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Le lettere fatali di Ted Hughes

di Andrea Galgano Prato, 18 maggio 2013

POESIA CONTEMPORANEA

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pdf LE LETTERE FATALI DI TED HUGHES

 

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Hughes è un poeta “fatale” (fate – e composti – è una delle parole che più si notano nei suoi libri, non solo quelli di poesia). Ogni cosa, nel sistema di Hughes, o forse bisognerebbe dire semplicemente nel “sistema Hughes”, dove essere così, quasi suo malgrado, anche quella più accidentale, quella che più sembrava muovere da una volontà maligna ed estranea e, perciò, nemica.

Ogni libro è parte e insieme paradigma del sistema. Per cui l’opera complessiva può essere letta come una serie di stazioni nel lungo, infinito cammino verso l’immagine più compiuta, più precisa, dell’ispirazione di partenza». (Nicola Gardini)

La trascrizione poetica di Ted Hughes (1930-1998), poeta tra i più importanti del Novecento, racchiude la scrittura in un riconoscimento totale e teleologico che, se da un lato avverte la frattura segnica nelle dimensioni dell’esistenza, dall’altro tenta di rammagliare e riscoprire il valore prospettico e profondo dell’esistente e l’antagonismo verso l’illusione, fatale, appunto, dell’apparente: «Siedo sulla sommità del bosco, a occhi chiusi. / Inerzia, nessun mistificante sogno / Tra il mio capo adunco e le mie zampe adunche: / o nel sonno riprovo cacce perfette e mangio».

In una realtà di significanti, lo spazio prospetta una suddivisione di linee e crinali che si dispongono in zone di confine, tra il reale e il simbolico, l’esterno e l’interno.

Il recupero ossessivo di zone d’ombra, che vengono messe a nudo descrivendone l’ampiezza e tentando di smascherare la catarsi mistificante del sogno, è un pangrafismo esistenziale che si inoltra nel mondo vegetale e animale, laddove il gesto del reale è lasciato nel fondo della scrittura. La scrittura diventa primordio di vita: «Non c’è sofisma nel mio corpo: / i miei modi sono di dilaniare teste – / la spartizione della morte. / Poiché l’unico sentiero del mio volo è diretto / Attraverso le ossa dei viventi. Nessuna tesi afferma il mio diritto: il sole mi è alle spalle. / Nulla è mutato dal mio inizio».

La dettatura e dittatura scritta non afferma mediazione alcuna. L’improvvisazione, la lettura della realtà è violenta e piena di abbandono; descrivere rimanda a un contenuto latente, come soggiornare sul taccuino di qualcosa che prende forma e si fa forma, persino attraverso un nucleo mitico, come scrive giustamente Pennati: «La descrizione della violenza è solo l’allegorismo più naturale e più manifesto di un’altra intima umana lotta, più che trasfigurata rispecchiata in animali».

Sullo sfondo delle colline dello Yorkshire, Hughes ricopia un nucleo mitico, non solo spingendo la propria infanzia, con il suo paesaggio nativo e il mondo animale o rivedendo Blake, Shelley, Shakespeare e perfino T.S. Eliot, a celebrare una essenza originaria, ma nel mito, in tutte le sue folgori e cromature, si fonde la parola incarnata e selvaggia:

«Immagino la foresta di questo momento a mezzanotte: / altro è vivo / oltre la solitudine dell’orologio / e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita / … un occhio / un verde fondo e dilatato, / brillante e concentrato, / che se ne viene per fatti suoi / sino a che, con improvviso acuto caldo puzzo di volpe / non penetri la buca nera della testa. / Ancora senza stelle è la finestra; batte l’orologio, / la pagina è tracciata».

La parola e la cosa tentano una fusione miracolosa, come guizzo d’istante e nesso stravolto. L’immagine acquista un’esistenza collusa e vibrante, oltre il confine del verso che si annuncia, oltre l’accento dei termini che si perde nel mito, come annota Gardini: «Secondo Hughes ogni creazione poetica si sviluppa da una matrice simbolica ( l’ «evento soggettivo di intensità visionaria») che, per quante trasformazioni attraversi, per quanto irriconoscibile diventi e debba diventare di passaggio in passaggio, costituirà sempre la fronte, il crogiolo di quella certa poesia, l’irriducibile sé (self) del poeta».

Il compito poetico si sostanzia in un ritrovamento di un’intelligenza primitiva e uditiva, per cui

«Le visioni successive evolvono nel tempo nel modo in cui il sé poetico evolve nella sua vita nascosta. Ma nella serie che costituisce l’opera complessiva del poeta, le più antiche sono spesso le più rivelatrici, vuoi perché queste visioni creative assomigliano molto a convenzionali sogni in serie, per il fatto che la prima rappresentazione compiuta è quella che più probabilmente contiene un indice di tutto quello che verrà». (T.Hughes, Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994, p.277).

Il mito originario è la puntuale sostanza dell’essere poeta, la dimensione percettiva più precipua del suo linguaggio, come egli afferma in questa intervista del 1971:

«Più si va a fondo nel linguaggio, meno importante diventa l’immaginario visivo/concettuale, mentre cresce l’importanza del sistema tensivo uditivo,/viscerale/muscolare. Questo perché secondo la biologia i nervi ottici sono collegati al cervello “moderno”, mentre i nervi uditivi si collegano in maniera diretta al cervelletto (cerebellum) – il sistema nervoso primitivo, il cervello primordiale ed animale».

Il primo nucleo mitico e inquieto del poeta è per la Dea (la «Dea Bianca: la donna che lui prendeva per Musa o che era una musa, si trasforma in una donna domestica che vorrebbe a sua volta addomesticarlo»). Lontano dalla sua figura egli ha taciuto gli istinti e le pulsioni delle origini, che ora covano nascoste e minacciose e la fede attuale nella datità dell’esterno e, quindi, dell’oggettività ha, di fatto, negato espressione al mondo interiore.

L’ipertrofia del reale soggiace a due termini, come «anima» e «io»; entrambi vivi nella poesia, spinta poi successivamente alla dimensione pre-logica. In essa trovano il riparo e la riparazione e l’intimo contatto con le forze originarie rituali.

La poesia, quindi, tenta di eliminare gli scompensi tra l’io e l’anima, come egli stesso scrive in questa lettera a David Roderick, del 24 gennaio 1967:

«La poesia […] esprime una vita spirituale il cui centro è la vita sessuale – la speranza è il mezzo migliore che la Natura abbia potuto inventare per andare avanti. Perciò la poesia non è in contrasto con le religioni che chiamiamo pagane, perché queste considerano enormemente Adamo ed Eva e la fertilità e l’energia in generale. Invece è in contrasto con il cristianesimo, perché questo nega la sessualità».

In Hughes la dimensione rituale è il contatto acceso con un mondo paradisiaco, in cui la controversia poetica sostanzia la sua capacità e potenza guaritrice e divinatoria, e in ultima istanza, sciamanica.

Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi di Mircea Eliade rappresenta per lui il centro di una riflessione acuta su chi possa porre il suo spirito al servizio della comunità. Lo sciamano scende negli inferi e rinasce, così come il sogno tesse la storia dell’eroe.

L’angosciosa inquietudine verbale di Hughes, intessuta anche con elementi della psicologia junghiana (aveva letto Tipi psicologici di Jung, sin dagli anni universitari), tocca gli strani movimenti dei cicli vitali, i comportamenti e i riti degli animali e degli insetti, con le loro leggi assolute, come avviene nel localismo dei «cardi che infilzano l’aria estiva / o si crepano aperti sotto una nerazzurra pressione» o i «granchi fantasma che emergono / un invisibile rigurgito del freddo del mare».

Commenta Gardini: «Il signatum metaforico in Hughes non nasce tanto dalla trasfigurazione dell’oggetto naturale, il signans, quanto dall’imposizione a quello di un certo signatum. […] in Hughes certe idee sono così originarie – e così prepotenti- che cercheranno di esprimersi nelle forme più elementari del mondo e, teoricamente, anche quando non ne trovino una adatta, resteranno sempre dietro le parole, come il loro senso».

Il poeta si trova ad essere il centro ricettore delle forze che pervadono e celebrano l’universo, scandaglia le forze e l’urto (la guerra assume la metafora della rappresentazione), sul margine della follia e nel mito.

I gruppi semantici, messi in atto, tentano di collegarsi all’energia universale, nel canto estremo e nella danza spogliata, come abissale e taumaturgica discesa nell’oscuro profondo. L’assoluta fedeltà a una lingua poetica prelogica, corporea e persino averbale, si nutre del suo suolo primigenio, in cui l’essenza della terra, così come la pregnanza della saga familiare, acquista la spartizione delle epoche, in cui madre e padre diventano, all’unisono, mito e storia.

Scrive ancora Nicola Gardini:

 «Questa prospettiva familiare – che, vale la pena ribadirlo, deriva dal paradigma soteriologico dello sciamano e quel paradigma rimanda all’infinito – ci aiuta a osservare in una luce non consueta anche il rapporto tra Ted e Sylvia. Più che un confronto tra moglie e marito, quel matrimonio, nel “sistema Hughes”, è stato un conflitto tra figli: lui figlio dell’Inghilterra, lei figlia dell’America».

 L’Inghilterra di Hughes è realtà mitica e territoriale, tempio atemporale che rimanda alla sua identità di valli e di alture minacciose e incombenti, come la brughiera che aspetta appartata e ritirata, nel suo isolamento e nel suo orrore immobile.

Lo spazio fisico è la linea di orizzonte e di demarcazione di due simbologie di nitore e di senso: la terra e il cielo.

I continui rimandi al viaggio sciamanico e vitalistico percorrono, da sempre, l’attonito equilibrio e il salvifico scompenso di rinascita e tenebra, come il represso che tenta l’ascolto, come via di uscita, e come spinta ascensionale di un tonfo e di una dissoluzione: «Prima che queste ciminiere possano fiorire di nuovo / devono cadere nell’unico futuro, nella terra». Il lungo poema eroico della sua poesia è assieme missione e segno di disfatta di epoche.

Con le ottantotto Lettere di Compleanno, pubblicate a sorpresa nel 1998, Ted Hughes esce dal riserbo della sua persona e della sua vita, con chiarezza e senza ellissi. L’autobiografia, che non perde mai lo smalto eroico ed epico e persino la speranza ineffabile, prende il posto delle idee o del catalogo sciamanico dei fatti che si osservano, con i fiori, gli animali o gli uccelli. È la sua inaudita prefica al lutto che cova tenace il suo urlo e la neve caduta.

Egli mette in scena il teatro del suo rapporto con Sylvia Plath e ci parla delle sue sfaccettature insonni, dei transiti dell’amore e delle nostalgie, dei fatti che hanno attorcigliato nelle spire di dolore e gioia, il controverso e abraso amore per Sylvia che, quando lo conobbe, scrisse così a sua madre, il 19 aprile 1956:

 «Ti racconterò un fatto miracoloso, strabiliante e tremendo e voglio che tu ci pensi e lo condivida in parte con me. È quest’uomo, questo poeta, questo Ted Hughes. Non ho mai conosciuto niente di simile. Per la prima volta in vita mia posso adoperare tutta la conoscenza, la capacità di ridere e la forza di scrivere che ho, e posso scrivere di tutto, fino in fondo, dovresti vederlo, sentirlo… è pieno di salute, è immenso».

Il sentimento oscuro, il lutto scuro che colora e, sembra, delle volte, ammorbidire queste pagine non ha il vertice di un senso di colpa o di una nostalgia umbratile. Sylvia, nell’incontro con Ted, ha destinato la cesura di una vertigine poetica.

Nella poesia intitolata Cappotto nero lei guarda lui che si spinge verso l’acqua del mare e nella sua mente affiora il padre-colosso: «Non mi accorsi / che, mentre le tue lenti si stringevano, / lui mi scivolò dentro».

Giovanni Raboni vide in questo testo una presa di distanza dall’accenno violento di cumuli espressivi e affettivi, scagliati dalla Plath. Lei non è la Musa: è la destinataria di versi compressi e densi che emergono dall’oblio e non solo dal ricordo.

Le sillabe affettive di Hughes sono gestazione di viscere e simulacri irripetibili e unici di episodi, dove la gioia e la morte si intrecciano indissolubili, divenendo fragili e mortali.

Scrive Nadia Fusini: «Il senso della poesia si manifesta nella sua essenza di ricordo; ovvero, di pensiero confitto nel cuore del poeta, vedovo di un’assenza che lo tortura. E lo trasporta nelle caverne della memoria, dove lenta cresce la risposta al dolore».

Il mistero dell’esperienza affettiva, sulle pagine trascina gusti e sapori e anche nella violenza degli scontri e dei margini dei bersagli infedeli, tenta risvegli dall’assenza, sibila racconti nella durata, aspettando si formi una crosta lavica. Nella morte di lei si rinviene la ferita della poesia e dalla sua morte voluta, un richiamo simbolico di fantasmi e ribellioni.

La loro tormentata relazione, dopo il loro incontro a Cambridge, è stata sempre giudicata come la causa principale della fragilità emotiva di Sylvia e le continue infedeltà di lui (che la lasciò per Assia Wevill, morta anch’ella suicida nel 1969, e che poi sposò Carol nel 1970) sarebbero state la causa scatenante del suo suicidio.

Ma queste lettere testimoniano, irrefutabilmente, la presenza di un amore e la paura di un amore, la sua verità, il segreto, come annota acutamente la Fusini:

 «La paura della donna è il pensiero tragico che fa da sfondo al tessuto passionale e immaginifico del canzoniere di Ted. […] In questo studio senz’altro figlio della Dea Bianca di Robert Greaves, […] Hughes dimostra come la cultura occidentale fiorisca e prosperi in un rapporto casuale diretto all’invidia del maschio per quella dea che è all’origine di tutto. […] Il Tutto, l’uomo maschio non lo sopporta. Ne deriva (poiché il femminile è vitale) una alienazione pericolosa per l’individuo in genere; ma estremamente dannosa per il poeta, visto che – così pensa Ted – compito del poeta è di intonarsi ai suoni inauditi del mondo interiore e istintuale e dare loro la misura del verso».

 La morte di Sylvia rappresenta il grado di irrealtà, il tempo ulteriore e ultimo che si fa estremo, l’incanto di un futuro che raccoglie ceneri per tentare di farle rinascere, riportandole alla vita e infine sciogliersi nell’iniziazione a una fonte di battesimi lontani: «Mi sarei allontanato dalla tua porta rossa chiusa / che nessuno avrebbe aperto / con ancora in mano la tua lettera».

Hughes T., Poesie, I meridiani Mondadori, a cura di N.Gardini e A.Ravano, Milano 2008 .

Id., Pensiero-volpe e altre poesie, a cura di Camillo Pennati, Mondadori, Milano 1973.

Id., Lettere di compleanno, Mondadori, Milano 1999.

Id., Winter Pollen, ed. William Scammell, Faber and Faber, London 1994.

Eliade M., Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma 1974.

Middlebrook D.W., Suo marito. Ted Hughes & Sylvia Plath, Mondadori, Milano 2009.

Wagner E., Sylvia e Ted. Sylvia Plath, Ted Hughes e le «Lettere di compleanno», La Tartaruga, Milano 2004.

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Andrea Galgano 18-05-2013   Le Lettere Fatali di Ted Hughes

H. P. Lovecraft e il terrore cosmico

di Andrea Galgano                                                                 Prato, 26 marzo 2013

Letteratura Contemporanea

Seminario di Letteratura Criminalistica

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Howard Phillips Lovecraft

Howard Phillips Lovecraft nacque il 20 agosto 1890 a Providence nel Rhode Island. Sua madre appartenne alla agiata borghesia che si era stabilita nella cittadina sin dall’età coloniale, mentre il padre, fu rappresentante di commercio per una ditta di argenteria, la Gorham Silver Company, per problemi psichici, finì in manicomio, morendo poi di sifilide.

Venne cresciuto dalla madre, da due zie e dal nonno, che lo inizierà alla letteratura, attraverso la passione per la letteratura gotica, le Fiabe dei fratelli Grimm, Le mille e una notte: «Il mio amato nonno, Whipple Van Buren Phillips, divenne il centro di tutto il mio universo. Era un uomo di cultura, che aveva viaggiato molto e aveva accumulato una messe di folklore cosmopolita con cui non cessò mai di deliziarmi» o ancora «Imparai il latino con una certa facilità e in altri studi fui molto aiutato da mia madre, dalle zie e dal nonno. È proprio a quest’ultimo che devo molto: aveva viaggiato a lungo in Europa, e mi deliziava con i suoi racconti di Londra, Parigi, Roma. La sua toccante descrizione delle rovine di Pompei m’impressionò moltissimo, perché avevo sempre amato fantasticare sulle grandezze del passato […] Perciò respinto, respinto dagli esseri umani, cercai rifugio e comprensione nei libri, e in ciò fui doppiamente fortunato: la biblioteca familiare accoglieva infatti i migliori volumi acquisiti tanto dai Phillips che dai Lovecraft, […] fu allora che i volumi più vetusti della biblioteca familiare divennero tutto il mio mondo – risultando allo stesso tempo i miei servitori e i miei padroni. Mi aggiravo fra di loro come una falena ammaliata, ricavando gioia suprema dagli antichi volumi inglesi dei Lovecraft, che mia madre mi aveva affidato quando mio padre era rimasto paralizzato, dal momento che ero diventato l’unico rappresentante maschile della famiglia. Leggevo tutto, capivo qualcosa e il resto me lo immaginavo. Le Fiabe dei Grimm rappresentavano il mio nutrimento di base e vivevo in gran parte in un mondo medievale evocato dalla fantasia».

L’apertura della biblioteca del nonno è un colloquio aperto con tutte le discipline: mitologia, scienze, astronomia. A sette anni è già autori di brevi racconti e inizia a maturare la sua personale passione per Edgar Allan Poe, Julies Verne, Herbert George Wells.

Nel 1896 perse la nonna materna. In seguito egli ricorderà l’incubo e l’ossessione di quel lutto, così come la perdita del padre due anni dopo e del nonno nel 1904.

Frequentatore a intermittenza delle scuole pubbliche e costretto a ritirarsi per esaurimento nervoso e salute malferma, dovuta probabilmente a una caduta da un’impalcatura e a proseguire privatamente gli studi, svolse la sua vita all’ombra della madre, vivendo al 598 di Angell Street: «Sentendosi incapace d’inserirsi nel consorzio sociale, di adattarsi alle minute necessità della vita quotidiana, Lovecraft s’isolò sempre più dal mondo, studiando il passato, favoleggiando di vivere nell’antichità classica o nell’America del diciassettesimo secolo, il suo periodo storico preferito. Corazzò il suo spirito di cinismo e si dispose ad osservare, con un sorriso dolceamaro, “l’irrazionale comportamento” della razza umana. Il suo isolamento era favorito dalla facilità con cui sapeva crearsi una realtà fittizia, infinitamente più colorita ed affascinante del mondo di tutti i giorni» (G. De Turris, S. Fusco, Howard Phillips Lovecraft, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 14).

La sua indole si può ravvisare anche nella personalità dello scultore Henry Anthony Wilcox, tratteggiata ne Il Richiamo di Cthulhu: «A quanto pare il primo marzo 1925 un giovanotto magro, scuro di pelle e dall’aria nevrotica aveva fatto visita al professor Angell mostrandogli il fantastico bassorilievo d’argilla. In quel momento il materiale era ancora fresco, quasi umido. Il nome del giovanotto, come diceva il suo biglietto da visita, era Henry Anthony Wilcox, che mio zio riconobbe per il figlio minore di un illustre casato; a quell’epoca il signor Wilcox studiava scultura alla Rhode Island School of Design e viveva per conto proprio nell’edificio conosciuto come Fleur-de-Lys, vicino all’istituto. Il giovanotto era precoce e dotato di un grande talento, ma anche di una notevole eccentricità. Fin da bambino aveva attirato l’attenzione con il racconto dei suoi sogni straordinari e si definiva “ipersensibile”, anche se la gente quadrata dell’antica città commerciale si limitava a giudicarlo strano. Non si era mai troppo mescolato con i coetanei e poco a poco era scomparso dalla scena sociale: ora era noto solo a un piccolo gruppo di esteti sparsi in altre città. Persino l’Art Club di Providence, geloso del proprio conservatorismo, lo aveva abbandonato a se stesso».

Dal 1924 al 1926, nei due anni di matrimonio, abitò a New York, salvo poi ritornare di nuovo a Providence al 10 di Barnes Street con la zia Lillian e poi, definitivamente, al 66 di College Street.

Il flusso torrenziale della sua esistenza si svolse nell’ossessione di un universo fantastico.

Dopo aver distrutto molta della sua iniziale produzione narrativa, per quasi dieci anni si dedicò esclusivamente al giornalismo scientifico e alla poesia, che recupera la vastità e l’indifferenza dei cieli, Poe, il tema ossessivo della morte, il Settecento inglese e soprattutto le letture fantastiche. Una serie di lettere inviate al settimanale “Argosy” vengono notate dalla United Amateur Press Association.

Per Lovecraft l’affiliazione alla stampa amatoriale significò sviluppare la sua vasta corrispondenza e a creare una casa editrice: la Arkham House.

Il mancato arruolamento nell’esercito, a causa della sua salute cagionevole, segnò definitivamente il suo processo creativo che si indirizzò alla necrofilia, al macabro, al grottesco.

La conoscenza della produzione di Lord Dunsany rappresentò un gorgo e un’accensione. Quando morì la madre per una banale operazione e poi quando sposò Sonia Haft Greene, egli rimase a New York, svolgendo un oscuro e poco redditizio lavoro di correzione e di consiglio letterario, salvo l’incontro con il mago Houdini che gli propose di scrivere un racconto per lui: diventerà Imprisoned with the Pharahos.

Inizia il suo rifugio nei sogni e nelle veglie, come l’incubo di Nyarlathotep, scritto in uno stato di dormiveglia: «Ecco, questo è stato il mio incubo! Nel sogno sono poi svenuto, e quando ho ripreso i sensi ero ormai sveglio – e con un mal di testa eccezionale! Non capisco ancora bene di cosa si sia trattato […]. Un giorno, ho intenzione di attingere materiale da questo incubo per scrivere un racconto, come ho già fatto per The Doom that Came to Sarnath».

La sua dormiveglia brama un mondo di misteri fastosi e giganteschi, di tremore splendido e orrifico, la cui immaginazione conduce sfrenatezza immaginifica e entità di soglie incomprese e tetre.

Annota Sunand Tryabak Joshi: “Why study H. P. Lovecraft? In the minds of some critics and scholars this question still evidently requires an answer, and will perhaps always require an answer so long as standard criticism maintains its inexplicable prejudice against the tale of horror, fantasy, and the supernatural”

La fuga dalla realtà si accompagna alla lucidità onirica di un viaggio astrale: «Mi svegliò il suono di una strana melodia. Un arpeggio, una serie di vibrazioni armoniche echeggiava ovunque, mentre ai miei occhi si presentava uno spettacolo di bellezza suprema. Mura, colonne e architravi di fuoco vivo splendevano intorno al punto dove io sembravo fluttuare a mezz’aria e svettavano verso un altissimo soffitto a cupola di splendore indescrivibile. Insieme a questa esibizione di magnificenza architettonica, o piuttosto in alternanza con essa, come in un caleidoscopio, si scorgevano vedute di valli incantevoli, alte montagne e grotte invitanti. Erano dotate di ogni piacevole attributo scenografico che si potesse concepire, eppure sembravano fatte di una sostanza eterea, lucente, plastica la cui essenza faceva pensare allo spirito più che alla materia» o ancora «Fu sotto una falce di luna bianca che vidi per la prima volta la città. Sorgeva, immobile e sonnolenta, su un misterioso altopiano in mezzo a una depressione circondata da montagne fantastiche. Mura, torri, pilastri, cupole e strade erano di un marmo sepolcrale, e dalle strade si alzavano colonne che in cima avevano scolpite le immagini di uomini severi e barbuti. L’aria era calda e immobile nel cielo, a dieci gradi scarsi dallo zenit, brillava l’occhio della Stella Polare».

Scrive Giuseppe Lippi: «Che Lovecraft sia soprattutto un sognatore è cosa che pochi metteranno in dubbio, anche alla luce della sua produzione; ma è di quelli che posseggono l’invidiabile capacità di gettare un ponte tra il mondo dei sogni e quello della veglia, finché poco a poco l’uno trascolora nell’altro in un amalgama originalissimo. Fin dall’infanzia la notte gli porta alcune immagini ricorrenti: enormi altopiani deserti sui quali giganteggiano colossali rovine; abissi senza fondo che si spalancano su altre sfere di realtà; celle e corridoi sotterranei che si snodano sotto le fondamenta di edifici familiari, mettendo in comunicazione il mondo della superficie con un netherworld gravido di segreti; esseri mostruosi che riempiono, al tempo stesso, di meraviglia e terrore».

Egli stesso confessò: «Se io mi siedo alla scrivania con l’intenzione di scrivere un racconto, è molto probabile che non ci riesca. Ma se scrivo per mettere sulla carta le immagini di un sogno, tutto cambia completamente».

La trasfigurazione dei sogni mette in contatto il suo universo segreto e incantato, laddove la magia e la chiave d’accesso per la felicità quasi edenica, negata dall’infanzia infelice, possano unirsi, finalmente, in un’unica grande architettura visiva, come un lungo grande sogno: «Bramava le lande dei sogni perduti, e ardeva dal desiderio di rivivere i giorni della sua fanciullezza. Poi aveva trovato una chiave, e penso che, in un certo senso, sia stato capace d’impiegarla per qualche bizzarro scopo […]. Sono davvero impaziente di vedere la grande Chiave d’Argento, perché le sue criptiche iscrizioni potrebbero offrire la soluzione per decifrare i misteri e i disegni di questo cieco e indifferente universo».

La permanenza a Providence, dopo il distacco dalla moglie, destinò la sua figurazione eclettica e versatile, attraverso una cospicua produzione, come Il caso di Charles Dexter Ward, Alle montagne della follia, La maschera di Innsmouth, luogo maledetto e infestato da una voragine condannata.

Annota ancora Giuseppe Lippi: «L’intuizione geniale che gli era già balenata anni addietro, forse all’epoca di Dagon, prende forma: nel racconto dell’orrore gli esseri umani sono pedine di una più vasta scacchiera cosmica; le nostre mitologie, le nostre stesse paure, sono pietose menzogne che servono a coprire più mostruose, assurde realtà dell’essere. I nostri dei indigeni si inchinano a mostruose divinità dell’oltrespazio che non conosceremo mai, ma la cui semplice menzione può scate-nare la follia. Lovecraft, per dirla con le parole di Fritz Leiber, sposta l’oggetto del terrore dalla terra al cosmo, dai diavoli, dalle streghe e i vampiri della tradizione gotica alle creature calate da altri mondi e dimensioni che aspettano di riprendere possesso del nostro universo».

La mitologia anagrammata che sta alla base del mito di Cthulhu crea uno spazio fittizio di dei e demoni che popolano l’universo di sotterranee entità malefiche, in un tempo corrotto e decadente.

Calcando le tinte di un universo parallelo e originario, Lovecraft fonda un mondo di crolli e forze fantastiche che sagomano le linee di un assedio di luoghi: dal Massachussets, fino al Vermont e a Boston.

In un saggio del 1966, Giorgio Manganelli avvertiva in Lovecraft: «qualcosa di risolutamente ingenuo, una cultura da incolto, una artificiosità elementare. […] Con ingenua fiducia, continuamente ripete talune parole: empio, blasfemo, mostruoso […] tuttavia non pare assurdo dirlo “scrittore”. Forse perché il suo puro, concentrato orrore stinge rapidamente, e svela, sotto, qualcosa di duro, di ostinato […] «forse la goffaggine geniale di Lovecraft è solo l’indizio di una macchinosa cerimonia apotropaica, grazie alla quale egli tenta, vanamente, di tenere a bada l’ambiguo, “strano ed antico”, mostro della letteratura».

Approfondendo la tematica dell’orrore e dello spirito della fantascienza, egli espresse una malattia d’altrove che si affranca e vaga nello spazio del cosmo esterno e abissale: un altrove fisico e inattingibile, colto nell’incapacità di oltrepassarlo.

La costruzione immaginaria, l’atmosfera onirica e la visione accompagnano una rivolta assoluta e primordiale contro il mondo che lo attornia. Lo stesso Lovecraft, scrivendo a Rheinhart Kleiner, disse che «le misteriose produzioni della fantasia umana sono altrettanto reali – nel senso di “fenomeni” reali – dei più ordinari pensieri, passioni e istinti della vita d’ogni giorno. C’è un senso di euforia che dà quasi il capogiro nel guardare oltre il mondo conosciuto e dentro le profondità dell’ignoto; c’è un brivido a cui non si può sfuggire nei pensieri che hanno a che fare con il mistero e l’orrore».

Gli incubi e i sogni divengono il trapassato di una leggibilità convulsa di epoche e di una inquietudine che lo avvicina a Poe (Jacques Bergier lo definì “Edgar Poe cosmico”), ma ne distanzia le tensioni verso una distillazione di delirio e unione di fantastico e scienza.

Malato di cancro all’intestino, si fece ricoverare da solo al Jane Brown Memorial Hospital di Providence, nel marzo del 1937 e all’alba del 15 morì, in assoluto silenzio, per essere poi sepolto nel cimitero di Swan Point.

Lovecraft abita la insensatezza del delirio cosmico, è privato dell’armonia e dell’ordine dell’universo e «se da un lato esprime questa impressionante angoscia dell’essere di fronte alla propria alienazione, dall’altro cerca di reintrodurre, con qualche sotterfugio e un’abbondante dose di umorismo nero, il discorso sul perduto stato di grazia» (Giuseppe Lippi).

L’area del terrore e il timore religioso si accompagnano a una concezione tenebrosa e numinosa che forgia le figure in una aspettualità teriomorfa, in un Assoluto deterministico, in una sospensione che preannuncia il caos di un «disegno senza disegno».

È l’elemento esterno a mettere in scena la paura. L’incombenza determina un diorama freddo e gelido che provoca vertigine di vuoto e di senso, mysterium tremens e iconoclastia.

La manifestazione di oggetti antichi e proibiti, come il Necronomicon, aprono portali di abisso e dimore fossili, come un disegno occulto, impalpabile e colorito.

Il fascino simbolico e il sortilegio delle sue forme, se da un lato gemono di colore, dall’altro si muovono verso il timore di fronte alla solitudine naturale e alla dispersione infantile, come egli stesso scrive nel suo saggio Supernatural Horror in Literature: «Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura e la paura più grande è quella dell’ignoto».

È un ignoto che affronta il lato allucinatorio, il labirinto concentrico, compenetrato e coalescente, e poi precognitivo e profetico di un’ombra che diventa mitologia di abisso, sottile divisione tra il mondo della vita e il regno della morte (Herbert West, rianimatore), fluidità della forma umana e ipnosi.

L’inanimata lontananza del plasma dell’immaginario oscuro di Lovecraft rievoca passaggi maligni e labirinti metafisici distruttivi, come testimonia questo passaggio de La visione del caos, nel quale la paura del protagonista proviene da un ambiente irriconoscibile e ostile e la sua mente cade nella brutale fantasia e nel panico, per una astratta e incontrollabile entità mostruosa: «Poco a poco, ma inesorabilmente, si insinuò nella mia coscienza e giunse a dominare ogni altra sensazione una sconcertante paura dell’ignoto: paura tanto più grande in quanto non riusciva ad analizzarla e che sembrava riguardare un pericolo che si faceva sempre più vicino. Non era la morte ma qualcosa di inaudito e orrendo, qualcosa che non si può esprimere.[…] Le onde erano scure e violette, quasi nere, e si aggrappavano al fango rosso e cedevole della terraferma come mani avide e rozze. Non potei fare a meno di pensare che un’orribile entità marina avesse dichiarato guerra alla terra, aiutata magari dal cielo iracondo».

La conoscenza proibita diviene, pertanto, un asse di disperazione e maledizione, in cui il non-umano prevale sull’umano in una nera abissalità multidimensionale.

La realtà descritta da Lovecraft è una strada distorta e decadente: spesso una casa barocca fatiscente in un agglomerato urbano disgregato, un albergo ai limiti del mondo gestito da una madida matrona, tutto, quindi, viene collocato in un sottofondo di rumori e di fatalistica dannazione (I ratti nei muri).

Il realismo visionario, attestato sul cosmic horror, si colloca su una vertigine tragica, ingannevole e meccanicistica, in cui le forze dispiegate all’interno degli scenari abitati dall’uomo permangono nella loro fisicità: «Io nutro sempre il più profondo riguardo per l’intelletto puro: sono un assoluto materialista e meccanicista, credo che il cosmo non abbia né scopo né significato, sia un groviglio di cicli alterni di condensazione e dispersione elettronica: una cosa senza principio né direzione permanente né fine, fatta soltanto di forze cieche che agiscono secondo schemi fissi ed eterni, inerenti alla loro essenza».

Nell’immaginario di Lovecraft, il matrimonio tra il mondo siderale popolato da entità terrificanti e la realtà umana ha lo spazio di una fenditura, in cui interviene e irrompe la presenza ultraterrestre e extraterrestre.

L’insufficienza, l’incapacità e l’intelligibilità umane nel cogliere la vastità e la totalità dell’essere apre l’infinito varco alla tenebra, alla anomalia cosmica, allo stadio fragile e intermedio dell’umanità sospesa e dormiente e a un pantheon rovesciato, che come scrive Michel Houellebecq è espressione di un «terrore rigorosamente materiale».

La spazialità del sublime si scontra con il frangersi della follia. Davanti alla terribile rivelazione della realtà, la mente trova rifugio nel sogno e nella fenditura folle.

Non esiste una conciliazione che possa definire un esito positivo. Anche nel più piccolo dei villaggi (L’orrore di Dunwitch) gli sconvolgimenti terribili e devastanti di un mostro invisibile lasciano indelebilità di segni, come lo svenimento e la follia, appunto.

È il non visto, la non-rivelazione che paradossalmente si rivela, a sgomentare, a trovare il bandolo di un confine limitante e razionale.

Pertanto, il sigillo della sua tecnica narrativa si distanzia dalla indagine psicologica di Poe per raggiungere il fulcro nevralgico dell’abisso siderale e l’orrore, come scrive in un interessantissimo articolo Andrea Scarabelli, «non abita l’inconscio dei personaggi ma le stelle sovrastanti, non appartiene alla loro interiorità ma si manifesta come irruzione di un’alterità pulsante e spaesante».

Lo stesso Lovecraft scrive che «per raggiungere l’essenza della vera alterità, sia nel tempo che nello spazio che nelle dimensioni, occorre dimenticare che concetti quali la vita organica, il bene e il male, l’amore e l’odio, e tutti gli analoghi attributi locali di una razza trascurabile e effimera chiamata umanità, abbiano un’importanza di qualsiasi genere» e che il sommovimento di forze senza tempo e luogo «Nonostante si spingano a descrivere abissi sconosciuti, i miei racconti prendono sempre avvio da un’ambientazione realistica. I reami spettrali di Poe erano anonimi, popolati da creature misteriose dall’ignoto passato – invece io mi sforzo di dare alle cose che scrivo l’ambientazione tipica dell’antico New England e ai miei personaggi […] il tipico lignaggio di queste terre. Le mie fantasie oniriche non nascono dal nulla […] ma hanno bisogno, per mettersi in moto, dello stimolo rappresentato da una scena, da un oggetto o un evento reali. […] Il mondo che mi circonda è il mio teatro d’azione, il libro da cui traggo la mia ispirazione».

Tuffandosi nel mare e nelle spire dei sogni egli scova la bellezza e la dimensione esistenziale, frequenta l’incubo più radicale, per appartenere alla terra e al suo limite che scruta e inghiotte: «Le entità che Lovecraft mette in scena sono e rimangono oscure. Egli evita di precisare la suddivisione dei loro poteri e delle loro capacità. In realtà, la loro esatta natura sfugge a qualsiasi concetto umano. (…) Esse rimangono fondamentalmente indicibili. Noi riusciamo a percepire solo dei fugaci sprazzi della loro orripilante potenza; e gli umani che cercano di saperne di più ci rimettono inevitabilmente il senno e la vita».  (Marc Houellebecq)

È qui che avviene il terrore materiale di Lovecraft, che nel mito di Cthulhu, trova «una Weltanschauung che va oltre il fascino delle sue immagini e delle sue fantasie, e penetra nel nucleo della nostra sensibilità di uomini che da lui sono lontani ormai quasi un secolo, ma che come e più di lui devono confrontarsi con i «fantasmi/senza sostanza delle mode vane/ e degl’incerti credi» viepiù incalzanti all’inizio del Terzo millennio. Con ciò lo scrittore di Providence ci ha offerto – senza che egli ne fosse del tutto consapevole – gli strumenti ideali, culturali, etici per fronteggiarli e non lasciarsi travolgere o condizionare. L’importante è saper identificare i fantasmi, leggendo al di là della loro ombra, come fece profeticamente Lovecraft nella prima metà del Ventesimo secolo»(Gianfranco de Turris).

Nella terribile dimensione del caos egli descrive l’inganno della luce e sono le tenebre a rivelare il volto sconosciuto e smarrito dell’umanità.

La tripartizione ontologica trova il culmine nei grandi mostri corporei ultradimensionali, come i Grandi Antichi, sopravvissuti al residuo delle età remote. Scesero dalle stelle con i loro poteri sovrumani sulla Terra e lì si stabilirono, fondando R’lyeah. Costretti a sprofondare negli oceani, attendono di risvegliarsi e di imporre il loro potere.

Ma questi mostri «infilatisi da tempo immemorabile nelle pieghe della Terra, e che ora traboccano dai paesi del New England, non sono “i marziani”, ma “gli dèi dei marziani”; non gli abitanti delle stelle, ma gli dèi degli abitanti delle stelle. Liquidato insomma ogni residuo di geocentrismo e antropomorfismo, dimesso ogni antiquato particolarismo religioso, quelle che abbiamo ora sono divinità realmente alla misura del cosmo o, per così dire, al passo con le galassie più progredite. Il fatto poi che siano così orrende è certo una sgradita sorpresa; ma in sede di aggiornamento teologale, la verità è ciò che conta» (C. Fruttero, F. Lucentini, Storia delle storie di Lovecraft, in H. P. Lovecraft, L’orrendo richiamo. Tutti i Mostri del Ciclo di Chtulhu, Torino, Einaudi, 1994, p. VIII).

La tensione verso l’inconoscibile diviene l’inafferrabile spazio di un delirio che abita il buio, come il dio Azathoth, centro di un mondo apatico e insensato.

Nel romanzo Le montagne della follia, memore del Le Avventure di Gordon Pym di E.A.Poe, una spedizione scientifica in Antartide porta alla scoperta di una enorme catena montuosa, più alta di qualunque altra, mentre al di là delle cime infinite si nasconde un altopiano che ospita le rovine di una città aliena. Dinanzi a questa scoperta gli esploratori constatano l’insensatezza di un errore e di una comparsa.

L’epifania del tempo sospeso e annichilente sconvolge ogni razionalità tranquilla e pacata. Quando cade un meteorite presso la tranquilla fattoria di Arkham, la tranquilla razionalità è sommossa da una contaminazione di una pazzia naturale e sadica: «Gli uomini rimasero indecisi davanti alla finestra, mentre la luce del pozzo si faceva più forte e i cavalli impazziti scalciavano e nitrivano per la disperazione . Fu un momento veramente terribile: il terrore che regnava nella casa maledetta, i quattro mostruosi resti umani alloggiati in un capanno lì vicino (i due che erano già in casa più i due ripescati da pozzo) , e il fascio di ignota e sacrilega iridescenza che dal pozzo si levava sul cortile».

La distruttiva vitalità cosmica interrompe una stabilità che è annientata e annichilita, come un misterioso pozzo di bagliori. La luce colorata che torna dal buio è rievocazione di un eterno ritorno e di un labirinto alieno.

Scrive Sandro D. Fossemò: «In un certo senso, è come se Lovecraft ci volesse totalmente disilludere dalla pretesa di vivere in un cosmo benevolo, solo apparentemente sano e razionale, servendosi proprio dell’ “ignoto” come una porta verso il mondo reale in cui «tutto imputridisce e muore, dove nelle cantine buie e nelle soffitte sbarrate di quasi tutte le case strisciano, gemono, saltano e latrano mostri». Una porta che, però, viene custodita da Yog-Sothoth, il temibile guardiano dell’inintelligibile, inteso a rappresentare l’impossibilità psicologica di contemplare il volto della realtà, senza rischiare di morire o di cadere in preda alla pazzia».

Lovecraft H. P., L’orrore soprannaturale in letteratura, Theoria, Roma 1992.

ID., Tutti i racconti. 1923-1926, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 2009.

ID., Tutti i racconti. 1927-1930, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 2009.

ID., Il dominatore delle tenebre, a cura di Sergio Altieri, Feltrinelli, Milano 2012.

ID., Lettera a Rheinhart Kleiner del 16 novembre 1916, in LOVECRAFT H.P., L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica. Lettere 1915-1937, (a cura di) G. De Turris, S. Fusco, Mediterranee edizioni, Roma 2007.

ID., Lettere dall’altrove, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 1993.

De Turris G., Fusco S., Howard Phillips Lovecraft, Firenze, La Nuova Italia, 1979.

FOSSEMò S.D., Il terrore cosmico da poe a Lovecraft, la paura dell’ignoto dall’abisso dell’anima al caos cosmico

(http://blogmetropolis.myblog.it/media/02/01/905349309.pdf)

Fruttero C., Lucentini F., Storia delle storie di Lovecraft, in LOVECRAFT H.P., L’orrendo richiamo. Tutti i Mostri del Ciclo di Chtulhu, Einaudi, Torino 1994.

Joshi S. T., Itroduction, in D. Schultz and S. T. Joshi (a cura di), An Epicure of the Terrible. A Centennial Anthology of Essays in the Honor of H. P. Lovecraft, Teaneck (NJ), Fairleigh Dickinson UP 1991.

MANGANELLI G.,  La letteratura come menzogna, Adelphi, Milano 2004.

HOUELLEBECQ M., H.P.Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bompiani, Milano 2005.

SCARABELLI A., Razionalismo e antiumanesimo nell’epistolario lovecraftiano, in “Antarès”, 2011.

 

Dante Gabriel Rossetti, il Preraffaellita poeta-pittore dell’abisso estetico

di Nicola di Battista                                                                                Prato, 17 febbraio 2013

IL PENSIERO IMMAGINALE

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rossetti - La Ghirlandata  1873  Oil on canvas  115 5 cm (45 47 in ) x 88 cm (34 65 in )  Guildhall Art Gallery London (England) Rossetti_selbstDante Gabriel Rossetti, secondogenito di quattro figli, nacque a Londra il 12 maggio 1828 da Gabriele Rossetti (Vasto, 18 febbraio 1783 – Londra, 16 aprile 1854), un poeta e critico letterario italiano originario di Vasto (in provincia di Chieti) il quale per il suo appoggio agli insorti dei moti liberali del 1820 fu costretto all’esilio – fu a Malta nel 1821, dove si legò d’amicizia con i fratelli Gabriele e Domenico Abatemarco, e da qui si spostò a Londra (1824), dove trascorse il resto della sua vita e divenne professore di lingua e letteratura italiana presso il King’s College di Londra (1831) e mantenne l’incarico fino al 1847 – e da Frances Polidori, una benestante dama britannica figlia di Gaetano Polidori (uno scrittore ed editore italiano originario di Bientina, attualmente in provincia di Pisa) e di Anna Maria Pierce (una governante inglese). Nonostante la sua famiglia e i suoi amici più stretti lo chiamassero “Gabriel”, adottò ben presto il nome pubblico di “Dante Gabriel”, desiderando un accento maggiormente letterario al proprio nome dati i suoi interessi nella poesia.

Fratello della poetessa Christina Rossetti e del critico William Michael Rossetti, si dedicò alla letteratura sin dalla tenera età, in particolare alla poesia. Tuttavia, il suo interesse per il Medioevo italiano lo spinse ben presto anche verso l’arte e la pittura: studiò presso la Ford Madox Brown e divenne anche amico di William Holman Hunt in seguito all’esposizione del suo dipinto “La vigilia di Sant’Agnese”, molto ammirato da Rossetti. Il dipinto illustrava alcuni versi di una poesia dell’allora giovanissimo John Keats, che Rossetti imitò con il suo “The Blessed Damozel” (La damigella benedetta).
Negli anni successivi, l’Italo-britannico Dante Gabriel Rossetti sviluppò insieme ad Hunt la filosofia della Confraternita dei Preraffaelliti, occupandosi in particolar modo dei lati più medievaleggianti. Pubblicò traduzioni di Dante ed altri poeti italiani medievali e iniziò una serie di dipinti con lo stile e le tecniche proprie dei pittori italiani prima di Raffaello, da cui il nome del movimento.

I suoi dipinti “Girlhood of Mary”, “Virgin” (Infanzia di Maria Vergine) e “Ecce Ancilla Domini” (Ecco l’ancella del Signore) rappresentavano entrambi Maria come una giovane emaciata e repressa, mentre la sua opera poetica incompleta “Found” (Ritrovato) è il suo unico dipinto con un soggetto moderno ovvero una prostituta riscattata da un possidente terriero che riconosce in lei il suo antico amore. Tuttavia, Rossetti fece evolvere la propria poetica e la propria pittura verso temi sempre più intrisi di simbologia e mitologia, tralasciando il realismo. La sua maggiore opera poetica è, oltre a “The Blessed Damozel” (1850), la collezione di sonetti chiamata “The House of Life” (1870-81). Pur avendo ottenuto il supporto del critico John Ruskin, l’accoglienza fredda ai suoi dipinti da parte del pubblico lo indusse a ritirarsi progressivamente dalle esposizioni pubbliche e a dedicarsi a pitture ad acquerello, che vendeva privatamente. Per questi lavori, intorno al 1850, trasse principalmente ispirazione dalla Vita Nova di Dante Alighieri, che Rossetti aveva tradotto in inglese, e dalla Mort d’Arthurdi Sir Thomas Malory. La sua particolare interpretazione del ciclo arturiano e dell’arte medievale ebbe particolare influenza anche su alcuni suoi amici dell’epoca, quali William Morris e Edward Burne-Jones, oltre ad essere ben accolta dalla committenza privata.
La sua vita subì una svolta terribile con la morte della moglie Elizabeth Siddal, che era stata in precedenza sua modella, morta suicida per una overdose di laudano, causata da una forte depressione; dopo aver dato alla luce un figlio morto. Rossetti seppellì un plico con le sue opere poetiche incompiute insieme al suo corpo e cadde in depressione: in questo periodo, avvertendo affinità con la propria vicenda, si dedicò soprattutto alle opere dantesche e al tema della morte di Beatrice. Risalgono a questo periodo opere come “Beata Beatrix”, pietra miliare del Simbolismo.
È questa la prima fase di un lungo percorso di idealizzazione della donna che interesserà l’intero movimento fino a John William Waterhouse: la sua successiva amante, Fanny Cornforth, venne quindi rappresentata come la personificazione dell’erotismo carnale, mentre un’altra delle sue amate, la moglie del pittore William Morris Jane Burden, venne esaltata quale Venere celeste.
Parallelamente a questo percorso sulla figura femminile, Rossetti iniziò ad interessarsi di animali esotici facendone in breve una vera e propria ossessione; in particolare il vombato attirò a tal punto la sua attenzione da fare della gabbia che ospitava tale animale allo zoo di Londra, in Regent’s Park, un luogo di incontro con gli amici. Nel settembre del 1869 acquistò il primo di due cuccioli di vombato, chiamato Top, cui il pittore si affezionò a tal punto da lasciarlo dormire sulla tavola durante le cene con gli amici. Pare che proprio il vombato di Rossetti abbia ispirato Lewis Carroll per il dormouse di “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”.

Durante questo periodo, gli amici di Rossetti lo convinsero a riesumare il plico di poesie dalla tomba della moglie, che egli pubblicò poi nel 1871. I versi, carichi di erotismo e sensualità, offesero l’opinione pubblica; in particolare uno dei poemi, “Nuptial Sleep” (Sonno nuziale), che descriveva il sonno di una coppia dopo un rapporto sessuale, venne stigmatizzato per un avvertito cattivo gusto da parte del gusto puritano britannico. A queste critiche fece seguito l’opera “The House of Life”, una serie di poemi che analizzavano lo sviluppo fisico e psicologico di una relazione amorosa. Successivamente, Rossetti si dedicò ad alcuni versi per i propri dipinti, come “Astarte Syriaca”, e lavorò con William Morris ad alcuni disegni per la loro manifattura (in particolare a motivi per vetrate e carta da parati). Verso la fine della propria vita, Rossetti cadde in uno stato di indolenza probabilmente a causa delle droghe di cui faceva uso: visse gli ultimi anni in solitudine e morì a Birchington-on-Sea (il 10 aprile 1882) nel Kent (contea dell’Inghilterra, a sud-est di Londra). Nelle opere di Dante Gabriel Rossetti è possibile osservare due opposte posizioni, che rendono le sue opere al tempo stesso trasparenti e opache, semplici e sfuggenti. Da un lato ogni suo dipinto discende da una attenta costruzione razionale, da una progettazione in cui, con minuziosità ossessiva, si intessono elementi ben precisi. Sono cosi presenti simboli ben studiati quali colori, stoffe, fiori e vasi, cosi come per gli scenari, le pose, i gesti, senza contare il rinvio a temi letterari, storici e mitologici (dalle saghe arturiane alle opere dantesche, dai miti classici fino ai sonetti dello stesso Rossetti). Tuttavia, dall’altro lato, su questo stesso telaio di significati, che sembra non dare spazio a nulla di istintivo, si colloca una sensualità carnale e appassionate, dove più niente è riflessione, dove tutto è tormentata e irrisolta emozione: è questo il doppio volto rossettiano, in cui vi è il procedere parallelo, reciprocamente non dialogante, tra percezioni vissute come “sensazione” e percezioni sperimentate come “sentimento”. Nelle opere pittoriche del Rossetti la pura sensazione sembra seguire una bellezza il più possibile incontaminata, laddove il sentimento riemerge elusivo ma penetrante, temuto quanto trionfante, melanconicamente perturbante, in cui armonia e difformità, luce ed ombra, equilibrio e caos, coesistono, pur allontanandosi grazie alle loro caratteristiche dicotomiche.

L’arte di Rossetti leviga infinite immagini di un eterno femminino che non è mai soltanto nitido e visibile, idealizzato, perché è anche il suo “doppio” apparentemente cancellato. Il periodo finale dell’ arte pittorica e poetiche di Rossetti lasciano intravedere in maniera netta questo doppio.
Il critico e saggista Walter Pater, amico dei preraffaeliti, nello scritto “Dante Gabriel Rossetti” (1883), poi inserito in “Aprecitions” (1889), afferma che questo artista “Non conosce alcuna ragione dello spirito che non sia anche sensuale, o materiale” e d’altronde lo sapeva convinto che “L’amore umano, legato alla bellezza fisica, rappresentasse la grande e innegabile realtà delle cose, l’unica a offrire istanti di solida consistenza a un esistenza altrimenti informe”.
L’immagine della donna è nell’arte di Rossetti, nonostante la staticità apparente, un nucleo nel quale confluisce un gioco interno di tensioni. La donna è da un lato la specifica modella di volta in volta in causa, con la quale spesso l’artista intratteneva o aveva intrattenuto una relazione sentimentale, dall’altro Rossetti intuiva nella condizione femminile anche la parte più in ombra, come la prostituzione o il delitto passionale, questioni scandalose per il vittorianesimo ma caratteristici di quella età. Nella serie di sonetti, composti tra il 1870 e il 1881, intitolati “The hause of life” – oggi considerati il capolavoro letterario di Rossetti – l’amata viene sovrapposta alla figura di Cristo, e descritta come “Il significato di ogni cosa esistente”. Diventa qui evidente quanto l’artista ricerchi nell’amore e nell’amata, ma in realtà entro se stesso, emozioni in grado di arginare una caotica instabilità.
Anche i dipinti sono essi stessi strumenti per ricercare interattivamente un’ affettività e una passione romantica e cavalleresca per la donna amata.

Il tema del tempo, insieme a quello dell’amore, è un altro fulcro dell’estetica di questo artista: pur se sembrano articolarsi con maggiore compiutezza nel versante letterario, raggiunge massime profondità nell’atto del dipingere. Accade che, riprendendo quando Lacan afferma nel “Seminario VII” (1959 – 1960) a proposito dell’amore cortese, che la donne ritratta da Rossetti sotto sembianze ideali diventi “inumana”, un’oggetto “spaventoso”, indicando come il vero fulcro attorno a cui ruota la rappresentazione, e con essa l’esistenza dell’autore, sia un’inconcepibilità fondamentale, assai prossima al mistero della morte. Secondo Salvator Dalì, nel 1936, le suntuose fattezze delle figurazioni femminili preraffaelite non inviterebbero affatto a un superficiale e luminoso godimento percettivo, ma esse ci invitano a osservare le nostre profondità viscerali dell’anima estetica. Da questo punto di vista è la produzione pittorica l’ambito in cui si vede meglio l’inconsapevole affiorare di un’affettività aleggiante, sempre attraverso il complesso rapporto che questo autore intrattiene con il comporre poesie. L’ autori oscilla tra la pittura e la poesia, non ponendo tra di esse particolari barriere. Sono innumerevoli i casi in cui il titolo e il tema di un dipinto sono gli stessi di un correlato sonetto, in quale poi andava spesso a inserirsi nel quadro, trascritto in qualche area della tela o nella sua cornice. Altre volte i sonetti sono ispirati a dipinti di altri pittori, mentre le tele, i disegni o le incisioni attingono a loro volta a opere letterarie.
Rossetti operava abitualmente in due regioni artistiche: in quella pittorica e in quella verbale, le quali gli permettevano di vivere all’interno e attraverso due forme di linguaggio. Ciò ha fatto definire l’artista dalla critica come un «Autore di una doppia opera d’arte». Tale ultima affermazione è possibile costatarla attraverso l’analisi della sua corrispondenza, in cui l’artista racconta nei minimi particolari molti dipinti, li riveste di parole, li spiega e li illustra con puntigliosa precisione. Ne deriva l’impressione di un impulso a intrappolare e dominare la spontaneità del linguaggio dentro ad una rete precostituita di significati. Eppure l’operazione compiuta da Rossetti è un’ altra: accade come se lui agisse un irrefrenabile tendenza a porre in forma scenica, e allo stesso tempo narrativa, ogni suo stato d’animo, quasi ne costruisse una drammatizzazione del tutto simile a quella del teatro, mediante una figurazione dove ogni oggetto o personaggio si interconnette e si armonizza per comporre un sentimento. Tale operazione oscilla tra due poli opposti: un eccessivo controllo razionale, che quasi sterilizza ogni emozione soffocandola al di sotto di uno stile ornamentale, e una prepotente intensità affettiva, grazie alla quale il mondo interno dell’artista traluce con massima e con magico splendore dall’intera drammatizzazione. Il comune denominatore tra il dipingere e il poetare sia in Rossetti la pulsione a disporre la propria affettività in forma di narrazioni drammaturgiche, animate a loro volta da un estetismo attento e raffinato e da in realtà evanescente – come accade, sostanzialmente, nel teatro o nei sogni. Rossetti affermava che essere più poeta che pittore, e il suo dipingere era sostanzialmente un atto per ottenere un guadagno. Intendeva nascondere a se stesso la maggiore evidenza affettiva che il colore, il segno, e altro ancora lasciano nei suoi dipinti, più che nelle poesie. Questa nascosta preminenza affettiva del dipingere trapela da una frase di Rossetti: «Se un uomo ha in sé della poesia dovrebbe dipingere, perché tutto è stato detto e cantato, ma lo si è appena cominciato a dipingere». L’idea che l’abuso di cloralio (un farmaco ipnotico), le cui avvisaglie risalgono al 1867, sia stato la causa primaria dei disturbi psicopatologici dell’ artista, dei deliri di persecuzione, del tentativo di suicidio (1872), della allucinazioni uditive, nasconde la realtà di una tossicodipendenza inconsapevolmente cercata, inconsapevole tentativo di curare in antecedente squilibrio, ma senza mai fermare l’artista fin all’ultimo giorno della sua vita.

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COVER FRONTIERA DI PAGINE N. 1 ANNO 1 - 10.02.2013_Page_1

1° gennaio 2013

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 N. 1 ANNO 1     FEBBRAIO 2013

 

 

Frontiera di Pagine è un’esperienza di sguardo e di confine che cerca di confrontarsi in modo ragionevole per conoscere il mondo e esplorarne gli anfratti. Studiando e approfondendo lo sguardo poetico e narrativo, psicologico e artisti stico rappresenta il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esperienza.

Nata nell’agosto del 2011 e approdata come inesauribile dialettica, tra le attività del Polo Psicodinamiche di Prato, rappresenta la relazione continua verso lo stupore e ciò che ridesta lo sguardo  a quel che ogni esperienza poetica, letteraria, artistica e psicoanalitica reca in grembo: la memoria e la visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale, nel suo significato di azione viva.

È un progetto culturale che nasce dall’esperienza e raccoglie iniziative reali, come presentazioni, lezioni e seminari, volti allo sviluppo del gesto creativo, come scoperta e sensibilità.

In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.