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Odisseas Elitis: il minuto segreto delle cose

di Andrea Galgano  16 giugno 2021

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«Ho colto la mia immagine tra un mare che si affaccia dal muretto bianco di calce di una chiesa e una ragazza scalza cui il vento solleva la veste: un momento felice cui tendo un agguato cercando di catturarlo con parole greche».

La dimensione europea di Odisseas Elitis (1911-1996), luce fulgida della poesia contemporanea greca e premio Nobel per la Letteratura nel 1979, assurge, da un lato, al debito innegabile verso éluard, Valéry e Breton e, dall’altro, alla potenza raffigurativa greca immersa in una ricchezza elusiva e luminosa «ma anche poesia dell’ombra, dell’angoscia e della ricerca interiore, vicina ai grandi classici dell’epoca classica, Saffo soprattutto, e poesia filosofica e di riflessione esistenziale che talora arriva a prendere in considerazione un suo dialogo con la storia fino a realizzare una fusione armonica di queste due tendenze senza più distinzione tra pensiero e sentimento, tra l’ispirazione lirica e quella filosofica, tra prosa e poesia[1]».

La pubblicazione, presso Crocetti, delle sue Poesie[2], a cura di Filippomaria Pontani, con traduzioni di Filippo Maria Pontani e Nicola Crocetti, consegna la bellezza rinnovata, l’accento puro e umbratile, l’irradiazione infinita del tempo verso l’Assoluto, in una sinfonia sensuale e compiuta che raggiunge la metafisica solare e il corpo della lingua (si pensi alle torsioni, alle ellissi de Il Piccolo Marinaio, dove il metalinguismo raggiunge una sorta di elastica purezza), attraverso segnali che caratterizzano la poesia di Elitis come specchio vitale dell’altro verso delle cose e tensione.

Come avviene, ad esempio, nei movimenti di alterità frammentata del dialogo di Maria Nuvola, dove si addensano spostamenti di tangibile e intelligibile o alla densità ritrattistica di Fratellastri:

«naturalistica, metastorica e glottocentrica. […] Il parametro naturalistico si riferisce  alla grande attenzione, determinante per la poesia di Elitis, per il micro e macrocosmo della natura: un cosmo nativo ed estraneo, vicino e lontano, animato e inanimato, vegetale, animale, umano: un cosmo dal quale emergono fanciulle amorose, simboli di emozione sensuale ed estetica. La metastoria allude alla deviazione o al superamento della storia, quando e dove essa sia segnata da implicazioni belliche e politiche, da stragi intestine e da ferite infette».[3]

Filippomaria Pontani afferma:

«Poesia come sensazione, trasparente come luce, luminosa come il sole, magica come il mare, concreta e forte come la Grecia; poesia come frutto di una lingua che non conosce il chiaroscuro, lingua perenne che guida la parola sull’onda della sua forza morale prima ancora che estetica o espressiva; poesia come “fonte di innocenza colma di forze rivoluzionarie”, come mito che non è più quello marmoreo e atteso delle storie antiche ma cresce come frutto di un processo autonomo e idiosincratico di “mitizzazione” del reale secondo canali tutti propri. Questa è la poesia di un Greco (Ellinas), di un vagabondo (alitis), di un uomo libero (elèftheros), di un devoto seguace di éluard (in particolare L’amour la poésie), pronto ad assumere sin da giovane uno pseudonimo (era nato come Odisseas Alepudis nel 1911 a Iraklio di Creta) per precipitarvi un precocissimo testamento di ideali».[4]

In Orientamenti (1940), il sipario greco di fiamma, l’alfabeto dei paesaggi, la sillaba di mare e terraferma, le evocazioni e i richiami, la metrica della materia, il colore degli arcipelaghi segnano il tempo dello zefiro egeo, i baci dell’aurora, l’orizzonte ampio dei risvegli e i notturni insanati delle dita dei cipressi, «in un pervicace ilozoismo sinestetico che trascolorava dal mare al giardino, dai melograni alle fanciulle, dal vento al bacio, dall’estate all’uva, dagli uliveti ai giacinti, dalla notte al fuoco, dalla roccia al fuoco[5]».

Inoltre, lo sciabordío d’amore è una memoria turchese di braccia dischiuse, palpebre insonni ed epigrammi di luce, fino alle clessidre dell’ignoto e al segreto della trasparenza:

«S’infuria il sole, la sua ombra incatenata dà la caccia al mare / Una casetta, due casette, il pugno chiuso dalla rugiada profuma ogni cosa / Fiamme e fiamme vanno in giro a svegliare porte chiuse delle risate / è tempo che i mari si presentino ai pericoli / Che volete chiede il raggio, che volete chiede la speranza / calando la sua camicetta bianca / Ma il vento ha seccato la vampa, due occhi pensano / Senza sapere che fine faranno così denso è il loro futuro / Verrà un giorno che il sughero imiterà l’àncora e ruberà il sapore dell’abisso / Verrà un giorno che la loro duplice identità diventerà una sola / Più in alto o più in basso delle vette che ha incrinato il canto del Vespro / Di stasera, non importa, l’importante è altrove / Una ragazza, due ragazze, si curvano sui loro gelsomini e scompaiono / Resta un torrente a raccontarle ma proprio lì le notti si sono chinate a bere / Grandi colombi e grandi sentimenti coprono il loro silenzio / Pare quella loro passione sia irredimibile / Nessuno sa se verrà il dolore a spogliarsi insieme a loro / Le trappole scarseggiano, le stelle indicano agli amanti gli incantesimi / Tutto balza, si aggroviglia – pare sia giunta l’immortalità / La cercano le mani stringendo il loro destino che ha cambiato corpo e si è fatto vento / Forte – pare sia giunta l’immortalità».

Il femminile di Elitis è una transustanziazione di grazia e bellezza, un concerto di giacinti, orizzonti remoti e ricordo glauco, voci che si dimenticano, viaggi di dita sui pioppi che spartiscono il vento e labbra introvabili, come le parole che affilano l’immenso:

«Emozione. Le foglie tremano vivendo insieme e vivendo separate sui pioppi che spartiscono il vento. Prima dei tuoi occhi è il vento che mette in fuga questi ricordi, questi ciottoli – le chimere! L’ora è liquida e tu ti appoggi su di lei, piena di spine. Penso a coloro che non hanno mai accettato salvagenti. Che amano la luce sotto le
palpebre, che quando il sonno è allo zenit esaminano svegli le loro mani aperte. Voglio chiudere i cerchi aperti dalle tue dita, e applicarvi sopra il cielo perché non sia mai diversa la loro ultima parola. Parlami; ma parlami di lacrime».

E ricolme dell’isola di Thera (Santorini), esse attraversano la notte che erra nei deserti degli astri, come nascita primigenia e porfirogenita:

«IX

Io non ho fatto altro. T’ho presa come tu prendesti la natura intatta e l’officiasti ventiquattro volte entro le selve e i mari. T’ho presa in quello stesso brivido che rovesciava le parole e le lasciava lungi come aperti in surrogabili gusci. T’ho presa compagna nella folgore, nel terrore, nell’istinto. Perciò ogni volta che cambio giorno stringendomi il cuore fino al nadir, tu fuggi e sparisci vincendo la tua presenza, creando un deserto di Dio una tumultuosa inesplicabile felicità. Io non ho fatto altro che quello che ho trovato e imitato in Te!

X

Ancora una volta tra i ciliegi le tue labbra introvabili. Ancora una volta tra le amache vegetali i tuoi antichi sogni. Un’altra volta nei tuoi antichi sogni le canzoni che si accendono e svaniscono. Dentro quelle che si accendono e svaniscono i caldi segreti dell’universo. I segreti dell’universo».

Oppure attraverso la pienezza dell’istante che lega abisso e brillìo, estati azzurre, labbra rosse e rocce di enigma, lontananze e sabbia tra le dita, il corpo dell’amata diviene il primo giorno sulla terra, tra i melograni folli e lidi inodori:

«Hai sulle labbra gusto di procella / Un vestito ch’è rosso come il sangue / Giù nel fondo dell’oro dell’estate / L’aroma dei giacinti – Dove mai vagavi / Calando ai litorali ai golfi con i ciottoli / Là c’era un’alga gelida salmastra / Più in fondo un sentimenti umano dava sangue / Aprivi attonita le braccia e ne dicevi il nome / Salendo lieve a specchi diafani d’abissi / Dove l’asteria tua brillava».

Nel corpo dell’estate si afferma l’assoluto imprendibile, la densità dell’istante, la goccia che trema nel sole, il fremito nudo dell’ultima pioggia e le variazioni su un raggio, come illibata libertà:

«Aroma eccelso del dito immilla la passione / Il mio occhio aperto duole sulle spine / Non è la fonte che brama gli uccelli dei due seni / Quanto il ronzio di vespa sulle anche nude. / Datemi la cicatrice dell’amaranto le magie / Della giovane filatrice / L’ “addio” l’ “arrivo” il “ti darò” / Caverne di salute lo berranno alla salute del sole / Il mondo sarà la morte o il doppio viaggio / Qui nel lenzuolo del vento lì nello sguardo dell’immenso».

I 14 quadri che compongono il Canto eroico e funebre per il sottotenente caduto in Albania, dato dopo aver rischiato la morte a causa del tifo, racconta la genesi dell’immolazione e il dramma della libertà e «proietta il sacrificio di un singolo combattente entro uno scenario di “morte e risurrezione” (emblematico il rintocco delle campani pasquali nell’ultimo testo) che coinvolge l’intera stirpe ellenica, ma più ampiamente l’uomo stesso, che tramite la lotta per la libertà e l’espiazione redime i luoghi e il cosmo portandoli a una compiuta perfezione[6]».

La passione ritorna in Dignum est (1959), dove l’inno di ringraziamento e celebrazione della tradizione liturgica ortodossa, unisce le campiture religiose, in particolare del Genesi, alla salmodia della Passione, fino al Gloria che prorompe come gemma di luce e dà vita e respiro alla bellezza.

Il travaglio della storia accompagna la sortita di ogni pienezza, la folgore di ogni umana tensione e l’avviluppo delle contraddizioni del tempo. L’autobiografia e il salmo, la voracità delle cose e la gloria di ogni lingua e stratificazione.

Il cuore dell’innocenza perduta, la lotta, il riscatto, la compiutezza morale, la fragranza ricolma della realtà, in tutta la sua gratuità (rocce, il fruscìo delle onde, le lacrime, muri, case, olivi e giardini, il corpo femminile disteso, i melograni, la sabbia di tenebra) condiscono la stilla di acqua limpida della poesia, dove, come afferma Filippomaria Pontani, il thànatos è anima del maschile, innervando il territorio della femminilità e della soggettività di Eros.

L’albero di luce e la quattordicesima bellezza (1971), che rimanda alle donne sciite, attraversa la crisi della Grecia odierna, non solo appropriandosi di una lacerazione di rimpianto e nostalgia, ma anche attraverso l’inserzione di un vocabolario autobiografico di infanzia e adolescenza e dell’enigma bianco dell’anima:

«Lo so che tutto questo è nulla  e che non ha questa lingua che parlo un alfabeto / Visto che il sole e i flutti sono una scrittura sillabica che tu decifri solo nei tempi del dolore e dell’esilio / E la patria  un affresco con strati successivi franchi o slavi   se mai ti provi a restaurarli te ne vai in prigione all’istante  e rendi conto / A una congerie di Potenze straniere   tramite la tua / Come succede per le calamità / E tuttavia   immaginiamo un’aia di remoti tempi che può stare in un grande casamento   che vi giochino bambini e che chi perde / A norma di regolamenti sia tenuto   a dire agli altri e a dare qualche verità  / Quando sono alla fine tutti tengano in mano un piccolo / Dono argenteo poema».

Il poema-luce di Monogramma restituisce l’infinita sensualità dei passaggi quotidiani: i bisbigli, i pleniluni, i varchi del mare, il silenzio delle stelle, come un tempo remoto di un affresco diruto di incanto e profumo («Il tuo corpo nella posa del pino solitario / Occhi di orgoglio e di abisso trasparente / Dentro la casa con la credenza vecchia / I merletti gialli e il legno di cipresso / Io solo ad aspettare la tua prima epifania / Nella loggetta in alto o dietro sulle pietre del cortile / Col cavallo del Santo e l’uovo della Risurrezione»):

«Tanto la notte, tanto l’urlo al vento / Tanto la goccia all’aria, tanto il gran silenzio / Attorno il mare la tirannica / Volta del cielo con le stelle / Tanto il tuo minimo respiro / Che ormai non ho nient’altro / Entro le quattro mura, il soffitto, il pavimento / Per gridare di te (e la voce mi colpisce) / Per odorare di te e gli uomini s’infuriano / Perché ciò che è intentato, portato da un altrove / Non lo reggono gli uomini ed è presto, mi senti / È presto ancora in questo mondo amore mio / Per parlare di te e di me».

Elitis procede per analogia di sensazioni, laddove il paesaggio femminile è natura vivificata, genesi geometrica e ecfrasi di cielo:

«È ancora presto dentro questo mondo, mi senti / Placati non si sono i mostri, mi senti / Il mio perduto sangue e l’appuntito, mi senti / Coltello / Come ariete che corre dentro i cieli / E spezza agli astri i rami, mi senti / Sono io, mi senti / Ti amo, mi senti / Ti tengo e ti porto e ti metto / L’abito candido d’Ofelia, mi senti / Dove mi lasci, dove vai, chi mai, mi sent / È a tenerti per mano sopra i cataclismi / Liane enormi e lave di vulcani / Verrà giorno, mi senti / Che ci seppelliranno e le migliaia d’anni poi, mi senti / Di noi faranno pietre luccicanti, mi senti / Perché vi brilli l’impietosa indifferenza, mi senti / Degli uomini / E in mille pezzi via ci getti, mi senti[…]».

I sintagmi della rêverie, la liturgia, la divinazione suprema ed eliocentrica della luce diventano ultimità ierofanica che tenta di trasformare la realtà, congiungere morale e bellezza, sospendere sintassi  ed enigma, inquietudine vitale, prisma rifratto e destino, come galassia ribassata e fogli nel sole.

O anche nel blu di Iulita, in cui Elitis fa confluire il passaggio del respiro, la sacralità del vento, il mito citereo, il tempo amante, fino alla nitidezza dell’anima, affamata e assetata di eterno:

Anche in un frammento di Briseide e in una conchiglia dell’Euripo si trova
Ciò che intendo. Deve avere avuto una fame tremenda nella bonaccia agosto
Per volere il meltèmi; così da lasciare un po’ di sale sulle ciglia e
In un cielo blu il cui nome benaugurante sentirai tra i tanti

Ma nel profondo è il blu di Iulita
Come se fosse venuta prima la scia del respiro di un bimbo
Che vedi avvicinarsi coì nitidamente i monti dirimpetto
E la voce di un’antica colomba fendere l’onda e perdersi

Se il bene è sacro, di nuovo dal vento
Gli viene restituito. Tanto si moltiplica dai suoi  stessi figli la Bel-
Lezza e tanto l’uomo cresce prima che due o tre volte
Lo raffiguri il sonno
Nel suo specchio. Cogliendo mandarini o ruscelli di filo-

sofi se non anche

Un villaggio mobile di api sul pube. E sia
L’uva fa bruno il sole e più candida la pelle
Chi altri oltre la morte ci rivendica? Chi pratica ingiustizia dietro ricompensa?
Un accordo armonico la vita
a cui si frappone un terzo suono
Ed è questo che dice veramente che cosa getta il povero
E che cosa raccoglie il ricco: fusa di gatto, rametti intrecciato di agnocasto

Assenzio con capperi, parole che si evolvono con una vocale breve
Baci e abbracci da Citera. Così, a cose come queste si aggrappa
L’edera e si fa più grande la luna perché vedano gli innamorati
In che blu di Iulita puoi leggere la ragnatela del destino

Ah! Quanti tramonti ho visto e quanti corridoi di teatri antichi             Ho attraversato. Però il tempo non mi ha mai preso in prestito bellezza
Per ottenere una vittoria contro il nero e prolungare la durata dell’amore cosicchè                                                                                                           Il canto dell’allodola che è in noi sia più ingegnoso e melodico
Dal suo pulpito
Nube accigliata che uno schietto “no” solleva come una piuma
E poi ricade e tu ti sazi ti sazi ti sazi di pioggia
Diventi coetaneo dell’intatto senza conoscerlo e                                              Continui a farti il solletico con le tue cugine nei recessi del giardino
Domani un suonatore ambulante ci annaffierà di fiori della notte
E nonostante ciò saremo un po’ infelici
come solitamente nell’amore
Ma dal mastice dell’argilla sale un sapore eretico
Per metà di odio e sogno per metà di nostalgia                                                                                                                                      Se continueremo a essere percepibili come uomini che
Passano la vita sotto cupole punteggiate da tritoni di smeraldo, allora
Sarà mezzo secondo dopo mezzogiorno
E la sublime perfezione
compiuta in un giardino di giacinti
Cui è stato tolto per sempre l’appassire. Un po’di grigio
Che una sola goccia di limone rasserena allorchè
Vedi ciò che intendevo dall’inizio incidersi
Con caratteri nitidi
sul blu di Iulita.

[1] (a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010, p.X.

[2] Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

[3] Maronitis N.D., Contributo sulla poetica di Odisseas Elitis. Poesie in rilievo e a tuttotondo, in Odisseas Elitis, cit., pp.18-19.

[4] Pontani F., in Elitis O., cit., p.7.

[5] Id., cit.

[6] ID., cit., pp.8-9.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021, pp. 240, Euro 16.

Elitis O., Poesie, a cura di Filippomaria Pontani, Crocetti Editore, Milano 2021.

  • È presto ancora, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.
  • Il metodo del dunque e altri saggi sul lavoro del poeta, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli, Roma 2012.

(a cura di) Minucci P., Odisseas Elitis. Un europeo per metà, Donzelli, Roma 2010.

 

Ljubomir Levčev: la furiosa precisione

di Andrea Galgano  14 maggio 2021

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La poesia di Ljubomir Levčev (1935-2019), uno dei più grandi poeti bulgari, è tempio di precisione furiosa. Poesia che affastella contraddizione e ironia, si ammanta di una temperie di assurdo e cromature vitali, che insegue la nostalgia dell’infinito, e guarda con attenzione e fedeltà, come scrive Roberto Galaverni, «la vita, il mondo, gli altri, sé stesso, proprio come ci si aspetta da un poeta. E lo fa spesso e volentieri per mettere in luce il rovescio, la trama nascosta, la verità e dunque la morale inattesa delle cose. Ma e qui sta il punto, l’intelligenza e l’arguzia delle sue osservazioni non risultano affatto intrise, come quasi sempre accade, di sarcasmo, risentimento o disamore vero l’esistenza».[1]

Con la pubblicazione di I passi dell’ombra[2], edito da Bompiani, a cura di Giuseppe Dell’Agata e introduzione di Vladimir Levcev, la sua poesia esprime, pienamente, una ricchezza di immagini ed è

«adorna di numerose metafore. È musicale, ha i ritmi sincopati della poesia moderna, ma la sua essenza si fonda sulle immagini e sul paragone. Le sue metafore sono spesso strane, moderniste, ma nascono sempre da una realtà concreta (Quando all’improvviso salta la corrente). Il mondo emotivo della sua poesia reca l’alito, l’aroma, il colore del suo tempo, ne utilizza i ritmi e la lingua. Nei versi migliori non c’e niente di artificioso, falso, combinato. Perfino nei cosiddetti Capricci. Perfino le metafore più eccentriche e assurde vengono percepite come una marcata realtà fisica. La sua poesia costituisce una testimonianza di alto significato riguardo al trascorrere del tempo».[3] (p.8).

 Le esclamazioni e le interrogazioni metafisiche, la nudità del cielo notturno che contrasta il limine luminoso del giorno («Amo il cielo di notte, / perche lui solo e nudo. / E questa luce del giorno mi impedisce / di guardare la nudità dell’Universo»), la particolarità delle immagini che raggiungono linee surreali e il fondo dell’assurdo, come i parafulmini, in uno strappo di sipari.

E poi la fraternità, le illusioni di cristallo (le vie scoscese di Tărnovo, invocate come affermazione imperitura) compongono il suo scenario che insegue la bellezza nelle solitarie realtà concrete, nella posizione partecipata e distaccata, insieme.

Andrej Voznesenskij, infatti, afferma:

«Fissare l’attimo e il tratto stilistico di Levčev: negli autentici artisti e in generale nei creatori e presente una forza interiore tesa a superare lo spazio e le strette cornici di ciò che e limitato. Ciò che più gli interessa, come ha scritto in una delle sue poesie, e di essere il più sincero, il più originale, il più se stesso possibile. Il suo verso e intellettuale, ma il suo intellettualismo non e schematico, bensì carnale, virile, colorito». (p.10).

La sua immagine è in movimento, ricorda volti cari (la madre in paradiso) e solitudini accorate, racchiude inserti minimi (come i movimenti della donnola in cantina o i segreti strappati della luna di giorno), il rumore dell’anima e la sensualità dell’amore sospeso («Aprii, / tremante come una fiammella, / e ti vidi, / bellezza – / piena di desiderio, / coi capelli scompigliati dalla luna / e illuminata dal vento della notte, / e con un sussurro di una foglia di giaggiolo:“Eccomi – / Come mi hai immaginato!”/ Chiamami Carmen! / E sappi che ti amo!”»), e soprattutto, la sua luce invisibile è una ricca confidenza indicibile che si interroga e si espone («Come un grillo di città / la mia voce interiore / si interroga»): «Così che, in realtà, / quando salta la corrente, / io vedo / infinite cose, invisibili alla luce. / Per esempio: / all’improvviso capisco / che in città è raccolta / una quantità pericolosa di persone / per ogni metro quadro illuminato. / E non ha più nessun significato, / se sei stato Anteo, / perché / hai molti piani sotto di te / ed essi sono la tua terra».

La sua ironia è una filigrana che serve per mettere a fuoco il problema della realtà, per interrogare il tempo, i sogni e la memoria, e la posa dell’arte, richiamare gli amici scomparsi e guardare alle inserzioni di eterno:

 «E durante questo tempo infinito / guarderò fuori dalla finestra / come cadono le foglie / o rinverdiscono, / come la lontana cupola della chiesa assomiglia / a una tazzina di caffè rivoltata per trarne gli auspici, / come le ragazze si specchiano nelle porte di vetro / e come voi pensate che io non ci sia più per sempre».

I quadri di Levčev incrinano ogni sicurezza, sembrano giocare con le cose, fino al dramma, si spingono al dialogo per celebrare l’immaginazione vissuta e, infine, conteggiare l’ombra, la visione, la ferita, gli scherzi d’amore e le ragazze del mattino, il raggiungimento della storia (come i dialoghi con Colombo e la gloria di grandi pittori come Cézanne o Monet), la dolcezza luminosa della magnolia e le soglie profonde.

In questa trasparenza oscura, nell’arco degli abissi, nello sperdimento ribelle dei fiumi della Bulgaria e nei tamburi squarciati della notte, egli tocca le trame più interiori. E lo fa maneggiando le soluzioni eversive e minime del vero, lanciato come un traboccante sospiro: «Allora sbalordito vidi che ero sulla riva, / che tu sei il mare del mattino / e i tuoi abissi mi chiamano. / Da te sorge il sole. / Tu mi tocchi / e in me spunta l’alba».

Le sue tensioni assomigliano a sillabe di lettera, a un limpido guado d’amore («Amore come un silenzio – / questo è il mio amore. / E tu lo conosci»), all’attesa e ai semi semantici del sussurro dell’anima:

«Se ne va la luce rossa. / L’ultima lince selvatica scruta / cose per noi invisibili. / Se ne va la neve dalle cime dei monti. / Le cabine della funivia immobili / viaggiano verso l’oblio, / viaggiano. / Come un miraggio scacciato. / Come una speranza disperata. / Se ne va questa epoca. / Se ne va l’estasi… / E solo io rimango. / Non so se potrò scriverti ancora. / Non so se potrò vederti. / Ma so che non c’e modo che io ti dimentichi / fino alla fine, / e forse anche dopo. / Dimenticherò le chiavi sulla porta del non essere. / Dimenticherò gli occhiali e diventerò cieco. / Con dita insanguinate ti cercherò, / ma tutto quello che toccherò, / diventerà polvere».

[1] Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

[2] Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

[3] Levcev V., Introduzione in Levcev L., cit., p.8.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021, pp.350, Euro 20.

Levcev L., I passi dell’ombra, a cura di Giuseppe Dell’Agata, introduzione di Vladimir Levcev, Bompiani, Milano 2021.

Galaverni R., Parafulmini e donnole. La via bulgara all’ironia, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 9 maggio 2021.

Charles Simic e l’indizio d’amore

di Andrea Galgano  1 marzo 2021

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Avvicinati e ascolta (Come Closer and Listen)[1] di Charles Simic, appena pubblicato da TLON e con la traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, coniuga, in modo brillante, la visione attuale del tempo, con tutti gli scavi rastremati, l’innovativo minimalismo, la domanda di significante e significato, il genius loci delle particelle quotidiane di Strafford nel New Hampshire,

«personifica le dicotomie della capacità negativa, distillandone un gradevole liquore agrodolce. […] Ci accompagna (come è proprio dell’epoca trumpiana in cui questi testi componimenti sono stati scritti) sull’orlo del baratro della disperazione, e poi ci riaccompagna a casa con una mesta risata sommessa e con il desiderio di continuare a tirare avanti, a dispetto di quanto il mondo sembri e sia sottosopra e di quanto siano disonesti e incompetenti quelli che dovrebbero governarlo».[2]

E nei suoi testi, dunque, possiamo

«salutare i vicini che vanno «a messa la domenica» mentre il poeta, diversamente da Cartesio e dal suo poltrire «a letto fin dopo mezzogiorno», parte «per la discarica»; intravediamo i quartieri, le avenue, le chiese in cui egli si aggira trasognato e sardonico; osserviamo gli strambissimi personaggi che rinascono nella mente come riverberi angoscianti (la Morte, la Giustizia), ma davvero si può dire che dietro all’io lirico campeggi senza soluzione di continuità l’io empirico, ossia proprio lui, Charles Simic? Nel frattempo il nostro messaggio di posta elettronica «cammina nel cielo» e atterra fra le case alberate del profondo nord: pizzica lo smartphone, turbando il quieto mestiere letterario di Simic (ispirato da irresistibili salsicce alla brace) e il laborioso andirivieni di sua moglie Hélen».[3]

Il tempo oscuro, trascritto nell’epigrafe emersoniana («Come se servissero gli occhi per vedere») e nel suono metafisico degli uccelli, la divisa sproporzione interiore, il caleidoscopio insonne e opaco («Il buio arriva presto / a questo punto dell’anno / e rende difficile / riconoscere le facce familiari / tra quelle degli sconosciuti»), il territorio fantastico della cosalità, la personificazione degli oggetti rilasciano, nella cecità omerica che dirige lo spettacolo, un invito e un indizio di avvicinamento e di ascolto, letterali: «e mi hanno passato in lacrime / a uno morto da parecchi anni, in una nazione / che non è più sulle carte geografiche, / dove come una foglia su un albero, / la bella stagione finita, / ho vorticato cadendo a terra / quasi senza fare rumore / perché il vento mi portasse lontano».

In questi testi permane una sorta di agone orfano, un sipario silenzioso e ironico, una dimensione oscura su cui trasvolare, come soglia, sulla sorte, per camminare nel cielo, nella caduta, nella compiuta e ampia descrizione dell’umano, ritmato negli schizzi di inchiostro, rilasciato come un detrito di memoria.

Vi è il senso di straniamento, di incomunicabilità e irrealtà di aiuto («L’irrealtà del nostro chiedere aiuto / un ulteriore dilemma su cui meditare / mentre ci mettiamo in fila a capo chino / quando viene offerto il caffè coi biscotti»), di pazzia lucida, di solitudine franta e bruciata: «Hanno buttato giù tutto l’isolato fatiscente / di piccole botteghe mal illuminate / con le vetrine polverose / di braccialettini, anelli per il naso, / tarocchi e bastoncelli di incenso, / dove una volta ho visto un giovanotto / con la camicia bianca coperta di sangue / che soffiava bolle di sapone nell’aria, / la faccia imperturbabile e bella, / tranne quando gonfiava le guance».

O di finitudine notturna, «La risata silenziosa / delle stelle / nel cielo di notte / ci dice tutto / ciò che ci serve sapere», che mormora nella personificazione delle foglie mute che rivelano paure malefiche pronte all’agguato, aspettando qualcosa che si manifesti. E noi rimaniamo in riflessione e in rispetto silenzioso:

«Ci dicono le foglie stasera. / Sentile andare nel panico e poi ammutolire. / E anche se tendiamo l’orecchio non sentiamo niente — / ancora più terrificante che sentire qualcosa. / Pare passino minuti o vite intere, / mentre aspettiamo si manifesti / proprio in quest’attimo, o di certo nel prossimo? / E intanto gli alberi s’assiepano a farci credere / ai loro rami che bussano sulla casa / perché li si faccia entrare, ma poi esitano. / Tutte quelle foglie che cadono mute all’unisono / come desiderassero non esasperare le nostre paure, / con qualcosa di malefico in agguato là fuori / che ci si avvicina, si avvicina sempre più. / La casa buia e silenziosa come un topo / se si avesse il fegato di restarci».

L’incubo ovidiano e attuale, la cupola di tenebra, il terrore dello sguardo, la galleria della visione (gli incendi e i bombardamenti, i sogni dell’antichità greca, l’insonnia inossidabile, il ricordo assieme a Charles Wright alle Giubbe Rosse, Adam Zagajewski), la visitazione dei pensieri nella mente («[O immenso cielo stellato] In cui vagano i nostri pensieri / come venditori ambulanti di Bibbie / solo per trovarsi con le porte / sbattute in faccia»), la lotta di Giacobbe con l’Angelo, nel trapelato Quiz a notte fonda, contro la Morte e il Niente, raffigurata in una maestra elementare: «Sarà sul niente. / Non sull’amore né su Dio, / ma sul niente. / Sarai come un bimbo nuovo a scuola / che ha paura di guardare la Maestra / mentre si sforza di capire / cosa stanno dicendo / di tutto questo niente».

La verbalità minima, l’immagine che si staglia, come sfera improvvisa, nella dolcezza della veglia, nel paradiso della musica a letto, ritrovano anche la mimesi petrarchesca e fenomenologica di Laura, del sogno americano, delle rovine, ma appare la luminosa (e rapinosa), quasi tellurica, della visuale umana dei giorni, intessuta d’amore e di bellezza, dove anche le navi fantasma del passato spalancano lo stordimento e lo sgomento dell’ultimo picnic:

«Prima che arrivino le piogge autunnali / facciamo un altro picnic, / ora che le foglie cambiano colore / e l’erba è ancora verde in certi posti. / Pane e formaggio e un po’ di uva nera / dovrebbero bastare, / e una bottiglia di vino per brindare ai corvi / sconcertati dal trovarci lì seduti. / Se verrà il freddo – come è certo – ti stringerò a me. / La notte scenderà presto. / Scruteremo il cielo sperando che la luna piena / ci illumini il cammino. / E se non ci sarà, porremo tutta la nostra fiducia / nella tua bustina di minerva / e nel mio senso dell’orientamento / mentre vaghiamo cercando casa».

[1] Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

[2] Egan M., Introduzione. Orientarsi al buio, in Simic C., cit., pp.10-11.

[3] Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021, p.364, Euro 16.

Simic C., Avvicinati e ascolta, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, introduzione di Moira Egan, TLON, Milano 2021.

  • La poesia supera le calamità, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

Fraccacreta A., Dimentico Petrarca ma trovo Laura, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 febbraio 2021.

 

Downtown di Andrea Galgano – nota di Yvette Marie Marchand

di Yvette Marie Marchand*

17 gennaio 2021

leggi in pdf Downtown di Andrea Galgano – recensione di Yvette Marie Marchand

Leggere le poesie dell’antologia “Downtown” di Andrea Galgano significa partecipare al mondo emozionale di questo giovane poeta e scrittore. Mi arriva a fior di pelle tutto il suo entusiasmo per il conoscere, per l’analizzare e per l’entrare nel tessuto dei luoghi del Nord America e nelle menti dei suoi abitanti, per sondare i loro abissi e salire sulle loro alture. In quanto, come newyorkese, questa terra appartiene anche a me, sono stata toccata fino alle emozioni più remote, più inespresse, più preziose nel leggere queste intriganti poesie: intriganti in quanto la materia dei componimenti, le immagini e le riflessioni, restituiscono un quadro allo stesso tempo curiosamente veritiero e riconoscibile dei luoghi “esaminati” e, allo stesso momento, inaspettatamente  “scheggiato”, immagini distorte come se fossero viste attraverso un prisma, immagini che fuoriescono da una consapevolezza razionale, squarci di paesaggio e di vita volutamente alterate, più per svelare la sua anima che per nasconderla.

L’America e i suoi “splendori”, ecco quello che ha voluto condividere Andrea Galgano con i suoi lettori: ha voluto farli partecipare al suo “rapimento” materiale e intellettuale e alla sua passione da “viaggiatore al contrario”, proveniente, cioè, dal mondo del Gran Tour, un mondo colto e “competente”: un escursionista un po’ girovago, un po’ vagabondo che parte da un’Italia che contiene l’85% delle bellezze culturali e dei monumenti del mondo e si dirige verso la giovane e, delle volte, rude America, l’America delle insegne al neon, l’America dei:

“[…] principi mendicanti, … nomadi dell’azzardo / … saccheggiatori di racket / […] / l’uomo coi pantaloni buffi, la ragazza cittadina / […] / … piccoli eroi che attraversano il denaro facile […]” (“Atlantic City Fuggiasca”),

… ma anche verso l’America delle bellezze naturali, come quelle che si intravedono in “La luce bandita (Los Angeles)” in cui possiamo ammirare l’oceano e le spiagge di Venice Beach:

“… dove le piste svernano sulle maree / e le palafitte sono sillabe trasparenti / dell’arte innominabile / e le stelle assomigliano a labbra cardinali …”,

… e poi verso l’America della natura imponente, come quei fenomeni naturali che incontriamo in “South Dakota”:

“Le terre dell’inferno spento / sono crateri che colano sulle soglie / dei fagiani dalle zampe delicate / e dai fasti piumaggi / Badlands, bende avvelenate / sulle strisce delle frontiere nere / come lune alla fine delle carezze / sono danza di spettri / colline basse e ghiaccio di laghi / scoperchiati dalle pianure / dissetate / le anime delle Grandi Pianure / dipingono la preistoria dell’arcobaleno / con il buio delle mire / la roccia scolpisce grandi volti / sul monte Rushmore …”,

e, infine, verso quella natura (anche umana), stravagante, affascinante e anche delle volte brutale, che incrociamo in “La Terra delle querce (Oakland)”:

“Il giorno sul lago Merritt / fu arrischiato di sentinelle ignare /  […] / Fu odore di querce prima del chiaro / rubarono i soli alle colline / e la fedeltà cerea al cielo, / come mano remota sul panno / di argenti saturi e felici.”

Sono numerosissime le poesie raccolte in questa antologia. Raccontano le sensazioni che ha provato il poeta di fronte a praticamente tutti e 50 gli Stati e molte città degli Stati Uniti e a cospetto di molte Regioni del Canada: uno sforzo creativo rilevante da parte del poeta, che ha voluto porgere un autentico tributo a queste due nazioni e ai grandissimi spazi dei loro territori e alle corrispondenti complessità delle loro società, paesi relativamente giovani, ma che, come si evince da tanti “schizzi” poetici di Galgano, conservano echi e rimandi alla vecchia Europa a cui queste nazioni sono ancora fortemente legate.

Ci sarebbe molto da commentare su tutte le poesie di questa collezione, ma ho scelto di concentrarmi sulle poesie che cantano la mia New York City, le immagini di cui il prisma di Andrea Galgano mi ha restituito delle impressioni convincenti e riconoscibili.

Iniziamo con la Brooklyn delle mie nascite e infanzia che si è espanso da un iniziale quartiere densamente popolato e molto simile, direi forgiata nell’immagine delle grandi città di tutta l’Europa di fine ‘800 e inizio ‘900, che è venuto a trovarsi, negli anni ’50 dell’ultimo secolo e a quelli a venire, in gran parte “modernizzato” e collegato lungo la sua grande distesa di territorio al resto della città attraverso ponti e superstrade ad alta velocità come, ad esempio, la Brooklyn Queens Expressway della mia fanciullezza, eccitante per i ragazzi di allora per i suoi giganteschi pilastri di supporto e dirompente per il chiasso che produceva, che Galgano mi ha fatto ricordare, con un po’ di nostalgia, nella poesia, “Brooklyn Bridge”:

“… sono venti scoperchiati / e benzina del traffico sui sottopassi, / sole estremo sul ghiaccio relitto / e andatura di ponti che si incrociano / … / Si infiltra la intatta bellezza degli archi, / intaglia il moto delle rade dell’East River / come scroscio di candore curvato …”

nei cui versi si riesce persino a sentire il boato del traffico e respirare l’olezzo delle sue emissioni. Le immagini sono frastagliate, i suoni distorti e gli odori pungenti, come se fossero riflessi su un prisma iridescente. Anche le immagini delle persone sembrano arrivarci in alta velocità come se fossimo dentro uno di quei treni della metropolitana elevata sui binari sospesi a sbirciare dai finestrini dentro alle finestre davanti alle quali passiamo:

“… l’estremo frammento del padre / che dà da mangiare alla sua bambina / la donna che non paga e si alza sul tavolo impervio …” (“Brooklyn Heights-Prospect Park)

 Andrea Galgano onora anche il quartiere di Brooklyn in cui io sono cresciuta fino a tutti gli anni del Liceo, prima di iniziare l’Università a Manhattan. Il mio Williamsburg, allora quieto luogo preminentemente residenziale abitato soprattutto da famiglie middle class di origini italiane come la mia e da ebrei, molti di questi fuggiti dalle persecuzioni in varie parte del Nord Europa e, per la maggior parte, ortodossi, gli uomini con i riccioli alle tempie e le donne con le maniche lunghe, anche d’estate e le parrucche brutte in testa per coprire la loro bellezza dagli occhi di altri uomini. Essendo distante una sola fermata di metropolitana da Manhattan, questo quartiere è ora, con musei e teatri recuperati dai grandi palazzi e dalle vecchie fabbriche, diventato proprio il centro culturale della città stessa di New York e, con i ristoranti etnici e non, ricavati dai deliziosi piccoli negozi,  l’hub della vita notturna della Grande Mela:

 “… o nel guado audace di Williamsburg / dove iniziano le piccole luci dei vicoli, / gli antichi negozi striati, gli oggetti raccolti / e il narciso dei murales sparpagliato ad arco / sul ponte che si collega nel suo ferro algido …” (“Northeastern and Central Brooklyn – […] Williamsburg”). 

Non vengono neglette nemmeno le attrattive delle grandi e popolatissime spiagge della città di New York con “… il sudore / che increspa gli aliti caldi del vento / impigliato nelle salse di Nathan’s / e nei ghiacciati bagni …”: (Coney Island, Brighton Beach, Manhattan Beach)

… luoghi da sempre e ancora frequentatissimi dai newyorchesi, non solo d’estate e dove il famoso Nathan’s hot dog di Coney Island ancora va a ruba in tutte le stagioni.

Andrea poi ripercorre il Bronx, dove ho vissuto per una decina di anni, quelli dell’Università e dei miei primi posti di lavoro come insegnante: la zona di Fordham-Belmont, quella “dai notturni italiani / e la clessidra di Arthur Avenue / schivata nel cielo viola ruggine”, e poi il bellissimo Riverdale con le sue “garitte inafferrabili” e Pelham Parkway, dove, trasferitici da Brooklyn, vivevamo ancora, giovanastri, con i nostri genitori e dove:

“L’orlo del sole è materia disadorna, / non ho saputo capire / se i mori incroci dei laterizi / hanno ciglia e sigilli di sguardi / come scavati sillabari / nella nota dileguata prima dell’inverno / questi vicoli che obbediscono / all’appello di un ordine scuro / squilibrano gli autunni-crepuscoli / come navate in ritardo / nella notte dei numeri.”

In quel Bronx, così famigerato e biasimato in quel famoso film di Paul Newman, ma, come si evince da questi bellissimi versi, nella sua enormità di territorio, per la maggior parte molto bello, avevamo persino il mare con la sua spiaggia spartana e quasi intonsa, Orchard Beach, che (“[salì] il suo lume / tra gli occhi delle baie / senza ora di stagione / come principio di alchimia”) e con la sua bellissima isola dei pescatori, City Island, che “…si dimentica il suo segreto / nascosta nelle geometrie delle vampe / e delle ostriche …”, un posto di uno charme straordinario, pieno come si riesce ad evincere, di ristoranti di pesce e passeggiate meravigliose. Anche questo è il Bronx! (… e ringrazio Andrea per avermi dato l’occasione di mostrare i suoi lati bellissimi.)

Vorrei concludere questo piccolo scritto e anche il ringraziamento ad Andrea per avermi restituita una New York City frastagliata e, a volte, anche abbellita dai suoi versi, parlando, se posso, degli altri posti più conosciuti a me e di cui sono più “abilitata” a parlare, come  Morningside Heights, dove lasciavo la metropolitana per recarmi alla mia City College e City University of New York che, insieme alla Columbia University, è sempre raggiungibile da quella fermata, un posto incantevole e incantato per una studentella come ero allora, molto giovane e inesperta, alle prime armi nei giri del mondo che avrebbe continuato a compiere fino al presente.

“… poi Morningside e le colonne della Columbia / che espone l’inclinata salvezza delle costruzioni / la chiesa di Riverside /tra le pezze sospese dell’Hudson / senza deriva di fiele

distratti dal fondale studente e dai bicchieri / i tavoli che specchiano la luce delle facciate / e il ragazzo che porta il violino, la coppia / che versa l’alba strinta del cuore / sui primi acquazzoni dell’autunno sfumato / nei lunghi sogni delle ore di chiusura / all’uscita della metropolitana …”.

Un’incontro con un “mondo nuovo” , quello dell’Università fatta a New York, che è simile, molto simile all’incontro del giovane poeta con questo “nuovo mondo” nel suo complesso.

Nessuna parte della City è trascurato da Andrea Galgano, dall’Uptown, dove, nella elegante Yorkside ho vissuto come giovanissima single con i suoi “… pianeti appena aperti …” al Downtown ricordato nel  titolo, dal Village (East e West) al Lower East Side, da Chinatown a Little Italy, tutti minuziosamente fotografati e fatti suoi. Un lavoro sconfinato come le frontiere dei luoghi che lui ha scelto di cantare.

* Professore associata presso Università degli Studi di Perugia

 

 

 

 

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

Ida Vitale: l’intima estremità

di Andrea Galgano  3 novembre 2020

leggi in pdf IDA VITALE. L’INTIMA ESTREMITÀ 

La pubblicazione, presso Bompiani, di Pellegrino in ascolto[1], della poetessa uruguaiana Ida Vitale (1923),a cura di Pietro Taravacci, non solo colma una lacuna editoriale e amplia la collana CapoVersi, ma riporta la visualità essenzialista della poesia ispanoamericana attraverso uno scavo caparbio, un caleidoscopio irripetibile della visura del tempo e una forza segnica che ricolma il disegno dell’opus musivum, che risale a Juan Ramón Jiménez, attraverso un residuo di sottrazione in cui

«la sua voce si è andata tuttavia modificando, in modi a volte impercettibili, lievi movimenti ondosi che nascondono correnti sotterranee, mentre cercano di ancorarsi ad alcune parole-chiave, ricorrenti come un basso continuo nella sua scrittura. I primi testi sono contemporanei della cosiddetta «Generazione del ’45», composta di scrittori e scrittrici che esordivano in un paese considerato ancora un’isola felice, lontano dai sommovimenti populisti, dalle rivolte contadine e dalle violenze dell’America Latina della metà del Novecento: fu un gruppo fondamentale per la cultura uruguaiana, che cercò di cogliere contraddizioni e false sicurezze di quell’ambiente borghese un po’ ovattato. Al suo interno Ida Vitale cominciava a distinguersi sia dalle voci veementi e passionali di Idea Vilariño e Amanda Berenguer, tra le tante donne protagoniste della letteratura uruguayana del momento, sia dall’incipiente colloquialismo di Mario Benedetti. Le parole-chiave che marcano questa prima fase si riferiscono al pozzo e al labirinto, evocando Onetti e Borges ma mantenendo da loro sempre una certa distanza: nella poesia di Ida Vitale, infatti, non funzionano come metafore di situazioni oniriche o metafisiche, ma come spazi dello spaventoso quotidiano, spazi costruiti dalle parole e dai quali il soggetto poetico potrà uscire solo grazie a un diverso intrico delle parole stesse, come la spesso rievocata Arianna, con il suo filo e il suo tentativo di orientamento, sempre potenzialmente fallimentare».[2]

Ed ecco che La luz de esta memoria (Luce di questa memoria) (1949), riscoprendo l’esatto legame di luce e memoria, che risale a Lope de Vega, Leopardi, Machado e Bergamin, coincide, come afferma Pietro Taravacci nell’introduzione, «con gli stringenti e già definitivi interrogativi a cui sottopone la realtà. Una realtà riconoscibile nella sua quotidianità, nella sua contingenza individuale e storica, ma al tempo stesso elevata a dimensioni e a tipologie di respiro già universale, già consapevole della pluralità di senso della poesia, già bisognosa di attestarsi in una zona intima dove è possibile ascoltare il rumore del mondo e l’insufficienza della parola stessa[3]».

La dimora del tempo tocca, accarezzando, il limite, lo prefigura e lo oltrepassa, incide realtà e sogno, destino e parola. Può la parola dire la vastità? Può la parola sillabare le nebbie del destino e del cielo fatto un buco senza voce e senza sponde? Ida Vitale entra nelle cresciute ombre del mondo, nella dolenza dell’aria, nella frusta di luce e si chiede «che resterà allora, passata ormai la nebbia, / nelle mie mani?».

Il linguaggio oscilla in una fitta tessitura di sguardo e cerca il significato per farsi bellezza:

«Notte, questa dimora / dove l’uomo si trova / e sta solo, / sul punto di morire e cominciare / a andare in altre arie. / Il mondo perderà nubi, cavalli, vacilla / meraviglia, / si dissolve, / cade come sul bordo del miraggio / ma ormai senza miracolo. / Pian piano la speranza / si riveste di oblio. / E non vedo più in là / di un nome che ho chiamato / lettera un bacio una carezza / una rosa aperta un volo cieco un pianto. / E poiché tutto è privo di se stesso, tutto col piede pronto / per atterrare in terra scura, / il cielo fatto un buco senza voce / e senza sponde, / non sono più io la povera, / compresa tra mortali, malinconiche arie, / corpo accecato di luce o pura lacrima. / Quello che questo mare, questa cresciuta ombra / va perdendo, / viene a salvarsi in me, / nuvola sempre, / cavallo azzurro, / eterno cielo». (Notte, questa dimora).

In Palabra dada (Parola data) (1953), l’inafferrabile contraddizione, l’intima estremità del silenzio, pone l’attesa come radicale stimmung che canta il vago profumo della notte, il ritorno indomito dell’amore, in una «cifra / nuova, estrema e mia, / sotto un nome finora inavvertito, e unico e necessario?», i bagliori delle cose, la domanda della finitudine degli odori, il giorno già ricordo, e ricerca uno specchio di paradiso e volto di sogno, come una luna senz’ombra e una sopravita.

Ossia un richiamo che oltrepassa l’oltre, lo avverte, lo segna nel mistero straniato e in questa inesorabilità, come scrive Pietro Taravacci, «di quell’azar, così ricorrente in Ida Vitale, nasce una nuova energia, l’occasione di un gioco poetico in cui la parola è cosciente del proprio limite ma anche del proprio potere di strumento atto a sovvertire la realtà data, a farsi complice dei sogni dell’individuo, delle sue infinite preguntas[4]».

La vita è il nucleo della domanda. Ed è la materia vivente a concepire fuga e ritorno di acqua madre, di un dispendio d’amore e «una scarsa nube di parole / estranee, a pioggia sulla nostra polvere».

Cada uno en su noche (Ciascuno nella sua notte) (1960) entra nella chiarità del mondo e nella appartenenza ad esso, nella rarità del grave suolo che schiude lo stupore, per rinascere, visitata dall’enigma dell’essere e dell’Esser-ci.

L’anima si consegna come una lettera frantumata di dolore e nel frammento illusorio cerca e ricerca il senso di quel favoloso volo che vive dentro di sé. È poesia di viscere, incendio chiaro, fedeltà di sogno e veglia, salvezza invocata come promessa. La cera bruna dei passi è passeggero vuoto spazio dove tutto è vigilia e soglia intatta di ombre, affinchè tutto non muoia e sia una pura sorgiva vena d’acqua o amore splendente: «Tutto e vigilia. / Tutto sogna un rinnovo / e muove il cuore a tenersi lontani / dai precipizi. / Nella sua notte ognuno / speranzoso chiede / il risveglio, l’aria, / una luce semenza, / qualcosa in cui non muoia. / Qualcosa d’intatto, esatto, affidabile, / per affrontare l’ombra, / una pura sorgiva, / vena d’acqua, / qualcosa / come quella caraffa tua, Isabel, / dove forse /c’è chiarità umana, / amore e il suo potere risplendente, / più misterioso della stessa ombra».

La drammatizzazione della scrittura si conferma in Oidor andante (Pellegrino in ascolto) (1972), che non solo separa, come uno spartiacque, la produzione precedente ma conferma

«la lucidità e l’attenzione disincantata di chi, osservando la vita reale e la scrittura con un sovrappiù di impegno filosofico, si presenta nella sua definitiva essenza e nella sua esperienza di essere peregrino, fuori e dentro il tempo, in perenne ascolto del mondo e con un rinnovato impegno verso la parola. Ancora più importanti, dunque, sono le citazioni in epigrafe in una fase che vede il soggetto in ascolto e continuo dialogo con la realtà e i quesiti che assillano la sua voce attraversati da una singolare ironia[5]».

La rarefazione della parola e del segno verbale, l’esattezza delle parole-arianne, il fuoco della battaglia della controversia quotidiana, che nella perpetua mota «brandisce enunciati contro il tempo / consegna la salvezza alla parola», la traccia del silenzio indicibile nel fiore dell’estate sono il termine estremo di un pronunciamento di piaghe salate e amore spietato.

La poesia di Ida Vitale non teme oscurità, la attraversa persino nella desolata landa dello spavento e della dispersione, nel cosmo umbratile striato di oro ed alloro di Montevideo e nella violenza del mondo. Essere pellegrino in ascolto significa obbedire alla propria fragilità viandante: «Vedo agitare le penne del tempo / che e un fagiano vecchissimo / su facce senza enfasi, / armate contro la vista del delitto. / Vedo la cecità suicida. / Re delle pene, apici di un sogno / inabissato, quelli ancora lirici, / i sempre speranzosi, / i pescatori di altri mari magici, / a ogni passo spostiamo i vetri / e temiamo».

Dopo il suo esilio in Messico, causato dal golpe militare del 1973 e dalla dittatura fino al 1985, Jardín de sílice (Giardino di silice) (1980), ci restituisce il suo nuovo territorio, l’influenza di Octavio Paz e la sotterranea potenza del neobarocco.

La fonte enigmatica dell’invisibile e dell’indicibile, caratterizzato dall’omaggio a Magritte e alla vertigine rovesciata di Escher, la sostenuta forza della chiarità e della distanza («Morte-vita: labirinto / giù nel fondo di un pozzo / o lattee stelle?»), cerca il miracolo intessuto nel limite, raffigura il dramma del presente che arde nella rovina e il tempo di polvere e cenere segna dapprima la dispersione, poi, ancora una volta, il tempio del destino e la sua ipostasi:  «Verrà il tempo per pascere parole / come oscuro alimento, / e per bruciar piccole salamandre, / tutti gli esorcismi, / quasi dei memoriali dove era aria libera, / e non luogo comune, / che nessuno / di fronte allo sgomento dei crocicchi / sogna o legge».

Sueños de la constancia (Sogni della costanza) (1984) approfondisce il respiro del disarmo, la luna delle maree desolate, il grigio resto della memoria, laddove i termini del caos impongono la cifratura di ogni addensamento. Vi è sospensione, attesa, resto di memoria, buio di gemme.

Léxico de afinidades (Lessico di affinità) (1994) celebra libertà inedite, in cui la consapevolezza di ogni meta onirica non teme ricominciamenti e «per innamoramento dell’istante / cede la luce le ultime difese», come se la rarefatta vitalità del tempo conosca il suo stesso limitare («Parca paziente / che dà il seno alla morte / invia oscuri messaggi / da azzurrati viola, / corolle e corolle»), o come Procura de lo imposible (Ricerca dell’impossibile) (1998), in cui la parola è nuda e austera, percepisce sempre il senso dell’esilio ma contamina la sua stessa essenza precaria, la parola si riduce, diventando sospiro e balbettìo di dissolvenze e assenze ostinate: «Là nell’aria stava / tenue, imprecisa, la poesia. / Pure lei imprecisa / la farfalla notturna arrivò / né bella né profetica, / a perdersi tra fogli e paraventi. / Il debole affilato nastro di parole / si dissipò con lei. / Torneranno ambedue? / Forse, in un momento della notte, / quando non vorrò scrivere / nient’altro di profetico / che quella occulta farfalla / che evita la luce, come le Fortune». (Farfalla, poesia).

La velocità di Reducción del infinito (Riduzione dell’infinito) (2002) scoperchia l’anima dilatata dei miracoli dell’ombra, il mistero dell’esistere e il pericolo della profondità dell’essere attraverso una breve mescolanza di sguardo e di centro, come se i passaggi da opacità a scintilla, sogno e veglia siano vortice di senso tradotto e goccia trasognata.

Le ultime raccolte Trema (2005), Mella y criba (Frattura e cernita) (2010) e Mínimas de Aguanieve (Minime di nevischio) (2015), fino alle Antepenúltimos si aprono al valore lucente della meta poetica, in cui l’avido vetro dei luoghi e la parola che si lascia spaccare, l’accettazione della finitudine e della fedeltà alla natura («Come un uccello / che per cantare attende / che la luce finisca, / scrivo dentro il buio») diventano ricognizione franta di verità e di sospensione («Penetra l’incomprensibile / e amalo. Vivi il rovescio del fine: / sii cardo, se arrivasti come lana, / pietra, se, filo di seta, fluttuassi»), di visibilità sacra e di speranza, come ombrato silenzio, dove tutto è sipario: «Ritornare è / tornare a occuparsi / di rendere alla terra / la polvere degli ultimi mesi, / ricevere dal mondo / la posta assopita, / cercare di sapere / quanto dura / una memoria di colomba».

O ancora nell’intenso scintillio mai sazio di bellezza, l’inseguimento di Ida Vitale si addentra nel tempo oscuro, per immergersi nella profondità cromata del tempo e nelle sue vestigia minuziose:

«M’addentrai nella sera / per dove non dovevo e la sorprendo / nel rituale che apre all’autunno: / forse sono ancor gialli / gli aranci, non hanno raggiunto / i rossi un loro tono d’amaranto / e vengon fuori sorprendenti verdi, / distratto ritardo. / Devo scordare i piccoli errori, / tornar per donde venni alla pazienza, / corregger l’orologio, unico errore». (Nell’ora credula).

Roberto Mussapi, guardando alla forza ungarettiana e alla sorgività sapiente e innocente di Ida Vitale, commenta:

«Entra nella sera quasi come Dino Campana (quasi, Campana è irraggiungibile nei suoi ingressi e coleridgiano, preluziano, ma più immediato ancora, nelle sue visioni). Il rituale che s’apre all’autunno, il poeta vede l’aprirsi della stagione come di un palcoscenico e un capitolo della vita. Osserva il ritardo della natura misticamente compartecipe, ma non misticamente, come poesia esige, lo sa narrare, in felici immagini cromatiche nel suo epifanico svelarsi. Scordare i piccoli errori, il tempo dell’orologio: non per uscire dal tempo, senza ritorno, come un viaggio sciamanico sbagliato da un discepolo che poi si perde. No, correggere l’unico errore del tempo analiticamente cronologico, entra nel tempo metamorfico della natura».[6]

[1] Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

[2] Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.

[3] Taravacci P., Labile esattezza: L’itinerario poetico di Ida Vitale, in Vitale I., cit., p.8.

[4] Id., cit., p.10.

[5] Id., cit., pp. 12-13.

[6] Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020, pp. 432, Euro 20.

Vitale I., Pellegrino in ascolto, a cura di Pietro Taravacci, Bompiani, Milano 2020.

Mussapi R., Nel fuoco di Ida Vitale, (www.succedeoggi.it/2020/10/nel-fuoco-di-ida-vitale/).

Tedeschi S., Ida Vitale, transumanza di parole in versi, in “Il Manifesto”, 27 settembre 2020.

Umberto Piersanti: i campi di ostinato amore e bellezza remota

di Andrea Galgano  14 ottobre 2020

leggi in pdf Umberto Piersanti. I campi di ostinato amore e bellezza remota

Articolo pubblicato e rivisto su Rivista Clandestino

Sta per essere pubblicato per La nave di Teseo, la nuova raccolta di Umberto Piersanti, Campi di ostinato amore, che restituisce la fitta e profonda trama storica alla incipiente bellezza del canto, dello sguardo e della lingua che assomiglia alla narrazione del tempo, alla sfumatura e cromatura del gesto vivente.

Come la vegelia, regina dei giardini e poi i volti, la bellezza lineare di ogni cosa che sboccia e si porge o la terra di memorie che trema nel sangue:

«volti, volti nella mente / infissi, / sempre più infissi / e incerti, / e poi così lontani, / lontani e persi, / nell’oscura veglia / mi siete d’intorno, / vicini, così vicini / alle mani / e agli occhi, / padre da un grande tempo / dimori oltre la valle / che la nebbia copre, / la grande nebbia / che sta oltre, / oltre ogni casa / e campo, / come chi ha la vista / quasi spenta / risalgo con le mani / alla tua fronte, / su ogni piega / mi soffermo e insisto, / del tuo magro sorriso / ricerco il dono / e i tuoi occhi madre / sono i più chiari, / io me li stampo dentro, / mi fanno il sangue lieto / e nulla può il dolore / che m’abbranca, / restano chiari / e azzurri / oltre lo sguardo, / lo sguardo mio / che tanto s’appanna».

In questa raccolta, esiste una fragilità feconda che non rifugge mai la consolazione e quando esprime una sorta di fuga di immagine, la parola sillaba mancanze, antichi giochi di primavera («è l’aria gonfia e azzurra, / aria di maggio, / di calendule arancioni / l’aiuola è colma, / l’uva spina è là / in fondo, i grandi / acini ramati / d’un verde profumo / intridono la rete »), deposito di memoria e guerra, lune colme e abbracci di madre, fino alle fughe d’infanzia e alla pula paterna («in un tempo remoto / ho guardato con te / la pula salire in aria, / ora la vedo / che dal fosso sconfina, / non la ferma il Catria / neppure il mare, / questi edifici immensi / attornia e stringe, / continua il suo cammino / e mai s’arresta»):

«è un gioco, / un gioco di tarda primavera, / dello strazio che vortica / nell’aria, vede / solo quel giallo / che barbaglia / il mattino di maggio / s’inoltra e avvampa, / guarda i cieli il ragazzo, / guarda la nube / che felice s’impiglia / dentro un ramo, / e tiene stretto il filo, / è solo un gioco, / un gioco della tarda primavera, / la sorte di quell’altro / non lo tocca».

Il ricordo puntella il nostro tempo, come una morsa o un istante sottile di bellezza discosta:

«era ieri l’otto settembre, / sotto lo stesso cielo / di questo mese azzurro / un tenente cammina / per lo Spineto, / la ragazza accanto, / tenera la sua veste / sparsa di fiori / e la grande cintura / stretta alla vita? / e nuotano i ragazzi / alla Borzaga / in quella gorga limpida / e assassina? / cerchiano le rondini / come da sempre / la verde cupola / del Duomo?» (Settembre 1943).

La poesia di Piersanti attinge al magma libero del flusso degli eventi, si confronta con l’ineludibilità del destino, ma lo guarda come punto di domanda elementare, non ne viene schiacciato, non vive attraverso l’ostinata saturazione nichilistica, bensì è sempre una domanda d’amore ad alimentare, a impastarsi nel fertile limo del risveglio e del calore umano, restituendo le fibre e la pienezza all’esistere:

«tu non sai / le vicende e le figure, / solo suoni e colori / non li ricordi, / non sai se la madre / s’appresta a consolarti / dell’esser nato / o se la vita saluti / e bevi a sorsi lunghi / dopo quel limbo caldo, / ma vicino, / così vicino / al Vuoto che tutto / precede / e nella stessa ora / l’altra sorella / libera dalla neve / un favagello».

Il passato è la terra remota, ma proprio in quanto tale si avvicina alla coniugazione della vita che si svolge nel presente. Più la lontananza si afferma più si racchiude il senso della vicinanza, della prossimità e della alterità che si accosta:

«[…] passano innanzi / agli occhi / le figure, / in altri tempi / e luoghi lontani / e persi, tu sotto la cascata / t’infradici i capelli / neri e sciolti / e mi sovrasti / chino sulla roccia / non conosci quei lampi, / non sai i tuoni, / dicono che i soldati / salgono su lenti / dalla marina, / lei siede alla ringhiera / contro i bei vetri, / tu non ricordi il volto, / non sai la veste, / solo quelle ginocchia luminose / che appena intravedi  / fra le trine».

Poi ci raggiungono i campi d’ostinato amore, dove si staglia la figura del figlio Jacopo che raccoglie tutta l’umanità disvelata, l’amore che non conosce misura, il tempo fertile di ogni bellezza possibile, come tutto ciò che si svolge rasoterra per emergere come il mondo appena nato. Ogni elegia composta da Piersanti è una bucolica tensione all’ultimità, che percepisce il limite ma non si attorciglia in esso, anzi lo sfronda, per afferrare il tempo tragico e gioioso della possibilità umana:

«I cori che vanno eterni / tra la terra e il cielo, / ma tu li ascolti / Jacopo quei cori? / ho visto / il falco in volo / con la serpe / trafitta nella gola / dai curvi artigli, / l’estremo pigolio dell’uccelletto / che la biscia verdastra / afferra e ingoia, / tra i rami non s’aggirano / le ninfe, / un giorno le incontrai / in remoti boschi, / l’assurdo poco oscura / nevi e foglie / non scolora i bei crochi / nei greppi folti, / ma il tuo male / figlio delicato, / quel pianto che non sai / se riso, stridulo / che la gola t’afferra / più d’ogni artiglio, / questa bella famiglia / d’erbe e animali / fa cupa / e senza senso / e dolorosa / siamo scesi un giorno / nei greppi folti, / abbiamo colto more / tra gli spini, / ora tu stai rinchiuso / nelle stanze / e il mio ginocchio che si piega / e cede / a quei campi amati / d’un amore ostinato, / sbarra l’entrata / aspetto i favagelli / del febbraio, / tiepidi contro il gelo / sbucare fuori».

Inoltre, la temporalità onirica e remota svolge la sua infinita narrazione, ricolma di raggiungimenti e altrove, distanze folte e strette, soste di albe, radure e mani intrise oltre il velame fitto dei sogni («remota più d’ogni altra / storia, / più pallida d’un sogno / che s’è sciolto, / questa vicenda intravedi / oltre il velame / fitto, dei sogni / e una spina ti punge, / fitta duole, / tu lo sai, / quella radura / quell’ora / mai ritorna»), lentezze di confini e boschi, terre e case antiche come sperduti apici e arie immani di estati tenere e greppi luminosi:

«tenera è l’estate / che finisce / in queste acque lontane / sotto i gran monti / qui le chiamano fole / mi dicevi, / son anime che strisciano / tra i rami / e accendono fiamme / in mezzo ai boschi, / chi ricerca castagne / o guida capre / le incontra con sgomento / nel cammino, / d’estate il grande sole / le addormenta / settembre le risveglia / e la frescura / pochi sono i bagnanti / sulla rena, / il sole non t’acceca /scende alle otto, / nessun pastore sale per i monti, / e un poco t’addolcisce / e t’addolora / l’infinito distante / di quei giorni» (Tenera è l’estate).

Nella poesia di Piersanti vi è una luminosità che appartiene a epoche sperdute, dove la nostalgia, lo struggimento, le vicende umane appartengono a una coltre di sinuosa pienezza, di concrezione luminescente di cose e terre sparse e fossili.

L’epifania della realtà ha questa profondità di dettaglio che si ammanta di scoperchiamenti e apparizioni, lasciando in noi l’emersione della nascita e dell’avvenimento che vince l’oscurità con la parola che dice davanti al nulla: «celeste come il mare / d’oggi che i raggi / accoglie, / celeste la tua maglia / che il sole di gennaio / non riscalda, / celeste dono agli umani / questa luce, / quest’attimo / sospeso sopra l’acque / e i giorni, / e il tempo / mai l’oscura» (Raggi sul Tirreno).

 

 

 

 

Giorgio De Chirico la sottile linea metafisica dell’oltre

di Andrea Galgano  22 settembre 2020

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Il Poeta e il Pittore sono uniti da una linea ferma e immobile e noi percepiamo la fragranza inattuale e materica della loro ombra. E poi le linee e la geometria umbratile, la stanza metafisica di un arredo da palcoscenico e una finestra-atelier che sfronda il reale.

La poesia di Giorgio De Chirico (1888-1978)[1] è neometafisica nel luogo in cui la stessa pittura, la stessa immagine, la stessa linea di verso diventano viaggio nel tempo e viaggio del tempo, come sostiene Andrea Cortellessa.

Un miraggio abbacinante di splendore, consolidato nel nulla, nella invisibilità, nelle estremità opposte di un futuro impenetrabile e tenebroso, in un cerchio eracliteo.

Ilaria Elisa Baruffa scrive:

«Il cerchio di de Chirico strizza l’occhio al concetto di circolarità temporale nietzschiana, la mancanza di un vettore lineare del tempo, una sorta di loop, in cui gli eventi si susseguono vertiginosamente nel «cortocircuito fra passato e futuro: la sensazione del presagio». Tale presagio angosciante è espresso magistralmente nella poesia L’ora inquietante, anche titolo di una delle sue più celebri opere su tela, in cui de Chirico rappresenta il tempo immobile e congelato in cui «anche l’immortalità è morta / in quest’ora senza nome sui quadranti / del tempo umano».[2]

De Chirico ripete le sue immagini, le dilata, ne fa diventare mito segreto ed enigmatico[3]. La finzione poetica e letteraria dell’immagine raffigura l’illusione postuma, l’allucinante e stupefatto museo delle nature morte, dei manichini immobili, dei cavalieri muti, dei portici al sole addormentati.

Paolo Picozza afferma:

«Lo stesso mistero che nei dipinti dell’artista i cela dietro un’ombra o l’allegoria semplificata di un concetto complesso che trascende la realtà delle cose. Il poeta non ha tempo e si trova sia dentro che oltre il confine della fisicità: ne comprende la sostanza metafisica. Lo stesso enigma che spinge il Maestro a celare il contenuto di questo quaderno tra le pagine lise e scurite del tempo, forse per proteggerne la sostanza scritta, troppo spontanea e intima per essere pubblicata. […] Il poeta De Chirico è inattuale e postumo […]. L’attuarsi di una poiesi che si manifesta attraverso l’eidos e prende forma grazie alla techne, naturalmente ispirata dalle coeve contaminazioni letterarie».[4]

Ecco l’ignoto, l’enigma, l’anima bambina svegliata nella notte o la camera dell’ombra del meriggio. Una divinazione sofferta e misteriosa, quasi presentita che si volge al manoscritto presagio del tempo: «Vita, vita, grande sogno misterioso! Tutti gli enigmi / che tu mostri; gioie e bagliori… / Portici al sole. Statue addormentate. / comignoli rossi; nostalgie d’orizzonti sconosciuti…/ E l’enigma della scuola, e la prigione e la caserma; / e la locomotiva che fischia la notte sotto la volta gelida / e le stelle. / Sempre l’incognito; il risveglio al mattino e il sogno che si / è fatto, oscuro presagio, oracolo misterioso».

È il cuore friabile della metafisica, l’attimo smunto e sublime dei quaderni, la valenza simbolica profonda di un verso che dice la realtà e la sua apparenza, ne calca i palcoscenici remoti, le tracce di Apollinaire (« […] il tempo non esiste […] sulla grande curva dell’eternità il passato è uguale all’avvenire», scriverà in una lettera del 1916) e i profili-bersagli e premonitori: «Tutte le case sono vuote / risucchiate dal cielo aspiratore. / Tutte le piazze deserte. / Tutti i piedistalli vedovi. / Le statue – emigrate in lunghe / carovane di pietra / verso porti lontani. / Strane iscrizioni sorgono a ogni quadrivio. / Avvertimenti funebri di non andar più oltre».

Roberto Mussapi scrive:

«Questa ricca parte del libro mostra un mondo stilisticamente controllato e tutt’altro che scontato, ma anzi derivante dagli stupori e dagli archetipi che muovono i temi della pittura dechirichiana: presenza del sogno in senso profondo, mai personale o privato, ma grande ombra di matrice junghiana, non importa quanto consapevolmente, e di visioni che fanno cosmo con quelle piazze d’Italia e non solo: la piazza appare in queste poesie come epifania ricorrente. […] Fino a poesie che sembrano soggetti dei quadri derichirichiani, assenza, angoscia e quiete cosmica in contrastante coesistenza: come quella, esemplare della statua che «vuole essere sola, a ogni costo». e qui, con il sole che si ferma in alto al centro del cielo, la statua in una felicità d’eternità annega la sua anima nella contemplazione della propria ombra, c’è il nucleo di De Chirico; ma non in un soggetto per una tela, bensì in una prosa poetica autonoma, una dilatazione letteraria della visionarietà del pittore».[5]

Il chiasmo dell’opera dechirichiana è un fiuto, una rincorsa e uno spasmo insieme. Egli celebra l’onda fatidica del tempo, come se si annullasse ogni prospettiva mancata, per farsi scrittura di sogno, dove ogni quadro è poiesis velata e distonica, strascico plumbeo  e gioia infinita di un bassorilievo dello spirito, di una biografia irradiata e magnetica.

Dove l’emblema (ciminiere, treni, muri, bandiere, carciofi) rappresenta l’ evocazione incandescente, come il suo Ebdòmero, di una metafora cieca di ogni visione che supera i confini magmatici dell’essere e del corpo.

Lunghezza tiepida di ombre, fontane dallo strano sguardo, eterno addio di finestre chiuse e stelle d’amore dei portici oscuri:

«Gli astronomi poetanti sono molto allegri / La giornata è radiosa la piazza piena di sole. / Alla veranda si sono affacciati. / Musica e amore. La dama ahimè troppo bella / Vorrei morire per i suoi occhi di velluto. / Un pittore ha dipinto un’enorme ciminiera rossa / Che un poeta adora come una divinità. / Ho rivisto quella notte di primavera e cadaveri / Il fiume trascinava tombe che non sono più. / Chi vuole ancora vivere? Le promesse sono più belle. / Hanno issato tante bandiere sulla stazione / A patto che l’orologio si fermi / Deve arrivare un ministro. / Egli è intelligente e dolce sorride / Capisce tutto e di notte / alla luce di una lampada fumante / mentre il guerriero di pietra dorme / sulla piazza buia / Scrive lettere d’amore tristi e ardenti» (Speranze).

L’oscurità di De Chirico è una rivelazione di silenzi chiusi. Statue d’amore. Amore perduto di ogni risveglio, cuore sciolto nella torre insensata: «[…] Al risveglio la felicità dormiva ancora accanto a me. / Dalla mia finestra guardo nel cortile umido / I cadaveri delle mie illusioni. / Sensibilità dei carciofi di ferro… La notte la locomotiva fischiava / Il lavoratore non dormiva. / Aveva le mani ghiacciate. La luce lo accecava / aveva il cuore ardente. / Amore perduto. Donna amata – Quanti passi davanti alla mia porta / nella camera accanto chiacchierano. / E i due uomini dallo sguardo così dolce si sono allontanati / si tenevano per mano / e si guardavano negli occhi. / Ho lottato molto. Ho voluto forgiarmi un cuore solido».

Il tempo della malinconia è un emblema plastico e onirico, dove la disperata ricerca della felicità resta perduta nel rumore, come una eternità invocata. Un vocativo tracimato, una catastrofe in stazione, una luce partita nel tramonto:

«Pesante d’amore e di dolore / la mia anima si trascina / come una gatta ferita. / Bellezza delle lunghe ciminiere rosse. / Fumo solido. / Un treno fischia. Il muro. / Due carciofi di ferro mi guardano. / Avevo uno scopo. La bandiera non garrisce più. / Felicità, felicità, ti cerco. / Un vecchietto così dolce, cantava dolcemente / una canzone d’amore. / Il canto si perse nel rumore / della folla e delle macchine / e anche i miei canti e le mie lacrime si perderanno / nei tuoi cerchi orribili / oh eternità».

La festa del sole ha ombre regolate, bandiere solenni sulle torri rosse. Anima allungata di un tempo antico, dove si contano le linee e le statue si elevano: la morte è là piene di promesse, «Medusa dagli occhi che non vedono. Vento da dietro il muro. Palmizi. Uccelli mai venuti».

Se è vero ciò che Andrea Cortellessa scrive che «È stato lui del resto ad aver scoperto, nell’arte moderna, l’Antichità come futuro[6]», le rappresentazioni e i segni di De Chirico si susseguono nel viaggio fantasmagorico (e fantasmatico) della nitida partenza e del ritorno, nel presagio preistorico, nell’escapismo d’altrove, nella primordiale eternità ambigua e ancipite di una oscurità d’avanguardia, che appare nella notte:

«La notte è profonda. Mi rigiro sul cuscino bruciante. Morfeo mi detesta. Sento il rumore di una vettura che viene da lontano. Il trotto del cavallo; un piccolo galoppo; e il rumore apparso affonda nella notte; una locomotiva fischia da lontano. La notte è profonda.

La statua del conquistatore nel palazzo. La testa nuda e benedetta della sorte. Ovunque la volontà del sole. Ovunque la consolazione dell’ombra. […]».

Nella sua prosa Zeusi l’esploratore scrive «Amici, bisogna ancora partire, bisogna ancora sussultare sotto l’angoscia del mai visto» e dove «Bisogna scoprire il démone in ogni cosa»,  l’esploratore-sopravvissuto, come un arcangelo affaticato, in una sorta di rimando a Coleridge, afferma la tensione ultimativa al vero.

L’orizzonte si rischiara nella stanchezza delle stagioni morenti: «In una barca nera come una bara fra due ponti lividi mi ero addormentato […] Silenzio, rumori sordi della mia anima. Ricordi, ricordi, sciabordavano sui fianchi scuri della nave. E tutti i bassorilievi del mio spirito apparivano sotto la luce dei lampi».

E poi la città in tutto il suo splendore innominato si riporta a una gioia primigenia, a uno spazio antico di abbraccio, dove poter percorrere e inseguire un sogno insognato. È una lotta, come la volta scura del cielo, le linee dei muri e delle statue, i mobili strappati, le virtù effimere della modernità, i paesi allontanati, le case sulle piazze e gli elmi.

Il trauma dell’assenza si colora di guerra, pronuncia la sua distopia incerta e il suo grido di ombra nei giardini chiusi come frammenti: «Ho visto gli uomini entrare ed uscire / dalle loro case, / ho visto germogliare e spandersi / dolci fioriture. / Ho conosciuto le grandi leggi, / leggi che si definiscono con il numero. […] Ma ora ovunque rugge la vita vagabonda / ovunque i relitti dei naufragi / galleggiando sulle onde…».

[1] De Chirico G., La casa del poeta. Tutte le poesie in versi e prosa, in francese e in italiano, a cura di Andrea Cortellessa, traduzioni dell’autore e di Valerio Magrelli, La Nave di Teseo, Milano 2019.

[2] Baruffa I.E., Il demone in ogni cosa. Dentro la poesia plastica di Giorgio de Chirico, (https://www.liminarivista.it/camera-obscura/dentro-la-poesia-plastica-di-giorgio-de-chirico/).

[3] Galaverni R., I versi abitano le stesse piazze dei quadri, in “La Lettura- Corriere della Sera”, 17 novembre 2019.

[4] Picozza P., De Chirico poeta, pp.15-16

[5] Mussapi R., Il sogno di Jung nella poesia di De Chirico, in “Avvenire, 10 novembre 2019.

[6] Cortellessa A., Introduzione, in De Chirico G., cit., p. 43.

Márcia Theóphilo: le radici del respiro

di Andrea Galgano 1 agosto 2020

Articolo apparso il 16 luglio 2020 su Rivista Clandestino

Márcia Theóphilo, poetessa e antropologa brasiliana, nata a Fortaleza, nel suo Amazzonia verde d’acqua[1], appena edito da Mondadori, compone un vortice di incanto salutare. Un respiro e un ascolto, dunque, che cercano l’epica delle cose per farsi germinazione intoccata, voce e presenza di un lavoro, e di un disegno, senza posa, dove il cuore stesso della poesia è l’immensità, che diviene confronto, si attesta davanti alla sublimazione dell’essere mostrando grazia esotica, bellezza inconfondibile, voluttà rinata.

Mario Luzi, tempo addietro, aveva raccontato la poesia della poetessa brasiliana, soffermandosi sulla voce «che parla, loda, alloquisce, descrive, esalta, colorisce nella foresta», e continua, la sua «vitalità ininterrotta e simultanea di tutta la foresta» che «parla a sé stessa da ogni sua creatura[2]»: «Sono io, il rio che trova il mare. / Rami, linfe mature, sono specchio / dune di sabbia, verde sulle spiagge. / In foglie di acaça, luna carnosa / frutta spessa, musica di sapori / fluido nervoso, lunare, il flusso. / I suoni di Rio, Araguaia e Xingu, / laghi, pantani, isole alluvionate / saltando, pulsa, vene della terra».

Una voce-canto che entra nelle porzioni del reale attraverso l’enciclopedia poematica di un patto originario tra parola e cosa[3], unione di elementi che si vivificano in un legame arcaico e ancestrale della lingua della foresta[4]: «Açana, Yaná, Nacaira / Caja, Pacaba, Maçaranduba / ogni parola un essere, parole che scrivo / io vedo un’aria piena di parole/ foresta mio dizionario / parole vive e masticate/ aspre di cammini già percorsi».

L’incanto della poetessa brasiliana è una intonazione che rievoca, nomina, conserva la propria genesi, nella partitura di luoghi, elementi, oggetti, figure, dinamiche di passaggio, fluidità e mito dell’essere, come il Rio delle Amazzoni che «lavora senza posa» nelle sue distanze rarefatte e materne, nel suo spirito dei viventi:

«Il Rio delle Amazzoni lavora senza posa, / vive: gracidano le rane, i rami degli alberi / cadono infradiciati dall’umidità, / scendono lungo il fiume / che si biforca sinuoso, / lasciando isole, laghi, cascate. / Un ramo trapassa il cuore di Itabuan / e lui andrà lontano, lontano, / col ramo dentro il cuore. / Il pesce va sulle onde, entra nell’oceano, / memorie di verdi immensità dentro di lui / e sinfonie di coralli verdazzurri insieme. / Il dio Giaguaro vuol vedere con gli occhi di Itabuan, / i suoi occhi vanno e tornano / dalla terra al mare, dal mare alla terra. / Il ritmo del tamburo, l’abre-alas / moltitudine di alberi, visi-rami / confusi con il rumore dei fiumi / e delle cascate. Città intere. / E con strade accese».

È un mondo vorticoso che traluce, si impone, afferma la bellezza come composizione dell’anima (come la danza delle donne che ondeggiano nell’isola di Marajó), crea un mondo, non già un’enclave di sogno, bensì realizzando un’attestazione di fronte la realtà, in cui l’io diventa parte vitale e prolifica di ciò che vede, unendo la dimensione del colore al gioioso dolore della nascita:

«Nei lunghi mesi di pioggia quelle voci / sibilanti tra spume: i delfini / nascono dalle acque profonde. / Corpo vermiglio-rosato corre, vola / la pelle, frutto tenero e liscio, / porta memorie, si culla nelle onde / dei tropici, vicino all’equatore / scherza nella laguna, nel fiume denso di suoni / all’improvviso appare in mezzo alla foresta. / Corpo-sapore dolciastro porta a riva / un delfino, parto al chiaro d luna / affronta dolore alla nascita / penetra l’astro doloroso del tempo, / materia, sangue nelle acque, geme / un parto un solo figlio, lo allatta / uno scambio di sguardi, il latte scaturisce / tra sussurri nasce un dio: il Boto».

«Tanti sono i verdi d’Acre, Croce del Sud / sfavillanti sulle spiagge, sulle spume / sulle piccole case sparpagliate / quando si parte, il sole si adagia sulla pelle / insieme al verde azzurro delle acque / e a quelle venature terra-sangue. / Vento tiepido, corpo della foresta trema / animale, fame, conoscenza. / Oggi è piena / di sangue la piazza del villaggio / embrioni di fuoco si fanno sentire / perché tanto delirio? È un diluirsi / di luci, alberi con le loro radici / e notti senza fine» (Verdi d’Acre).

Il respiro, dunque, come passo di danza delle cose e magia del reale e dell’immenso, ma anche come forza del mondo che non si disperde, diventando tellure onirica, territorio innominato, vertigine che si rigenera e battito cromatico: «Erano stelle che cadevano nel fiume, erano stelle: / le vitórias régias. Io so – Yanoà pensa – / non solo gli animali ma tutto in natura ha un’anima, / un’anima alata che lascia il mondo quando sogna. E / sogna sempre luoghi ignoti […] Il suo volto s’illumina e i capelli spessi le scendono / lisci sul viso rugoso, antico, scolpito dai sogni e dal sole».

E poi la terra battuta, le parole amare, il corpo dell’armonia, le stelle solitarie nel cielo, la farfalla e l’iguana, il tucano e l’anaconda.

L’anima del mondo, è dapprima acqua, poi terra, animalità segreta e rivelata di un grande movimento che assomiglia al cuore che pulsa e ritorna acceso, dove la poesia racconta la lunga narrazione dell’esistere: animali, vegetazione nel verde lacerato dell’arcobaleno, l’offerta dei suonatori di Uruá: ierofania radicale e amazzonica di terre tiepide e musica partoriente.

Anche l’aria, narrata da Márcia, diviene un inseguimento di stupore, tra colibrì e l’ebbrezza ombrosa dell’araçá-mirim, japu e farfalle, vento e alberi.

La poesia è variopinta e ferita insieme, convoca il diadema di ogni bellezza matura per affrescare piogge, tragedie indie e colore giaguaro, fino alla fiamma dell’eros che riscalda, «Ruberò il tuo corpo / l’immergerò con me nelle acque / e dentro un abisso / dormirò con te / così dice la dea», fino alla dolce immersione di un puro pensiero di semente: «Le mie radici profonde hanno vissuto / insieme a grandi piogge e fiumi: / io ho un passato / ho vissuto albe splendenti, luminose / ho visto sole e luna dentro le acque / io, Janaúba, albero di stirpe antica / io, albero immortale / le mie sementi: puro pensiero / acqua il mio dio supremo / e sole».

Theóphilo M., Amazzonia verde d’acqua, Mondadori, Milano 2020, pp. 336, Euro 22.

Theóphilo M., Amazzonia verde d’acqua, Mondadori, Milano 2020.

-Amazzonia respiro del mondo, prefazione di Mario Luzi, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2005.

Capuzzi L., Márcia Theóphilo: «In Amazzonia soffia lo spirito dei viventi», in “Avvenire”, 24 giugno 2020.

Galaverni R., Ascoltate l’Amazzonia. La sua voce è un coro, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 giugno 2020.

[1] Theóphilo M., Amazzonia verde d’acqua, Mondadori, Milano 2020.

[2] Luzi M., prefazione, in Theóphilo M., Amazzonia respiro del mondo, Passigli, Bagno a Ripoli (Fi) 2005.

[3] Galaverni R., Ascoltate l’Amazzonia. La sua voce è un coro, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 14 giugno 2020.

[4] Capuzzi L., Márcia Theóphilo: «In Amazzonia soffia lo spirito dei viventi», in “Avvenire”, 24 giugno 2020.

Pablo Picasso: l’amore per la cosalità

di Andrea Galgano 1 luglio 2020

leggi in pdf Pablo Picasso e l’amore per la cosalità

La poesia[1] di Pablo Picasso è amore per la cosalità ossia per la materia vivente. Il senso materico che appartiene al gesto come respiro dell’esistente, l’espressione  come forma dell’umano che sconvolge le regole della pittura e della verità figurativa, come scrive Trillat: «Rapida e diseguale, disseminata di cadute, rotta, dolorosa, triste e ispirata, questa scrittura che avanza attraverso la sofferenza, il sangue, la violenza, la dolcezza, l’amore, la tenerezza e la collera improvvisa, coi suoi forti contrasti e i suoi uncini che ti agganciano e ti trattengono, fa pensare a una marcia lenta e perseverante in una foresta di liane[2]».

E Valerio Gaio Pedini afferma:

«Picasso, da pittore, non ha pregiudizi verso l’immagine, anzi, lui vede il linguaggio poetico come una funzione dell’immagine. Per il pittore spagnolo la metafora è ragguagliata alla immagine, ed entrambe sono impiegate come «fotogrammi» degli «oggetti», alla stregua di una macchina da presa che inquadra gli oggetti e li duplica nel fotogramma; la poesia è vista da Picasso come uno scorrimento di fotogrammi nel montaggio. È una procedura poetica che mette al centro la rappresentazione, la sovrapposizione, il montaggio delle immagini[3]».

Non esiste residuo. Si afferma una fantasia mai astratta che nasce e si radica nella ferita dell’essere, nella realtà della realtà, e potremmo dire, in una parola, nella sua essenza. L’opera si fa presente e vive nel presente[4], mantenendo «la gioia della scoperta, il piacere dell’inaspettato[5]», lavora il tempo e avverte il mutamento della composizione, sentendo l’osservazione, e, infine, raggiungendo una sorta di «somma delle distruzioni. Prima faccio un quadro poi lo distruggo. Ma alla fine nulla è andato perduto, il rosso che ho tolto da un posto si troverà da qualche altra parte[6]».

La riproducibilità degli oggetti e la disponibilità segnica diventano una carta di contrasto, uno schizzo ossimorico che lascia le cose sulla tela come sulla pagina e scopre il tempo, lo ricandida a una formulazione nuova che sconvolge le regole, fino a sopprimere la forma e lasciare il dettaglio come disposizione di segno-appunto: «Le ore cadono nel pozzo / e s’addormentano per sempre / ogni orologio che batte la sua campana / sa già cioè che è / e non si fa illusioni».

È un’immagine ferita. Una visione della realtà in cui lo sguardo sugli oggetti, i volti, le linee, i cambi cromatici, le prospettive vengono schizzate in una linea quasi onirica e disposti come descrizione figurativa: «Ho visto uscire / stasera / dal concerto / della Salle Gaveau / l’ultima / persona / poi sono andato un po’ più lontano / nella stessa strada / del tabaccaio / a comprarmi i fiammiferi».

Nei Cahiers d’Art, tratti dal saggio di André Breton[7], il mondo poetico picassiano si svolge in una silloge interiore, attraverso la validità obiettiva del reale[8] e la linea dell’immagine è un contrasto in movimento, dove i personaggi sulla scena ristabiliscono, come scrive Paul éluard, «il contatto tra l’oggetto e colui che lo vede e, di conseguenza, lo pensa, ci ha ridato nel modo più audace, più sublime, le prove inseparabili dell’esistenza dell’uomo e del mondo[9]».

Mario De Micheli commenta: «Questo dato positivo dell’esistenza del mondo non è dunque per Picasso un dato statico. Picasso cioè non vede il mondo come realtà immobile e immutabile, egli ne ha al contrario una visione di movimento, di mutamento continuo. Si è persino tentati di dire che la sua visione del mondo nasce da una rudimentale concezione dialettica della natura, a cui si mescolano altre primitive intuizioni, talvolta persino di sapore magico o stregonesco[10]».

La visione precisa dell’immagine è la sua naturalezza, che è l’indizio del poeta che si addentra nella realtà metamorfica e nel suo linguaggio che è, allo stesso tempo, preciso. Picasso sintetizza violentemente e gioiosamente la realtà, attraverso un impeto decisivo e definitivo e un metodo surrealista di automatismo.

Il suo fitto fondo è una condensata nominazione sorgiva: «Il miracolo che il torero frigge / nella piazza del peperone / la precisione del volo attraverso la nuvola / che il cristallo infrange / con la sua cappa» (Il miracolo).

O ancora le pennellate dettagliate di pienezza dell’estate o del vestito del torero: «Passa l’estate / fetta di melone che la cicala accende / e trascina nella sua ferita / la cappa dell’espada» (Estate), «Al torero / con l’ago più sottile che la nebbia inventò / cuce un vestito di lampade elettriche / il toro» (Il vestito del torero).

L’osservazione è già l’indice della scrittura. Il ritaglio del reale si collega alla dimensione della ragione in atto («La persiana sbattuta dal vento / uccide i cardellini in volo / i colpi macchiano di sangue / la spalla della stanza / ascolta passare il candore / la morte porta in bocca aroma d’armonium / e la sua ala tira la corda al pozzo»), tocca il mondo e può farlo attraverso il ricordo, l’associazione («un fiume nel bianco vuoto / nell’ombra azzurro chiaro dei colori di lillà / una mano sull’orlo dell’ombra fa ombra alla mano / una cavalletta molto color di rosa / una radice alza la testa / un chiodo il nero degli alberi senza niente / un pesce un nido il calore in piena luce»), il sogno, la normalità dell’assurdo, lo sforzo creativo come l’urlo della partoriente associato ai vetrai, il corpo del risveglio, l’approdo isolato («I cardellini sono l’aroma / battente con la sua ala il caffè / che riflette la persiana nel fondo del pozzo / e ascolta l’aria passare / nel silenzio della candida tazza»), o come avviene in Il tabacco, in cui la poesia, come spiega De Micheli, riportando Breton, «è nata dall’osservazione di una sigaretta accesa lasciata in un portacenere, e probabilmente un portacenere a testa di cavallo[11]»: «Il tabacco avvolto nel suo sudario / vicino a due banderilla rosa / spira i suoi disegni modernisti / sul cadavere del cavallo / e al fuoco del suo occhio / scrive sulla cenere / l’ultima sua volontà».

Il dinamismo picassiano tocca allusioni e lingue di fuoco, profondità, istinto, amore, sesso portato all’estremità carnale e voluttuosa, al possesso e alla repulsione, all’avidità e al suo tormento, minuziosità di interni, freschezza e fragranza aggressiva di un’etnia (si pensi ai richiami del sangue e del torero) e non, per ultimo, il colore disteso e tiranno in un richiamo di chiasmi, in un desiderio scintillante e incendiato («I quadri sono donne pazze / appuntati sul cuore / delle bolle scintillanti / per gli occhi stretti alla gola / dal colpo di frusta carambolesco / che agita le ali / intorno al quadrato del suo desiderio»):

«Ascolta nella tua infanzia / l’ora che bianco nel ricordo azzurro / bianco orla nei suoi azzurrissimi occhi / e pezzo d’indaco di cielo d’argento / gli sguardi bianco attraversano il cobalto / il bianco foglio che l’inchiostro blu strappa / bluastro il suo oltremare scende / e bianco gode del riposo azzurro / agitato nel verde cupo / muro verde che scrive il suo piacere / pioggia verde chiaro / che nuota verde giallo nell’occhio chiaro / sull’orlo del suo piede verde / la sabbia terra canzone / sabbia della terra / pomeriggio sabbia terra».

La fuga crudele della bellezza, il tempo del colore maturato, la forma in equilibrio, i simboli della sofferenza, dell’amore, la vita che mostra confini di energia creativa e dolore, la figura solitaria delle destinazioni rappresentano il suo colore di argilla, la preziosità immaginabile e lacerata di un panorama di respiro che cerca l’acrobazia del vivere, l’unione dei particolari e degli scorci innominabili, i vuoti e i disegni del corpo, l’essenza femminile trasportata nella sproporzione dello slancio invisibile, cui anche il teatro mostra la sua riverenza e la sua pienezza di sorgente.

 

Picasso P., Scritti, a cura di Mario De Micheli, SE, Milano 1998.

Éluard P., Donner à voir, Se, Milano 1988.

Trillat R., étude graphologique de Picasso, in “Labyrinthe”, Genève, 15 novembre 1945.

La poesia di Pablo Picasso. La questione della metafora nell’interpretazione di Valerio Gaio pedini con una scelta di poesia di Pablo Picasso (https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/06/03/la-poesia-di-picasso-e-la-metafora-visiva-nellinterpretazione-di-valerio-gaio-pedini-con-una-scelta-di-poesie-di-pablo-picasso/), 3 giugno 2015.

 

[1] Picasso P., Scritti, a cura di Mario De Micheli, SE, Milano 1998.

[2] Trillat R., étude graphologique de Picasso, in “Labyrinthe”, Genève, 15 novembre 1945.

[3] La poesia di Pablo Picasso. La questione della metafora nell’interpretazione di Valerio Gaio pedini con una scelta di poesia di Pablo Picasso (https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/06/03/la-poesia-di-picasso-e-la-metafora-visiva-nellinterpretazione-di-valerio-gaio-pedini-con-una-scelta-di-poesie-di-pablo-picasso/), 3 giugno 2015.

[4] Cfr., Picasso P., cit., p.13.

[5] Cfr., p.15.

[6] Cfr., p.27.

[7] Breton A., Picasso poeta, in «Cahiers d’Art», n.7-10, 1935.

[8] De Micheli M., Postfazione, in Picasso P., cit., p. 195.

[9] Éluard P., Donner à voir, Se, Milano 1988, p.79.

[10] De Micheli M., Postfazione, cit., p. 196.

[11] Id., cit., p. 205.