Archivi categoria: piattaforma multimediale

Il sangue amaro di Valerio Magrelli

di Andrea Galgano             23 aprile 2014

recensioni Il sangue amaro di Valerio Magrelli

Foto_Magrelli

Il nuovo libro di Valerio Magrelli (1957), Il sangue amaro, edito da Einaudi, fodera la quotidianità in un paesaggio di voci dispiegate, dediche improvvise, riferimenti estesi ad amici e anime interlocutrici, ai vocativi allusi.

Il dialogo si frastaglia in un contatto che riflette e confessa, si allontana dalla figuralità di immagini e apre la sua scena alla simmetria degli specchi e dei suoni, ai chiasmi del timore e del tremore, della convivenza sociale e della lotta civile

In un articolo su «Il Sole24 ore» del 17 marzo 2014, Gabriele Pedullà scrive che: «Questo affollamento ha sicuramente a che fare con l’approfondirsi di una vena civile che nelle prime raccolte sarebbe stato difficile da prevedere. Quando è che l’io incontra il noi? Dietro l’omaggio o il saluto, di là dal vetro i nomi e i referenti particolari sembrano rimandare a una comunità perduta, o a una ipotetica comunità a venire. Nel presente, invece, c’è solo il vuoto. Curiosamente infatti, non appena entriamo nei testi, ci accorgiamo che, esclusa la famiglia, le poche entità collettive evocate si reggono tutte su una privazione originaria: i giovani senza lavoro, gli odiatori disperati che scrivono insulti nei bagni pubblici, gli uomini bruciati assieme nelle Torri Gemelle o, con un altro rogo, gli operai periti nell’incidente della Thyssen. All’impossibilità kantiana di attingere alla cosa in sé si aggiunge ora, dunque, una paralisi storica. Al punto che, nell’età della trasformazione della politica in scienza della governamentalità e della governance, le dediche si rivelano altrettanti tentativi di fare gruppo: se necessario oltre lo spazio e il tempo. Invocazioni di aiuto almeno quanto profferte di affetto ai vivi e ai morti».

L’io, pertanto, vive «l’aria del nostro tempo» (Gabriele Pedullà), come squarcio ferito di ansia, confine che «avvampa e non consuma», come un bisticcio con l’esterno che stritola, annienta, sbilancia la sua malinconia nei paradisi perduti della lettura «Trovarsi a fianco qualcuno assorto nella lettura, / mi porta a domandargli. Dove sei? / per questo cerco di cercarti dentro, / di raggiungerti dentro quel dentro / da cui mi sento irrimediabilmente escluso».

La sua esattezza di figura, se da un lato condensa il proprio residuo interiore, dall’altro esprime la vertigine franta delle cose, articolando la concreta condensazione vista in Ora serrata retinae (1980), attraverso la nominazione e la paura insozzata delle soglie: «Da una finestra aperta non entra soltanto la luce; / a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto. / Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato, / quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra» o ancora adempiere l’infernale ignoto di una tecnologia avara e della burocrazia che sembra lasciare un vuoto estinto: «Natale, credo, scada il bollino blu / del motorino, il canone URAR TV, / poi l’ICI e in più il secondo / acconto IRPEF – o era INRI? / La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi. / ciò è bene, perché io amo i contributi, / l’anestesia, l’anagrafe telematica, / ma sento che qualcosa è andato perso / e insieme che il dolore mi è rimasto / mentre mi prende acuta nostalgia / per una forma di vita estinta: la mia».

Commenta Pedullà: «Generalizzando, si potrebbe dire che in questo nuovo Magrelli le parole ripetute alludono a una tragedia (o comunque a un trauma) che si ripresenta rigorosamente in forma di commedia. A essere amaro, in queste poesie, è infatti soprattutto il riso. Il quale non è mai stato così abbondante nelle opere precedenti di Magrelli, ma – contrariamente a quanto asserisce il noto proverbio – qui non “fa buon sangue”. Mai».

Sono oggetti violenti di mete ignote di cittadino, luce orfana di un movimento, come «un vento che soffia da dentro / per scuotere le foglie delle dita / e non si ferma più» e questo stormire di fronde porterà a una tramutazione «in betulla / o in un cipresso sul bordo del fiume, / con quel tremolare di luci / alzate dalla brezza. / mi farò soffio, mi farò soffiare, / panno lasciato al sole ad asciugare».

Il disfacimento disincantato del gesto poetico di Magrelli ha l’amarezza del riso e del sangue, l’esterno che penetra lo sporgersi verso l’abisso («Ecco perché vengo avanti piano piano, / come sull’orlo di un baratro. / Ecco perché mi protendo verso il vuoto / in fondo al quale posso a malapena intravederti»), il diario del tempo che squaderna le ferite e il disincanto escluso, come una smarrita enclave di parola silenziosa («Il vuoto del tuo corpo, / il suo silenzio, / dimostrano che il padrone non è in casa. / resta solo il cappello, posato sulla sedia / per occupare il posto dell’assente. / Quando leggi, vai via, e mi lasci solo») oppure il ritmo della vertigine dell’ansia che «è una domanda più totale, che include l’origine e la fine di ogni nostro «sistema fluviale», cioè di ogni nostra vita, che «nasce dal disgelo delle vette, dov’è il regno del cuore». Non solo una suggestiva immagine, in cui il nostro circuito cardiovascolare diventa una complessa rete fluviale vivente, ma il segno di una profonda richiesta di appartenenza», come scrive Bianca Garavelli su “Avvenire”.

L’estuario di Magrelli si attesta sul suo tempo elicoidale che vela il mondo e descrive la nascita, il suo affidamento, la sua parola segreta, come anello solstiziale: «Cinquanta volte giugno, / e sarei io, l’anello? / l’anello è lui, questo tempo elicoidale / che torna su se stesso / sempre uguale e uguale mai, / mio giugno, anello solstiziale / di sangue, di nozze di addio, / eterna vigilia di quella vacanza / che infine giungerà pura / nudissima luce definitiva, / mio sabato dell’anno, rompendo / finalmente l’anello sisifale».

È spesso il tempo dell’esclusione dal tempo («Riuscire a condividere quello spazio / da cui mi escludi, e che esiste soltanto / perché tu me ne escludi») a ridisegnare lo strappo sgualcito della separazione che genera nostalgia, che implora il corrimano del corpo, che invoca la bellezza dai regni interiori e «dei fondi incantanti del non-io».

Il suo calendario è un brusio che apre il ponte levatoio per varcare le stagioni e gemmare sugli affetti, promettere redenzione, toccando persino il rovinoso suburbano, come un occhio poetante «che intravede la vetta, la bellezza / come promessa di felicità», che soffre «il barbarico barbaglio» di luglio ma «resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita».

I ritratti raccolti in questo testo si fondono e si raccolgono in un delta a distanza che mette a nudo, in cui personaggi come Carlo Betocchi, Leon Bloy, Pier Paolo Pasolini, Mircea Eliade, Gian Lorenzo Bernini, Ettore Petrolini, Totò rappresentano il sintagma fluviale di un ponte inesausto che si rivela, l’otobiografia che rumoreggia i passi della vita che attraversa «tutte le forme possibili di esperienza “fluviale”: un simil-Mekong italiano e Piazza Navona con la sua celeberrima fontana, l’autolavaggio e il gran Canyon, i ponti cittadini e la fonte Castalia che rende poeta colui che beve alla sorgente, la Neva ghiacciata e il rompersi di un tubo che porta alla luce il “sistema sanguigno” della casa» (Gabriele Pedullà).

I paesaggi laziali, l’immersione nella lettura con la donna amata irraggiungibile avvertono come una fragile impossibilità esclusa, il segno di un incontro e di una comunione mancata, uno stampo nell’ombra di se stessi: «Invisibile e invincibile / è lo stampo che porto dentro me, / stampo del mondo impresso a me nel mondo / e che mi fa essere al mondo / soltanto nella forma dello stampo. / Dov’è la libertà, se la malinconia / raccoglie le sue nuvole senza nessun perché? / sto qui e subisco il loro lento transito / solo aspettando / all’ombra di me stesso».

Spesso è il fuoco ad accompagnare il ritratto di queste danze amare, una città incendiata di un’ansietà che avvampa e non consuma, come una specie di falso fuoco che brucia e si lascia bruciare, in una sconfitta consustanziale, in un attimo sparuto.

Magrelli ci consegna una ferita esclusa ma non vinta, la precarietà prigioniera (««Non siamo a casa neanche a casa nostra, / anche la nostra casa è casa d’altri, / la casa di qualcuno arrivato da prima /  che adesso ci caccia. / Vengono a sciami / si riprendono casa, / la loro casa, / da cui ci scuotono via, / punendoci per la nostra presunzione: / essere stati tanto fiduciosi / da credere che il mondo si potesse abitare»»), le mattinate apocrife che gocciolano notte, il raspamento di qualcosa che si contrae per «ottenere che lentamente, esile, torni / il moribondo flusso di corrente / ed un nuovo splendore inondi i giorni. / Solo così rinasce quel potente / getto di sole che rimette in moto / ruota, ciclo, marea, nascita, photos».

Ma in quel punto raschiato, in quel segno di ferita rimane l’accorata preghiera clandestina, come una sorta domanda grande e spiata a Dio ultimo e reietto fra i reietti: «Dio delle baraccopoli, Gesù dei clandestini, / nato nella favela, ultimo fra i bambini, / creatura della notte, amato dai reietti, / scintilla nelle tenebre, abisso degli eletti. / Gesù di baraccopoli e Dio dei clandestini, / nell’ultima favela neonato fra i bambini, / amato dalla notte, creatura dei reietti, / abisso nelle tenebre, scintilla degli eletti. / Abisso e baraccopoli, scintilla e clandestini, / quanto amato in favela!, creatura dei bambini, / ultimo nella notte, neonato fra i reietti, / Gesù dentro le tenebre, Dio di tutti gli eletti».

978880621845GRA

Valerio Magrelli

Il sangue amaro       

Einaudi, pp. 149, 13 euro

 

 

Magrelli V., Il sangue amaro, Einaudi, Torino 2014  

 

Il limite terso di Mario Benedetti

di Andrea Galgano             9 aprile 2014

recensioni Il limite terso di Mario Benedetti

mario_benedetti_cover

L’ultima opera poetica di Mario Benedetti (1955), Tersa morte, edita da Mondadori, amplia e si appropria di una più chiara visuale memoriale.

La perdita, la mancanza, la morte della madre e del fratello, accresce non il congedo, ma la testimonianza di uno sdoppiamento, in cui l’esperienza estrema si raccoglie in una tessitura densa e netta che concede il senso profondo di una chiarificazione.

L’estremo possibile cerca la sua via dall’abisso, con l’aiuto di una parola scarna ed essenziale che vela e rivela il ritrovamento nascosto di un dolore che specchia la sua fragilità, il passo della luce, il silenzio franto.

Il ritorno alle cose care, già visto in Umana gloria (2004), laddove la rimemorazione dei luoghi e dei passaggi percepiscono la sintesi di stupefazione e nominazione, e in Pitture nere su carta (2008), in cui il gesto reliquiario sollecita paesaggi dilatati, attimi di quiete lenta e di sfarzo, terrore anomalo, sillabando lo stupore, qui racchiude una processione di tempo nel tempo, in una goccia minimale e singola.

La solitudine abbacinante inventa la sua testimonianza e, allo stesso tempo, la sua docile paralisi. Entrambe si affidano a un sosia che possa dettare, scrivere e raggiungere le infinite profondità: «Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero / prendermi i giorni, le settimane, i mesi, il tempo / portato addosso, il sosia a cui chiedo di aiutarmi. / Con la sedia di mio padre gioca la bambina che non conosco. / adesso è sua. Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi. / Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto. / Sollevare dei pesi, deporli. Lo sguardo s’incuriosisce nella forma / di una porta marcita dove abita una signora anziana da sola. / Il sosia ascolta mia madre non morta, parla di mio fratello / o gli scrive. Pensa al protrarsi della vita che mi sopravvive» (Transizione, maggio 2010).

L’ultimità di Benedetti è una perentoria realtà di sopravvivenza e referenza, in cui la parola percepisce il peso dell’ombra delle cose e in quella stilla di dolore estremo conferma il suo pianto miracoloso e vivo: «La porcellana insaporita della cena, / la casa nuova con i contributi della legge / dopo il terremoto. Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

Scrive Alessandro Zaccuri: «In Tersa morte, invece, prevale la sdrucitura, il dramma, e così l’intonazione scivola verso la prosa, che in più di un’occasione prevale. Questa volta è la regola ad avere la meglio: il lutto per la morte del fratello sta all’origine della scrittura e intanto la ostacola, impedisce alla forma di articolarsi. Non è, per quanto mi riguarda, un limite. Ho una simpatia istintiva per i libri in cui qualcosa è, o appare, fuori posto. Il magma di Moby Dick, per esempio, ma anche gli esametri sospesi dell’Eneide o Dostoevskij, che lavora di furia alla prima parte dei Fratelli Karamazov, il capolavoro destinato a rimanere incompiuto. E la Bibbia stessa, dove il sublime prevale sul bello. «Dai del tu ai morti, stai al posto di te, anche», scrive Benedetti.  Non  è musica, questa. Non è stile. Ma è la lingua madre del dolore, e chi l’ha parlata – fosse pure per una sola volta – ne riconosce l’esattezza, ne condivide la pena».

In un bellissimo articolo su «Nuovi Argomenti», Giorgio Meledandri afferma che «[…] Mario Benedetti rappresenta un’altra morte e scrive un grandioso ed intenso epitaffio in memoria delle parole. Tutta l’opera non fa che rimarcare l’impotenza espressiva del soggetto, l’indicibilità delle cose, l’esaurimento del linguaggio. […] Solo dentro questa cornice, nell’eco delle parole che muoiono, l’autore può mostrare altre esperienze di lutto. Tenta quindi di recuperare le immagini, i fotogrammi di chi non c’è più: una vera e propria evocazione di luoghi e di date nel corso della quale l’io lirico si diffrange in una molteplicità di soggetti, si mescola con i morti, si sovrappone agli oggetti fino a scomparire».

La diffrazione, il mescolamento, la sovrapposizione e infine la scomparsa sono lande che attestano l’indicibile di impronunciabili scomparse, come «Tra il ferro arrugginito dei vagoni di treni dismessi / la discarica delle parole di poesie che respingono. / Sguardi brevi, arrovellamenti, alberi a caso, afasie».

Le vite pronunciano una stasi scissa che si compenetra nel linguaggio, si appropria nelle parentesi care di ogni vita che sono «interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato».

Tali interezze proclamano la loro tersa continuità, le parole che «sono nelle storie che mi hai fatto vedere», sollecitano una testimonianza di tensione e domanda, per «Stare nelle ore / per altre ore, nei giorni che ci saranno», rievocano l’oscillazione di un martirio testimoniato, «Come testimoniare i morti, / vivere come lo fossimo, / morire come siamo. Per la vita / è la scoperta / della morte e della vita», e, infine, riportano, come sostiene Tommaso di Dio «alla “carne” che siamo, carne mortale».

La nudità lucente della vita che si rivela, il dolore del limite, della carne che percepisce il vuoto bagliore della mancanza reale e vivente, svelano il tempio di una figura che ha generato vita, nella quotidiana altezza del gesto: «Cosa devo guardare per sentire che non è così vero, / e riuscire a spostarti nelle faccende di casa, / a risospingerti lungo le strade. E tra le righe / vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco / ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli, / gli anni trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza. / e tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno, / quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì, / tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita / con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo / del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello».

Il gesto-dimora offre il suo palcoscenico di durezza e dettaglio luminoso: la madre, alla quale appartiene solo lo sproposito e la dismisura, il tempo infinito che sembra concretarsi in uno spasmo di apparizioni e le coltri dense di ricordi frammentati: «Devo tenerlo per mano, / non vedo nessuno tenere per mano i bambini. / Vicino alla manica lunga del braccio /  i suoi occhi liberi, e tante madri, / tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli / che dormono come bambini».

La morte diviene l’ampio gesto della vita che si spegne e si afferma, in un doppio movimento che appare e scompare, si eclissa nei vertici fenomenici di freddi senza riparo: « Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere /  la pura inconcepibile assenza, non distrarti». L’accortezza di non avere solo vent’anni è lo spazio vergine di una sopravvivenza decisa e assorta, che assolda doppi e sosia per comunicare uno spiraglio di consapevolezza e di voce non rabbiosa, ma accorata e descrittiva di una rarità spettrale che termina nell’ora assente: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia».

«Per tutto il libro, Benedetti fa oscillare le proprie immagini in un verso anfibio, debolissimo, raramente inarcato, sempre sul punto di sconfinare in ritmi ipermetri e ipometri, prosastici; fra di essi, a tratti appaiono figure ritmiche incalzanti, che presto però si sfaldano in soluzioni neutrali, sottotono. Il verso rispecchia una ricerca formale inquieta e liberata da schemi di illusionismo metodico. Tutto trema: come i contorni delle bottiglie nei quadri di Giorgio Morandi, ogni cosa è lì, ben visibile, impressa; ma in una forma che non sa stare se non oscillando, crepata da appena percepibili anacoluti. C’è in questi nuovi versi di Benedetti – e segnatamente nelle ultime sezioni – una sobrietà formale che rasenta l’impressione di negligenza; essa enuclea uno stile “a dispetto” di ogni possibile orpello retorico. È come se ci ricordasse continuamente quanto il senso dell’esperienza e il contenuto sopravanzino ogni possibile stilistica; tanto che risulta particolarmente impossibile qui – o quanto meno totalmente inutile – quello che mai dovrebbe accadere di fronte ad un opera letteraria: godere della forma senza aver aderito al messaggio espresso dal libro, senza averlo fatto proprio». (Tommaso di Dio).

Un viaggio nella pena della morte, non dell’annichilimento. Benedetti si sporge nell’abisso dell’assenza della sua «impietrata lava», «il tempo venuto addosso come suo dovere. / I lutti delle case, del vivo chiamarci a colazione a cena. / la panca di un giardino, i tuoi pianti nella macchina a ore, / i torrenti e le pozze dove nuotare. Cosa ti diceva / è bello stare qui?, umiliata, pestata nella macchina a ore», «nell’ora dell’azzurro cupo», nei fotogrammi dei «gualciti / accappatoi rivoltati dal vento ieri notte »raccoglie i cari per aggrapparsi alla vita e, nel vuoto del sangue, delle «parole in fila» che «mostrano la pioggia sulla strada e nei campi. / Gli occhi che guardano scriverle non ci saranno. La strada / ha gli alberi lontani, l’erba è alzata  respirare, a respirare / come uno di noi. È giusto che io non veda questo mai più».

tersamorte1MARIO BENEDETTI, Tersa morte

Mondadori, pp.86, euro 16 

Benedetti M., Tersa morte, Mondadori, Milano 2013.

Id., Pitture nere su carta, Mondadori, Milano 2008.

Id., Umana gloria, Mondadori, Milano 2004.  

 

Il condomino stalker rischia l’allontanamento dal condominio (II-III-IV parte)

di Emanuele Mascolo

26 marzo 2014

Commette stalking, sostanzialmente, il condomino che pone in essere reiteratamente, condotte  minacciose o moleste nei confronti di altri condomini.

Quando un Pubblico Ministero è investito di indagare su tali vicende può chiedere al Giudice Per le Indagini Preliminari, ( G.I.P.) l’applicazione della misura dell’allontanamento del soggetto, dal luogo in cui compie questi atti, al fine di evitarne la reiterazione.

Tale misura è il divieto di dimora, disposo dall’articolo 283 del codice di procedura penale, secondo cui: “ con il provvedimento che dispone il divieto di dimora, il giudice prescrive all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede.

Con il provvedimento che dispone l’obbligo di dimora, il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi, senza l’autorizzazione del giudice che procede, dal territorio del Comune di dimora abituale ovvero, al fine di assicurare un più efficace controllo o quando il comune di dimora abituale non è sede di ufficio di polizia, dal territorio di una frazione del predetto comune o dal territorio di un comune viciniore ovvero di una frazione di quest’ultimo.

Se per la personalità del soggetto o per le condizioni ambientali la permanenza in tali luoghi non garantisce adeguatamente le esigenze cautelari previste dall’art. 274, l’obbligo di dimora può essere disposto nel territorio di un altro comune o frazione di esso, preferibilmente nella provincia e comunque nell’ambito della regione ove ubicato il comune di abituale dimora.

Esaminiamo, nello specifico, l’Ordinanza del G.I.P.  di Padova del 15 febbraio 2013, numero 1222 che ha accertato come, appena un condomino prese possesso dell’immobile nel condominio in questione, gli altri condomini hanno esporto denunce per vari minacce ed insulti, fino al punto di dover  cambiare le abitudini all’interno delle proprie abitazioni, “alterandole”, costretti a cambiare i percorsi per rientrare nelle proprie abitazioni, “verificando ogni volta, prima di uscire di casa, che non fosse presente nelle parti comuni dell’edificio, anticipando l’orario in cui andavano a letto al fine di guadagnare ore di sonno, nel timore di essere svegliati dalle molestie[1], dovendo ricorrere a cure mediche ed alcuni condomini hanno palesato l’idea di vendere il proprio appartamento.

 

Si legge nella suddetta Ordinanza che, “le condotte persecutorie hanno assunto le caratteristiche di quelle astrattamente previste dall’art. 612 bis c.p. dopo una prima serie di condotte qualificabili come mere azioni di molestia o disturbo, integranti la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.

 

Il fatto che l’indagato abbia volontariamente proseguito nella propria sistematica azione di molestia e disturbo, nonostante le numerose lamentele dei condomini e nonostante l’arrivo in almeno due occasioni dei  Carabinieri, chiamati dai vicini di casa, in piena notte, perché estenuati dai disturbi e dalle molestie, dimostra che le condotte in questione costituiscono il frutto di un disegno complessivo perseguito  dall’indagato, volto ad impedire qualsiasi reazione e ad imporre il proprio “stile” di vita.

 

Per chi tenta di opporsi, infatti, scatta la reazione minacciosa, diretta a questo o quel condomino, a

volte a tutti indistintamente, comunque sempre con urla tali da farsi ben sentire da tutti: l’indagato

minaccia espressamente di morte i vicini di casa e prospetta loro che “li farà morire”, esternando, con assoluta sfrontatezza, il proprio programma criminoso, volto a intimidire e creare un clima di ansia e di  paura, all’interno dell’edificio, nelle persone che vi abitano.”[2]

 L’allontanamento del condomino stalker, si è reso necessario, secondo il G.I.P., “ per interrompere l’attività delittuosa che si protrae da mesi, nei confronti di tutti i condomini, senza che l’indagato abbia dato alcun segno di resipiscenza.

 Non emergono cause di non punibilità e non è possibile ipotizzare la concessione di benefici in caso di  condanna, trattandosi di trattasi di recidivo reiterato specifico, condannato per reati contro la persona, commessi anche mediante violenza, quali circonvenzione di persona incapace, minaccia, lesioni personali, resistenza.

 La misura richiesta dal P.M. è la meno afflittiva, tra quelle che possono scongiurare il concreto rischio di reiterazione di reati della stessa specie o di commissione di delitti anche più gravi.”[3]

 L’Ordinanza in oggetto ha disposto, il divieto per lo stalker  dai “ luoghi costituiti dalla abitazione e dai rispettivi luoghi di studio e/o lavoro,  con divieto assoluto di comunicazione, incontro e avvicinamento alle persone offese e ai  componenti dei rispettivi nuclei familiari, prescrivendogli di mantenere una distanza di almeno 500 metri dai luoghi frequentati dai denuncianti e vietando al predetto di comunicare con  qualsiasi mezzo, in particolare telefono, SMS o e-mail con le persone sopra indicate.”[4]

 


[1] Trib. Padova, Ordinanza G.I.P., 15 febbraio 2013, n. 1222.

[2]  Trib. Padova, cit.

[3]  Trib. Padova, cit.

[4] Trib. Padova, cit.

ATTI PERSECUTORI VERSO PIù CONDOMINI

11 aprile 2014

Si pensi al caso di colui che minacci d’abitudine qualsiasi persona attenda ogni mattino nei luogo solito un mezzo di trasporto per recarsi al lavoro.

La minaccia in tal caso assorbe bensì la molestia nei confronti della persona cui è rivolta, ma non la molestia arrecata alle altre persone presenti.

Perciò può essere decisivo ai fini dell’art. 612 bis, che in diversa occasione altra persona, già molestata, sia oggetto diretto di nuova molestia da parte dell’agente.

E’ dunque ineludibile l’implicazione che l’offesa arrecata ad una persona per la sua appartenenza ad un genere turbi per sè ogni altra che faccia parte dello stesso genere.

E se la condotta è reiterata indiscriminatamente contro talaltra, perchè vive nello stesso luogo privato, sì da esserne per questa ragione occasionale destinataria come la precedente persona minacciata o molestata, il fatto genera all’evidenza il turbamento di entrambe.”1

Èquanto ha stabilito la Corte di cassazione Penale, n. 20895/2011, ritenendo che, “proprio la relativa consapevolezza può accrescere il turbamento di coloro che si attendono da tele persona un ingiusto male.”2

Ritiene ancora la Corte di cassazione che, “la violenza privata anzitutto può essere commessa con atti per sè violenti ed è poi soprattutto finalizzata a costringere la persona offesa a fare, non fare, tollerare o omettere qualche cosa, cioè ad obbligarla ad uno specifico comportamento.

La previsione dell’art. 610 c.p. perciò non genera solo il turbamento emotivo occasionale dell’offeso per il riferimento ad un male futuro, ma esclude la sua stessa volontà in atto di determinarsi nella propria attività, d’onde il quid pluris di cui all’art. 610 c.p..”3

Reato abituale, venne “individuato nella ripetuta commissione di un determinato fatto, rettamente intesa quale « azione diretta sempre contro lo stesso bene giuridico e produttiva di un evento identico, sorretta, sotto il profilo psicologico, dalla medesima « direzione della volontà.”4

La Sentenza che stiamo commentando, al contrario di quanto stabilì per lo stesso caso la Corte di Appello di Torino, che ritenne di ” integrare il delitto di atti persecutori « le condotte dell’imputato offensive delle persone di sesso femminile abitanti nello stesso stabile », a prescindere dalla concreta reiterazione delle condotte in danno di ciascuna di esse.”

Infatti, per la Cassazione, “la natura di reato di sbarramento della disposizione di cui all’art. 660 c.p. consentirebbe d’intendere che la lettera “minaccia o molesta taluno” non implica che ogni atto costitutivo della condotta criminosa dell’articolo 612- bis debba avere ad oggetto la stessa persona.” Tale ragionamento a cui giunge la Corte, però, parrebbe trascurare alcuni importanti elementi della fattispecie, in particolare sul significato del termine « molestie », affatto differenti, per contenuto ed ambito applicativo, dall’omonima fattispecie di cui all’art. 660.

Parte della dottrina ritiene che  il delitto di atti persecutori integrerebbe un delitto abituale proprio, a forma libera, dotato di propria tipologia obiettiva, e non mera risultante di un procedimento di unificazione legale. Lo stesso evento di danno della modifica delle « abitudini » di vita dell’offeso, ancora, sembra plastica espressione della offesa tipica, frutto delle ripetute violazioni patite dalla vittima e, segnatamente, dello stato di persistente e grave timore/terrore ingenerato dallo stalker. È stato autorevolmente evidenziato, in tal senso, che « l’attacco ripetuto allo stesso interesse (da guardarsi in concreto), realizzato con persistente frequenza, genera una realtà autonoma e diversa rispetto alla lesione isolata e occasionale  che, se dal lato « denota la proclività dell’agente, sul piano oggettivo evidenzia la lesione di un interesse nuovo, che nel realizzarsi di quei fattori si enuclea e si concretizza.”5

 


1    Cass. Pen.,Sez. V, n. 20895 del 07.04.2011, in Diritto & Giustizia, 2011.

2    Cass. Pen.,  op.cit..

3    Cass. Pen.,  op.cit..

4    G. Cocco., Unità e pluralità di reati, in Cocco (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte generale, I/2, Il reato, Padova, 2012, 53 e ss.

5    Tra gli altri – Bongiorno, intervento conclusivo sul d.d.l. C 1440; Petrone, Reato abituale, Padova, 1999.

Staking in condominio. L’inquilina non tollerava nessun rumore notturno tantomeno lo sciacquone del bagno azionato malamente. Ultima parte.   23 maggio 2014

Si può dire che è uno dei recenti casi di stalking quello che vi narriamo e che abbiamo trovato tramite ricerche su internet.

L’articolo pubblicato su Milano.repubblica.it[1] risale al 05 aprile 2014 e narra un fatto di cronaca avvenuto a Milano in un condominio e dal quale si apprende che una condomina è stata rinviata a giudizio per una serie di reati come “ ingiurie, minacce e perfino lesioni.

Il tutto “  perché la vicina intransigente, visto il perseverare del mancato rispetto dello sciacquone, sarebbe passata alle vie di fatto.”[2]

La condomina in questione infatti aveva attuato e pretendeva il rispetto di regole determinate in assoluta autonomia.

 


[1] http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/04/06/news/insulti_telefonate_anonime_a_agguati_ai_vic

[2]  Op. cit.

Il condominio: spazio idoneo per le condotte persecutorie. (I PARTE)

vicini_di_casadi Emanuele Mascolo

12 marzo 2014

 

Con la pubblicazione che segue facciamo chiarezza circa la possibilità e la realtà di condotte persecutorie all’interno del condominio. Stiamo parlando dello stalking condominiale.

Lo stalking condominiale è generato dai vari e facili litigi, contrasti e rancori che possono nascere all’interno del condominio. Il tutto può partire anche dal dissenso o un punto di vista diverso, di un condomino rispetto agli altri. Per cui ci si può sentire perseguitati.

Spesso in condominio capita di essere a mò di satira insultati o additati, attenti: può configurarsi lo stalking.

Tantissime sono le richieste di aiuto e di sfogo che possono leggersi solo sui social network.

L’articolo 612bis del codice penale così definisce gli atti persecutori: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio
.”

Nell’ambito del condominio si può trattare dunque, di ingiurie, ma anche di molestie causate dal lancio di cose pericolose, concretizzando così l’astrattezza del’articolo 674 del codice penale, secondo il quale, “ Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a euro 206.”

Sul punto la recente giurisprudenza di legittimità ha ampliato l’ambito del reato di gettito di cose pericolose. In particolare, la Corte di Cassazione, ha rigettato il ricorso, dando ragione Giudice di prime cure adito, che aveva dichiarato l’imputato  colpevole dei reato di cui agli artt. 81 cpv e 674 cod. pen. per avere arrecato molestie,” in quanto, “ aveva gettato nel piano rifiuti, quali cenere e cicche di sigarette, nonché detersivi corrosivi, quale candeggina, e la ha condannata alla pena di euro Euro 120,00 di ammenda.” [1]

 

 



[1] Cassazione penale , sez. III, sentenza 11.04.2013 n° 16459.

Il viaggio inciso di Charles Wright

di Andrea Galgano                                         5 febbraio 2014

poesia contemporanea Il viaggio inciso di Charles Wright

charles-wright

La poesia di Charles Wright (1935), è una immersione nell’esperienza totale. Nato nel Tennessee, dopo aver studiato nell’Iowa e insegnato nella California, oggi insegna a Charlottesville, in Virginia. Vincitore di premi prestigiosi, come il Ruth Lily Poetry Prize o nel 1998 del Premio Pulitzer per la poesia nel 1998, è anche noto traduttore di Montale e Campana e inseguitore dei crocevia danteschi.

Nella visionarietà torrenziale ed ulteriore si trova la traccia potente e dolce del suo slargo, in cui alla solida poesia statunitense di Whitman, Dickinson, Wallace Stevens o Pound, si accompagna una sua peculiare intensità epifanica, fradicia di talento e immagine: «le nostre preghiere – come vestiti, come scaglie di cenere – che prendono il volo senza di noi / in un sempiterno, / che continua senza di noi, / azzurro dentro azzurro dentro azzurro – / le nostre preghiere, come schegge di vetro esauste d’acqua, / vorticanti nella risacca, levigate e indistruttibili e lucenti, / le nostre vite un graffio nel cielo, indolori, impossibili da rievocare» (Vita negativa).

Commenta padre Antonio Spadaro: «Poeta di epifania spirituale, Wright è poeta legato, sia per immagini sia per atteggiamenti interiori, ai paesaggi rurali o comunque connessi alla natura selvaggia. Sembra così accostare implicitamente le foreste indiane alla selva oscura dantesca con echi e rimandi di grande intensità alla ricerca di una via».

La via aurale e concepita scommette invocazioni, apre schemi essenziali come scrittoi stellati e insolubili: «Inizio di novembre nell’anima, / Pioggia forte e oro scuro / dagli alberi, luce obliqua / del pomeriggio inoltrato e greve peso sul cuore. / Come sempre svigorito e spento. / Sessantaduenne, voce incolta, incline alla notte, / sono in piedi e tranquillo sul vialetto vuoto. / Sblocca il mio habitat, luce stellare, fammi insolubile».

La contemplazione del divino scardina nuove sorprese, in cui l’architettura intensa e perfetta dei versi forgia le sue forme in una coincidenza ultima, in una estremità di viaggio peregrino, teso alla redenzione, come un diagramma che si estende fino all’anima: «E qui, dove il cigno mugola nel suo incavo, dove la sanguinaria / e la belladonna insistono a confortarci […] come una goccia di limpido olio il Guaritore ruota nel vento della notte».

Pertanto già nei suoi primi testi, come Bloodlines (1975) e China Trace (1977), come afferma Antonella Francini, «si trovano già definiti gli inconfondibili tratti della sua scrittura dal taglio fortemente autobiografico (aneddotico, appunto), affidata ad una lingua icastica, netta, che sembra incidere la pagina. Vi si trovano già la struttura del viaggio, la figura di un alter ego in cammino verso un’elusiva e improbabile spiritualità, cosciente dei propri limiti conoscitivi; il tema dei morti chiamati in causa come ispirazione e monito per chi vive, metafora estrema dell’inconoscibile, presenza eterna nella continua rigenerazione del mondo di cui tutta la poesia di Wright è un altissimo canto; la percezione di un io inquieto che continua a interrogarsi sul suo viaggiare («E dove ci porta, pellegrino, / questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo / che niente cambia, o tutto; / e, per raccontarlo,  solo questi tristi segni, / frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno?»); il ruolo fondamentale del paesaggio che freme di invisibili presenze metafisiche epifanie; la struttura geometrica, infine, a chiudere il tutto».

I suoi lampi di memoria costeggiano la dimensione terrena, inseguendo redenzioni e impronte salve, rigenerando la superficie del mondo, in una geometrica compiutezza che richiama patrie e risurrezioni («Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge» o ancora «allora risorgeremo, e ci raduneremo / nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, / una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo / fra i rami puntuti e le giunture schiantate dei sempreverdi»): «Le foglie mi cadono dalle dita. / Fiori di mais si spargono sui campi come stelle, / come stelle di fumo, / presso i binari del treno, le foglie turbinano / sotto le nuvole lente / e i nove gradini ai cieli, / la luce cade a grandi lenzuoli fra gli alberi, / lenzuoli quasi veri. / Penso che la trasfigurazione comincerà così, / fiato mozzato, / lama veloce tra gli alberi, / qualcosa di rosso che mi cade dalle mani, / l’aria che si raffredda … / E allora / uscirò da questo corpo stanco, un nodo sanguigno di luce, / pronto ad accogliere in me il buio. / – O per l’arrivo del vento / che, osso dopo osso, mi trasporterà per il cielo, / la sua ostia un’ustione sulla mia lingua, / il suo vino oblio profondo».

Le presenze invisibili abitano il presente nel loro sipario mitico, il ricordo effonde il suo richiamo di spazi fragili e potenti, si assiste, persino, all’interrogazione sul destino ultimo dei cieli, alla popolosa partecipazione dell’essere («Che c’entri tu, anima mia, col Paradiso?») e alla domanda di folgore che incanta e poi scompare, per scrivere poesia «su Dio o sull’uomo – e credo che esistano poche altre categorie – il solco da lui tracciato ci precede. Non ci resta altro che seguirlo».

«Wright», ha scritto sul “Corriere della Sera”, Sergio Perosa il 19 luglio 2001, «gioca superbamente con ciò che resta e non resta, ci elude e ci afferra, ci incanta e scompare; è un metafisico del cuore e del quotidiano, con voce cristallina»: «Lentamente una foglia si sgancia da un ramo. / Lentamente le mani velate dei morti svolazzano dai loro antri. / Una fiammella rosata è estinta nella mia bocca».

L’ombra che si staglia e affossa ritardi, pregna di immagini care, estremità correlata, nascosta realtà trascendente che sistema le presenze e le assenze in un messaggio partecipe e invisibile. Non si allontana mai dal vissuto la sua frequentazione di dolore e gioia, come una persistente iconografica che disegna viaggi nel mondo, raggiunge l’indaco sidereo delle costellazioni, si dissolve nelle tappe dell’io proteso all’infinito: «Come sempre il silenzio avrà l’ultima parola, / e Venezia s’adagerà come seta / sul bordo del mare e del cielo notturno, / albeggiante di luna. / Si vive tutti la stessa vita / se si vive abbastanza».

Ma c’è sempre un andirivieni di alterità non toccate, nei lividi verdi, nelle promesse alle finestre, nelle sopravvivenze ripetute per sempre: «Ho parlato d’una una cosa sola per trent’anni, / l’ho detta e ripetuta, / vento come grossi pali fra gli alberi – / voglio dire il piccolo punto immobile nel punto dove tutte le cose si incontrano; / voglio dire la forma che muove il  sole e le altre stelle».

Nelle sue trilogie, il passo del tempo è una sfaldatura di suono, una scatola che contiene punti nascosti ed emersi che percorre la volta delle cose in una viva e sperata estremità: «L’Orsa Maggiore mi ha seguito ogni giorno della mia vita. / Sotto le sue stelle di latta ilo mio passato è arrivato e partito. / Stanotte, nello smalto d’aprile / e negli intagli eburnei del cielo, / mi benedice ancora una volta / con la sua acqua nera, e mi spinge avanti».

Venezia, Verona, il Tennessee o gli Appalachi impongono percorse immersioni attonite, dialogo serrato con i trapassi, respinti dai limiti, ma uniscono distanze reali e ideali «verso un’agognata quanto elusiva epifania spirituale dell’autobiografico protagonista e narratore che instancabilmente rivisita i luoghi che sente legati a intense emozioni e rivelazioni, e pertanto, a lui “sacri”».

Il paesaggio, la lingua, l’idea del divino coordinano il suo azzardo imprevedibile, la frontiera delle cose perdute e ritrovate, come le pietre nere e rare degli episodi, della mitologia e dei segreti.

Il paesaggio, «risurrezione della parola», raccoglie il ciclo delle stagioni, il vetro segreto degli anni, le rive altre dei fiumi che amano giocare nelle foglie quando il crepuscolo raggruma di ombre l’aria e l’argenteo alfabeto del mare: «è di legami che sto parlando, / di armonie e strutture / e di tutte le cose che serrano i nostri polsi al passato. / Qualcosa d’infinito appare oltre ogni cosa, / e poi scompare. / è solo questione di come / si restringono le superfici. / è solo questione del nostro posto nel cielo».

La natura si accende, proclama i suoi chiarori lunari, tinteggia i meriggi e scoperchia le notti assorte, per raggiungere il remoto avamposto dell’io, immerso in un lembo remoto: «Immagino sempre una bocca / dentro di me che comincia a aprire / le sue labbra blu, un braccio / che s’incurva triste su una finestra aperta / la sera, e rospi che balzano nell’erba umida. / Di nuovo il silenzio dei fiori. / Di nuovo le flebili note di musica di piano là nei boschi / Come riempie facilmente la stanza l’estate».

La comparsa e disparizione delle cose non concedono un terrificante progetto di nulla, ma conoscono il chiaroscuro delle autobiografie, in cui il paesaggio non è cornice, ma bagliore innamorato, solco di vento, segno di lingua addosso che si appropria di blues, contry, jazz e gospel: «Tutto è più essenziale nella luce del nord, cavalli / distesi sul prato secco, / nuvole in fila come carri di pionieri / sul bordo sinistro dell’orizzonte, / forbici di rondini si tuffano ad angelo, / bip d’api e cantilena di mosche, Dio con l’orecchio buono / al suolo. / Tutto è più intenso, il vento / ristagna quasi invisibile tra i larici, / linfa dorata sull’ombrello del pino, / un mosaico bizantino / dentro la cupola del giorno, / caratteri cuneiformi sfumati sul fondo della foresta. / Tutto sembra immediato, / come schegge del divino / d’improvviso screziate sulla punta delle nostre dita, / conoscenza proibita dell’oltre ciò che possiamo appena / decifrare, / fili d’erba inclini ad abbagliare e piegarsi, / acque mnemoniche, picchi, uccelli del crepuscolo».

La caccia e l’inseguimento a Dio che compie Charles Wright è un abbaglio scomparso che ogni volta, prepotentemente, torna a galla per accarezzare il limite e attendere trasmutazioni «dalla prospettiva di un monaco nella sua cella»: «Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno / come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi, / la mia vita svanita un ornamento, una / nuvola alla deriva dietro di me, / dolce trascendenza di cenere / sepolta e risorta una volta, e poi ancora / e ancora …».

Antonella Francini scrive che: « […] Il paesaggio e la lingua sono il negativo del trascendente, come il passato lo è del presente. La poesia metafisica di Wright lavora nello scarto minimo tra il visibile e il buio, in una zona di crepuscolo che prelude all’inevitabile sconfitta della luce e del poeta affinchè un nuovo viaggio inizi e la mappa dell’anima continui ad estendersi entro le sue geometriche strutture come, secondo un’immagine cara a Wright, una ragnatela sempre più ampia concentrica alla sua origine»: «Sotto i peschi, gli ideogrammi che le foglie gettano / sull’erba acconciata dal sole dicono / purgatio, illuminatio, contemplatio, / parole còlte in una luce dolce e duratura, / al contrario di quella dove conducono, / la cui vista ci fa colare a picco e incolti come campi abbandonati».

Il suono scrive e cerca la sua redenzione, come quando risuona il fiume «E siamo ancora qui fuori immobili a guardare lassù, a guardare lassù i cieli pensando» (Sky Diving). Il paesaggio è lì, tramato nelle percezioni memoriali, negli sconquassi dei fatti minimi, nei confini di vetro istoriato che affresca il suo tempo mitico, in una traccia visibile che sfiora l’invisibile tempo «nel punto in cui tutte le cose s’incontrano»: «La raffica di pioggia si è bloccata di schianto, / ciondolano seducenti le fronde della palma. / La vita, come si dice, è bella».

L’estensione dell’io, come la sua contrazione e la sua sfrangiatura, accerchia la sua domanda elementare, spinta verso l’alto e indomita nei suoi chiari abissi di vertice ascendente: «Cosa c’è per noi d’imperturbabile nelle stelle? / Quale impulso, quale bassa marea / ci attrae lassù come vertigine / quale / inversione di quota ci spinge verso i loro abissi chiari? […] Chi dirà che il respiro d’un angelo non m’ha sfiorato l’orecchio?».

La sua «dolce trascendenza di cenere» ammanta i suoi punti inafferrabili ma toccabili, come ricami in filigrana, sospesi tra le stelle e i loro vortici. Il tempo è inviolato, la coltre è una luce accesa: «C’è un’ultima solitudine dove non sono ancora giunto, / la stanchezza come polvere in gola. / Ma fremo dentro il suo contorno, / e mi sento al sicuro, mentre le stelle traboccano, per una notte ancora / come un viandante medievale affrescato con in mano il suo poema, / intorno sempre i cieli. / E come lui, qualcosa di rosso e inviolato sotto i miei piedi».

 

Wright C., Crepuscolo americano e altre poesie (1980-2000), Jaca Book, Milano 2001.

Id., Breve storia dell’ombra, Crocetti, Milano 2006.

Spadaro A., Nuova poesia degli Stati Uniti, in «La Civiltà Cattolica», II, 3767, 2007, ora in Id., Nelle vene d’America, Jaca Book, Milano 2013. 

L’immagine emergente, recensione a Mosaico

di Irene Battaglini

2 febbraio 2014

recensione a Mosaico, di Andrea Galgano

pdf: L IMMAGINE EMERGENTE – RECENSIONE A “MOSAICO”, 2014

2013-1378 copertina - Copia

Mosaico (Aracne, 2014, p. 600) non nasce dallo spirito di una collezione di tessere giustapposte, ma dall’idea della composizione che da antico reliquiario di idee trascorse – come quelle degli autori che vi si sono interfacciati per grazie della felice e colta penna di Andrea Galgano – si trasforma in una gestalt che è propria della rappresentazione pittorica nella concezione psicologia più avanzata come quella sostenuta dallo stesso Ernst Gombrich in “Arte e Illusione”.

In questa occasione dovrei parlare di Mosaico e di come è composto, dei tanti scrittori e pittori che il critico d’arte – oramai affermato protagonista del proprio destino di letterato – in qualche modo “affronta”, in questa sorta di “corpo a corpo” con la materia letteraria, per dirla con Giovanni Testori.

Tuttavia vorrei invece fare un’operazione completamente diversa per presentare questo saggio così ricco ed importante che abbiamo l’onore di ospitare in questa giovane e prestigiosa collana. Vorrei portare l’attenzione proprio sulla facoltà del Mosaico di produrre un’illusione di immagine lasciando che questa si costelli nell’immaginazione dello spettatore, che per fuggire allo spaesamento della mente, si aggrappa alla sola certezza della percezione che va a definire un tutto più netto e più coeso che prende il nome di figura. Tutto questo è generato da un autoinganno che nell’arte si chiama illusione, e che gli junghiani chiamano Anima. Alla fine della mia riflessione su Mosaico, vorrei arrivare a dimostrare che se l’Illusione è un processo cognitivo a-specifico proprio di Anima, la percezione complessiva che deriva da questa illusione è governata dal più grave archetipo di Estia, dea Vergine dell’architettura, la più alta e la più composita, e di come questa più vasta operazione psichica della definizione dell’immagine nel mosaico attraverso l’accostamento di elementi più piccoli sia in effetti un’operazione propria della congiunzione di due poli opposti dell’archetipo (femminile), nella fattispecie Anima ed Estia, e che è questo il motivo per il quale questo libro prende il nome di Mosaico.

Mosaico non già base e prodotto della pazienza del conservatore di tesserine isolate (che nel sistemarle ha già dentro di sé un’immagine preconcetta: questo sarebbe se il titolo fosse stato scelto prima, se fosse stato studiato due anni prima a tavolino come un volgare edificio di ragionamento, quale il prodotto di un progetto editoriale e commerciale che si consuma con la mera vendita, e per questo sarebbe non già sotto Anima, ma sotto il glaciale saturno vestito da imprenditore dalle belle vesti di Anima dai grandi occhi di acquatici e penetranti, dal disegno preciso), ma Mosaico complessa dimensione percettiva e compositiva all’interno della vasta babele letteraria del mondo, quale creatura per sua natura frammentaria eppure armonica, emblema di una sintassi che volge alla perfezione seduttiva della paratassi degli elementi, che se messi tutti sullo stesso piano divengono qualche altra cosa, una struttura dotata di un comportamento emergente, per dirla con Humberto Maturana, eppure declinata nei volti delle tre Muse, che sono dotate si di pariteticità, ma ciò nonostante sempre capace di una triplice mutevolezza gerarchica, con la precipua competenza di valutare senza conflitto la posizione subalterna di una a favore della necessaria dominanza dell’altra.

Il termine autopoiesi è stato coniato nel 1972 da Humberto Maturana a partire dalla parola greca auto, ovvero se stesso, e poiesis, ovverosia creazione. Un sistema autopoietico è un sistema che ridefinisce continuamente se stesso ed al proprio interno si sostiene e si riproduce. Un sistema autopoietico può quindi essere rappresentato come una rete di processi di creazione, trasformazione e distruzione di componenti che, interagendo fra loro, sostengono e rigenerano in continuazione lo stesso sistema. Inoltre il sistema si autodefinisce, di fatto, ovvero il dominio di esistenza di un sistema autopoietico coincide con il dominio topologico delle sue componenti. Un mosaico è qualche cosa di diverso da un affresco, da un graffito, da un acquerello. Somiglia ad un sogno che si autodetermina con ordine, ed è per questo che distrattamente potrebbe essere considerato razionale ad apollineo. Se l’immagine quindi è netta, non è altrettanto lineare il processo che ascende a questa creazione. È un processo della mente, che ha che fare quasi con la formazione di un fiore, La rosa profunda di Jorge Luis Borges. Lui dice «Vedo la fine e vedo l’inizio, non ciò che sta nel mezzo. Questo mi viene rivelato a poco a poco, quando gli astri o il caso sono propizi. Più di una volta devo tornare indietro e ripercorrere la zona d’ombra. Cerco di intervenire il meno possibile nell’evoluzione dell’opera. Non voglio che snaturino le miei opinioni, di certo insignificanti. […] Uno scrittore, ammise Kipling, può concepire una favola, ma non penetrarne la morale. Deve essere leale con la sua immaginazione, non con le mere circostanze effimere di una supposta “realtà”. La letteratura inizia col verso e può impiegare secoli a ravvisare la possibilità della prosa. Dopo quattrocento anni, gli anglosassoni lasciarono una poesia non di rado mirabile e una prosa appena esplicita. La parola sarebbe stata all’origine un simbolo magico, che l’usura del tempo avrebbe indebolito. La missione del poeta sarebbe restituire alla parola, sia in modo parziale, il suo primitivo o oggi nascosto vigore. Due doveri avrebbe il verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare». In questo inizio a La Rosa Profunda (1975), «una raccolta di trentasei testi poetici densi di fatalismo, di un destino crudo e doloroso, dove anche i sogni diventano incubi. Dove però la poesia emerge quasi come salvezza della memoria, come costruzione migliore del sé, della vita. Del destino anche. Perché la poesia sta al di là del sé, della vita, del destino. È l’opera che non appartiene per eccellenza. Non appartiene al poeta perché dopo che l’ha scritta è altro rispetto al poeta. Non appartiene al lettore perché dopo che questi l’ha letta è altro rispetto al lettore (come necessariamente lo era anche prima della sua lettura). Ma nasce e giunge dal poeta al lettore in maniera inesorabile, altrettanto inesorabilmente siglando la propria profondissima tangenza al poeta e al lettore pur essendo a loro inappartenente. La poesia è perché non appartiene, ma proprio in virtù di questo è ancor più profondamente ciò che è».[1]

E il mosaico con la sua qualità di immagine emergente è anche metafora di una poiesi mediata da processi neurosensoriali altamente specializzati. «Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti. In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; così l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente»[2]. Tuttavia è alla psicologia della gestalt che ci dobbiamo rivolgere, per comprendere la dinamica dell’immagine emergente che è evocata dal mosaico stesso. La psicologia della forma si è occupata della composizione analitica dell’attività di percezione visiva; le percezioni derivano da un feedback sensoriale soggettivo sul modo in cui una certa costellazione di punti crea una forma. La legge dell’organizzazione visiva detta della “chiusura”, per esempio, recita che vi è una «tendenza a vedere un’unica forma definita in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva».[3]

La stretta correlazione tra isomorfismo cerebrale e processi di «raggruppamento dinamico» (Richard Gregory), ci risolleva dalla condizione di incerti viaggiatori nella sfera mitografica, ci offre mappe sofisticate, ma ci allontana dalla prospettiva iniziale, quella della nostra necessità di comprendere.

Il Mosaico di Andrea Galgano è come un mandala letterario, il cui «motivo di base è l’idea di un centro della personalità, di una sorta di punto centrale all’interno dell’anima al quale tutto sia correlato, dal quale tutto sia ordinato e il quale sia al tempo stesso fonte di energia: l’energia del punto centrale si manifesta in una coazione pressoché irresistibile, in un impulso a divenire ciò che si è; così come ogni organismo è costretto ad assumere la forma caratteristica della propria natura. Questo centro non è sentito o pensato come IO, ma – se così si può dire – come Sé» (Jung, Simbolismo del Mandala, Opere vo. IX).

Mosaico quindi come primo elemento della costellazione del Sé di questo autore giovane si, ma abitato da un’antica saggezza, una luce di terra, come direbbe Marìa Zambrano nei suoi scritti sulla pittura intitolati Dire luce (Bur, 2013), che non troviamo né in Argini né in Radici di Fiume né in Frontiera di Pagine. Nelle opere precedenti di Andrea Galgano, pubblicate in pochissimo tempo, non si intravvedono ancora quegli elementi architettonici arcaici e silenziosi che invece costruiscono Mosaico: mosaico non è sponda, non è navigazione. Mosaico è chiaritudine, è costellazione, è appunto architettura vergine propria del dominio di Estia. Scrive T.S. Eliot in Quattro Quartetti, che «la dea possiede la libertà interiore […], tuttavia è circondata da una grazia di senso, una bianca luce immobile eppure mobilissima». Estia è vergine, nel senso che è collegata ad uno stato psicologico di integrità interiore, libera dalla dipendenza emotiva e materiale. Ella è sacralizzata al punto che in antichità nessuna casa potesse considerarsi sacra se non dopo avere ad ella dedicato un fuoco. Primogenita di Crono, è il prerequisito dell’azione illuminante della ricerca interiore, dell’edificazione e della centratura, ricorda un mosaico-mandala, polarizzato ma non monadico, immobile di una bianca luce mobilissima al suo interno, come un vero e proprio sistema autopoietico.

Mosaico è libro da leggersi in silenzio. Nel silenzio della casa illuminata dal fuoco bianco della solitudine, in contatto con il proprio sacro fuoco, alla ricerca di quelle riviviscenze che si trovano sfogliando le pagine, come danzando tra le 600 pagine dell’opera tra i poeti, gli scrittori, i grandi romanzieri italiani e stranieri.

Quel che rende speciale Mosaico è di essere un caposaldo, un fortilizio in cui fare scelte personali ma al sicuro, protetti dalla Dea che da Crono ed Era porta la propria anima in porto anche dopo una lunga e tumultuosa navigazione.

Se quindi la percezione dell’immagine completa che emerge dalle infinite tessere, i 90 articoli che si dipanano tra i Opus Musivum, Xenia e Policromi (le tre sezioni di Mosaico) è inevitabilmente dentro l’illusione dell’archetipo di Anima, alimentata dai nostri desideri, dalle nostre proiezioni, dai nostri bisogni emotivi, dalle sirene di Odisseo che disperatamente cerca la forza per tornare a casa; la pienezza dell’immagine, e la sua sostanza viva che è ricca di caleidoscopiche mutazioni, sono invariabilmente sotto l’egida di Estia, la prima, la vergine, la madre ricca di luce e di ombra nella sua dimensione impersonale e introversa che si aggira nella solitudine di una casa sì ritrovata e sicura, ma qualche volta autoreferenziale. I due versanti dell’archetipo, congiungendosi nel Mosaico, offrono quella prospettiva di cammino di cui l’uomo ha bisogno, e quindi anche il lettore: la ricerca si, ma forte di alcune grandi certezze.


[1] http://alessandrocanzian.wordpress.com/2014/01/31/la-rosa-profunda-jorge-luis-borges/

[2] http://www.stateofmind.it/2014/01/neuroestetica/

[3] ibidem

Abuso sessuale: come e quando

violenza-bambinidi Emanuele Mascolo

22 gennaio 2014

 

 

 

Con questa pubblicazione, voglio parlarvi seppur in breve di come e quando si configura un abuso sessuale, che è un reato perseguibile penalmente.

Nella nozione di abuso sessuale, tra le tante che ci sono, è importante notare come in considerazione dell’abuso rileva non tanto l’atto sessuale intrinseco, quanto la condizione della vittima, spesso un minore, incapace di scegliere se avere o no quel tipo di rapporto e di averlo con quella specifica persona.

L’abuso sessuale è configurabile anche quando la vittima non subisce l’atto, ma viene costretta ad ascoltare discussioni o a visionare video che non abbiano il contenuto adatto alla sua età anagrafica, ciò anche sulla base della recente giurisprudenza. Infatti la Corte di Cassazione, ha ritenuto “ che la nozione di “atti sessuali” di cui all’articolo 609 bis c.p., intende sia la congiunzione carnale che gli atti di libidine.”[1]

Un filone giurisprudenziale ha ritenuto violenza sessuale e dunque abuso, anche quel gesto che comunemente chiamiamo “ toccatina”, poiché “ nella nozione di atti sessuali di cui all’articolo 609bis Cp, si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente (cfr, ex multis, Cassazione, Sezione terza, 11 gennaio 2006, Beraldo; cfr. Sezione terza, 1 dicembre 2000, Gerardi). E’, infatti, pacifico che la condotta vietata dall’articolo 609 bis Cp ricomprende – se connotata da violenza -qualsiasi comportamento (addirittura anche se non esplicato attraverso il contatto fisico diretto con il soggetto passivo) che sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo il bene primario della libertà dell’individuo attraverso il soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’agente. Invero, il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende anche quelle ritenute dalla scienza non solo medica, ma anche psicologica e sociologica, erogene, tali da essere sintomatiche di un istinto sessuale (cfr. Cassazione, Sezione terza, 1 dicembre 2001, Gerardi; cfr, Sezione terza, 66551/98, Di Francia). Pertanto, tra gli atti suscettibili di integrare il delitto in oggetto, va ricompreso anche il mero sfioramento con le labbra sul viso altrui per dare un bacio, allorché l’atto, per la sua rapidità ed insidiosità, sia tale da sovrastare e superare la contraria volontà del soggetto passivo.[2]

Riguardo invece un altro aspetto, quello degli abusi sessuali nei confronti dei minori, di recente la Corte di Cassazione, si è occupata di un caso particolare: abuso sessuale su un minore compiuto da un terzo, di cui la madre del minore era perfettamente a conoscenza.

Un chiarimento è d’obbligo: la giurisprudenza consolidata prende in considerazione la posizione di garanzia di un genitore, che nel pieno dei loro poteri, possono (dovrebbero) impedire la realizzazione di tali condotte sul minore.

Infatti, “ le posizioni di garanzia sono inequivoche espressioni di una particolare solidarietà ed hanno un “innegabile punto di riferimento” nell’art. 2 della Costituzione, norma che nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, esige l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (politica, economica e sociale).Quanto all’altro aspetto, la funzione delle posizioni di garanzia, la Corte riferisce che: la funzione specifica della posizione di garante è rivolta a riequilibrare la situazione di inferiorità, in senso lato, di determinati soggetti, attraverso l’instaurazione di un rapporto di dipendenza a scopo protettivo La funzione è quindi quella di punire il garante che non ha ottemperato i propri doveri giuridici (di attivarsi in funzione impeditivi dell’evento) permettendo il verificarsi di un evento lesivo in capo al garantito: in altre parole, il garante verrà punito anche se esso non è il soggetto che ha materialmente realizzato l’evento lesivo, ma verrà punito per il sol fatto di non averlo impedito, o meglio, sul presupposto che a causa del suo comportamento omissivo il garantito abbia subito un vulnus.”[3]

Tornando ora al caso in cui il genitore del minore è a conoscenza degli abusi, la posizione di garanzia del genitore viene estesa, come stabilisce la Corte di Cassazione nel 2013, che condanna la madre, per “ non aver impedito la violenza sulla figlia avendo l’obbligo giuridico di impedire l’evento.”[4]

 

 



[1] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione VI, 22 luglio 2013, n. 31290.

[2] Suprema Corte di Cassazione Penale Sezione III, 26 marzo 2007, n. 12425

[3]  A. Montagni,, La responsabilità per omissione. Il nesso causale. Fenomenologia causale nella responsabilità penale per omissione, 2002, pag. 84.

[4] Suprema Corte di Cassazione Penale, Sezione III, 28gennaio 2013, n. 4127.

27.3.2014: Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese

CONVEGNO

Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

LocandinaConvegnoInternazionalizzazione
Aspetti Legali e Fiscali dell’Internazionalizzazione delle Imprese – 27.3.2014

locandina in pdf  Convegno 27 03 2014

  • Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
  • Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
  • ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
  • Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

PROGRAMMA

Registrazione: ore 14.30

Inizio lavori: ore 15.00

Saluti Introduttivi: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

interventi

  • I contratti per l’internazionalizzazione delle imprese, Avv. Nemio Passalacqua (ufficio legale Ferrero S.p.A.)
  • I risvolti fiscali dell’impresa all’estero, Dottor Luca Ferrini (Ph.D.; dottore commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio direttivo AGICONSUL)
  • La risoluzione delle controversie e il Third Party Funding, Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL); Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)
  • Africa e Medio-Oriente, Avv. John Shehata (Studio Legale Orrick, Herrington & Sutcliffe)
  • Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione, Dottor Franco Morando (Amministratore Delegato Morando S.p.A.; consigliere Giovani Industriali Torino)

Conclusioni: Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)

Moderatore: Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)

Chiusura lavori: ore 18.45

INFORMAZIONI

Posti limitati
Iscrizione obbligatoria a convegni@agiconsul.org
Il Convegno è stato accreditato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Alba con delibera del 13/03/2014 con l’attribuzione
ai partecipanti di n. 4 crediti formativi.
Il Convegno è stato accreditato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Cuneo.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
Sito: http://www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43
Cell. 380/38.88.280
Con la collaborazione di
Aspetti Legali e Fiscali
dell’Internazionalizzazione delle Imprese
Alba, 27 marzo 2014
Sala Convegni del Palazzo Banca d’Alba (Via Cavour n.4 – Alba)

 

 

_______________________________________________________________

Locandina Convegno Impresa all'Estero-Profili Pratici Legali e Fiscalilocandina in pdf: Locandina Convegno Impresa all’Estero-Profili Pratici Legali e Fiscali

Torino, giovedì 12 dicembre 2013

Moderatore: Avv. Raffaele Battaglini (LL.M.; Segretario Generale AGICONSUL)

Via Davide Bertolotti n. 7 (presso Terrazza Solferino)

L’evento attribuisce crediti nell’ambito dei programmi formativi dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ivrea-Pinerolo-Torino e dell’Ordine degli Avvocati di Torino.

Registrazione: ore 15.45
Inizio lavori: ore 16.00

– Redazione delle clausole inerenti la risoluzione delle controversie
Avv. Giovanni Pera (associato AGICONSUL)
– L’arbitrato online
Avv. Riccardo de Caria (Ph.D; LL.M.; consiglio direttivo AGICONSUL)
– Contenzioso finanziato: Third Party Funding
Avv. Niccolò Landi (LL.M.; Studio Legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners)

Pausa

Ripresa lavori: ore 17.15

– L’internazionalizzazione delle imprese italiane, dall’esportazione all’investimento: i principali modelli
contrattuali e loro applicazione in Cina quale mercato emergente
Dottor Pier-Domenico Peirone e Avv. Lucia Netti (China Consultant S.r.l.)
– Fare impresa all’estero: i risvolti fiscali
Dottor Luca Ferrini (commercialista; professore a contratto Università di Torino; consiglio
direttivo AGICONSUL)
– L’Italia e l’internazionalizzazione delle imprese
Avv. Riccardo Cappello (Presidente AGICONSUL)
– Un’esperienza imprenditoriale d’internazionalizzazione
Ing. Pietro Quaranta (Amministratore Delegato Tubiflex S.p.A.)

Chiusura lavori: ore 19.00 – Dottor Walter Pucci (AZIMUT Wealth Management)

Iscrizione obbligatoria scrivendo a

convegni@agiconsul.org

Numero di posti limitato. Iscrizioni aperte
fino al 9 dicembre 2013.

AGICONSUL – Associazione Giuristi e Consulenti Legali –
Codice Fiscale 96344570583
e-mail: info@agiconsul.org
www.agiconsul.org
Via Davide Bertolotti, 7 – 10121 Torino
Tel. 011/08.66.155
Fax 011/197.198.43

Il FEMMINICIDIO. Excursus storico, giuridico e dottrinale.

FEMMINICIDIOdi Emanuele Mascolo

2 novembre 2013

 I PARTE

Da più parte si sente parlare in quest’ultimo periodo, della legge recentemente varata in Italia, riguardo il femminicidio.

La nuova legge, come si evince dal testo pubblicato in G.U. n. 191/2013, è stato emanato in quanto si è “ritenuto che il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica; considerato, altresì, necessario affiancare con urgenza ai predetti interventi misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che contenga azioni strutturate e condivise, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo per garantire una maggiore e piena tutela alle vittime; ravvisata la necessità di intervenire con ulteriori misure urgenti per alimentare il circuito virtuoso tra sicurezza, legalità e sviluppo a sostegno del tessuto economico-produttivo, nonchè per sostenere adeguati livelli di efficienza del comparto sicurezza e difesa; ravvisata, altresì, la necessià di introdurre disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica a tutela di attivita’ di particolare rilievo strategico, nonchè per garantire soggetti deboli, quali anziani e minori, e in particolare questi ultimi per quanto attiene all’accesso agli strumenti informatici e telematici, in modo che ne possano usufruire in condizione di maggiore sicurezza e senza pregiudizio della loro integrità psico-fisica“.

Ma prima di analizzare il testo, cerchiamo di fare un excursus Giurisprudenziale e Dottrinale sul femminicidio in Italia.

Il termine femminicidio, innanzitutto indica tutti quei casi di omicidio, in cui un uomo, per vari motivi, uccide una donna. Di solito i soggetti sono in relazione affettiva tra loro (moglie/marito o rapporto extra coniugale) e val la pena rimarcare come il femminicidio sia un fenomeno sociale. In quanto  fenomeno di rilevanza globale, infatti, il termine indica, in generale, una violenza fatta ad una donna in quanto tale, ma è altresì vero che non in tutti i casi di donne uccise, si può parlare di femminicidio.

Non è facile risalire alle sue origini in Italia, poichè  a livello istituzionale i dati non vengono raccolti con sistematicità e se è possibile rinvenire qualche dato positivo, il merito è dei centri antiviolenza, costituiti solo dal 2005.

Se consideriamo la Giurisprudenza internazionale, nel 2009 è stato riconosciuto come crimine di Stato dalla Corte Interamericana.

In quello stesso anno, in Italia si muovono alcune riforme al codice penale circa le violenze in genere, ma sulle stesse è intervenuta la Corte Costituzionale con Sentenza n. 265/2010 dichiarandone l’illegittimità costituzionale ex artt. 3, 13, co.1, 27, co.2, della Costituzione, poichè, secondo la Corte,”la disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell’ambito della disciplina codicistica delle misure cautelari personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione – in varie qualità, modalità e tempi – della libertà personale dell’indagato o dell’imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilità. In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi – oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) – anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure – nella loro specie più gravi – ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.

vai alla seconda parte