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La poesia di Molly McCully Brown

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Traduzioni MollyMcCullyBrown

Molly McCully Brown è l’autrice della raccolta di saggi Places I’ve Taken my Body pubblicata negli Stati Uniti nel giugno 2020 da Persea Books e nel Regno Unito nel marzo 2021 da Faber & Faber e della raccolta di poesie The Virginia State Colony For Epileptics and Feebleminded (Persea Books, 2017), che ha vinto il Lexi Rudnitsky First Book Prize nel 2016 ed è stata nominata tra i migliori libri del 2017 dai critici del New York Times. Insieme a Susannah Nevison, è anche coautrice della raccolta di poesie In The Field Between Us (Persea Books, 2020).Brown è stata destinataria della Amy Lowell Poetry Traveling Scholarship, della United States Artists Fellowship, Civitella Ranieri Foundation Fellowship e della Jeff Baskin Writers Fellowship dell’Oxford American magazine. Le sue poesie e i suoi saggi sono apparsi su The Paris Review, Tin House, The Guardian, Virginia Quarterly Review, The New York Times, The Yale Review e in magazine minori. Cresciuta nella Virginia rurale, si è laureata al Bard College at Simon’s Rock, alla Stanford University e all’Università del Mississippi, dove ha conseguito il suo MFA. Vive e insegna a Laramie, Wyoming, dove è direttrice del programma di scrittura creativa presso l’Università del Wyoming.

AFTER ALL (EVERYTHING)
this morning I wake up            and for a moment I think the visions have vanished
then I realize everything is shaded green the visions have alit like luna moths
around the dormitory on the doorframe and the table and the face
of every sleeping girl when I blow out my breath they travel noiselessly into the air
I pass an hour like this this is what no one tells you about suffering
sometimes you would not give it up for all the world

DOPOTUTTO (TUTTO)
questa mattina mi sveglio e per un momento penso le visioni sono scomparse
dopodiché realizzo che tutto è ombrato di verde le visioni sono atterrate come falene luna
intorno al dormitorio sugli stipiti della porta e sul tavolo e sul viso
di ogni ragazza addormentata quando esalo il mio respiro viaggiano senza far rumore nell’ aria
passo un’ora così questo è quello che nessuno ti dice della sofferenza
a volte non ci rinunceresti per nulla al mondo

Transubstantiation
It’s the middle of the night. I’m just a little loose on beer,
and blues,
and battered air, and all the ways this nowhere looks like
home:
the fields and boarded houses dead with summer, the
filling station rowdy
with the rumor of another place. Cattle pace the distance
between road
and gloaming, inexplicably awake. And then, the
bathtubs littered in the pasture,
for sale or salvage, or some secret labor stranger than I
know. How does it work,
again, the alchemy that shapes them briefly into boats, and then the bones
of great felled beasts, and once more into keening copper
bells, before
I even blink? Half a mile out, the city builds back up
along the margin.
Country songs cut in and out of static on the radio. Lord,
most of what I love
mistakes itself for nothing.

Transubstanziazione
È notte tarda. Sono soltanto un po’ sciolta dalla birra,
e il blues,
e dall’aria maltrattata, e da tutti i modi in cui questo niente assomiglia
a casa:
i campi e le pensioni morte con l’estate,
la stazione di servizio ricolma
del brusio di un altro posto. Il bestiame scandisce la distanza
tra la strada
e l’imbrunire, inspiegabilmente desto. E poi, le vasche da bagno
abbandonate nella radura,
da vendere o da riparare, o per farci qualche lavoro segreto più strano di quel che io
sappia. Come funziona,
ancora, l’alchemia che le trasforma brevemente in barche,
e poi le ossa
di grandi bestie abbattute, e poi di nuovo in campane ramate
disperanti, prima
ancora che io possa batter ciglio? Mezzo miglio più in là, la città si ricostruisce lungo
il margine.
Canzoni country vanno e vengono dall’interferenza della radio. Signore mio,
quasi tutto quel che amo
è in torto nel credersi effimero.

Virginia, Autumn
October, I’m dragging the dog away from perfect birds lifeless on the pavement. By the water, boys in dress blues with bayonets, the blistered hulls of boxships. Everything                                                                 is sunshine. Everything is dead, or dying, and this isn’t                                 a new thought. I grew up here, but farther from the ocean.                      Each April, they took us to the battlefield, marched us                              in schoolhouse lines up courthouse steps:  here                                               is where the war ended. Never mind that it was fall                                         before the final battleship lowered its flag; never mind                        that we still haven’t fired the last gun. What business                               do I have wanting a baby here: in this body                                                         where I can’t keep my balance, this country                                                    where we can’t keep anything alive that needs us,                                       or dares not to, not even the switchgrass                                                      pale and starved for groundwater? And still,                                                      I do want. I search the news for mention of the birds,                       whatever poison or disease I’m sure is claiming them                                  in such great numbers: meadowlarks, house wrens,                       chickadees, starlings. Once even a gray gull, pulled                                  open at the chest before we found him, hollowed                                        of his organs. It takes a long time—too long—                                                 for me to understand the sun in this season                                                      is blinding, and the birds are flying into windows                                               all around me, fourteen stories up. Flying into glass                                and falling. What we love is rarely blameless.                                                   Is it a failure that I wouldn’t trade this brightness?                                           I imagine pointing upward for my daughter:                                                Look, there, how it catches in the changing trees.

Virginia, Autunno
Ottobre, sto trascinando il cane via dai perfetti uccelli                      senza vita sul marciapiede. A riva, ragazzi in divisa blu                             con le baionette, lo scafo piagato delle navi cargo. Ogni cosa                    è luce. Ogni cosa è morta, o morente, e questo non è                                 un pensiero nuovo. Sono cresciuta qui, ma più lontana dall’oceano. Ogni aprile, ci portavano al fronte, ci facevano marciare                           in fila indiana sui gradini del tribunale: qui è dove è finita la guerra. Non importa che fosse ancora autunno                                                                 prima che l’ultima corazzata abbassasse la sua bandiera; non importa se non abbiamo ancora sparato l’ultimo proiettile. Che diritto ho io di volere un bambino qui: in questo corpo in cui non riesco a mantenere l’equilibrio, questo paese in cui non siamo in grado di sostentare ciò che ha bisogno di noi, o che osa non averne, neppure la gramigna pallida e affamata di acqua dal terreno? Eppure, io lo voglio. Cerco nel giornale notizie sugli uccelli, su qualsivoglia veleno o malattia sono sicura li stia portando via in gran numero: allodole, scriccioli, cince, storni. Una volta persino un gabbiano grigio, squarciato in petto prima che lo trovassimo, vuotato dei suoi organi. Mi ci vuole tanto tempo- troppo tempo- per capire che il sole in questa stagione è accecante, e gli uccelli volano contro le finestre intorno a me, al quattordicesimo piano. Volano contro il vetro e cadono. Quel che amiamo è raramente senza colpa. Mi sbaglio a non voler rinunciare a questa luce? Mi immagino di indicare il cielo per mia figlia: guarda, là, come si intrappola tra gli alberi che mutano.

La linea vivente di Alessandro Moscè

di Andrea Galgano

28 marzo 2024

La linea vivente di Alessandro Moscè

Per sempre vivi di Alessandro Moscè (Pellegrini, Cosenza 2024) offre un biografema epico-lirico di vasta intensità rarefatta e di diramazioni relazionali, in cui come afferma Tiziano Broggiato nella bandella,

«la comunicazione tra i vivi e i morti (gli affetti famigliari e il dialogo trascendentale con il padre), l’eros e il sogno incentrati nel dolcissimo ricordo dell’adolescenza, il locus amoenus dei giardini pubblici di Fabriano, luogo esistenziale, piuttosto che contemplativo, la malattia infantile con la finitudine e il sibilo misterioso, radente della morte, il riscatto, infine, con il simbolo della forza identificato nel mito dell’infanzia: il calciatore Giorgio Chinaglia, autentico trascinatore per lunghi anni della squadra della Lazio».

Nell’opera di Moscè vi è sempre una accensione e, verrebbe da dire, una salvazione che non è solo contemplativa, appunto, ma sembra spargersi come gesto, accenno, flash e dimensione unica e vitale, in cui la sua forza si contrappone a ogni fugace fragilità e anzi diventa nervo elegiaco e splendore:

«L’inverno è traslucido nelle gocce di pioggia / dopo pranzo, nel vento fantasma / battuto sulle lapidi cimiteriali / di redivivi in altri paesi, in altre case / figuranti nel mese alchemico di febbraio / radunati nell’aldiquà / gli inguaribili della provincia annacquata / sotto cieli di perle celesti. / Oltre la porta, di sbieco / sembra di vederli in trasparenza / avvicinarsi e conversare / con i maglioni a righe, freschi di bucato / farsi perdonare per il pianto / di chi li ha persi e ritrovati / nella foschia a notte fonda / prima di un altro arrivederci / che ci viene addosso / dai pianerottoli dei piani superiori».

Le sue apparizioni consegnano i detriti memoriali come gocce di risacca: sono attimi sperduti, richiami viventi, dialoghi con i cari e con le assenze. Nelle cinque sezioni del libro questa linea si lucida di appartenenze e visioni, da un lato descrittive e quasi sospese, dall’altro esse entrano nella dinamica più intima e familiare come corpo intero, in quella vitalità, senza compromessi, nel «voler prendere a piene mani il frutto dell’istante, per non sprecare neanche un momento – nonostante non manchino gli attimi di riflessione nostalgica, o malinconica (ma anche questo è consegnarsi al vivi del titolo» (p.7).

I per sempre vivi sono le densità persistenti e le comunioni con chi non c’è più, che rimangono nelle nostre linee di vita, sono le tracce di eterno che permangono («Nel sogno pomeridiano c’è un angolo di giardino / la fermata per i nonni nella luce ondeggiante / nella lunga traversata primaverile. / Nel tempo corro per abbracciarli / ma la pioggia li ha già cancellati / in un vento leggero e remoto / risucchiato da ricordi tremuli / dalla catenina d’oro al collo»), i ricordi che cambiano e si aggregano (la mano del nonno quando il cielo è di un altro pianeta) e, infine, il richiamo alla stagione sui valichi.

Al sogno che unisce aria e terra, all’immagine che non muore nel tempo, fino alla giovinezza furtiva dell’amore e dei cieli d’estate, la scrittura si destina indelebilmente: «Ancona metallo dal cielo all’aria / sulle mura lunghe / sulla volta del primo arco / in controluce / con la ragazza dallo spolverino color panna / avviata seducendo il passo / nella scia di un profumo francese. / Giovane che segue il vento di mare / che appare nel pomeriggio in un autoritratto / tra il biancore e il buio taciturni. / Solitaria che accompagna il suo umore / non sa dove / e appare impenetrabile / tra le ombre umide / vista da dietro / fino al riflesso dello specchietto / e ancora più in là».

In questi accumuli di note e vita di “caproniana” caccia, l’orizzonte di Moscè si rivolge all’esserci, al cuore profondo delle città, all’incanto nudo di Fazzini, a ciò che si oppone alla morte, come l’aria illividita della pioggia che si apre ai sussurri.

Poesia nascente, si direbbe, ossia a che fare a chi resiste nascendo, a chi si porge e si rivela nascendo (qui il mare del Conero balugina in ogni sillaba e in ogni cadenza di luce), nonostante la mancanza, il dolore, la malattia a quattordici anni, trasfigurata in una vita nova di eroi (Chinaglia) e le lacerazioni.

Nei Dialoghi con mio padre, susseguenti alla raccolta, edita da Aragno, La vestaglia del padre, la poesia dialogica e filiale scrive la sceneggiatura sempiterna di una soglia che diventa sguardo su Dio, domanda di eterno, possibilità umana di bellezza e abbraccio senza fine.

Nella sua dettagliata sospensione, Moscè offre epiche crepe, attese ricoperte di memoria e rinvii, silenzi che sono parole di ombra e polvere.

 

 

Rosa Salvia e la memoria del mondo

di Andrea Galgano

5 settembre 2023

La scrittura non svela, porta dentro il suo grembo l’attenta vertigine dell’enigma e la febbre remota dell’invito: un andirivieni, una soglia, un cielo aperto all’improvviso.

Il libro di Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, pubblicato da Edizioni Esemble, con la prefazione di Augusto Pivanti, restituisce un doppio movimento di condizione che affiora nella cifra primigenia di un dono, come afferma Pivanti:

«Raramente si attribuisce a questa condizione un valore di generosità, essendo più portati a ritenere che un autore pubblichi per soddisfare la propria vanità: in Rosa si coglie invece la dimensione del dono, questo suo scrivere per sé ma anche per gli altri, dall’invito alla dimensione orante: “Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera la nostra Madre eterna // per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina”, alla nostalgia vissuta come elemento rassicurante e benevolente del ritrovare e del ritrovarsi: “una / foto in cornice misura del tempo / ambiguità e confini, […] dove i colori virano, punto per punto, / allegri come bambini ancora svegli / allo scoccare della mezzanotte”, ma anche come affannata confessione dell’io che si bilancia fra accoramento elegiaco e pacata riflessività.».

Tale dimensione orante sembra provenire in zone remote, in ritrovamenti e recuperi, in un frantume familiare che diviene albore elegiaco, verso cose e persone, luoghi e sé stessa.  La potenza evocativa delle sue liriche si attesta così in questa erotta emersione che sovrasta, si appropria di un tempo perduto e concilia opposti e situazioni. Vicino e accanto nel mondo e del mondo: «Da uno sguardo cangiante / tentare di continuare / il proprio tempo, / al di qua dell’orizzonte, / verso il tu che ti aspetta – / e scambiare un granello di sabbia / per un seme di pienezza, / contro finestre sorde / che non odono il sangue sgorgare dal buio».

Una benedizione, una sovraincisione, come la neve, che entra nella pagina, disvelando le tracce, riprendendosi il tempo, superando ogni passaggio transitorio: «Sono la curva stanca della luna – / anno per anno, entro di me, mutai / volto e sostanza, il palmo segnato / da tutte le mie morti. / Ma la neve copre le cesoie del / tempo, il tintinnio del dubbio, / e le tracce chissà dove nel nulla. / Bisogna che io impari a vivere / di nuovo, svolgendo avvolgendo / la fascia bianca della preghiera a nostra Madre eterna / per rimanere come un’età che / non ha nome: umana fra le umane / debolezze, e pur vivente di Maria / soltanto e solo in lei bambina».

O ancora la presenza della luce vela e rivela ogni spigolo: «Anche nel rifugio dei miei spigoli / la tua voce mi raggiunge sempre, / la mia ansia placando, con i modi / invisibili del cuore, lontano dal gioco / delle parti. Che entrino sempre in noi / la notte e il giorno, l’odore della neve, / il caldo dell’aurora, qualcosa di / preciso, fatto d’acciaio o d’altro, che / abbia azzurre luci – come se / esistessimo.»

La linea lucente e nevosa richiama sia la levità e sia l’abbondanza dettagliata di ciò che non muore, orienta la strana “buità” dei bordi, richiamando qualcosa che non regredisce nella pura rievocazione ma diviene sostrato cartografico di un io alla ricerca e all’inseguimento del tempo: «In questo mondo e accanto / un ronzio incerto, ineguale, / offerto in dono dalla cenere – / la sensazione che tutto è sogno, / mentre lo sguardo si abitua alla notte – / gravita all’interno – / nel crepuscolo dei fiori, dei frutti, / si abbandona – / Come sa fare la farfalla bianca».

Ed ecco che la scrittura diviene conservazione e disegno, ricerca del centro nel grido sfumato e nel tentativo di mantenere la memoria presente del mondo, fino a percepire la paurosa vastità della fine, della ferita e dell’agnizione come un silenzio: «Sempre una ferita ricorda la vita / e ogni nascita proviene dal suo antro, / si frantuma nel mio scrivere, / compagno di ogni mio sentiero, / asta d’appoggio del mio sguardo, / con numeri e simboli che mutano / come mutano gli specchi, fra cripte, / schegge di luce e migrazioni d’uccelli, / fino a che il mio nodo di marmo si / sciolga, non con uno strappo, ma con / un silenzio, come a settembre le cicale / si quietano, fra arsure che vanno / allentandosi e la luce stessa ricade, / rotta dal proprio peso».

La memoria è inquietudine di senso, mancanza e offerta d’amore: «Il centro ora parte da me – / in quell’esatto bruciare / imparare che tutto è sentire / con l’albero, la pietra, / il grido, le parole, il primo sogno, / il tu, il noi, / e persino la morte. / Il mio centro è fatto di tronchi, / li ho tagliati io stessa / e sistemati uno sull’altro / dove tutto è in evidenza sulla neve, / in un garbuglio sospeso / tra dolore e grazia. / Il mio centro disegna i suoi nodi di presenza / sempre uguale a sé stesso e uguale mai / con il suo amore accattone, disperato, / sacro come lo strillo di un bambino».

Nei suoi orizzonti, Rosa Savia compone distanze scagliate e ombre, nel silenzio scandaglia gli elementi in lotta «nel terreno fragile di un continuo esordio», come una salvezza, un’impronta, una confessione di sillabate distanze e smottamenti, che richiedono cose in controluce, lasciate imbrunire in preghiera, senza reciderle.

Rosa Salvia, In questo mondo e accanto, Edizioni Enseble 2023.

Ritratto di un giovane poeta nel tempo primo della sua poesia

di Carmen Cucinotta

Andrea Galgano, Argini, Lepisma Editrice 2012

E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani / tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere mercati / di sale le ore cavalli sulla rena […]”: la prima raccolta poetica di Andrea Galgano, Argini (Lepisma 2012), comincia con il ritmo serrato di versi che cavalcano liberi e furiosi sulla riva del mare, come tempo che scorre, portando con sé tutto il sale della Terra. I versi della poesia iniziale, Tempi, prendono forse avvio dalla lettura che Galgano svolge dei “Quattro quartetti” di T.S. Eliot, poeta modernista che concepisce il tempo come qualcosa di irredimibile, perché in esso confluiscono già tutte le dimensioni: passato, presente e futuro. Il tempo di Andrea, invece, è redento perché “spogliato di piani”, è una narrazione di tempi dei giochi infantili, di desiderio d’amore nelle sceneggiature dell’adolescenza, un tempo che può essere lentamente indossato, come mare che “scheggia i fiumi”, perché dall’oblio della forza corrosiva di esso ci si salva solo con una forza ancora più potente, quella che l’uomo possiede nello spirito. Bisogna rimanere svegli come dice il Vangelo, tenere gli “occhi schiusi come araldi”, ricreando in modo perpetuo la meraviglia divina di cui l’uomo e la natura partecipano insieme. Già nella prima poesia i segni interiori ed esteriori di questo fronte della resistenza sono dati da un sentimento ciclico del tempo, che con l’alternarsi dell’alba e del tramonto rivela l’eterno susseguirsi dei giorni, dalla dimensione onirica dell’uomo che non è fuga dalla realtà, ma fonte generatrice di senso, e soprattutto dal sussurro dei canneti, che per ora è solo ridotto a mera percezione uditiva, ma nella raccolta omonima del 2019, “Non vogliono morire questi canneti”, diventa emblema di questa resistenza cui è chiamata la fragile fibra dell’essere umano.

C’è poi la presenza fondamentale di un “tu femminile”, “albero sul mare/sposa di leggi illeggibili”, un “tu” in relazione generativa con il poeta, come grembo in cui le parole “a ventaglio” del poeta s’incarnano per farsi ontologicamente altro da sé e un altrove. Andrea ha sempre dichiarato che la sua poesia non è mai autoreferenziale, ma creazione attraverso un “tu” capace di aprire nuovi orizzonti possibili per i lettori. Per questo per lui la parola è centrale nella creazione di immagini, idee, e sensazioni che vanno al di là della siepe, come sponde d’oltremare cui aggrapparsi per scongiurare il naufragio. Parole come “argini” che frenano l’entropia del tempo e del caos interiore, il punto d’incontro tra apollineo e dionisiaco.

La prima silloge di poesie di Galgano si può quindi considerare il suo ritratto di artista da giovane, un poeta trentenne con un’educazione sentimentale ed estetica già forte e consolidata nel tempo.

Fin dalle prime poesie è chiara la sua matura visione poetica. In “Poiesi” leggiamo:

Esistono sceneggiature indigene / nel sangue primitivo e innocente / dopo i tigli e i platani vidi luci / come capoversi di cupole estive / scorsi sogni sui ristagni / su cui scivolò la fioritura / nei tagli di vette tra le fiumane / spesi orizzonti come fronti / cinema di chiusi monti / poi rimase un viso di donna / su cui intagliai le mie preghiere / negli acquitrini degli oblii / si annerì l’inchiostro dei diamanti / quando i melograni si svestiranno / mi vedrò nella cruna dell’oro / nel pavimento di una calendula / dove si inoltreranno i nuovi convogli / ruscelli uccelli di una stagione contadina / fisionomie ribelli / di tessuti lunari”. Gli “argini” di Andrea sono parole provenienti da lontano, apparentemente velate di arcano mistero. Provocano straniamento iniziale nelle molteplici combinazioni possibili, ma, sempre incastonate nel loro significato pregnante, rivelano epifanie di una terra primordiale, selvaggia come sangue primitivo e innocente, ma anche luminosa e splendente nell’interazione di piante e di fiori con la luna, il sole, le stelle e i fenomeni atmosferici. Il discorso poetico è un fiume in piena che lascia il suo fertile limo a nutrimento di una lunga e concitata sequenza di fotogrammi interiori.

Il terreno “creso” di questa scrittura fatta a grappoli di parole è seminato di meraviglia e bellezza di cui il poeta è un tramite come un traghettatore universale dell’invisibile. In “Kallias” leggiamo infatti:

“traghettiamo l’invisibile / perché gli accenti di sponda / graffiano le nostre unghie / ma annunciano l’universo / da uno squarcio di croce / sull’apertura delle palpebre”. Il dolore si fa condizione universale e necessaria per noi essere mortali, da attraversare per ritrovare la luce. Il poeta è vittima sacrificale di questa espiazione e si fa tramite per gli altri perché portatore di verità ultime nascoste nel dono della parola, che è “squarcio di croce”, ma anche scavo, scalpello e cesello. Il più delle volte, però, il tocco del poeta è delicato come un pennello che si posa delicatamente sulla tela, impalpabile come una palpebra o una calendula e impercettibile come il fruscìo di un abito di donna che provoca scompiglio nel cuore innamorato.

Galgano si pone più volte in rapporto con la parola nel suo discorso poetico, alla presenza spesso invocata del suo “tu” di donna-grembo e terra d’approdo, che lo aspetta come “voce d’attesa” di novella Penelope.

In “Balaustra di stelle “leggiamo:

ti porto parole / a grappoli d’uva / nelle foci indaco delle frasi / in una minuta spiata di chiome / devo decrittare i tuoi approdi / a te ritorno testimone / onda-metafora e crescente / pergamena inginocchiata alle stelle / linea sottile di firmamento”.

Un “Tu” così splendido, quando si ritrae in marea, da ricordare la Creazione, “l’indice del cielo” di Michelangelo (Neve di mare).

La figura femminile non è mai evanescente, ma corpo tangibile, sensuale fonte del desiderio e tramite verso l’elevazione spirituale:

ti toccano le pagine del mare / ellittiche e naufraghe verso l’Eterno […] ti toccano quelle cose / che ondeggiano perdute / cose sul tuo corpo / sulla sigla dei cascinali” (Ferimento naufrago).

Anche quando l’aura di Petrarca sembra infondersi nei suoi versi, il giovane poeta dimostra che l’amore è più forte della poesia e la donna amata ha “luce d’aria e mirtilli”.

Amare è perdersi e ritrovarsi nella fusione di corpo e anima: “vago in te / lo scoglio appartato / in cui l’amore pellegrino / contempla i frattali dell’edera” (Voce di attesa), “nella seta del respiro / accade il tuo essere nel mio / orlo di madreperla / nel mio vermiglio tepore” (Ferimento naufrago).

Ma amare è condizione necessaria per ricevere l’investitura poetica: “amare fu bere le sue mani dall’acqua / nei solenni campi di fragole / nell’imbrunire trasudato / il suo nudo rado / scoperchiava il sorriso / narciso avviso di paradiso” (Odori di eclissi).

Amare significa anche provare pietà, tenerezza e nostalgia per i cuori puri che ci abbandonano. Andrea è “uomo di pena” di ungarettiana memoria e dedica una poesia a Francesco Nuti, ancora vivente, ma già sofferente. Di lui esalta lo sguardo, così dolce e malinconico nei suoi indimenticabili film: “occhi in ginocchio / dischiusi sul buio”, ma anche così vivaci per uno spirito geniale e purtroppo spesso incompreso: “ti vedono i tuoi occhi accesi / biliardo di onde / dove ho visto la tua luna / nei gelsi delle cascine” (A Francesco Nuti).

La poesia per Andrea diventa un luogo dell’oltre per ritrovare tutte le persone che ci hanno lasciato e per instaurare con loro un dialogo perpetuo. Succede così che alla morte di Lucio Dalla, egli non esita a fermare le immagini che sempre si porterà nel suo cuore: “Sussurrami ora / i cani che annusano la sera / le mani dell’estate e delle isole / e le strade che si sollevano / come quando respira / la radura della luna / tra le stelle” (Il fresco delle stelle).

L’argine è anche questo: creare terrapieni di vita contro la morte.

E alla fine di questo discorso poetico sembra quasi di vedere l’ultimo e meraviglioso argine che Andrea Galgano costruisce prima di congedarsi:

risalirti nelle superfici,

non fare in tempo

ansiosa di risplendere

nella coltura, nella dismisura

che irretisce le norme del mondo

 

 Il congedo è grazia acerba.

(Notturna acerba grazia)

La freccia di Mary Jean Chan

di Andrea Galgano 18 aprile  2023

Nel linguaggio degli schermidori, la flèche (la freccia) indica la frecciata, un’azione di attacco che si compie con sbilanciamento del busto, fino al disequilibrio e allo smorzamento del corpo, per toccare l’avversario.

Con questo lessema, Mary Jean Chan, nata e cresciuta ad Hong Kong e che ora vive ad Oxford, dove è Senior Lecturer di Scrittura Creativa (Poesia) alla Oxford Brooks University e supervisor dei Masters in Creative Writing all’Università di Oxford, restituisce il territorio della sua poesia, attraverso la pubblicazione di Flèche, appunto, edito da Interno Poesia, a cura di Giorgia Sensi.

La parata, la risposta, il corpo a corpo, l’affondo sono il punto germinativo di questa poesia, che gioca su vari registri, dal gioco innumere di parola al tocco e relazione verso l’altro, alla carne, al suono del desiderio e dell’accettazione sessuale.

Mary Jean Chan amplia il gesto poetico, innervando il suo lirismo verso una stoccata di gioia e desiderio, di comprensione e di amore, come fulcro vitale di tempo, verso ciò che nasce nella carne e nella stessa carne si rivela, come afferma Giorgia Sensi nella prefazione:

«Amore innanzi tutto per la sua famiglia – alla quale è dedicato – che è stata vittima del terrore della rivoluzione culturale cinese e delle sue Guardie Rosse e amore per la madre, che di quel terrore porta ancora i segni. Sono numerose nella raccolta le poesie sulla madre e sul difficile rapporto madre figlia a causa della ‘queerness’ e delle scelte ‘romantiche’ di quest’ultima, fortemente disapprovate dall’intera famiglia, compresa la nonna alla quale Chan dedica una poesia dal titolo ‘Alla nonna che mi scambiò per un ragazzo’» (pp. 5-6).

L’aspetto familiare ritorna nei segni dell’infanzia, attraverso il detrito memoriale fiabesco, il rapporto figurativo tra la realtà e i volti cari, come la balia che crebbe sua madre, ad esempio, in cui il senso generativo della maternità si accompagna al dolore e alla perdita.

Il battesimo della parola è segnato da un fuoco originario che è storia intrecciata alla scaglia temporale e allo zenith del materno («Tu sei sempre dove io comincio»), alla spoliazione delle maschere, alla lingua che trasforma il trauma e all’identità irrisolta.

La scherma avvicina al desiderio perché parte da una tensione interiore e si rivolge all’aria, alla meta, al petto delle cose. Ciò non toglie i lividi, l’oscurità sommersa e balbuziente, fino alla fioritura del dolore: «Spesso, mi restava un livido: la punta della lama rimbalzava / dall’imbottitura alla pelle. Tutte le volte sentivo gialle / fioriture di dolore dove la ragazza che mi sembrava bellissima / mi aveva trafitto il cuore. Ore dopo, mi sarei trasformata. / Mi sarei diretta verso casa con un profondo / senso di timore, i miei lividi affievoliti».

Il dramma della poesia è che nasce non solo dalla libertà e dall’avvenimento, ma porta dentro questa trafittura ed è lì che diviene gesto commosso, lingua che deve pronunciare il mondo per vivere, voce come corpo che parla. Qui la sillaba di Mary Jean Chan si fa ferita e luminosa presenza, sogno e desiderio di magnolie come il cielo che aveva il colore di nocche sbiancate.

Perlustrare gli spazi sicuri, scrivere lettere di fantasia, percorrere furiose pazienze come avamposti dell’io, vivere le terre della rabbia, del suono, del diniego, della profondità oscura, come se si sbalzasse il tempo e lo specchio, cercare la pura gioia, la fecondità di ciò che permette di stare al mondo: ciò permette la sua finestra aperta in attesa di grazia fertile, di una propria calligrafia che è lacrima partoriente e foglia di tè: «Le dita si immergono / di nuovo, scivolano, si alzano. / Non sono una ballerina, ma questa è / una danza. Le ore tracimano in / una teiera di foglie di tè mentre / mia madre dice: / Vedi, i caratteri cinesi sono / girasoli che cercano gli occhi. / Semi di inchiostro si srotolano / d’un tratto dal tuo polso, / e sbocciano nel tempo -».

L’uso ampio di ogni possibilità formale e letteraria, oltre che lessicale, porge la potenza della propria ricerca, fino ai disequilibri di versi, alla punteggiatura come una strana ellissi di significante e significato, ai segni e ai suoni quasi come pollini.

Pertanto, le lettere si dispongono come frecce lontane, tentano di raggiungere la nominazione, la sillabazione delle cose, passando per una guerra culturale, uno zodiaco sommerso, una cifra franta di istante e un grido lieve.

Il tempo della poesia qui raggiunge la verticalità del respiro. Anche lo stesso problema dell’identità taciuta, dolorosa e lacerata diviene la vertigine ombrosa di libertà intensa, che permane in ogni lacerto che qui emerge come lunga distanza, scissione, confine: «se voi adesso guardaste dentro di me, vedreste / che le mie lingue sono come una radice / contorta nel terreno, una e indivisibile, / solo che il mondo mi divide in continuazione / certi giorni non oso guardare gli alberi / sono delle creature così piene di speranza / se i legislatori di questo mondo / si facessero consigliare dagli alberi / riconsidererebbero tutto? / di recente ho cercato di scrivere / una poesia che desse vita a un albero / una vera accettazione dell’io / continua a sfuggirmi».

Nella doglianza delle sue giunture, come scrive in un testo scarnificato e indocile, Chan dona il suo sguardo libero sul mondo, la lingua del respiro, la sua luce improvvisa.

Chan M.J., Flèche. Poesia della scherma, a cura di Giorgia Sensi, Interno Poesia, Latiano (Br), 2023, pp.176, Euro 15.

#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

Il terzo tempo di Veronica Antonietta Mestice

di Andrea Galgano 17 gennaio 2023

È una dolce sorpresa la poesia di Veronica Antonietta Mestice (1992), avvocato prestato alla pubblica amministrazione, materana e socia dell’associazione culturale “Energheia”, che organizza da ventotto anni l’omonimo premio letterario.

La sua prima raccolta, Terzo Tempo, edita da Ensemble, con la prefazione di Alessio Arena, entra negli interstizi del tempo (anche attraverso il segno di Scotellaro nell’epigrafe e nel testo finale), nella sua edace tensione, nell’indagine investita di vento che tocca la nostra avventura e la nostra carne, cadenzando quella «azzurra nostalgia / sulle barricate dell’anima», lambendo le illuminazioni, le visioni e le mappe della densità del vivere.

Parlare il silenzio del tempo, in attesa di uno svelamento e di una rivelazione, che possa far parlare il silenzio, le tacite pieghe dei paesi, i mattini d’estate e il respiro di ogni omissione.

Nei suoi tempi, nella tensione speculativa della suo vitale diffondersi e promanarsi, nella inusitata perdita delle parole, quando si vorrebbe toccare il ricordo e tutto ciò che perde colore, ecco che l’agone e il gesto della poesia abbracciano, con lo scavo dell’abisso e del silenzio, persino i colpi del dolore e delle aurore domate.

Il vento è la cifra di ciò che unisce il nostro essere alla realtà: «Perdo ancora le parole, / mentre il tempo scivola piano / nella dolce sera d’ottobre. / Ottobre è un canto di nostalgia, / il mosto e l’ebbrezza / che sfiorano la vertigine del tempo. / È l’estate che perde i colori, / l’amore che dura e spera lontano / e toglie il respiro, / quando certe primavere si fanno ricordo. / Esistere è essere visti in un giorno di vento».

O ancora la notte che squaderna nell’abisso che può sprigionare la luce: «Dopo tutto, / possiamo accettare il disordine / tra le cose possibili / e i nostri precipizi. / Tutto può cambiare / in una notte che squaderna. / Il mattino non è stanco di domare le aurore. / Il dolore è un’occasione, / l’abisso che può sprigionare la luce. / Alle volte, basterebbe ascoltare, / attutire i colpi, / liberare l’ossessione di salvezza, / dimenticare caos e tempo. / Tanto, il cielo è lo stesso».

Riportare alla luce il tempo nelle tenerezze e nei deliri: il suo concentrarsi tenue e opaco con l’alfabeto dell’attesa, lo spostamento naufrago dell’io rivelano l’ardore di una leggera dissolvenza, di una perdita di città, che avvicina la poesia per sottrazione e per livellamento: «Forse la poesia è utile a questo: avvicinarsi per sottrazione / come viaggiare per liberarsi / dai superflui contrappesi. / È la necessità di un tempo di narrazione, / il bisogno di dare alla vita un respiro, / sentire la forza di un vento, / ovunque e in nessun luogo».

La ruminazione del vento, verrebbe da dire. Questa poesia aerea di spirito, respiro e di vento viene da un giacimento lontano di stagioni inosservate. Le veglie brumate ed estive, destinate alla mancanza, le scalfitture della pioggia, lo stare al mondo per cercare bellezza nella giovinezza spavalda diventano avamposto di osservazione, come se la festa delle cose, la vertigine di tutte le cose riporti alla nascita che si oppone alla morte e le parole così risalgono il vento, non mutano la risacca del cielo: «Nascere è una perdita. / Vivere, poi / una somma di piccole cose. / Mitighiamo la primavera divampata / sui bracieri del crepuscolo. / Ho solo una forsennata nostalgia / del tuo respiro / nelle grandi notti d’estate. / L’istante tentenna – lasciato all’inerzia del tempo / mentre niente dura».

Libro di vento e di perdita, dunque. Ma anche di abbandono, di forza naturale e di lingua consapevole della sua mortalità, ma non per questo non protesa alla musica dell’essere, a ciò che salva l’istante, alla voce che preme dentro e all’assedio della luce antica: «I sogni hanno perso gli argini / nei deserti d’oltremare. / I grandi temporali estivi / mitigano le attese, / mentre il nemico ci assedia. / Non solo sirene d’allarme / nel dialogo sfibrato che si protrae ad oltranza. / E la vita come va? / Non c’è fretta – / eppure tutto si compie nello spettacolo».

La ferita che abita una sorta di voce del limite è una lettera di inizio e, allo stesso tempo, indizio di comunione con il vivente che resta al di là dell’oblio, come una nostalgia, un punto, un mistero di destinazione.

 

 

 

La luce che prospera. Su Rive di Valerio Mello

di Andrea Galgano

La caratteristica migliore della poesia di Valerio Mello (1985) è l’avamposto prima dell’avvenimento delle cose. Come avviene nella sua raccolta Rive (Ensemble 2022), non solo l’attesa ma la linea dell’attesa, come se fosse un orizzonte primario, è la prima parola che dice la realtà e il tratto unico che la esplora.

L’approdo nasce dal viaggio, che non è solo caratteristica mai satura dell’essere, bensì è voce e salmodia segreta, fluire che mormora, come questa apertura notturna su Milano:

«I platani scendevano sull’acqua del laghetto e qualcosa risuonò alla porta dell’aria. Lo stridio delle stelle al tramonto sul velluto finale. I platani scoprivano sempre di più le radici, si liberavano dei rumori, erano pronti. La sera arrivò dopo una lunga giornata. Anche gli ippocastani cominciarono ad avanzare, uscivano da un monumento di sonno, da un lungo filare di statue. Le piante chiacchieravano nella locanda delle nuove espressioni, uno sfogliare di luci che restavano sospese come schegge sul vialetto. Fu necessario appuntarsi quel tempo sul foglio della mente –quel posto, quel punto… quello spazio che si svolgeva indisturbato sul davanzale di sensazioni scagliate.

Olmi e abeti aspettavano il loro turno – l’epoca dell’acqua nel drappo bianco della sera. Il falso cipresso decorava il respiro della superficie – e polvere si sgretolava sulle rive».

O nelle vie diurne di via Palestro, dove l’emersione delle cose sembra nascere da un punto sommerso, da un farfugliare, da una scena sognata o intrapresa. La luce percorsa è un gesto, uno sketch o patchwork della mente e da ciò che egli chiama «remoto in movimento».

E così i luoghi diventano frecce di volto, come la lucentezza scagliosa di Scapanto («Talvolta, lo si sente respirare / all’ombra cerulea delle rocce; / talvolta, lascia rotolare il fiato / insieme con le onde fin dentro le cavità della scogliera. / Certamente, sa riconoscere da sé come agire: se essere più /  grande, come una scheggia, o più piccolo, come un granello. / E quando il tramonto inizia a gorgheggiare / – l’aria regola il timbro della voce / e seppellisce le pause della luce sotto manti di pietrosa lucentezza»), la natale Agrigento, dove « Il sogno è la vita nascosta dell’anima che non sa come essere corpo per sempre», i passaggi della luce e delle ombre di Varazze, i blu di Porto Venere, Torino.

Vi è, in questi passaggi, una memoria sommersa che si concede, un pasto di veglia, una descrizione che mostra e non descrive, un’interrogazione sottesa che è sguardo che fiorisce nello spostamento dell’io.

La visione che spazia dalla poesia alla prosa, consegnando nascite, non ama solo il frammento per ricomporlo, le tracce lasciate, la solitudine della Sfinge del tempo ma è stagione di luogo e snodo segreto che sboccia («Proseguo nel profondo, prosciugato naufragio di una pietra, / nel brontolio del crepuscolo abbattuto, / come acqua che scorre sotterraneamente»), in cui viaggio e attesa coincidono nelle aree di confine come sogno che si ripete e comprensione ospite.

Il territorio della memoria mescola acqua e terraferma. Lo spazio e il tempo non sembrano dividersi ma offrono dismisure e abissi lenti, apertura di occhi e germoglio sconfinato come «grembo di intuizione»: «Gli occhi fanno offerte. / Perché la luce sta cadendo, perché adorare i segni di riconoscimento? / Distesa di stelle, lampione, punto della luce».

Nelle schegge non dissolte, nel tempo trascorso, anche la scrivania è riva, anche la parola lo è, perché segna il tratto umbratile delle cose attraversandole, nomina il mondo, mostrando ciò che accade, si fa corpo d’archivio, donando orizzonti di terra e di intervallo:

«Agli esseri mantenuti nella fissità pietrificata mi rivolgo con un atto di fede assoluta. Non osservo per la quiete degli occhi, ma per distinguere con devozione le aperture di un largo accadere. Potrò ammirare le linee delle radici che terminano, a un certo punto, sopra un vuoto conchiliforme e potrò seguire quel vuoto che accusa una mancanza o una grandezza; mi costringerò a riprendere con la mente le conchiglie dell’Egeo in preghiera – finestra: le differenze e i contrasti di una meditazione sempre inserita nella realtà ribaltata. Sarà necessario rendere fondata la descrizione ricevuta al di fuori dell’oggetto catturato. Nell’alcova toracica tengo la molteplicità incostante dei dati sulla parvenza e sull’appartenenza».

Nella postfazione, a proposito del rapporto stretto tra valore e parola, Gianmarco Gaspari scrive: «Valore e senso della parola che il lettore (è lui l’Edipo chiamato a sciogliere il dilemma) non può identificare che con il senso stesso dell’esistere. Difficile pensare a un rapporto più diretto del poeta con la parola, rapporto che la restituisce al suo significato originario, senza ulteriori mediazioni, verso o prosa che sia. E che si tratti indifferentemente dell’uno o dell’altra, giusto per chiudere qui il discorso, eccolo dimostrato dai frequenti affioramenti della metrica classica – puntiamo pure sul solo endecasillabo – che s’incontrano in Rive […]».

La verità e la rivelazione della parola concedono visitazioni ai luoghi, ammantandoli, spesso sfrondandone ogni orpello, per renderli vivi, consegnando, infine, la densità dell’istante in tutta la sua essenza.

 

 

SAFIYA SINCLAIR – AUTOBIOGRAPHY GOOD HAIR LITTLE RED PLUM

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Introduzione

Safiya Sinclair è nata e cresciuta a Montego Bay in Giamaica.

È autrice del memoir How to Say Babylon e della raccolta di poesie Cannibal, selezionata come uno degli “American Library Association’s Notable Books of the Year”.

E’ stata finalista per il “PEN Center USA Literary Award”, oltre ad essere candidata per il “PEN Open Book Award” e il “Dylan Thomas Prize”.

Le sue opere sono apparse in riviste e giornali come: The New Yorker, Granta, The Nation, Poetry, Kenyon Review, the Oxford American.

Ha ricevuto il suo “MFA” in poesia presso l’Università della Virginia e il suo dottorato in letteratura e scrittura creativa presso la University of Southern California.

Attualmente è professoressa di scrittura creativa presso l’Arizona State University.

Autobiography

 When I was a child

I counted the looper moths

caught in the dusty mesh

of our window screens.

 

Fed them slowly into the hot mouth

of a kerosene lamp, then watched

them pop and blacken soundlessly,

but could not look away.

 

I had known what it was to be nothing.

Bore the shamed blood-letter of my sex

like a banishment; wore the bruisemark

of my father’s hands to school in silence.

 

And here I am, still at the old window

dying of thirst, watching my girlself asleep

with the candle flame alive in my ear,

little sister yelling fire!

Autobiografia

Quando ero bambina

Contavo le falene di looper

intrappolate nella rete polverosa

delle nostre zanzariere.

 

Le nutrivo lentamente nella bocca calda

di una lampada a cherosene, poi le guardavo

scoppiare ed annerire silenziosamente,

non potevo distogliere lo sguardo.

 

Avevo scoperto cosa significasse essere niente.

Sopportavo la disonorevole e maledetta lettera del mio sesso

come una punizione; indossavo i lividi

delle mani di mio padre a scuola in silenzio.

 

Ed eccomi qua, ancora alla vecchia finestra

morendo di sete, a guardare la me bambina addormentata

con la fiamma della candela accesa nel mio orecchio,

la sorellina urla fuoco!

 

Good Hair

 Sister, there was nothing left for us.

Down here, this cast-off hour, we listened

but heard no voices in the shells. No beauty.

 

Our lives already tangled in the violence of our hair,

we learned to feel unwanted in the sea’s blue gaze,

knowing even the blond lichen was considered lovely.

 

Not us, who combed and tamed ourselves at dawn,

cursing every brute animal in its windy mane—

God forbid all that good hair being grown to waste.

 

Barber, I can say a true thing or I can say nothing;

meet you in the canerows with my crooked English,

coins with strange faces stamped deep inside my palm,

 

ask to be remodeled with castaway hair, or dragged

by my scalp through your hot comb. The mirror takes

and the mirror takes. I’ve waded there and waited in vanity;

 

paid the toll to watch my wayward roots foam white,

drugstore formaldehyde burning through my skin.

For good hair I’d do anything. Pay the price of dignity,

 

send virgins in India to daily harvest; their miles

of glittering hair sold for thousands in the street.

Still we come to them yearly with our copper coins,

 

whole nights spent on our knees, our prayers whispered

ear to ear, hoping to wake with soft unfurling curls,

black waves parting strands of honey.

 

But how were we to know our poverty?

That our mother’s good genes would only come to weeds,

that I would squander all her mulatta luck.

 

This nigger-hair my biggest malady.

So thick it holds a pencil up.

 

Bei Capelli

Sorella, non c’era più niente per noi.

Quaggiù, intrecciando i ferri, ascoltavamo le conchiglie

ma non sentivamo niente. Niente di bello.

 

Le nostre vite da sempre aggrovigliate nella violenza dei nostri capelli,

abbiamo imparato a sentirci indesiderate nello sguardo blu del mare,

sapendo che persino il lichene biondo venisse considerato bello.

 

Non noi, che ci pettinavamo e contenevamo all’alba,

maledicendo ogni bruto animale che avesse una criniera ventosa –

Dio ha proibito che tutti quei capelli meravigliosi crescessero per andar perduti.

 

Parrucchiere, posso dire la verità o stare in silenzio;

ci incontriamo nelle treccine del mio inglese imperfetto,

monete con strani volti stampati nel profondo del mio palmo,

 

chiedono di essere rimodellate con capelli scompigliati, o tirate

dalla mia cute col tuo pettine caldo. Lo specchio riflette

e lo specchio rivela. Sono arrivata fin qui e ho aspettato in vanità;

 

ho pagato il pedaggio per guardare le mie radici ribelli piene di schiuma,

formaldeide scadente brucia sulla pelle.

Per dei bei capelli farei di tutto. Pagare il prezzo della dignità,

 

inviare vergini in India per il raccolto quotidiano; miglia

di capelli brillantinati venduti per migliaia nelle strade.

Veniamo ancora da loro tutti gli anni con le nostre monetine,

 

intere nottate passate in ginocchio, le nostre preghiere sussurrate

da un orecchio all’altro, sperando di svegliarci con ricci aperti e morbidi,

onde nere separano ciocche di miele.

 

Ma come potevamo sapere della nostra povertà?

Che i bei geni di nostra madre sarebbero diventati erbaccia,

che avrei sperperato tutta la sua fortuna mulatta.

 

Questi capelli da nera, la mia più grande malattia.

Così spessi da tener su una matita.

 

 Little Red Plum

Crisis in the night.

My heart a little red plum

in my mouth. Glowing

its small fire in the dark.

How you, hand on my breast,

open my little animal cage

to watch me burn, eyes

marveling at the birds

that rush out. My voice rising

red balloons in the air. My hands

find a bright cardinal bleeding

through your shirt, my name

spreading softly on your tongue.

Swift cherry vine galloping,

stitching warm skin to skin.

I reach for you, reach into

the feathers of the dark,

wanting to stay here, wanting

to press each hour into vellum

so tomorrow I may search

and find our little blossom

still Unfurling there. I slip slowly

into your light, kiss my red

plum into your mouth.

Here. I give you all of me

in this little pink cup: hot mouthfuls

of fevergrass, of wild Jamaican

mint. Here, in the shadow of this

hothouse room, a red hibiscus

blooms and blooms.

 

 

Piccola Susina Rossa

 

Crisi nella notte.

Il mio cuore è una piccola susina rossa

nella mia bocca. Splende

il suo piccolo fuoco nel buio.

Come tu, mano sul mio petto,

apri la mia piccola gabbia per animali

per guardarmi bruciare, con occhi che

ammirano gli uccelli

che fuggono. La mia voce innalza

palloncini rossi nell’aria. Le mie mani

trovano un cardinale vivace sanguinante

nella tua maglietta, il mio nome

si spande lievemente sulla tua lingua.

I pomodorini maturano velocemente,

suturano pelle calda a pelle.

Ti cerco, cerco tra

le piume delle tenebre,

volendo rimanere qui, volendo

comprimere ogni ora nella pergamena

così che domani possa cercare

e trovare il nostro piccolo bocciolo

che si sta ancora schiudendo. Scivolo lentamente

nella tua luce, bacio la mia susina

rossa nella tua bocca.

Qui. Ti dono tutta me stessa

in questa piccola tazza rosa: caldi bocconi

di citronella, di menta selvatica

giamaicana. Qui, nell’ombra di questa

serra, un ibisco rosso

fiorisce e sboccia.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

War Poets: splendore e frantumi

di Andrea Galgano 30 novembre 2022

Il fango, le trincee, la morte, i reticolati, il gas, le granate, la fine della gioventù e l’esperienza del limite compongono l’esperienza dei War Poets, ora racchiusa nel volume, curato da Paola Tonussi, per Ares, in cui viene restituito un bagliore come fiore estremo, attraverso racconti, testimonianze, versi del primo grande conflitto del ‘900.

Può la parola dire l’orrore? Non già raccontarlo ma esserne all’altezza? Il dolore muto, l’angustia, il deserto, la tumefazione segreta e la violenza, la guerra come simbolo della vita umana in ogni enigma dicono che solo la poesia può essere qualcosa di imperituro e cavato dall’abisso, perché fa i conti con l’eternità, la sente addosso, anche nella dolenza estrema, nel limite senza respiro e nello scontro:

«Parecchie poesie qui raccolte sono state buttate giù di fretta, sul retro di una busta da lettera, di un messaggio, o inviate a casa con le lettere. Molte non hanno mai visto una revisione finale: trovate e recuperate dopo la morte dell’autore tra i suoi oggetti o nelle tasche della divisa, o ancora spedite  a casa con lo zaino e le altre cose dopo la sua morte» (p.32).

Lo smarrimento e la resistenza della parola, spesso nell’opacità fioca di un fiammifero, di una luce piccolissima narrano la compassione, il coraggio e la rabbia, il grido e la visione, fino alle viscere della vita, dove il primo entusiasmo patriottico della Grande Guerra, dove giovani andarono a combattere «consapevoli delle proprie promesse», preda dell’enfasi retorica e poi dell’agguato della distruzione, come dirà Richard Aldington nelle sue frantumazioni di soliloquio o Laurence Binyon che ha raffigurato la folgore dilaniata della distante marea di Ypres:

«Non perché stanchi, / non perché abbiamo paura, / Non perché ci sentiamo soli / Sebbene non siamo mai soli – / Non questo ci distrugge; / Ma ogni colpo e ogni schianto / Di mortaio e di granata, / Ogni crudele sibilo amaro di pallottola / Che strappa il vento come lama, / Ogni ferita sul seno della terra / Di Demetra, nostra Madre, / Ferisce anche noi, / Strazia e lacera la fine trama / Delle nostre fragili anime alate, / E disperde in cenere le ali lucenti / Di Psiche».

Ci sarà Rupert Brooke la cui «inquietudine screzia la sua poesia poesia prebellica, di grande ricerca formale, con il senso della morte, lieve ma costantemente presente, e una stanchezza della routine e delle certezze del «mondo di ieri» che investono di nuova luce anche i sonetti» (Tonussi, p.8)

Il pericolo, gli orizzonti esili, la proiezione simbolica della polvere nascosta fino al sacrificio finale dello sparso rosso vino della giovinezza toccano i testi di Brooke e accompagnano i bracieri e gli appostamenti di Robert Graves che accolgono, come scrive Paola Tonussi, «delusione, cinismo, amarezza, senso di tradimento per l’incoerenza etica di quanto sta vivendo: inizia  ascrivere il terrore lucido, la paura delle trincee. Sconvolto dalla consapevolezza delle migliaia di vite distrutte negli attacchi frontali per guadagnare pochi metri di terreno, come nel bombardamento di Vimy e nella carneficina dell’offensiva della Somme, disperato, getta il nastro della sua Croce al Valore militare nel fiume Mersey» (pp.39.40).

E poi ancora  la terra nuda e l’aria abrasiva nel fango di Julian Grenfell, i bagliori tumefatti e gli strani inferni di Ivor Gurney, gli sfaceli di Thomas Hardy, le deformazioni terragne di Harold Monro «dove la natura abolisce ogni visione», fino alla perdite di Francis Ledwidge o «l’eternità spazzata via», come cacciata dal Paradiso, di Wilfred Owen, che rievoca Orazio e denuncia la condanna della gioventù, nello spavento dei bagliori, calzati di sangue:

«via la visione romantica della natura amica, via lo spettacolo del mondo, lasciate le letture. L’usignolo ketsiano per lui non canta più né l’allodola di Shelley, la notte non splende più nella sua «quieta luce» per il poeta (Alla Poesia)». Invece devastante, assurdo si spalanca «un nuovo cielo» sugli uomini, per sempre «dall’alto Paradiso maledetti e scacciati» (Un nuovo cielo). Bandito dal paradiso-natura, al poeta resta la tragedia: la trincea, l’offensiva senza possibilità di sopravvivenza, nel cielo buio, senza più stelle» (pp.44-45),

Troviamo poi Isaac Rosenberg che dipinge prosodie di fiamma precaria, nella sua elegia perduta e isolata. La notte si sbriciola, il papavero coglie la sua polvere bianca, la vita rinnovata coincide con il tramonto e i corpi sono sommersi nei loro volti sinistri.

Il senso della crisi e il baratro che annichilisce segnano la pagina di Charles Hamilton Sorley, il racconto tumefatto e il sordo realismo di porpora di Siegfried Sassoon, dove la disumanizzata realtà macchinica impone il suo vessillo, fino al rifugio improtetto di luci spente di Philip Edward Thomas compongono gli ultimi poeti di questa raccolta di splendore e frantumi, dove la lesione del tempo diventa respiro franto e universale e le cose sono piene di lacrime.