, / ancora aprile, ancora un febbraio di vento: / una fatica e un’ebbrezza fin dentro la norma / di questo restare, fin dentro il lutto e l’assenza. / Prima il teatro sublime del tramonto viola / – geometrie di continuo composte e scancellate / ora con strida infernali l’inarrestabile orda / di storni va occupando ogni ramo, ogni foglia: / i platani hanno radici che spaccano l’asfalto».

Ecco la genesi della sua architettura, della sua resistenza e della sua preghiera. L’osservazione del mondo è la rifrazione. Aspettare che le cose si rivelano e si disseminino, quando la luna falcata sui terrazzi porterà l’esagerata destinazione del desiderio e del supremo registro dell’anima. Tutta la vastità della vita, nella meta dei dettagli e nei processi di conoscenza, si situa in questa urgenza che lega passato e presente:

«C’è un momento la notte, / subito avanti l’alba, / quando, spente le luci, / ogni forma dispare: / è la città che sogna / il suo sogno iniziale, / l’aratro traccia il solco / della rifondazione: / gli storni fra le nubi / disegnano promesse, / boschi dovunque e selve, / tutto è da cominciare. / È un momento. L’aurora / dei centomila watt / risolleva il sipario / sull’immenso teatro. / Lo spettacolo ha inizio, / va crescendo il rumore, / una folla in cammino / si trova, si disperde».

La tessitura di questa poesia si compone di tracce vissute e di materia viva che diviene, a sua volta, densità lessicale, fisicità di nomi, metafora chiara. Non c’è esibizione di nomi, bensì piuttosto un canto assimilato alla vita e alla morte, come un territorio che ritrae la testimonianza di un canto accostato al mondo, in attesa di una parola che strappi un sì, che non si mutili, e che si pronunci in modo chiaro e definitivo.

[1] Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

[2] Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

[3] Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018, pp. 147, Euro 18.

Pecora E., Rifrazioni, Mondadori, Milano 2018.

Mauri P., Il destino di ogni poeta è l’elogio dell’ombra, in “La Repubblica”, 21 febbraio 2018.

Napoli A., «Rifrazioni» di Elio Pecora, (https://www.sololibri.net/Rifrazioni-Elio-Pecora.html), 20 marzo 2018.

Le incisioni esuli di Josif Brodskij

di Andrea Galgano 23 gennaio 2018

leggi in pdf LE INCISIONI ESULI DI JOSIF BRODSKIJ

L’ultimo libro di poesie di Josif Brodskij (1940-1996), premio Nobel nel 1987, So forth, pubblicato nello stesso anno della morte negli Stati Uniti, ora in traduzione italiana (E così via[1]), a cura di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, ed edito da Adelphi, comprende testi scritti nel decennio precedente, autotradotti in russo e testi in inglese.

In questa sorta di ibridismo di congedo, la fatalità della lingua si accompagna alla propria genesi di sguardo e tensione, dove «l’impasto dei suoni, la precisione e l’ambiguità dei termini, la possibilità di spingere la regola grammaticale fino al punto di rottura» sono costitutivi

«dell’espressione poetica e molto difficilmente sopravvivono nella loro interezza quando si verifica il passaggio da un idioma all’altro. Eppure, nonostante tutto, la poesia continua a essere tradotta. Anzi, ci sono casi in cui deve essere tradotta, per assicurare all’autore non soltanto la notorietà internazionale, ma addirittura la libertà, che è, per l’esattezza, la libertà di essere poeta».[2]

Gli arresti, l’internamento in un ospedale psichiatrico per due mesi, il processo per parassitismo sociale, con la conseguente condanna alla reclusione di cinque anni, l’esilio e la fine di ogni possibilità di riconoscimento in patria (fino al 1972 quando l’OVIR gli chiede di lasciare il paese), e il nomadismo segnano il tempo del suo destino, in cui il verso scagliato è un ritorno nel grembo della sua madrelingua, dove poter ritirare la propria anima nuda e scissa, che se da una parte, sente la provenienza e la proiezione delle linee di Anna Achmatova («la Musa in lutto»), Cvetaeva e Mandel’štam, come indizio e cifra di superstite sopravvivenza, dall’altra si accompagna a W. H. Auden, come respiro e vertigine di un risarcimento che si appropria della lingua nuova, come possibilità, innanzitutto, di tallonare un orizzonte nuovo.

Brodskij scrive moltissimo in inglese (tre saggi importanti, tra gli altri). È una acquisizione inevitabile che cerca agganci e radici, in modo assoluto e inevitabile. Come se la nuova lingua fosse la radice di una espressività figurativa rilucente che si incide in un codice vistoso e nomade, persistente nelle sue impronte inseguite e traslitterate, ininterrotto nel suo viaggio inciso.

Roberto Galaverni, infatti, afferma:

«In realtà, attraverso l’impiego della lingua del Nuovo Mondo, con tutto il sistema di riferimenti culturali, di coordinate storiche e geografiche, di abitudini di vita che questo comporta, Brodskij sembra mettere ancora più a fuoco l’orizzonte a cui aveva sempre guardato: lo sradicamento, l’esilio, lo spaesamento, come realtà prima e ultima dell’uomo, vale a dire, sempre con le sue parole, come «condizione metafisica»[3].

Le incisioni di Brodskij sono esuli. Percepiscono il gravido limite dell’essere isola dentro un’isola, sorvegliano la realtà, per decifrarne il messaggio irrecuperabile: «Scrivo questo / con l’indice / sulla sabbia bagnata e vitrea del tramonto, forse ispirato / dalle cime delle palme strombate contro il cielo platino come / caratteri cinesi. Benché non abbia mai studiato / quella lingua. Inoltre, la brezza / le scompiglia troppo in fretta perché si possa decifrarne / il messaggio».

È una lingua di ombra, un commiato, una traccia di scie che rimangono imbevute di fine e limite, oblio e stridore: «È sera, il sole cala; / i ragazzi urlano, stridono i gabbiani. / Che senso ha dimenticare, / se poi alla fine si muore?».

Esiste in questo libro una sorta di estrema conclusività e di postuma evocazione che reca interruzioni indistinte, grumi di ricordi, silenzi, ripetizioni naturali come nuvole «sparse come vesti di uno scapolo».

La visione di Brodskij è abitata da un coagulo di affetto adombrato come una voce sconosciuta che ritorna, si secreta, e rimanda alla memoria infinita che è l’immaginazione. Tale visitazione trascurata avverte il peso del vuoto, il censimento dell’anima che deve protendersi verso l’Infinito, per non trovare più coltri rauche, come la stella di Betlemme: «Di un Padre era lo sguardo».

La sua spietata precisione colpisce la sua superficie riflessa. La vita deve ricominciare, indipendente dalla propria traiettoria:

«Mai come in questi versi il poeta si era mai spinto verso una deflagrazione totale del significato poetico. Brodskij qui ha uno sguardo lucido sulla catastrofe. In ogni suo verso prende tra le mani l’insensatezza del mondo e ne attraversa, senza rinunciare a un immanente spietatezza, tutti i perimetri, le geometrie e le prospettive, suggerendo delle cose una lettura che ha il coraggio di guardare in faccia la tragedia dei giorni e della Storia».[4]

Cominciare, anche se è araldo di catastrofe, anche se ogni cosa è vulnerabile e dimentica, anche se la lingua divora le labbra nel crepuscolo nella sgargiante nudità dell’essere, e nelle spoliazioni:

«Le bianche pareti di una stanza si fanno ancora più bianche / sotto uno sguardo che severo ammonisce, / aduso più che alla vastità dei campi / all’assenza del loro non-colore nello spettro. / Molto alla cosa si può perdonare – tanto più là / dove essa si esaurisce. In fin dei conti la curiosità / per quei luoghi deserti, per i loro paesaggi / spogli di oggetti è pur sempre arte. / Nella nuova vita meglio una nuvola del sole. / La pioggia è ininterrotta come l’autoconoscenza. / Dal suo canto un treno che tu, avvolto nell’impermeabile, / fermo sulla banchina non aspetti, giunge in perfetto orario. / Dove c’è l’orizzonte, una vela è il suo giudice. / L’occhio preferisce il sapone a spugna o schiuma. / E se qualcuno chiede: «Tu chi sei?», rispondi: «Io? / Nessuno», come una volta Ulisse a Polifemo».

La parola è rarefatta, spinta oltre il precipizio di ogni convenuta asserzione, condensata nella contusa ricerca di una felicità possibile «in un diametro / che sta da qualche parte nell’aria mite della California», e affermata nel ritmo della sua ascia scagliata[5] e mai sconfitta. È l’arte che insegna la privatezza della condizione umana, la relazione indefessa con l’uomo, il suo viso non comune, affinchè possa precisare il tempo della propria esistenza e il suo essere parallela alla storia.

Ed ecco che in quel punto nevralgico, la disobbedienza del canto diventa la sua inclusione di mondo, dove la vita straniata «è la distanza tra quest’oggi e il domani / – che sarebbe il futuro. Vale la pena di accelerare / il passo soltanto se qualcuno ti incalza sul sentiero: / assassino, bandito, il tempo andato…».

La memoria traslocata è la poetica dipartita di un ritorno delle immagini. Sono dettagli di voce, frantumi di cenere soffice che si scontrano, in modo dolcemente inesorabile, con la durezza di un tratto, di un vincolo, di uno snodo terminato per sempre nell’addio:

«Contorni di una nuvola, lassù in alto piccioni, acqua immota, / legna, qualche residuo di architettura nota, / ma di vista nessuno. Così capita talvolta / che alcuni ancora partano per l’estero ma, privi della scorta / di una seconda vita, indietro tornino di corsa, con lo sguardo / sfuggente per paura e, lento a posarsi nel gesto dell’addio, / un fazzoletto palpita nell’aria. Altri, a cui è già toccato / di amare qualche cosa più della vita stessa, sapendo / in fondo al cuore che quella seconda vita è la vecchiaia, / se ne stanno al sole, senza abbronzarsi, bianchi come il marmo, / e fissano un punto qualsivoglia, non disdegnano le consolazioni / della storia. Perché quanti più sono i punti, tanto più picchiettate / risultano le uova di pernice, beccaccia, francolino / che hanno perduto nel gioco a nascondino».

L’elegia del poeta non è consolatoria, è chiara sì, ma avverte la conchiglia del proprio suono precipuo, la distanza come divisa alterità, l’amore di volata e il tempo scoperto senza diritti. Dove la poesia rappresenta l’affermazione contrastata di una durata in bassa marea e l’avamposto di una tenace resistenza, nonostante l’aria inquinata del mondo:«Bassa marea. Io fumo al buio e inalo la putredine dell’aria».

L’inflessibilità intransigente e inesorabile della Storia porta il conto. Brodskij è poeta tragico, quindi arrestato nella singolarità ed esclusività di ciò che accade, squarciato dalla mancanza e dal dolore dilatato. Per cui la concrezione del reale avviene per accumulo impermanente, resistenza indomabile, contingenza appartata e raccolta di lacrime estasiate: «Guardiamola in faccia, la tragedia: / vedremo le sue rughe, / il profilo aquilino, il mento mascolino. / Udremo i suoi diabolici toni di contralto: sovrasta il pigolare della causa la melodia roca dell’effetto. / Salve tragedia! Era da un pezzo che non ti si vedeva. / Salve rovescio di medaglia. / Passiamo a esaminarti nei dettagli».

Oppure la sofferta veglia, nel mondo, è una povertà depredata che custodisce l’umido salato delle lontananze: «Che brutti tempi: / niente a nessuno puoi rubare. / I legionari tornano a mani vuote dalle campagne militari. / Le Sibille, al pari delle piante, con fondono il futuro / col passato».

Gli oggetti, le impronte digitali, gli angoli, il futuro senza fiato, l’azzurro contumace, i residui dei fiammiferi bruciati raffigurano la salvazione reduce del tempo e della storia. Essi generano la vita mischiata all’aldilà e l’unica tangibile dolenza di un ibridismo sorgivo.

Egli è come il centauro («un semplice ero e sarò grammaticale / nel continuum presente»), accostato alle antiche pietre, alla rarità del gesto astrale, vive negli attriti dell’aria e sulle scorte illimitate della ferina materia prima: «Sugli oggetti si posa la polvere d’estate, e la neve d’inverno. / Merito della superficie liscia e piana che è attratta / verso l’alto: verso la polvere e la neve. Oppure / solamente verso l’inesistenza. E come, dice il verso, / «Ricordati di me» sussurra la polvere alla mano / che con lo strofinaccio inumidito assorbe quel bisbiglio».

Brodskij è interessato alla trasformazione in pericolo, allo svelamento prima dell’abisso delle direzioni lineari, ai vicoli ciechi, a ciò che sfugge, perché malleabile, elementare, solitario, finito e, pertanto, non eroso:

«Il mondo fu creato mescolando con fango, aria, acqua, / fuoco il grido «Non toccarmi!», racchiuso in quell’impasto, / che eruppe da una pianta, e in seguito da labbra, / perché tu non credessi che il mondo fosse vuoto. / Poi sorsero le stanze, e gli oggetti, e gli slanci amorosi, / le affinità tra ciò che fu e sarà, le arie d’opera con la tubercolosi, / roteando nei globi oculari l’alfabeto si mise in movimento. E il vuoto stesso fu sgomento».

O ancora come accade in Vertumno, poemetto dedicato alla divinità etrusco-romana che personificava la nozione del mutamento di stagione e presiedeva alla maturazione dei frutti, esso nasconde un appunto elegiaco, che fonde i paesaggi («Smisi pure di guardarmi indietro. Se odo alle mie spalle/ scalpicciare, ora io non sussulto»), per lo slavista Giovanni Buttafava, suo primo traduttore italiano.

L’incontro di latitudini straniere diviene la rifinitura di un’appartenenza cangiante, il segno della lingua, il suono intricato e la scolpita metamorfosi del destino: «Non ti stupire: la mia specialità sono le metamorfosi. / Chiunque io guardi, quello diventa me all’istante. / A te conviene. Sei comunque in un paese straniero».

La finitezza è una condizione dell’identità, l’estensione della lontananza, come una cartolina che si ripulisce e, attraverso il moto transitorio («Il deperibile divora il deperibile alla luce del giorno»), riesce a toccare la densità dell’istante felice, perché il cosmo non conosce discrezione e tutto si vede ad occhio nudo:

«Il mondo attorno non contava, / né la tormenta che monotona ululava, / o che nella bucolica magione stessero / allo stretto e per loro non ci fosse altro tetto. / Intanto erano insieme, / E in tre per giunta, la cosa principale, / da ora avrebbero spartito in modo eguale / i doni almeno, nonché cibo e imprese. / Il cielo invernale sul rifugio era chino / come accade a ciò che è grande col piccino, / e brillava una stella – ormai non poteva sfuggire / allo sguardo del bimbo, lo doveva seguire. / Il falò divampava, il ceppo si consumava ardente; / era calato il sonno. Non già per il superfluo riverbero / fulgente l’astro si distingue va tra schiere di sorelle, / quanto perché rendeva la terra prossima alle stelle».

Le architetture di Brodskij strappano il mondo diviso, rammendano le radure, le pozzanghere, i lidi ridotti in sabbia, gli angoli remoti, i cumuli tracciati di nubi («Spumeggianti cascate / di angeli, di abiti / da ballo, crollo / di barricate inamidate, / nozze di farfalle / con nevi himalayane, / vette alpine, a zonzo / per il cielo / delicato del Baltico / che a nessuno appartiene – / lassù, in alto, / nella vostra dimora, quali / appelli ascolterete? / Chi è il vostro architetto? / Chi il vostro Sisifo?») e i marmi. Poi ancora le statue, i portici, le colonne, le geometrie che piangono il sottosuolo depredato, l’oceano e le rive deserte.

Sono il codice sbrecciato di una promessa e pioggia sull’abisso che avverte «l’influenza della non-esistenza / sull’esistere».

Qui avviene l’interstizio di cristallo della poesia e la resa dei conti con il nulla, con il frusciare del tempo e degli incontri, dell’anonimato, del vuoto e delle rovine, perché le cose «si induriscono per restare ferme nella memoria; / ma è più facile sparire, non già affiorare, / in una prospettiva / che, lasciandosi alle spalle la città, attraversa gli anni / in cerca del tempo puro, senza felicità nè terracotta» e «Agli uccelli del paradiso per cantare non serve un ramo»:

«E non sono un codardo, bensì pronto a essere / un oggetto che viene dal passato, se così, / per capriccio, vuole il tempo, / mentre dall’alto in basso – o da sopra la spalla – / guarda la preda che accenna ancora / qualche movimento ed è calda / al tatto. Sono pronto a che la sabbia / mi ricopra, preparato a che un viaggiatore / appiedato non metta a fuoco / l’obiettivo su di me, e per me non provi / forti sentimenti. Per ciò che mi riguarda, / il tempo che scorre al di fuori / non vale l’attenzione».

[1] Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.

[2] Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.

[3] Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.

[4] Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).

[5] Brullo D., Iosif Brodskij e la disobbedienza linguistica (a colpi d’ascia), in “Il Giornale”, 9 dicembre 2017.

Brodskij J., E così via, Adelphi, Milano 2017, pp. 254, Euro 22.

 

Brodskij J., E così via, traduzione di Matteo Campagnoli e Anna Raffetto, Adelphi, Milano 2017.

Galaverni R., La preghiera dell’esule «E così via», in “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 dicembre 2017.

Vacca N., E così via, (http://www.satisfiction.se/e-cosi-via/).

Zaccuri A., Poeta in ogni lingua, in “Avvenire”, 22 dicembre 2017.

Il chiarore senza riposo di Antonio Gamoneda

di Andrea Galgano 22 novembre 2017

leggi in pdf Il chiarore senza riposo di Antonio Gamoneda 

Il chiarore senza riposo di Antonio Gamoneda. Lettura di Andrea Galgano

Vidi lavande sommerse in un lago di sangue e questa visione arse in me.
Oltre la pioggia vidi serpenti infermi, belli nelle loro ulcere trasparenti; frutti minacciati da spine e ombre e fiori eccitati dalla rugiada. Vidi un usignolo agonizzante e la sua gola piena di luce.
La realtà è il mio pensiero. Sto sognando l’esistenza ed è un giardino torturato. Ma morirò. Frattanto, passano davanti a me madri incanutite nella vertigine.
Il mio pensiero è anteriore all’eternità ma non c’è eternità. Ho consumato la mia gioventù davanti ad una tomba vuota; mi sono estenuato in domande che ancora battono in me come un cavallo che galoppi tristemente nella memoria.
Ancora mi aggiro in me stesso sebbene sappia che ormai cadrò nella freddezza
del mio stesso cuore.
Così è la vecchiaia: ore incomprensibili, chiarore senza riposo.

ANTONIO GAMONEDA

La poesia di Antonio Gamoneda (1931, Premio Cervantes nel 2006 e precedentemente Premio Castilla y León (1985), premio Nacional de Poesía (1988)) percepisce il cardine della perdita, come sentiero di appartenenza e dolore, lasciando affiorare la marcatura dell’evento, il suo segno cifrato, la vertigine, la discesa della propria finitudine (attraverso la frattura misera e menzognera della Guerra Civile, che ha lasciato la sua impronta di miseria, lotta e affrancamento desolato), filtrando così

«una strenua tensione etica, una sofferenza per qualcosa di cui ci si sente privati, di un paradiso mai avuto più che perduto, che è a mio giudizio un possibile dato comune a molta poesia della sua generazione. […] Gamoneda crea un linguaggio poetico nuovo, aprendo spazi inediti agli universali dell’uomo e della celebrazione del sentimento, con particolare attenzione, in questo caso, alla miseria e alla quotidianità del dolore e dell’ingiustizia. […] se Gamoneda non è mai stato in linea con le poetiche del momento e la sua voce, pur così intensa e radicata nella realtà spagnola, è sempre stata piuttosto marginale […]».[1]

La pubblicazione del testo Canzone erronea. Canción errónea[2], a cura Roberta Buffi, edito da Lietocolle, restituisce la sintassi tesa della lotta e della germinazione disperata, la lacerazione dell’origine, l’agone dell’inesistenza, l’abisso nebbioso e immenso dell’attesa della fine. La destinazione del sangue è la sovrabbondanza abrasa dell’essenziale:

C’ERANO / vertigine e luce nelle arterie del lampo, / fuoco, sementi e una germinazione disperata. / Io laceravo l’impossibilità, / sentivo fischiare la macchina del pianto e mi perdevo nel folto vaginale. Entravo / anche in urne poliziesche. Dimenticavo / così gli occhi bianchi di mia madre. / Vivevo. / Pare. / Vivevo. / Proprio ora bado distratto al mio rantolo. Non vi è in me / memoria, né oblio: soltanto e semplicemente lucidità. / Sono scomparsi i significati e nulla ormai intralcia / l’indifferenza / Una volta per tutte, mi sono seduto / ad attendere la morte / come colui che attende nuove già note.

Poi ancora, l’infinitesimo scontro della vita apre la chiusa ebbra della propria scomparsa e finitezza, dove la sistole di suono del nostro essere ci determina, rilasciando un pellegrinaggio di tensione e acume.

Ma il tempio di Gamoneda è la scomparsa dove vedere le ali tremare fra ceneri e vetri e la gravità, afferrata a rami immobili nelle porpore arse: «Vidi / la passione girevole degli uccelli / sulla macchina azzurra della gioia. / Vidi / la geometria ardente del lampo. / Alla festa finale, arse la porpora / dell’ultimo giardino. / Vennero meno / le cifre del lampo e il bronzo si staccò / dai rami immobili».

Un paesaggio di scomparsa che attinge così il proprio giacimento nella mistica di suono, nello smarrimento immenso, nell’interrogazione dell’impossibile, che distende la sua purezza di limiti e la sua ampiezza di negazione (« «Ignorare per vedere», dici anche. / Ma vedere cosa? Non potrai / far altro che lasciare i tuoi occhi ardere. / Cerca di capire / esiste soltanto una parola vera: non»).

Il ricordo del volto (e dei volti) e l’inattingibile spazio della morte, della fine e del limite, attraversano il pianto azzurro tra le tenebre:

INTENDO ascoltare la musica sistolica e il suo involucro di / pianto, ma mi disperdo nella fugacità di volti che prendono / forma nella pioggia, volti così svelti che neppure arrivano ad esistere. / D’altronde so piangere a stento, e allora mi chiedo: qualcuno / forse sta piangendo in me? / Non importa. Io voglio sentire la musica sistolica oppure, non so, / vedere qualcosa, vedere, per esempio, l’ultimo legno, la sua / assenza di tremito dinanzi all’abisso. Vedere / il tempo nell’immobilità e poi / avvertirne piano la scomparsa. / Però no. /  A pensarci bene, può essere che mi sbagli: la sola cosa vera è / la falsità e / le parole sono prive di significato; la parola «vivere», per / esempio, non significa per quanto sia / spesso insanguinata. / Però, a pensarci ancor meglio, / la parola «agonia», per esempio, significa. / Non / è chiara dunque la ragione linguistica. / Non / è chiaro: agonizzare senza causa né desiderio. / È / per di più molto crudele questa e qualsiasi altra / significazione. / Auspicabile sarebbe, / invero, non avere pensiero; riposare nella falsità, e poi, / invero, senza timore né speranza, / finire.

La paura, il dolore, la negazione sono la gemma infilata nei dettagli della sua poesia («Luce, Altre luci, Limiti, Impossibilità, Insistenze, Contraddizioni, Feste funebri, Cause cieche, Smarrimenti, Cause linguistiche, Indifferenza, Negazioni, Oblio, Ira, Agonia, Legno, Poesie con nome, Perdite») che esprime il taglio dell’epoca e dell’io, l’alchimia, il simbolo e la vertigine, il lessico del pianto, la distruzione delle assi, la parola che annoda l’acciaio e le viscere.

L’approssimarsi della fine destina l’incandescenza del limite a perdurare nel suo legno, nella propria peculiare orfanità e clandestinità. La poesia di Gamoneda, che «crea realtà […] e genera conoscenza», intensifica il dramma del vivente e prolunga la sua narrazione verso la morte, la temporalizzazione consumata, l’intensificazione della voce:

Avverto / oli accorti, e stanchezza, e spine; lo smisurato ago sui miei occhi. / Scendo / orientato da mensole. Non so. Vado, scendo / i gradini profondi della vecchiaia. / Si vede: / la falsità è la nostra chiesa. / ormai / sto arrivando, / ormai / arriverò. / Adesso, non so perché, devo cantare circondato da specchi. / Mettete a punto la vostra coclea, le vertebre successive / dell’ira dorsale, l’anatomia / conduttrice della paura. / Dice / questo la mia voce nella sua impostura, / dice: / Vivere è cosa strana, riposare nella collera. Larve illustri / libano nelle nostre vene. / Vivere / è cosa strana. Non conviene salvarsi. / Non / c’è salvezza nel sandalo e neanche nelle radici torturate. / È indubbio, / non c’è salvezza nel legno. / Raccomando pertanto / la più sublime indifferenza. / Importa solo / agonizzare con una certa / dolcezza. / È / cosa strana anche l’agonia. / Eppure / alcuni animali copulano in maniera fugace. Persino io copulo / con tenebrosi fiori, con le cifre astratte, e, ancor più spesso, / con fossili azzurri e / anziane gialle. / Ci fosse / una corda finale, le terze ombre / sarebbero penetrabili. / Però no, non abbiamo / una corda finale. / Nient’altro che / legno ammattito, sì, legno soltanto.

Essa, quindi, si intesse di impulsi musicali che si antepongono alla memoria e al pensiero («Io non posseggo il mio pensiero finchè la mia scrittura non me lo rende sensibile/intelligibile, o in altre parole: quello che dico lo so solo dopo averlo detto», afferma l’autore), rivelando la propria essenza, il proprio ritmo simbiotico con quello del poeta stesso (visto come una sorta di cittadino di passaggio) e della forma conseguita, facendo di Gamoneda, come scrive Clara Janés,

«un chiaro esempio di ciò che Maurice Blanchot attribuisce allo stile: «La parte oscura, legata ai misteri del sangue, l’istinto, profondità violenta, densità di immagini, linguaggio di solitudine in cui parlano ciecamente le preferenze del nostro corpo, del nostro desiderio, del nostro tempo segreto ed esclusivo di noi stessi[3]». Ovvero ciò che Gamoneda lascia scritto procede direttamente dal suo sangue e dai suoi umori, per questo insiste nella simbiosi tra la sua forza interiore e la parola che gli viene data, quando esprime in che cosa consiste questa sua poesia di maturità, della quale, seguendo Pasternak, si è detto «prosa in poesia», e che lui definisce come «blocchi di linguaggio che, nello stesso tempo, sono blocchi di senso e di suono […] non distinguo né verso libero né prosa poetica, ma blocchi ritmici»; blocchi nei quali «si attivano le parole e sono esse (con la tua forza musicale e la tua vertigine intellettuale, ma loro) quelle che estraggono la tua lucidità la tua molta o poca lucidità».[4]

In un’intervista con Alberto Pellegatta, il poeta afferma il valore di espansione, per così dire, della coscienza, della poesia. Il suo mescolamento alla storia però non è in grado di cambiarla:

La poesia è, già l’ho detto, poco o per nulla operativa nell’ordine sociale. Ma il tempo la espande, penetra nella cultura generalista e, nonostante il freno che le impongono i poteri (il potere economico e il suo “sacrestano”, il potere politico), porta benefici alle capacità intellettuali e alla sensibilità. In questo senso, sì, è conduttrice di progresso, ma questo progresso non modificherà grandi cose nella realtà storica. Lo ha detto bene Sartre nel suo Orfeo nero: «La poesia è irrimediabilmente soggettiva; non può modificare le realtà oggettive».[5]

I sentieri lucidi di Gamoneda non ci donano però una cupio dissolvi, bensì lo sferzato panorama oscuro del dolore, il fulgore degli equinozi, la nudità che fende le sorgenti, il desiderio che il corpo amato possa libare nelle piaghe.

L’incandescenza frontale e la vigilanza affermano l’agone tra l’inesistenza e la vita, l’immobilità silente e il segno sconosciuto di una orfanità di parole cieche:

UNO sconosciuto abita in me. Agonizza e, per agonizzare, adopera il mio cuore. / Penso a mio padre impazzito alla vista di frutti molto freschi, / penso all’amore e alla morfina. No, non è mio padre. E dunque, chi agonizza in me? / Può essere che io stesso sia lo sconosciuto e che il mio cuore non sia mio per quanto io ne alimenti i battiti. Può essere. / Comunque non c’è problema. A ogni modo, sarò, sono già, orfano di me stesso.

Tale lucidità è indizio di un attraversamento del corpo nel tempo, nello spazio e nello sguardo che costruisce il mondo. Le sue sillabe nere lucidano la corolla del miracolo transitorio del vivente, il grido dei coltelli al crepuscolo, la cenere scrollata dalle palpebre e l’inscrivibile passaggio delle mani:

UN fiore bianco simula l’unità. / La luce si vale delle calamite del silenzio / e dalla luce calano sillabe d’oro. / Sì, ma / pensa tu adesso l’unità, la misera / unità, o meglio, / pensa a te stesso, pensa / la tua consistenza: coaguli, / incertezza, disgusto. / In confusioni bianche, / i numeri si arrestano. / Non / c’è unità. / Nelle tombe vuote, / galleggia l’assenza e, / nelle ultime celle, / un dio incerto affonda le sue mani e apre / la ferita dei limiti. / Non / ci sono cifre viventi. / Soltanto / la falsità è sacra.

Dando al pensiero di morte dignità poetica, da una parte lo restituisce alla vita e dall’altra lo rende meno minaccioso, connotandolo di una sua propria intelligibilità, tentando di spiegare l’inspiegabile, rendere saturo l’insaturo, comprendere l’incomprensibile e infine ingabbiare il tremendum, la materia oscura e perturbante, l’immobilità che crea geometrie insonni:

MI stai chiamando in te stessa. Anch’io voglio chiamarti / in me, ma non ne sono capace. È facile morire, dici, ma non ti credo. / Tu pensi che io sia vivo e che la morte stia in attesa / sotto le mie palpebre, ma io non ti credo benché l’affermazione / arda sulla tua lingua. Dimmi: / Ancora tubano le colombe, cantano i seminatori e i cani / gironzolano sotto il tuo sguardo? / Potresti avere ragione; forse ciò che dici è vero e la menzogna / è in me perché non so vivere, ma devi capirlo: è questa / la mia innocenza. Dimmi: / Sono certezza le mele decomposte nelle mani degli operai? / Se la decomposizione è certa tutto potrebbe essere certo. / In tal caso, devi restare umanamente ebbra, appesa alla potenza dei tuoi ultimi numeri […].

È una ricerca di senso attraverso il verso, l’illuminazione oscura che propaga interno ed esterno, fino alla purezza della dolenza, alla vibrazione del lampo, alla piagata trasmutazione dell’invisibile e alla risignificazione del grande sogno bianco.

Valerio Nardoni scrive:

«Il poeta inizia ad accogliere nella sua scrittura i segni dell’annullamento, tentando una vertiginosa scalata dell’abisso che si scava fra la persistenza dell’umano e il vuoto che l’attende: «Parlano le sorgenti nella notte, parlano nei magneti del silenzio. Sento la soavità delle parole dimenticate». Ecco in che senso si può affermare che questa poesia cerchi di dire l’indicibile: ciò non significa che essa si compiaccia di assurdi misteri, quanto che attraverso altre parole è capace di indurre sensazioni di cui non conosciamo la natura, che sentiamo senza saperle nominare. I valori cominciano a convergere, ed è così che il poeta imprime sulla pagina il senso della vecchiaia: il tempo del mondo e il proprio personale percorso non si scindono più, perché il futuro si è come prosciugato, anche felice-mente, con una sorta di ebbrezza […]».[6]

Nella ebbrezza della propria scomparsa, nel vuoto dilatato e cieco di luce, nella perdita inestinta del padre, la morte diviene la madre del pensiero:

CI fu un tempo in cui le tue palpebre si chiudevano sui miei occhi. / Vidi la povertà nascondersi nel tuo fegato, la miriade / dei venerdì e la tua follia che ardeva nell’ospedale di Nerva. / Com’era luminosa la tua follia e quanto pesi in me ancora adesso. / Tu, ora, non abiti te stesso. penso, demenzialmente / penso che dormi tra le braccia di tua madre. / Bene. A ogni modo, / tu ed io torneremo a ricongiungerci e ai ignorarci. / Tu / ormai non peserai nel mio cuore.

Il suo mondo è attraversato da una creaturalità perduta, dall’ontologia della comparizione e dal sangue attraversato da gemiti («Sono io, / essere di solitudine, un corpo / vivo nella sua agonia? / Sono / la somiglianza di un sogno? / Per questo / è impossibile la certezza?»).

È il corpo ad incidere la sua peculiare ferita lambita dagli accidenti, dagli umori, dalla memoria, dallo spasimo interiore e dalle tenebre di legno, che sono ossatura, radice, croce, feretro.

Il corpo rappresenta il tempio della degradazione organica e nell’incontro d’amore diviene il luogo di celebrazione dei sensi, in un tripudio che allude a un corpo in decadenza («Ascolto l’ultimo / grido giallo. / Attraversando / cifre e ombre sono arrivato. / Non valeva la pena / tanta stanchezza senza destinazione») e al lievito del tremore di una coltre carnale scomparsa:

«L’oscenità comporta, a quanto pare, morte e sesso, e ad essa sembra possibile afferrarsi come forma di vita dentro quella che abbiamo definito frontiera. L’erotismo delle poesie, l’insistenza sui dati fisici che si mischiano con i sintomi del deterioramento e la malattia sembrano indicare questo; potrebbe trattarsi di una forma disperata, assediata dalle limitazioni, resistente ed energica, del carpe diem».[7]

Poi lo spazio della madre, originario e antico, l’interstizio della propria stanchezza piena di luce, il peso del morire:

AMO il mio corpo; le sue vertebre spaccate / da acciai viventi, le sue cartilagini / bruciate, il mio cuore appena umido / e i miei capelli impazziti / nelle tue mani. / Amo pure / il mio sangue attraversato da gemiti. / Amo la calcificazione e la malinconia / arteriale e la passione del fegato / che freme nel passato e le squame / delle mie palpebre fredde. / Amo lo stame cellulare, le feci / bianche infine, l’orifizio / dell’infelicità, le midolla / della tristezza, gli anelli / della vecchiaia e l’influenza / della tenebra intestinale. / Amo i cerchi / unti del dolore e le radici / dei tumori lividi. / Amo questo corpo vecchio e la sostanza / della sua miseria clinica. / L’oblio / dissolve la materia assorta / dinanzi ai grandi vetri / della menzogna. / Ormai / tutto è concluso. / Non c’è causa in me. In me non c’è / altro che stanchezza e / uno smarrimento antico: / andare / dall’inesistenza / all’inesistenza. / È un sogno. / Un sogno vuoto. / Però capita. / Io amo / tutto quanto ho creduto / fosse vivo in me. / Amai le mani / grandi di mia madre e / quel metallo antico / dei suoi occhi e quella / stanchezza piena di luce / e di freddo. / Disprezzo / l’eternità. / Ho vissuto / e non so perché. / Ora / devo amare la mia propria morte / e non so morire. / Un grande equivoco.

I dispositivi semantici, le giustapposizioni lessicali, i tropi, le segmentazioni segnano il termine della sua luce. L’uragano dei suoi segni e dei suo modi cantano sull’orlo dell’abisso l’ossido sulla lingua, il non essere aggrappato, in cui «la luce è l’inizio della causa invisibile», dove la bellezza dell’esistente racconta la sua insorgenza vegetale e «il vino elementare che apre i miei occhi / all’ultima alba».

È l’insorgenza delle radici, il gemito estremo del mare, la sillabazione dell’imminenza a racchiudere il pensiero della luce: violento germoglio, offerta ai vetri rotti degli occhi, i numeri dispersi delle cose.

L’ultimità della luce ricade come oblio di passi raggiunti e ricordo perenne di perdita non spenta, dove si evidenziano le orme nere, l’ora senza tempo, il clamore musicale del linguaggio: «LUCE. / dev’essere / l’ultima luce. / Sono / molto stanco. / Non / ricordo i miei passi. / Oramai / sono arrivato. / Non so / dove. / Sono / molto stanco».

Clara Janés afferma ancora:

«La sapienza dell’oblio conduce a qualcosa che si conosce, della quale, tuttavia si è stati purificati. Ma ha due facce: ciò che si è cancellato e ciò che non si ricorda ma la cui esistenza si è incarnata. Per questo motivo, tutto ciò che è stato esperienza trova spazio in quel qualcosa. Non si tratta di un sapere di non sapere ma di un sapere cieco incorporato. Costituisce, pertanto, una stupefacente totalità».[8]

Nella vita degli odori, nell’amore rammendato e rastremato della terminale nudità, abitato dalla dimenticanza dolente, la parola, che lega alchimia e mistero, ermetismo e oscurità, si spossessa nelle sue salite di assenza, si scortica, permea la stratificazione vitale, affermando già il suo contrasto, la sua fine nell’inizio, l’errore. La lacerazione dell’ombra, nella riscrittura indecente[9] di un ricordo disabitato, offre il suo tremito di eternità bruna, rinsaldando il suo ultimo patto luminoso con la morte:

AMAI. È incomprensibile come il tremito dei pioppi. / Mi sento smarrito ma so che amai. / Io vivevo in un essere e il suo sangue si univa al mio sangue e / la musica mi avvolgeva e io stesso ero musica. / E adesso, / chi è cieco nei miei occhi? / Delle mani passavano sul mio volto e invecchiavo lentamente. / Che cosa fu vivere tra ferite e ombre? Chi fui tra le braccia / di mia madre, chi fui nel mio proprio cuore? / Ho imparato soltanto a ignorare e dimenticare. È strano. / Ancora l’amore / abita nell’oblio.

[1] Antonio Gamoneda. La nitida essenzialità, a cura di Valerio Nardoni, in «Poesia», dicembre 2011.

[2] Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

[3] Gamoneda A., El libro por venir, Trotta, Madrid 2005, p. 243.

[4] Antonio Gamoneda. Di vertigine e oblio, a cura di Clara Jánes e Valerio Nardoni, in «Poesia», maggio 2007.

[5] La poesia oggi per Antonio Gamoneda, a cura di Alberto Pellegatta, (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/intervista-ad-antonio-gamoneda/), 1 ottobre 2013.

[6] Nardoni V., L’intensa elementarità del bianco nei versi di Antonio Gamoneda, in Gamoneda A., Libro del freddo, Città Nuova, Roma 2010, p.19.

[7] Casado M., El curso de la edad, postfazione del volume Gamoneda A, Esta luz. Poesía reunida (1947-2004), Galaxia Gutenberg-Círculo de Lectores, Barcelona 2004, p.616.

[8] Jánes C., cit.

[9] Marcos Rodríguez J., Antonio Gamoneda: “Soy un indignado que disiente”, “El País”, 3 novembre 2012.


Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017, pp. 102, Euro 15.

 

 

 

Gamoneda A., Canzone erronea. Canción errónea, Lietocolle, Faloppio (Co) 2017.

–          Esta luz. Poesía reunida (1947-2004), Galaxia Gutenberg-Círculo de Lectores, Barcelona 2004.

–          El libro por venir, Trotta, Madrid 2005.

–          Antonio Gamoneda. Di vertigine e oblio, a cura di Clara Jánes e Valerio Nardoni, in «Poesia», maggio 2007.

–          Antonio Gamoneda. La nitida essenzialità, a cura di Valerio Nardoni, in «Poesia», dicembre 2011.

–          Libro del freddo, Città Nuova, Roma 2010.

–          Solo luce, Empiria, Roma 2009.

–          Cecilia e altre poesie, Ponte Sisto, Roma 2012.

–          Un armadio pieno d’ombra, Editori Riuniti University Press, Roma 2012.

–          La poesia oggi per Antonio Gamoneda, a cura di Alberto Pellegatta, (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/intervista-ad-antonio-gamoneda/), 1 ottobre 2013.

Marcos Rodríguez J., Antonio Gamoneda: “Soy un indignado que disiente”, “El País”, 3 novembre 2012.

L’ordine uncinato di Giancarlo Pontiggia

di Andrea Galgano 22 ottobre 2017

leggi in pdf L’ordine uncinato di Giancarlo Pontiggia

L'ordine uncinato di Giancarlo PontiggiaGiancarlo Pontiggia (1952), con Il moto delle cose, edito da Mondadori, calibra una indocile sapienza refertuale con il passo intessuto del magma tragico ed essenziale dell’esistenza. Nei basamenti dell’essere si imprime «l’unghia del tempo». Ed è in questi lacerti di durata che le cose iniziano a stridere, oscillare, farsi materia, versarsi nei firmamenti algidi e cadere.

Non c’è vuoto in questa distillazione di poesia, ma egli impugna il coltello opaco della finitudine e della estraneità per ricercare il bollore d’origine, il fiato, il tutto «che ripiega, a notte, nel suo eremo / – cieco, torvo – / di nube».

Lo stesso Pontiggia afferma che nel titolo:

[…] forse lucreziano, lascio che le forze della vita – tumultuose, sovrane, erratiche – si confrontino e si scontrino, in un agitìo di immagini e di pensieri, di ombre e di apparizioni, che rimbalzano da una sezione all’altra, ora quietandosi ora esplodendo rovinose e magmatiche. Ma al centro è la figura-cuore – luminosa e serena – di un’isola amata, in cui tutto pare, magicamente, rasserenarsi. Il libro si apre con tre poesie-prologo di ispirazione e di tonalità diverse, cui corrispondono in conclusione tre poesie in cui i temi cosmici ed esistenziali del libro si risolvono in forme immaginative molteplici e contrastanti: la luce abbagliante di una stella morta, che giunge a noi da chissà quale era remota; una visione – paurosa, fermentante – del “buio-non buio” delle origini; la celebre figura paestana del tuffatore, colto però un attimo prima del tuffo.[1]

La stanza interiore dell’esistente sedimenta interrogazioni inesauste, senza ripiegarsi in una insoluta ellissi. Nel respiro, nella articolata e raccolta superficie profonda, nella immaginazione tangibile, la scalfittura della parola rivolge distanze e partecipa all’infinita gamma dei depositi, delle stratificazioni e del tempo adagiato.

A tal proposito, Davide Rondoni scrive:

Pontiggia infatti sceglie – e per lui non poteva essere altrimenti – una interrogazione intesa subito come di voce comune. Il parlante parla di un “tu”, di un “uno” – a cui la voce del poeta si rivolge o la cui esperienza indaga. Il “tu” con cui vi si rivolge è distanziante e accorato al tempo stesso. Si guarda allo specchio? Certo, ma l’immagine riflessa nello specchio, restando la medesima voce, potrebbe essere quella di tantissimi. E raggiungere l’esperienza comune di interrogazione sul moto delle cose. Quest’uomo di cui si parla, così diffuso tra uomini e donne e anche giovani della nostra epoca, sente uno smottamento, percepisce distintamente il “sovrano, fisico, delirante // moto delle cose”, sente che si «smontano / le muraglie del mondo» e che «Si squaderna / il principio scosceso / delle cose, la sua broda // intonsa, fermentante». Ma è appunto la voce di un poeta che ne parla, e con termini di esattezza dantesca e scientifica (la immagine dell’universo come libro, presa dalla Commedia, intonso aggettivo librario, brodo primordiale, termine inglese dei fisici per lo stato iniziale della materia) ovvero con grande consapevolezza.[2]

Sono frammenti incastonati che pongono l’inseguimento vagante e invaso come propria traccia di battesimo. Transizioni, impronte, cose sfatte e in divenire, che vengono registrate in un approdo mai mutilo, che avvengono, mutano, deviano in uno stridore concreto e in una torsione che figura l’osservazione del mondo e il suo punto di snodo «nel gelo / di biglia delle cose».

Inseguire le cose in ogni imo di profondità significa percepire anche la lingua che crepita, la datità che si cela e s’infima, e chiedersi se sia vuoto, ombra che sfida le scure trame, distanza incolmabile:

 

È notte, sei / tra le cose del mondo, le cose / solide, vaganti, che si sfanno / in altre cose, nell’imo che fermenta, / e sprofondi / nella vita che è, nel tutto / che s’invasa in uno, prima / di sfarsi nel crivello della mente / stridi, becchi, blaterii / buchi di lingua, suoni / che si torcono, stipano, si ammaccano / ed è lì, lei, fa un cenno / l’ombra funesta, troppo amata, / fa freddo, com’è troppa la stagione, / con che tenaglie stride, si torce, scuote / le lusinghe del mondo, «dov’è che sei?» / le chiedo, nel gelo / di biglia delle cose «sei cosa o altro?», mentre delira / in delirio il mondo, si sfarina, ed io / «non ho tempo per questo / struggimento stupido, doloroso, di’ / soltanto se sei o no» / ma lei: «di’ tu, piuttosto, di’ / qualcosa che valga / per me, per noi, che ti guardiamo», e va / per una strada che non conosco, va, dove non è / altro che lei, che loro, lì, nella gran fossa / del firmamento algido, stipato / di roba ultima, vagante, «di’, se sai, qualcosa / che valga la pena», continua / stridendo come una stupida / ferraglia / e fa cenno nel non so dove del sonno, nel / ben maturato senno della mente / a qualcosa che si cela, s’infima / in brividi, in onde / di niente, di poco – cosa / che si fa cosa, verbo / che sì’intana / in una lingua di troppo gelo, / di solo, forse, / vuoto?.

Francesco Filia sostiene che:

Il titolo del libro mostra l’oggetto, al tempo stesso meraviglioso e terribile, della riflessione e della visione poetica, il divenire che travolge ogni cosa, il suo incessante e ineluttabile fluire che rende ogni cosa al tempo stesso unica e finita. La riflessione poetica parte da questa visione, da questa meraviglia originaria, da questo thauma – per rifarci al termine greco, che per Aristotele era all’origine sia del pensiero filosofico sia della parola del mito e quindi della poesia – verso l’enigma del mondo. Ciò che rende necessario questo libro è la tensione partecipe dell’io lirico verso l’enigma che attraversa il nostro stare al mondo, in quanto del moto delle cose ognuno di noi è partecipe drammaticamente e quel moto siamo anche noi, nel nostro spirito e nella nostra carne, presi nella nostra irripetibile e mortale individualità.[3]

L’esattezza di Pontiggia, allora, è un accertato moto di passaggi registrati, che sfidano le luci ardue, che cercano di infoscarsi nei frustoli sfrangiati di senso e di suono, e nel fondo che muta, per farsi respiro luminoso.

Le voragini di fuoco, gli abissi, i nomi, i sensi petrosi e sepolti racchiudono ciò si vela e si svela, ciò che sprofonda e si aggruma, ciò che diventa irripetibile e sovrumano come ordine e stridìo rigoglioso.

È ordine scrostato e uncinato ma anche obbedienza meticolosa a ogni impollinazione che dà vita e tumultua all’appello dei nomi e al mondo che dispone la sua depredata sorgente, il suo covo altero e irreprensibile di bronzo lucente: «Nell’ordine uncinato delle cose, / nel suo fulgore di fuoco e di vento / in ciò che è / e non è / impazzano / gli atomi della mente, nomi / infrazionabili».

Dentro la fiamma del respiro si trova la genesi primordiale della sua forza limpida che guarda il cielo, il suo muto gorgo di schegge e brandelli sgretolati, la contemplata germinazione del moto operoso e micidiale della luce del mondo («Pochi versi, ma veri. / Valgano per te, come per me. / Che siano limpidi – per guardare il cielo / alto – / e severi, se così è il tuo animo»):

Sovrastino, su queste sabbie / finissime, tese come un lino, vaste / come il fiammeo dominio dei pensieri, / cieli più ampi del tempo / che s’ingorga, lento, pigro / in una luce ardua, / ventosa / o s’infoschino – in una sera / scura, dura, scheggiata, / che si sgretola, pezzo / dopo pezzo, sugli scogli / ondosi, flagellati / da crespe dense di fuoco, erosi / dalla furia / gemmata degli elementi – le porte / brucianti, dei tuoi occhi, / sempre, o contemplante, sentirai / il respiro / possente, luminoso / del mondo, la sua forte quiete, il suo operoso, micidiale / moto.

Ed è così che la dismisura del tempo sovrasta e deborda l’essere, la crescita e decrescita del tempo, la cesura, l’orlo, la esemplare forbitezza del tenue arco della vita che si impone, evocando memoria e doppi rimandi di destino: arco, trombe, stame e sfinge. L’enigma bilanciato delle cose si flette e vortica nello spazio infinitesimo, nella deità e nella umanizzazione temporale.

Nella opacità e negli abissi orlati, però, si vede, nitidamente, anche una sovra- enunciazione che avviene. Si forma la chiarità, si intravvede, ancora una volta, il fondo (perché tale è la poesia di Pontiggia, un fondo che si sporge) che risale negli attriti e nei detriti, nei vortici, nei tremiti, negli scarti dei segni dapprima rinvenuti esili, poi man mano scolpiti nel loro gesto che invade e sbianca ogni cosa:

Nasce, il bimbo, alla vita, e vede / per primo il chiaro dei cieli e delle stanze / – fiamma che invade i suoi occhi / molli, ancora, di scuri tepidari, di sonni / deliranti. Viene / dal fondo dei popoli, delle madri / antiche come la specie; del tempo / in cui tutto fu cielo, e acque, e frastornanti / fogliami. Risale, dai grumi e dai fanghi / di ere troppo remote, di paste / scure, grondanti / muffe di un innominabile ade, / e si esalta, sospira, si dispera / mentre già la notte cala, che tronca / ogni luce, e la immerge / in un acquario di sogni / caotici e riottosi. / Viene il mattino, un altro, si desta: com’è / che ritorna la luce, l’esile, prima, poi man mano più fulgida, folgorante / fino a sbiancare ogni cosa? E gli occhi / s’immergono di nuovo, s’imbevono, non hanno / altro da chiedere che questo / lasciare che le cose siano, e siano…

Le cose improvvise, allora, irrompono e congiungono e legano alla vita e, appunto, «al sovrano, fisico, delirante / moto delle cose». Non c’è scampo a questa sospensione franata di ore, all’era vasta e immortale, a questo sgretolato splendore.

Alla diafanità scura si oppone il prodigio illuminato e in limine del vivente, dell’essere, dell’esser-ci che trascende, ricerca, posiziona la sua ontologia di congedi e straripamenti, chiedendo allo splendore di permeare la propria incipiente mendicanza («e implori un senso / unico, forte, uno / stupefacente prodigio che illumini / il buio, intediato, della mente, / la tua, di nuovo, / che si spappola / in materie straripanti, ignote, formine / colorate del mondo che intanto / si congeda in addii e ancora addii / – e senti»):

E temi, e nel timore ti separi da ogni cosa, / e da chi, perfino, ti è più caro; temi, / e tremi, / e non osi guardare fuori di te, e ti rinchiudi / in una cella di diffidenza e di rancore. E senti / che non hai doveri se non per te, e che ogni atto, / ogni pensiero è solo per stare un po’ di più, ostinata / mente, / sul suolo dei mortali. Esser vivo, essere, esserci: / solo a questo pensi, e pensi / come celare al mondo il tuo orribile segreto: / di stare, di stare più che puoi nel mondo / azzurro, tra i cieli e le terre, i fiori e gli asfalti, / starci comunque, anche tra gente che non ami, / in città tetre, apocalittiche, / malato, storpio, a mendicare un po’ della loro vita / calda, inebriante.

La luce di Pontiggia è porosa, si innerva nelle catabasi vertiginose e ultime, raccoglie le disposizioni temporali e memoriali attraverso una catalogazione che sprofonda e intrude.

L’enumeratio della realtà non serve solo a registrare l’ombreggiamento della mente che guarda, ma «Come in un’anfora / scaldata dal sole», diventa forza mitopoietica e contemplazione dirottata verso l’intatto podio dello sguardo, il suo sogno, la sua ineluttabilità di confine fino alla piagata fine della durata.

Essa è odore, seme, nascita, rapidità che sprigiona, spalanca l’hic et nunc e l’altrove in una inoltrata aratura, dove le cose sono in quanto sono e dove il fiato fulgido e trafitto gioisce nello schianto e nella polvere di ogni fessura e di ogni ombra finita:

Resta nel tuo vallo / di fiamme e di tempo / che cola, lento, e non è / cosa che lo argini, né dito / che saldi la fessura, immane / gioisci / della gioia, prova / male per i mali, ma non tanto, vedi / com’è la natura delle cose, polvere / su polvere, ombra / che si disfa in ombra / smanie effluvi / schianto.

La poesia, allora, rappresenta questa ellittica germinazione di senso che cola nell’immanità: i cieli di fiamma, il dirupo degli spasimi, il dono dolce e tragico dell’esistere cercato.

A tal proposito, il poeta afferma:

L’improvviso irrompere, in una condizione di aurea felicità, di segni inquietanti è espresso con immagini limpide e esemplari che nondimeno sono cariche di storia e di pensiero: trombe, arco, stame, sfinge evocano qualcosa che è certo nella memoria di ciascuno di noi, e che derivano dalla doppia cultura, classica e cristiana, nella quale ci siamo formati: sono insomma parole-mito, in cui si condensa intuitivamente, quasi fulmineamente, la nostra idea di vita e di destino. Anche l’ambientazione, domestica e mitica insieme, della scena porta in sé echi profondi: l’eden biblico, il giardino delle Esperidi, i giardini epicurei. La poesia non è emozione, ma un’esperienza in cui si fondono moti di pensiero, percezioni di vita quotidiana, echi di dottrine, sogni, visioni. Tutto questo in una lingua che deve affondare nell’elementare ruvidezza del parlato e insieme distanziarsene: non so se «s’incavedia» sia un neologismo, ma certo chiunque abiti in un palazzo dell’ultimo secolo, sa cosa sono i cavedii, e quale fitto di buio e di paure in esso si concentri. Le parole della poesia sono sempre sensibili, dotate di una loro materia fisica, concreta, con tutte le risonanze, le scie di luce e di ombra che ogni oggetto – e ogni nome – inesorabilmente porta con sé.[4]

Qui la poesia sembra annunciare, in modalità lucreziane, la folgorazione vigile della realtà, il classico che promana la sua effige tragica, il seme conflagrato, la sua cognizione altera, e il confine vacillato della mente, dove la luce degli enti è uncino e trono di nubi, si sospende nel tremore che si ripete incessante da ogni inizio, che «non elude nulla, nulla censura, nulla pare riscattare anche perché – a differenza di un altro lombardo senza riparo, Testori – qui non c’è nulla da riscattare, non è centrale il tema di una colpa o peccato, ma solo punto, calo di forze, sperdimento[5]».

L’infinita somma dei colori conflagrano e smottano nel fondo, laddove la muraglia montaliana del tempo contrassegna l’imo infero e le sue code, la dispersione nebulare, l’appercezione e l’infinita sospensione di quel che ci precede e ci segue, come sguardo che travaglia e separa ogni sperdutezza lontana: «Una linea infinita di tempo / ci precede; un’altra / ci segue: attoniti le contempliamo, / sospesi fra due mondi / indifferenti, lontano. Eppure, niente li separa / se non te, che guardi».

Nell’infinita radura urtata del nostro vivere rimane questo spaesamento, la perdita nel possente inizio delle cose («quando ancora niente è in noi / se non caldo grembo, cibo, sonno, / suoni stranieri che rimbombano nel cavo / della mente»), la loro nascita inaudita e la loro corteccia come lungo bagliore e stridore finale: «Stride, il cielo, e stridono / le vertebre dell’aria. Guardi in su, dove / gli occhi si nutrono – stupiti – / di una materia sottile, / più sottile, infinitesima, tenebrosa / quasi – e ti sprofondi / in una palude di ozi, di silenzi vasti e / lunghissimi».

La stanza declinata degli occhi, sopra le mura incendiate del mondo, accende briciole e barbagli. Qui l’apparizione rarefatta della materia plasma l’origine remota dei frantumi, i residui e i lumi nelle stive, i grumi e le scorie, fermentando il grembo primario delle cose come un soffio evaso.

[1] Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.

[2] Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (https://www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.

[3] Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.

[4] Pontiggia G., in Di Palmo P., cit.

[5] Rondoni D., cit.

copertina_il-moto-delle-cosePontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017, pp. 160, Euro 18.

 

 

 

 

 

Pontiggia G., Il moto delle cose, Mondadori, Milano 2017.

Di Palmo P., La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia. Cieli senza dèi, (http://www.succedeoggi.it/2016/12/cieli-senza-dei/), 12.2016.

Filia F., (poetarumsilva.com/2017/10/09/giancarlo-pontiggia-il-moto-delle-cose/), 9 ottobre 2017.

Rondoni D., Il retro dell’arazzo di Pontiggia, (www.rivistaclandestino.com/il-retro-dellarazzo-di-pontiggia/), 24 settembre 2017.

 

L’esilio reduce di Ghiorgos Seferis

di Andrea Galgano 29 settembre 2017

leggi in pdf L’esilio reduce di Ghiorgos Seferis

giorgos_seferis_1963Nella sua voce risuonava una nota dolente come se l’oggetto del suo amore, la sua adorata Grecia, avesse malaccortamente e distrattamente rovinato le acute risonanze dell’ululato. Il mellifluo cantore asiatico era stato più d’una volta costretto da una folgore inattesa al silenzio; le sue poesie si facevano sempre più dense, sfavillanti, rivelatrici.

Henry  Miller

Il nomadismo di Ghiorgos Seferis, pseudonimo di Georgios Seferiades, (1900-1971) è una migrazione dello sguardo. Una migrazione toccata dalla scalfittura disorientata dell’anima. Ed è la stessa anima a recare il portato di una vertigine umbratile e precisa che lega il brogliaccio di passato e presente, nazione e patria perduta, memoria, identità, folto di immagine che incastona Omero, Eschilo, Sofocle, Pindaro, Massimo Cazzulo afferma:

La scelta linguistica indica chiaramente i due poli attorno ai quali orbita la poesia seferiana: culturale l’uno, etico l’altro. Culturale perché trivellare gli strati successivi della lingua, recuperare il passato e farlo rivivere innestandolo nel tessuto linguistico più vivo e corrente significa dichiarare implicitamente la continuità della lingua greca, negare qualsiasi iato tra passato e presente […][1]

Una corposa antologia di testi, Le poesie[2], (da Svolta del 1931, fino a Quaderno di Esercizi, II, raccolta postuma del 1976), che è stata da poco pubblicata dall’editore Crocetti, con la traduzione di Nicola Crocetti e la prefazione di Nicola Gardini, restituisce agli occhi la condizione di un poeta che porta addosso il segno di un luogo di bellezza e asperità, la raffinatezza e la tradizione, il mito e il suo «porto sepolto».

Nato a Smirne, si trasferì ad Atene con la famiglia nel 1914, formatosi poi nella facoltà di Giurisprudenza di Parigi (si laureò nel 1924) dove seguì il padre, giurista insigne di Diritto Internazionale, da qui guardò alla catastrofe dell’Asia Minore, ossia la disfatta dell’esercito greco in Asia Minore, appunto, durante la guerra greco-turca, la distruzione di Smirne e il conseguente abbandono delle comunità greche di quella zona.

Rientrò in Grecia nel 1926, dove intraprese la carriera diplomatica che lo renderà cosmopolita e poliglotta (spiccano i viaggi ad Ankara e Londra tra tutti, in quest’ultima infatti fu decisiva per la conoscenza e la traduzione della poesia di Eliot prima, Pound, Valéry e Auden poi, ma anche Albania, Nord Africa e Medio Oriente). Quando fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1963, Atene stava attraversando gli anni più bui della dittatura dei colonnelli, la sua dichiarazione pubblica, avvenuta poco tempo prima della morte, rappresentò un emblema di forza e splendore, e i suoi funerali divennero, pertanto, una sorta di manifestazione politica, di riscatto e di tensione.

Roberto Galaverni scrive:

Se a partire dal romanticismo – pensiamo solo a Schiller e a Leopardi – i poeti ci hanno detto che il rapporto con l’origine è perduto, per un autore neogreco qual è appunto Seferis questa rottura doveva assumere un carattere insieme drammatico e totalizzante, diventare il segno o la cifra unica del destino, visto che riguardava la patria stessa della poesia, e allora la perdita dell’armonia e della pienezza, della lingua e del canto, della possibilità di ordinare il mondo secondo giustizia […] tuttavia, non sarebbe giusto derivare meccanicamente la sua vicenda poetica dagli eventi dello sradicamento e da una ferita pur così profonda e immedicabile. Questi costituiscono piuttosto un elemento importante di un percorso di svelamento e di conoscenza più ampio (condotto sempre attraverso gli strumenti poetici e secondo l’etica del verso), che si allarga via via ad anelli concentrici fino a configurare alcune fondamentali verità dell’uomo non in termini storici o circostanziali, bensì assoluti, inamovibili, eterni.[3]

L’erranza costituisce non soltanto il passaggio vociante di una condizione, ma, soprattutto, l’epos di una linea che cerca di cucire il tempo affondato nel sangue, la scelta della poesia, il repertorio degli antichi detriti e l’interrogazione del destino.

Il poeta ci dice il suo disgiungimento dell’anima dinanzi alla clessidra muta, al repertorio dell’attimo invischiato nella domanda, il buio vivo dell’istante dinanzi al vasto mondo che richiama e si richiama: «Attimo, inviato da una mano / che avevo tanto amato, / mi hai raggiunto al tramonto come una colomba nera. / Biancheggiava di fronte a me la strada, / alito dolce del sonno / al termine dell’ultima cena… / Attimo, grano di sabbia, / che da solo hai tenuto tutta / la tragica clessidra muta, / come se avesse visto l’Idra / nel giardino celeste» (Svolta).

I drammi che tremano nella loro nudità sono melodie di lacrime sradicate (Oreste, Astianatte, Andròmeda, Alessandro Magno e i mille volti sconosciuti), corpi che ritornano alla loro fruttifera estremità, singhiozzo che dona al mondo un cielo pieno di stelle, il cuore disertore che disegna fondi di nudità:

Sul sasso della pazienza / sedesti verso sera, / e il nero della pupilla / svelava il tuo dolore; / e sulle labbra avevi / la linea che trema nuda / quando l’anima si fa arcolaio / e pregano i singhiozzi; / avevi in mente la melodia / che muove alle lacrime / eri un corpo che dall’estremità / ritorna al frutto; / ma lo strazio del tuo cuore / divenne senza un gemito / il senso che dona al mondo / un cielo pieno di stelle (La ragazza triste).

Nella sua profondità si rinviene sempre un lascito di meraviglia ancestrale, qualcosa che non si disfa mentre si cerca di raggiungerla, mentre si ha coscienza di una perdita già insita, una fame satolla e incosciente che è soffio cancellato e diario segreto di un incastrato miraggio.

È un canto stretto, allora, che ritma le nebbie, un affossamento di immagine che tiene l’anima ancora, mentre i ricordi brillano nel loro bruciore ritrovato e nella efferatezza di uno smarrimento scolpito: «Si gonfia lento il mare, le sartie menano vanto e si addolcisce il giorno. / Tre delfini nereggiano luccicanti, la gòrgone sorride, e un marinaio fa cenni, dimentico a cavalcioni sull’albero di gabbia».

L’esperienza singola, che raggruma poi l’esperienza universale stremata, dispone la catabasi disorientata del folto dell’essere e il remoto reperito dal foglio.

Il tempo di Seferis è un sommerso tempo spogliato, laddove l’amore rimane la lama del silenzio e la chimera, il velo piaggiato, la confessione contrapposta  e inconsolabile, come accade in Scolii:

Sulla veranda si era fatta sera / la fretta batteva le ali a noi vicina / e nei due cuori aveva la sua tana / una confessione contrapposta. / Sfiorita la voce infruttuosa / sui labbri sciami di errori a iosa / solo dal fondo del corpo, cielo, / aspettavamo della grazia il velo. / Il buio ronzava nella villa / e dalla luce della stella a oriente / fino al magnete dei tuoi capelli, / ricorda l’angelo trascendente / all’improvviso con rapidi anelli / caduti, due ventagli nel pensiero / che con la stessa implorazione / leggevamo come un evangelo. / Donna estranea al mio cuore, / bella donna adorata, / mi resta il tuo stupore / in questa sera insensata  / dei tuoi occhi gli anelli neri / e l’orrore leggero della sera…/ Chínati, rientra nel tuo fodero / lama del mio silenzio, mia chimera.

L’assolutezza sfrontata è sete e fame di occhi chiusi che cercano la volta del firmamento, «la luce oltremare / sopra le nostre dita», la figura della Gòrgone che appare come un epicedio di sguardo.

Nicola Gardini afferma:

[…] la poesia […] è esclamazione, impeto, che le parole sempre distorcono in qualche misura, producendo nel lettore o nell’ascoltatore la pretesa di un messaggio o di un pur minimo senso. L’ “ah!” Seferis riesce a esprimerlo in modo convincente, fino alla fine, accarezzando il senso, indicandolo, e sempre riuscendo a scansarlo, allontanandolo dopo averlo intuito, alternando la precisione dello stile – vigile e sintetico – con la vaghezza e la suggestione, perfino una qualche dispersività. […] Le poesie di Seferis sembrano nascere da un’occasione, quasi sempre, e l’occasione risulta privata della sua “occasionalità”, ridotta a evento assoluto e, così, alla fine in giudicabile, imprendibile, perfetti e imperfettibile in una volta. I ricordi ci sono, ma non costruiscono una memoria, non in senso autobiografico e nemmeno proustiano; non vogliono, forse non devono, perché il recupero è dato per impossibile, e vince solo la perdita, il tempo distruttore, l’irritrovabile.[4]

In Seferis, avviene sia l’elezione rammagliata del tempo, sia lo svanimento della pronunciazione, che è sì smarrita, senza traccia, inabissata, ma quando si rivela, nella vita che viene meno e negli inferi, celebra lo smottamento di ciò che non finisce, il nero grappolo d’uva sotto il sole a picco, il corpo, il ricco veliero delle cose.

In questo canto, così appartato e vivente, si consuma il dramma dell’esistere («I segreti del mare si scordano sulla riva / la tenebra dell’abisso si scorda nella stiva; / risplendono purpurei i coralli del ricordo…»), la cenere e la vertigine del litorale, il silenzio folto e le parole confuse al sangue come nell’amore.

Mario Vitti sostiene:

Gli aspetti che continuano ad affascinare il lettore di Seferis, a distanza di trent’anni dal Premio, sono rappresentati soprattutto dalla presenza nella sua poesia dell’ambiente insulare greco e dall’uso particolare del mito classico. Si tratta di due aspetti coesistenti e interdipendenti, che stanno a fondamento dell’indole poetica di questo autore. L’esperienza quotidiana del paesaggio greco che si schiude alla sua vista assume in lui un significato esistenziale, non appena questa presenza fisica viene posta a confronto con la memoria di fatti e personaggi appartenenti al passato, in particolare al mondo antico. In un simile coinvolgimento di sensi e della mente sembra naturale che il paesaggio e il mito nato in questo paesaggio si confondano; poiché infatti è quasi normale per un greco sensibile, sul quale pesano la memoria storica e il mito della classicità, avere una visione “greca” del dramma che nasce e finisce con la vita di ciascun uomo, nel modo in cui sa di esserlo Seferis.[5]

Queste ombre di noci in fiore, le lanugini del bacio alle foglie, le letture dimenticate, la lievità di conchiglie e lamenti, fondi di istanti e rapidi sistri di vento, cercano lo specchio di un ricongiungimento di epoche, il viaggio non consunto che ripete uno scenario drammatico e irripetibile che, attraverso «La mediazione del paesaggio fa giungere al poeta voci di altre esistenze, di altre persone più vere, più autentiche di quelle che si trovano intorno a lui e in mezzo alle quali è condannato a vivere[6]»:

Sul sasso della pazienza aspettiamo il prodigio / che ci dischiude i cieli e rende tutto meno grigio / come nel dramma antico il nunzio viene a riferire / nell’ora in cui svaniscono le rose dell’imbrunire… / Rosa scarlatta del vento e del fato, puoi restare / solo nella memoria, come un ritmo profondo, / rosa notturna, passasti come un ondeggiare / purpureo del mare…Così semplice è il mondo.

Ne La cisterna, la fioritura della luce cade nel ritmo disanimato del tramonto e il moto delle cose si spegne in un buiore d’ebano.

Ecco questa caduta è il fiore che forza la bellezza della prospettiva. Prospettiva piegata (e piagata, certo), ma che nella impurità linguistica dispone il tempo sfiorato e concepisce grembi di parole nude e speranze dove «Scorrono le ore, i soli, le lune, / rappresa come uno specchio è l’acqua; / sta con gli occhi sgranati la speranza / quando tutte le vele affondano / all’estremo mare che le nutre».

Se di impurità si tratta, è soprattutto desiderio di amore infinito, non una cesura con l’esistente. Che possa così frangersi sulla riva l’onda che sulla sabbia resta schiuma. L’amore di Seferis per l’esistente è mare («Il mare con cui venisti ti ha portato / lontano, tra i limoneti in fiore, / ora, al risveglio dolce delle Parche, / mille figure con tre semplici rughe / conducono il Sepolcro in processione»), un corpo segreto, un profondo grido, «uscito dalla grotta della morte, / come l’acqua briosa dentro il solco / come l’acqua che splende solitaria / tra l’erba e parla alle radici nere…», poiché «la notte non crede più nell’alba / l’amore vive per tessere la morte / come l’anima libera, così, una costerna che educa il silenzio / nella città avvolta dalle fiamme».

Ecco i rilievi di un’arte disadorna, protesa al primo seme che ricomincia. Le dita avvertono il fresco della pietra nel rischio dell’anima e nel silenzio al colmo. Mani scomparse e mutile, come se nella separazione ci fosse qualcosa che fa cadere i sogni e le membra fiacche:

Tornammo sfiniti alle nostre case / le membra fiacche, la bocca devastata / dal sapore di ruggine e salsedine. / Al risveglio, ci dirigemmo a nord, estranei / immersi nella bruma delle ali immacolate dei cigni che ci ferivano. / Le notti d’inverno, l’impetuoso vento dell’est ci toglieva il senno / d’estate ci perdevamo nell’agonia del giorno che non riusciva ad estinguersi. / Riportammo indietro / questi rilievi di un’arte disadorna.

La poesia si muove, quindi, attraverso il contrasto irrisolto del tempo, laddove la giustizia riceve il taglio irrisolto di una invocazione amorosa, non conclusa. Il viaggio dell’anima, che insegue lo spazio minimo di respiro, è logorato, non solo dalla guerra, dall’esilio e dalla perenne fenditura, ma dall’ininterrotto richiamo con chi ci ha preceduto e fatto vivere.

In Seferis, questa sempiterna feritoia trova il suo acme ne Il re di Asíne, in cui il minuto richiamo omerico si accompagna all’incontro sensoriale e memoriale, e dove rivive la domanda che giace nel fondo, come uno spigolo di sogno:

E il poeta si attarda a guardare le pietre e si domanda / chissà se esistono / in mezzo a queste linee guaste, agli spigoli, alle punte alle curve, alle cavità / chissà se esistono / qui, dove s’incontrano la pioggia, il vento e l’usura / se esistono il moto del viso, la forma dell’affetto / di quanti diminuirono così stranamente nella nostra vita / di quanti rimasero ombre di flutti e pensieri nella sconfinatezza del mare? / O forse no, non resta altro che il peso / la nostalgia del peso di un’esistenza viva […]

È istinto ulissico, quando riporta l’àncora tra gli asfodeli, sembra un angiporto nel paese chiuso di navi spezzate dai viaggi conclusi e corpi che non sanno più amare, quando porta al suo interno i remi rotti nella calma sconfinata delle acque.

Anche il vento rappresenta la decimazione dell’aria nella separazione, nelle ferite delle terre straniere, come una lettera infinita che unisce luce ed oscurità nel piovasco che grava:

Chi ci leverà dal cuore questa pena? / Ieri sera un piovasco e oggi / il cielo coperto grava ancora. I nostri pensieri / come gli aghi di pino del piovasco d’ieri / ammucchiati sulla porta di casa e inutili / vogliono innalzare una torre che crolla. / In questi villaggi decimati / su questo promontorio esposto al vento del sud / con la linea dei monti che ti nasconde, / chi valuterà per noi la decisione dell’oblio? / Chi accetterà la nostra offerta in questa fine d’autunno?

Ciò che trema nel fondo è il senso del tragico, che attraverso la concrezione di immagini frante, depone il depredamento e sprofondamento delle luci. Si pensi anche alla porosità marina di Kichli, dove la calma delle acque naufraghe gli consentiranno un serrato dialogo con il passato, in una sorta di nekyiomanteia.

Non solo, il tono reduce di un relitto che affiora dal mare di Poros «fa scattare nell’anima del poeta un riflesso quasi condizionato. Il poeta, nello scorgere la nave adagiata sul fondale, percepisce delle voci. Il relitto è un mediatore che suscita nella sua memoria persone care del passato, forse dimenticate, forse tradite[7]».

Il taglio raro del silenzio, le statue infrante, lo sconforto che nasce dalla resa delle realtà perdute, il dolore impossibile ed inevitabile («Tutto ciò che amai si è perso con le case / che l’altra estate erano nuove / e son crollate al vento dell’autunno») non riescono ad annullare i mandorli in fiore, i marmi splendenti, il mare che si frange («Chìnati, se puoi, sul mare oscuro dimenticando / il suono di flauto sopra i piedi nudi / che calpestarono il tuo sonno nell’altra vita sommersa. / Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio / il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi»):

Tante e tante cose ci sono passate sotto gli occhi / che gli occhi non hanno visto nulla, ma più oltre / e dietro, la memoria come un telo bianco una notte in un recinto / dove avemmo strane visioni, più strane anche di te, / passare dileguando nell’immoto fogliame di uno schino; / perché abbiamo conosciuto così bene la nostra sorte / vagando tra le pietre rotte, per tremila o seimila anni, / frugando in edifici diroccati che forse erano casa nostra, / tentando di ricordare date e gesta eroiche; / ci riusciremo? / perché siamo stati legati e dispersi / abbiamo lottato con difficoltà – dicevano – inesistenti, / smarriti, ritrovando una strada piena di reggimenti ciechi, / sprofondando in paludi e nel lago di Maratona; / riusciremo a morire normalmente? .

Questa oscurità sommersa e opaca si espone all’abisso, all’estraneità vivente, all’affranta metrica dei sistri del tempo. Ma è origine, genesi, sboccio dell’attimo che cresce come lama sospesa che aduna l’umano, sparpagliato in mille frammenti, come lo stupore puro di una fuga amata:

Non altro che questo era il nostro amore / fuggiva, tornava e ci portava / una palpebra china assai distante / un sorriso pietrificato, perso  / nell’erba mattutina / una conchiglia strana che l’anima / tentava con insistenza di spiegare. / Non altro che questo era il nostro amore / frugava piano tra le cose intorno a noi / per spiegare perché ci rifiutiamo di morire / tanto appassionatamente. / E se ci reggemmo a lombi, se abbracciammo / altre nuche con tutta la nostra forza, / e confondemmo il respiro / al respiro di quella persona / se chiudemmo gli occhi, non era altro / che questo profondo desiderio di sorreggerci / nella fuga.

Il suo diario di bordo solleva la polvere dei gesti, i sussurri violentati e le sete dorate dei ricami d’oro, dove poter emettere l’amore sotto le vene, l’acqua piovana, le lunghe ombre espatriate dei pendii e, infine, la volta dei platani come grazia semplice.

Durante i viaggi a Cipro, Seferis respira l’avvenimento di ciò che c’è, l’affioramento di qualcosa che si credeva irrimediabilmente sommerso, il recupero millenario delle voci aediche, il miracolo cosmico che regola la materia universale:

Il mondo / ritornava com’era, il nostro, / con il tempo e la terra. / Profumi di lentisco / si riversarono sulle pendici antiche della memoria, / grembi tra foglie, umide labbra; / e tutto si seccò d’un tratto nell’estesa piana, / nella disperazione della pietra, nella forza erosa, / nel luogo vuoto con l’erba rada e i rovi / dove strisciava un serpente spensierato, / dove impiegano molto tempo per morire (èngomi).

Nelle confessioni agli scali delle stelle, nelle fughe e nelle sabbie, così come negli autunni piovosi, l’uomo cerca l’erba assetata e la sua insaziabilità si riflette nel dolore, quando l’inseguimento di Dio diviene un lungo viaggio nel fumo azzurro e nell’amore.

Si potesse far riposare le proprie disiecta membra, che ricordano il passato inseguito tra ruderi sfasati e bellezze eterne e sfibrate: «La prima cosa che Dio ha creato è l’amore / poi viene il sangue / e la sete di sangue / pungolata / dallo sperma del corpo come dal sale. / La prima cosa che Dio ha creato è il lungo viaggio; / quella casa aspetta / con un fumo azzurro / con un cane invecchiato / che aspetta il ritorno per morire».

Il suo tremore tattile dispiega, allora, le ciglia sprofondate e sghembe come conchiglie, l’orizzonte coperto e l’assoluta cadenza delle basole:

Apri gli occhi e dispiega / il panno nero e tendilo / apri bene gli occhi, fissali / concèntrati, concèntrati, ora sai / che il panno nero non si dispiega / nel sonno e neppure nell’acqua / né quando le ciglia rugose calano / e sprofondano sghembe come conchiglie, / ora sai che la pelle nera del tamburo / ti copre tutto l’orizzonte / quando apri gli occhi riposato, così. / Tra l’equinozio di primavera e l’equinozio d’autunno / qui c’è l’acqua corrente, qui c’è il giardino / qui ronzano le api in mezzo ai rami / e squillano nelle orecchie di un neonato / ed ecco il sole! e gli uccelli del paradiso / un sole enorme, più grande dalla luce (Mattina)

Il suo pronunciamento diviene aperto, dunque, nei varchi splendenti, in cui egli parla sull’orlo dell’abisso, attraverso una quête di intaglio e memoria, che vuole sfuggire al tempo e dimorarvi, allo stesso tempo, con un tocco, uno sfioramento, un ornamento al di là del vuoto.

Il respiro non rappresenta soltanto la sorgente da cui prendere fiato, è anche lo sperdimento della lingua che nomina, dove tutto è eterno ed effimero, come la Grecia che strazia ovunque:

Perché credo che la poesia sia necessaria a questo mondo moderno in cui siamo affetti da ansia e paura. La poesia ha le sue radici nel respiro umano: e cosa mai saremmo se il nostro respiro dovesse venir meno? La poesia è un atto di fiducia: e chi sa se il nostro disagio non dipenda da una mancanza di fiducia. […] E devo aggiungere che oggi dobbiamo ascoltare quella voce umana che chiamiamo poesia, quella voce che rischia sempre di andare estinta per mancanza di amore, ma che sempre rinasce. Minacciata, ha sempre trovato un rifugio; rifiutata, rimette sempre radice nei luoghi più impensabili. Non fa distinzione tra luoghi grandi o piccoli del mondo; la sua patria è nel cuore degli uomini di tutto l’universo; ha l’istinto di sapersi sottrarre al circolo vizioso dell’abitudine (dal discorso di accettazione del Premio Nobel).

[1] Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

[2] Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

[3] Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

[4] Gardini N., La voce di Seferis, in Seferis G., Le poesie, cit., pp. pp.8-9.

[5] Vitti M., Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

[6] Vitti M., cit.

[7] Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

seferis147337Seferis G., Le poesie, Crocetti, Milano 2017, pp. 288, Euro 15.

 

Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

  • Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

 

Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

leggi in pdf Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini – Diego Baldassarre

17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».