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Harry Crews: Mentore ed Amico

Traduzione di Emanuele Emma e Chiara Ciccolella

Brown: Harry Crews: Mentore ed Amico

Biografia
Larry Brown (9 luglio 1951 – 24 novembre 2004) è stato un romanziere americano, scrittore di non-fiction e di racconti brevi . Ha vinto numerosi premi, tra cui il Mississippi Institute of Arts and Letters award for fiction, il Lila Wallace-Reader’s Digest Award e il Governor’s Award For Excellence in the Arts del Mississippi. È stato anche il primo a vincere due volte il Southern Book Award for Fiction.Tra le sue opere più importanti ci sono Dirty Work, Fay, Joe, Father and Son e Big Bad Love. Quest’ultimo è stato adattato per un film omonimo nel 2001 , interpretato da Debra Winger e Arliss Howard. Nel 2013 è stata rilasciata una versione cinematografica di Joe, con Nicolas Cage. Il regista indipendente Gary Hawkins, scrittore della sceneggiatura di Joe, ha diretto nel 2002 un documentario pluripremiato sulla vita e il lavoro di Brown intitolato The Rough South of Larry Brown. In italiano è stato tradotto da Mattioli con 92 GIORNI, uno dei suoi racconto più celebri. Il saggio seguente è tratto dalla raccolta Billy Ray’s Farm: Essays from a Place Called Tula ed è dedicato al leggendario Harry Crews, uno degli scrittori più importanti e rappresentativi del gotico sudista del secondo novecento.

Harry Crews: Mentore ed Amico
Leggo Harry Crews da così tanto tempo che non ricordo esattamente quando scoprii per la prima volta il suo lavoro. Fu probabilmente tempo addietro in qualche anno immemore vicino al periodo in cui iniziai a scrivere, ovvero nel 1980. Ricordo che il mio amico e cugino, Paul Hipp, venne a trovarmi un pomeriggio quando mia moglie, i bambini ed io vivevamo a casa con mia suocera. Aveva in mano una copia tascabile de La Fiera dei Serpenti, e me la prestò. Ricordo che ero seduto a leggerla sul dondolo in veranda. I miei figli erano piccoli all’ epoca, Billy Ray aveva tre o quattro anni, Shane era soltanto un infante, LeAnne non era ancora nata. Ricordo come quel libro mi commosse, mi scosse e mi inchiodò. Non avevo mai letto nulla di simile e non sapevo che si potessero fare cose del genere in un libro. Non sapevo che un uomo potesse inventare personaggi come Joe Lon Mackey, o sua sorella, Beeder, o Buddy Matlow, lo sceriffo con la gamba di legno. Era una combinazione di ilarità e cruda realtà e bellezza e tristezza. Dall’epoca l’ho letto diverse volte, e come tutti i grandi libri diventa migliore ad ogni lettura.

Avevo già visto qualche suo saggio in riviste come Playboy ed Esquire, e ad un certo punto andai nella nascente libreria di Richard Howorth ad Oxford e comprai una raccolta di saggi chiamata Florida Frenzy, nella libreria diedi un’occhiata ad un libro chiamato Blood and Grits, e ad un altro intitolato Un’Infanzia. Fui stupito dalla sua scrittura, dalle storie della sua vita, dalla sua infanzia e dalle sue fatiche nel diventare uno scrittore, dai luoghi in cui fosse stato e dalle cose che avesse fatto. I suoi romanzi erano difficili da reperire. La libreria pubblica ne aveva un paio, The Gypsy’s Curse and The Hawk Is Dying. Li lessi entrambi e li amai, ma non riuscii a trovare altra sua fiction. Sapevo che ci fosse da qualche parte, ma nessuno sembrava sapere dove.
Non ricordo quanto tempo impiegai a leggerlo, ma stavo provando a scrivere a quel tempo. Stavo cercando di trovare dei mentori, scrittori i cui lavori potessi ammirare e da cui potessi trarne ispirazione. Volevo leggere il resto di quei titoli, romanzi citati nelle prime pagine degli altri suoi libri, romanzi con titoli come Karate Is a Thing of the Spirit, Naked in Garden Hills, This Thing Don’t Lead to Heaven, Car, The Gospel Singer.

Andai alla ricerca di una biblioteca più grande e la trovai all’ Università del Mississippi. Imparai di nuovo come usare il catalogo della biblioteca, e dopodiché, armato con un pezzo di carta su cui avevo scarabocchiato lettere e numeri, iniziai ad aggirarmi tra le pile di libri. E iniziai a trovare i titoli. La maggior parte dei quali erano là, senza sovracopertina, e li presi in prestito, li portai a casa e li lessi. Car fu pubblicato in edizione tascabile e lo comprai, e
quando The Gospel Singer venne finalmente ripubblicato nel 1988, lo comprai. Quando libri più recenti vennero fuori, come The Knockout Artist e All We Need of Hell e Lucidi Corpi e Scar Lover e The Mulching of America, li comprai. Ho letto o comprato tutto ciò che sono riuscito a procurarmi , e sono grato che uno scrittore come lui cammini su questa terra.
Nel1985 avevo scritto cinque romanzi inediti e quasi un centinaio di racconti brevi che giacevano indesiderati. Vendetti una storia ad Easyriders, una al Fictional International, ed una ad una rivista di New York, ormai scomparsa, chiamata Twilight Zone. Avevo ormai imparato che il prezzo del successo per uno scrittore è alto, che ci fossero anni di una cosa chiamata il periodo di praticantato, e che nessuno ti avrebbe avvisato su quando sarebbe finito. Dovevi soltanto continuare a scrivere con fede cieca, e speranza, e credere in te stesso che con il tempo avresti trovato la tua strada, che il mondo un giorno avrebbe accettato il tuo lavoro.
Ogni qualvolta cadevo in un periodo oscuro di depressione, il che avveniva abbastanza spesso, potevo prendere una raccolta dei saggi di Harry e leggere di nuovo di quel che aveva passato, di come avesse lavorato per anni senza successo. Era confortante in un qualche modo sapere che un uomo del suo calibro non fosse nato con questo talento, ma lo avesse coltivato, e avesse posseduto la perseveranza, la testardaggine, il carattere, o qualsiasi cosa fosse che possedeva per permettergli di non arrendersi di fronte ai rifiuti. Lessi anche di quanto avesse perso: la sua famiglia, uno dei suoi figli. Non si lamentò mai di quanto fosse stato duro. Non disse mai quanto difficile fosse mettere giù le parole. Quel che invece disse fu che dovevi tenere il culo sulla sedia. Anche se non riusciva a scrivere niente un giorno, se niente sarebbe venuto in quella seduta in particolare, si sarebbe lo stesso forzato di sedersi sulla sedia per tre ore. Sapevo che nel tempo in cui era ancora inedito, doveva aver desiderato il successo tanto quanto me . Ed io ero tremendamente rincuorato nel leggere queste cose. Significava che non ero l’unica persona che avesse passato quel che io stessi sopportando, che fosse probabilmente un’ esperienza universale, questo periodo di praticantato, questo tempo in cui scrivevi cose di scarsa qualità solo per buttarle via o per vederle rifiutate in modo tale da scrivere abbastanza da imparare come farlo.
Bruciai uno dei miei romanzi nel giardino dietro casa. Collezionai le mie lettere di rifiuto e le conservai in una logora busta di manila gialla. Continuai a scrivere, e a sperare, e provare a fare di meglio. Facevo turni da ventiquattro ore ai vigili del fuoco di Oxford dieci giorni al mese, e negli altri giorni martellavo chiodi, imbustavo la spesa altrui, pulivo tappeti, facevo qualsiasi cosa fosse necessaria per fare qualche dollaro in più per sfamare la mia famiglia in
crescita, riscaldare la casa e pagare le bollette che tutti abbiamo. Nei fine settimana o per qualche ora di notte andavo in cucina e provavo a scrivere qualcosa che avesse un senso. Continuavo a scrivere storie, ed avevo iniziato un altro romanzo. Quell’anno scrissi una storia su un uomo e una donna seduti nella loro camera da letto a guardare Ray Milland in Nei Giorni Perduti. Fu un punto di svolta per me quella storia. Tutto ciò che avevo scritto e buttato via negli anni passati mi aveva portato a scrivere quel racconto, chiamato Facing the Music. A quel punto avevo trovato altri mentori, altri modelli guida: William Faulkner, Flannery O’Connor, Raymond Carver, Cormac McCarthy, e Charles Bukowski. Insieme a Harry Crews erano gli scrittori che ammiravo di più, e che ammiro tuttora.
Due anni dopo mi fu offerto un contratto per dieci storie, gliele mandai, e il libro fu accettato, e il mio periodo di praticandato era finalmente terminato, dopo sette anni. Quello di Harry ne durò dieci, il che non mi era sfuggito. Quando la mia editrice mi chiese di proporle alcuni scrittori a cui poter inviare bozze per dei trafiletti pubblicitari, io nominai i miei amici del Mississippi Barry Hannah, Ellen Douglas, Jack Butler e Willie Morris. E le chiesi di inviare una bozza anche ad Harry Crews.
Passò un po’ di tempo, le bozze uscirono e cominciarono ad arrivare i trafiletti. La mia editrice me li mandava man mano che arrivavano, ed eravamo soddisfatti di averli. E poi un giorno mi inviò una cartolina postale che le era stata recapitata da Harry Crews, ed anche lui aveva risposto gentilmente e positivamente. Ero grato a lui e ad i miei amici. Ma non pensai mai di provare a scrivergli e ringraziarlo. Presumevo che fosse un uomo impegnato, e non volevo disturbarlo. Lo tenevo in così alta stima , e rispettavo lui e il suo lavoro così tanto, che pensavo sarebbe stato meglio essergli riconoscente a distanza, e non provare ad intrudermi nella sua vita. Continuai a scrivere, così come fece Harry. Continuai a comprare i suoi libri quando uscivano. Pubblicai il mio primo romanzo, e continuai a scrivere storie, e nel 1990 Algonquin pubblicò la mia seconda raccolta. Fu nell’ottobre di quell’ anno che lessi una recensione di Big Bad Love che Harry Crews scrisse sul Los Angeles Times. La recensione era buona ed ero veramente felice di vederla, ma quel che mi sorprese fu ciò che disse sul mio primo romanzo: in venticinque anni di scrittura era la prima volta che avesse preso il telefono e provato a chiamare l’autore. Non era stato in grado di contattarmi, ma decisi che gli avrei scritto, e lo avrei ringraziato per le cose che aveva fatto per me, e avrei provato a raccontargli quanto avessi ammirato il suo lavoro nel corso degli anni e quanto questo avesse significato per me durante i miei sforzi nel diventare uno scrittore. Ottenni il suo indirizzo dalla mia editrice, scrissi la lettera e gliela mandai, qualche tempo dopo, un
sabato pomeriggio in cui stavo lavorando seduto nella mia stanza, il telefono squillò, ed era lui. Penso che parlammo per almeno un’ora e mezza, e dopodiché iniziammo a scriverci per corrispondenza. Parlammo delle nostre vite, dei cani, del bere, delle donne, di ogni cosa. Una volta ogni tanto lo chiamavo e lui faceva lo stesso. Infine, organizzò un reading all’Università della Florida e offrì di ospitarmi per un paio di giorni, ed io accettai prontamente.
Era appoggiato ad una parete quando scesi dall’aereo a Gainesville, indossava un paio di jeans, scarpe da ginnastica, e una felpa con le maniche tagliate degli Oakland Raiders. I lati della testa erano rasati. Appena mi vide, si allontanò dal muro con scioltezza, mi tese la mano e ce la stringemmo. Era più alto di quanto avevo immaginato, davvero un uomo possente. Sulla spalla aveva un tatuaggio di un teschio, e disotto la scritta leggendaria:
How do you like
Your blue-eyed boy
now, Mr. Death?

Mi fece salire sul suo pickup nero ed iniziammo a parlare e non ci fermammo per diversi giorni. Mi portò a casa sua e scaricai la mia valigia e mi sistemò in una stanza in più che aveva. Mi aveva chiamato precedentemente per chiedermi che tipo di birra e whisky mi piacessero e mi aveva preparato una scorta di entrambi. Sedemmo e parlammo nel soggiorno per un po’, e fuori nel giardino sul retro, dove il suo terrazzo si affacciava su un terreno incolto. Il soggiorno era incassato rispetto al resto della casa, incontrai il suo vecchio cane, Heidi, e dopodiché mi portò fuori per mangiare qualcosa. Diedi un reading quella notte e non ricordo cosa lessi, ma il posto era affollato e lui mi presentò. Fu uno dei momenti più belli della mia vita. Più tardi quella notte sedemmo nel soggiorno e leggemmo l’uno all’altro altri brani dai libri ai quali stavamo lavorando. Il giorno dopo andai a lezione con lui, e quella notte diede una festa a casa sua in mio onore. Mi trattò come avrebbe fatto uno zio prediletto e mi disse che se avessi avuto bisogno di qualcosa, dovevo solo chiederlo. Il tempo assieme passò troppo in fretta, ma il solo fatto di aver potuto passare un po’ più di tempo con lui fu un grande regalo che non ho mai dimenticato. Abbiamo continuato a sentirci nel corso degli anni, e so che sta ancora lavorando, che non ha smesso di scrivere e che probabilmente non smetterà mai. Sono lieto di questo.
È importante avere persone da ammirare all’inizio della propria carriera. Devi cercare persone che hanno trovato la propria strada nel dire cose che tu stesso vuoi dire. Non è mai facile e ora credo che diventerà ancora più difficile tanto più si invecchia e più si scrive. Il praticante arriva alla cima lentamente, con molti inciampi ed imprecazioni, percorrendo costantemente strade a senso unico e partendo per tangenti che non portano da nessuna parte. L’incredibile quantità di cose che devono essere scritte e dopo buttate via è probabilmente quel che spaventa molti giovani scrittori. Non credo che lui abbia mai pensato di smettere. So certamente che io l’ho fatto, ma qualcosa mi ha fatto perseverare. Il merito fu in buona parte di Harry Crews. Sapere dei suoi duri primi anni mi fece capire che fosse possibile riuscire nel mio intento, e mi aprì gli occhi su quel che fosse richiesto. All’inizio pensavo che avrei scritto e spedito un romanzo via posta a New York, e che mi avrebbero risposto con un assegno da un milione di dollari, e mi ci vollero un paio di anni per scoprire che non funziona in questo modo. Ogni tanto capita un colpo di fortuna, ma chi inizia a scrivere letteratura si ritrova già con una bella gatta da pelare. Per sua stessa natura, la letteratura è la cosa più difficile da scrivere, perché gli standard sono molto alti, e a volte le ricompense sono misere. Probabilmente è quasi impossibile guadagnarsi da vivere solamente da questa, ammenoché’ tu non sia fortunato. Molti degli scrittori letterari che conosco insegnano da qualche parte e scrivono i loro libri tra una lezione e il lavoro sulle storie degli studenti. Harry lo fece per un lungo tempo, e lo feci io stesso, anche se non ho un’ istruzione avanzata e a malapena sono uscito dalla scuola superiore.
Tempo fa sentii che fosse andato finalmente in pensione, ma non avevo parlato con lui da un pezzo. L’ultima volta che lo vidi fu qualche anno fa, quando venne ad Oxford per leggere in libreria dal suo ultimo libro, The Mulching of America. Il mio amico Mark ed io lo guardammo scendere dall’aereo a Memphis, e lo aspettammo quando raggiunse la cima delle scale. Mi avvolse in un abbraccio da orso , mi sorrise e si strinse le mani con Mark dicendogli quanto gli fosse piaciuto il suo libro, e poi lo accompagnammo ad Oxford nel vecchio Caddy di Mark. Quella sera mi ubriacai un po’, e me ne pentii, ma mi disse in seguito in una lettera di dimenticarmi di quanto accaduto, che facesse parte del mestiere. Sapevo fosse sincero, e smisi di preoccuparmene. Ero soltanto onorato di poter passare ancora un po’ di tempo con lui.
Una volta, quando ero a Washington, D.C., per le prove di un adattamento teatrale di uno dei miei romanzi, avemmo una brutta giornata. Niente andava per il verso giusto, e le frasi erano sbagliate e tutti continuavano a scordare le proprie battute, tanto che il regista mandò tutti a casa in anticipo. La notte d’esordio non era così lontana, ed io scesi in una strada innevata verso un
negozio di liquori e presi una bottiglia di Wild Turkey, tornai nella mia camera d’hotel con il desiderio di sotterrarmici dentro. Un po’ più tardi recuperai il numero di Harry dalla mia valigetta e provai a chiamarlo, ma trovai la segreteria telefonica, quindi potei solo lasciargli un messaggio. Volevo dirgli quanto tutto stesse andando a rotoli, e chiedergli cosa dovessi fare. Non mi richiamò quella notte ma lo fece il mattino seguente, pieno di buon umore e di rassicurazioni. Mi raccontò delle prove del suo spettacolo a Louisville, e di come qualche volta le cose andassero terribilmente, ma come il tutto si risolse la notte prima del debutto, e mi fece sapere che la stessa cosa sarebbe successa a noi. E aveva ragione. Aggiustammo tutte le battute e gli attori diedero il meglio di sé, e lo spettacolo si congegnò come i pezzi di una scatola ad incastro finemente lavorata. Sapeva di cosa stesse parlando.
Se non avessi scritto alcun libro, non avrei mai conosciuto Harry Crews, né potrei considerarlo un amico. In un’attività che consiste nello stare da solo per la maggior parte del tempo, e lavorare con incertezza e talvolta con paura verso un risultato dubbio, le ricompense possono essere poche e rare, e proprio questo può fare indurre un uomo a dubitare della propria sanità mentale. Ma altri scrittori capiscono quello che stai facendo e quel che è necessario per farlo. E nulla importa se non il libro finito. Non importa quanta sofferenza ti costa. Non puoi lamentarti e piagnucolare, lo devi soltanto fare. Credo che probabilmente sia la lezione più preziosa che abbia imparato da Harry: fai il lavoro migliore che tu possa fare, a qualunque costo, qualsiasi sia il prezzo da pagare.

#Nuova Poesia Americana 4

di Andrea Galgano 27 febbraio 2023

Nel quarto volume di Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, gli autori «recitano le loro poesie in modo intimo, con delicatezza, come se gli avessimo poggiato la testa in grembo. Altre volte declamano urlando, come qualcuno che ci parli in un locale affollato[2]».

 

Michael Collier (1953), Poeta Laureato del Maryland, autore di diverse raccolte poetiche e fellowship presso la Guggenheim Foundation e il National Endowment for the Arts, concentra la densità creaturale dello sguardo umano. L’assurdo e il dettaglio, l’inquietudine straordinaria che penetra l’ordinarietà del quotidiano. È come se venisse scompaginata la monotonia dell’esistenza da gesti, dettagli, presenze animali, dal chihuaua Bum Bum, alla capra su una catasta di legname di scarto, dove gli occhi «sono bisecati da un orizzonte di luce gialla», all’albero alla finestra, spogliato e vivido, fino agli eventi minimi, come un tacchino caracollante o alla dolce gentilezza di un controllore di un treno Bucarest-Mosca, che unisce il percorso della storia a uno sguardo che si impara.

La sua poesia innesta una descrizione percettiva, che oscilla nei contrasti lirici e nelle assenze, nelle tragedie e nelle cifre di gioia, nell’amore domato e nella inquietudine selvaggia del tempo: «Ma adesso che il sole se n’è andato, il crepuscolo blu dell’estate / tinto di timo e d’argento sotto le foglie di ulivo / placido nei solchi scavati, che rabbuia i frammenti bianchi / di calcare riesumati dall’aratura, l’apicoltore nei suoi paramenti / spreme il mantice dell’affumicatore, soffia una sottile corrente azzurra / in una fessura, sgancia il piano superiore, come il coperchio / di una scatola, e ne diffonde altro».

Carolyn Forchè (1950), poetessa di pregio e attivista per i diritti umani, originaria di Detroit, Michigan, docente alla Georgetown University, oggi dirige il Lannan Center for Poetry and Social Practice, ispessisce il forte sapore quasi giornalistico, come scrive John Freeman, alle sue opere.

Vi è il potere lirico della scena, come la bellezza screziata e violenta de Il guardiano del faro:

«Notte senza navi. Corni da nebbia risuonano nel muro di nube, e tu / ancora vivo, attratto dalla luce come fosse fiamma curata da monaci, / buio una volta incrostato di stelle, ma ora buio-morte mentre veleggi verso terra. / Attraverso ginestre e relitti, attraverso erica e lana lacera / hai corso, tirandomi per mano, perché lo potessi vedere una volta nella vita: / l’arcolaio, l’arcolaio di luce, il suo roteare, luce in cerca di chi si è perso, / lì già dall’era del fuoco, delle candele, delle cave lampade a olio, / olio di balena e lucignolo, colza e lardo, cherosene e carburo, / i fuochi-segnale accesi su questa costa pericolosa nella torre di Hook».

La tragedia delle traversate, l’esilio esile, il ricordo invisibile dell’ultimo ponte, le città in assedio, le guerre e le isole sono le sue poesie perdute: compassione vigile e traiettoria umana, lucentezza oltre-fine che supera morte e dolore, attraverso la tensione dell’avvento di ciò che viene.

Ted Kooser (1939), premio Pulitzer nel 2005 per Delights & Shadows e Poeta Laureato nel 2004, originario di Ames, Iowa, ricorda e intaglia la sperdutezza dell’infanzia trascorsa sulle pianure dell’Iowa, che ospitavano registri di sogni, meraviglia e stupore, laddove il ricordo e la bellezza dell’estate slacciata, la perdita, ciò che trapela dalle fessure del tempo, come la concimatrice nei campi, ritornano al respiro della polvere e del mais.

Sembrano raccontare il mondo, il quadro e la vertigine della vita, la linea-madre e la finestra aperta di un mattino d’inverno e, nel silenzio immobile, solo il sussurro del bollitore e «contro il gelo stellato un piccolo anello azzurro di fiamma».

John Freeman scrive: «Kooser è poeta dalle immense capacità pittoriche, ma non le usa per sovrastare il lettore. Anzi, lo invita ad afferrare l’effimero, ad ammettere, in altre parole, i limiti dell’essere umano, ad apprezzare ciò che può essere osservato[3]».

Ada Limón (1976), Poeta Laureata degli Stati Uniti, rappresenta l’urgenza di contatto con il mondo[4], il suo respiro e il suo limite assieme, attraverso lo stretto rapporto di natura e poesia. La libertà, come il rimando, selvaggio e puro, alla bellezza dei cavalli, apre all’amore infinito, alla gioia implume, e, infine, alla grazia sopravvissuta delle creature che compongono il suo dolce assedio alla vita, la sua crepa trafitta e il suo cuore in fiamme: «io sono un essere umano, basta sono solo e disperato, / basta animale che mi salva, basta aria e il sollievo che dà, / io ti chiedo di toccarmi».

Gary Snyder (1930), nato a San Francisco e Professore Emerito presso l’Università della California-Davis, sulla linea epica e vertiginosa della beat generation, pone la sua asciuttezza al mondo come atto devoto alla quotidianità, al suo mistero, alla grazia cromatica ed elementare. È una esplosione di luce e prospettiva che attraverso patchwork espressivi insegue i luoghi, i dettagli e le piccole trame che cercano di non scomparire. Il mondo che si porge è in tutto il suo orizzonte.

Paul Tran, partendo dal recupero del mito Icaro, nel quadro di Pieter Bruegel, come afferma John Freeman, «celebra la rigenerazione, facendo attenzione a non edulcorare la sofferenza. Nelle sue poesie l’adattamento non è mai separato dalla sua fonte, dalla sua motivazione. Nel linguaggio preciso e potente di Tran il pesce bioluminescente, o perfino Icaro, con le sue raffazzonate ali, sono esseri viventi che si adattano all’ambiente circostante» (p.21).

Tale rinascita, dunque, è un respiro che si solleva, in cui gli esiti della possibilità, del dolore, del sacrificio dell’essere tornano sulla pagina come valico e tenebra, lacerazione e bellezza.

[1] (a cura di) Freeman J.-Abeni D., Nuova poesia americana, IV, Black Coffee, Mombaroccio (PU) 2022.

[2] Freeman J., Introduzione, cit., p.16.

[3] Id., cit., 19.

[4] Bruna M., Ada Limón. Vedo nei cavalli la mia libertà, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 4 dicembre 2022.

BONNIE JO CAMPBELL MY SISTER IS IN PAIN – IL DOLORE DI MIA SORELLA

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

Introduzione

Bonnie Jo Campbell è cresciuta in una piccola fattoria del Michigan con la madre e quattro fratelli. Ha studiato filosofia all’Università di Chicago prima di viaggiare da sola attraverso il Canada e gli Stati Uniti e poi anche in Russia e nei Paesi baltici.

Per le sue opere precedenti è stata finalista del National Book Award e ha vinto numerosi premi, tra cui l’AWP Award for Short Fiction, il Pushcart Prize e l’Eudora Welty Prize.

Vive a Kalamazoo nel Michigan dove insegna alla Pacific University.

Il suo romanzo “C’era una volta un fiume” è stato pubblicato da Neri Pozza nel 2012.

Il racconto che segue è tratto dalla raccolta “Mothers, Tell Your Daughters”.

Il Dolore di Mia Sorella

Dolore insopportabile quando si alza al mattino per andare a lavoro, dolore quando va a letto la sera; quando dorme, dorme nel dolore e si sveglia di nuovo nel dolore e si veste con pantaloni elastici in vita e maglioni vivaci, riscalda pasti precotti, sostituisce il burro con la margarina, lo zucchero con il sucralosio e fuma sofferente sigarette sulla veranda, mentre gli scoiattoli si arrampicano sugli alberi come idioti e le macchine senza marmitte vomitano fumo e disturbano questo vicinato di buche e finestre rotte, dove i bambini rubano di tutto pur di comprare metanfetamina.

I suoi dottori scrollano le spalle nei loro camici, la mandano da specialisti a cui cadono le braccia.

Dolore come aerei col frastuono dei loro motori che volano scombussolando il cielo. Dolore come piatti nel lavello – non solo i suoi, ma anche quelli di sconosciuti che sono stati lasciati lì per giorni, nell’acqua fredda e grigia.

Lei è la figlia di nostra madre, ma non sappiamo chi sia o cosa possa significare il suo dolore, le cicale del suo dolore nelle sere d’estate, le scosse nella spina dorsale come luccichio di lucciole infuocate, dolore che si irradia dall’intestino come scosse di anguille elettriche.

Dolore lancinante sessanta ore a settimana mentre lava, cura e nutre e si protende al dolore degli altri per uno stipendio misero, dolore palpitante persino quando ha un giorno di riposo.

E’ nata più bella di tutti noi e piangeva più forte nella culla, piangeva nel letto e fuori nei boschi – non disse mai cosa le fecero quei ragazzi vicino al torrente. Immagina un lungo corridoio con centinaia di stanze tutte chiuse contro il dolore; cammina lungo il corridoio e il suo dolore non diminuisce.

Che lei si fermi e bussi a qualsiasi porta o meno, che qualcuno la inviti o no per bere qualcosa, che quella persona sia io o meno, il suo dolore non diminuisce.

Raramente la chiamiamo, siamo educati a natale, la abbracciamo timidamente, ci complimentiamo per i suoi maglioni, le sue perle, le sue fasce per i capelli. Annuiamo quando parla delle sue scarpe speciali, delle sue fasce Copper Wear come quelle viste in TV. I regali che ci porta son ben incartati. Sciogliamo i fiocchi terrorizzati.

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

JOYCE CAROL OATES AMERICAN MELANCHOLY POEMS: SINKHOLES TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE HOMETOWN WAITING FOR YOU OLD AMERICA HAS COME HOME TO DIE THAT OTHER

A cura  di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

 

 

 

Introduzione

Joyce Carol Oates è una scrittrice, poetessa, drammaturga e accademica statunitense.

Autrice e intellettuale americana eclettica, tra le più prolifiche della letteratura americana, ha pubblicato il primo libro nel 1963.

Da allora, ha frequentato ogni genere letterario in prosa e in versi: romanzi, racconti, narrativa per l’infanzia, poesie, drammaturgie, saggi.

Nell’arco di sessant’anni ha pubblicato oltre cento libri, alcuni dei quali, per la maggior parte romanzi del mistero, pubblicati sotto lo pseudonimo di Rosamond Smith e Lauren Kelly.

Ha vinto numerosi premi letterari, incluso il National Book Award, due O. Henry Award, la National Humanities Medal e il Jerusalem Prize nel 2019; è stata inoltre finalista del Premio Pulitzer sia per i romanzi Acqua nera (1992), What I Lived For (1994) e Blonde (2000), che per le raccolte di racconti The Wheel of Love (1970) e Lovely, Dark, Deep: Stories (2014).

Oates ha insegnato alla Princeton University dal 1978 al 2014 ed è Roger S. Berlind ’52 Professor Emerita in the Humanities col corso di Scrittura Creativa.

Insegna “Short Fiction” alla University of California di Berkeley ed è membro del consiglio di amministrazione della John Simon Guggenheim Memorial Foundation.

Con American Melancholy mette in mostra alcuni dei suoi migliori lavori degli ultimi decenni.

Coprendo soggetti grandi e piccoli, questa collezione tocca sia il personale che il politico.

Vengono indagate la perdita, l’amore e la memoria, insieme agli sconvolgimenti della nostra epoca moderna, le devastazioni della povertà, del razzismo e dei disordini sociali.

 

 

 Sinkholes

 

take you where

you don’t want to go.

 

Where you’d been

and had passed smilingly through,

and were alive. Then.

 

Le Voragini

 

ti portano dove

non vuoi andare.

 

Dove sei stato

e dove sei passato sorridendo

ed eri vivo. Allora.

 

 

Too Young to Marry but Not Too Young to Die

 

Drowned together in his car in Lake Chippewa.

It was a bright cold starry night on Lake Chippewa.

Lake Chippewa was a “living” lake then,

though soon afterward it would choke and die.

 

In the bright cold morning after we could spy

them only through a patch of ice brushed clear of snow.

Scarcely three feet below,

they were oblivious of us.

 

Together beneath the ice in each other’s arms.

Jean-Marie’s head rested on Troy’s shoulder.

Their hair had floated up and was frozen.

Their eyes were open in the perfect lucidity of death.

 

Calmly they sat upright. Not a breath!

It was 1967, there were no seat belts

to keep them apart. Beautiful

as mannequins in Slater Brothers’ window.

Faces flawless, not a blemish.

Yet—you could believe

they might be breath-

ing, for some trick

of scintillate light revealed

tiny bubbles in the ice,

and a motion like a smile

in Jean-Marie’s perfect face.

 

How far Troy’d driven the car onto Lake Chippewa

before the ice creaked, and cracked, and opened

like the parting of giant jaws—at least fifty feet!

This was a feat like his 7-foot-3.8-inch high jump.

 

In the briny snow you could see the car tracks

along the shore where in summer sand

we’d sprawl and soak up sun

in defiance of skin carcinomas to come. And you could see

how deftly he’d turned the wheel onto the ice

at just the right place.

And on the ice you could see

how he’d made the tires spin and grab

and Jean-Marie clutching his hand Oh oh oh!

 

The sinking would be silent, and slow.

 

Eastern edge of Lake Chippewa, shallower

than most of the lake but deep enough at twelve feet

to suck down Mr. Dupuy’s Chevy

so all that was visible from shore

was the gaping ice wound.

And then in the starry night

a drop to -5 degrees Fahrenheit

and ice freezing over the sunken car.

Who would have guessed it, of Lake Chippewa!

 

Now in the morning through the swept ice

there’s a shocking intimacy just below.

With our mittens we brush away powder snow.

With our boots we kick away ice chunks.

Lie flat and stare through the ice

Seeing Jean-Marie Schuter and Troy Dupuy

as we’d never seen them in life.

Our breaths steam in Sunday-morning light.

 

It will be something we must live with—

the couple do not care about our astonishment.

Perfect in love, and needing no one to applaud

as they’d been oblivious of our applause

at the Herkimer Junior High prom where they were

crowned Queen and King three years before.

(In Herkimer County, New York, you grew up fast.

The body matured, the brain lagged behind,

like the slowest runner on the track team

we’d applaud with affection mistaken for teen mockery.)

 

No one wanted to summon help just yet.

It was a dreamy silence above ice as below.

And the ice a shifting hue—silvery, ghost-gray, pale

blue—as the sky shifts overhead

like a frowning parent. What!

Lake Chippewa was where some of us went ice-fishing

with our grandfathers. Sometimes, we skated.

Summers there were speedboats, canoes. There’d been

drownings in Lake Chippewa we’d heard

but no one of ours.

 

Police, fire-truck, ambulance sirens would rend the air.

Strangers would shout at one another.

We’d be ordered back—off the ice of Lake Chippewa

that shone with beauty and onto the littered shore.

By harsh daylight made to see

Mr. Dupuy’s 1963 Chevy

hooked like a great doomed fish.

All that privacy yanked upward pitiless

and streaming icy rivulets!

We knew it was wrong to disturb the frozen lovers

and make of them mere bodies.

 

Sweet-lethal embrace of Lake Chippewa

But no embrace can survive thawing.

 

One of us, Gordy Garrison, would write a song,

“Too Young to Marry But Not Too Young to Die”

(echo of Bill Monroe’s “I Traced Her Little Footprints

in the Snow”), which he’d sing with his band the Raiders,

accompanying himself on the Little Martin guitar

he’d bought from his cousin Art Garrison

when Art enlisted in the U.S. Navy and for a while

it was all you’d hear at Herkimer High, where the Raiders

played for Friday-night dances in the gym, but then

we graduated and things changed and nothing more

came of Gordy’s song or of the Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

was the headline in the Herkimer Packet.

We scissored out the front-page article, kept it for decades in a

bedroom drawer.

(No one ever moves in Herkimer except

those who move away, and never come back.)

The clipping is yellowed, deeply creased,

and beginning to tear. When some of us stare

at the photos our hearts cease beating—oh, just a beat!

 

It was something we’d learned to live with—

there’d been no boy desperate to die with any of us.

We’d have accepted, probably—yes.

Deep breath, shuttered eyes—yes, Troy.

Secret kept yellowed and creased in the drawer,

though if you ask, laughingly we’d deny it.

 

We see Gordy sometimes, and his wife, June. Our grand-

children are friends. Hum Gordy’s old song

to make Gordy blush a fierce apricot hue

but it seems cruel, we’re all on blood

thinners now.

 

Troppo Giovani per Sposarsi Ma Non Troppo per Morire

 

Annegarono insieme nella sua auto nel lago Chippewa.

Avvenne in una notte stellata, fredda e luminosa.

Il lago Chippewa era un lago “in vita” all’epoca

anche se poco dopo soffocò e morì.

 

Nella fulgida e fredda mattinata seguente, dopo esser riusciti a spiarli

solo attraverso una lastra di ghiaccio ripulita dalla neve.

Un metro poco più sotto,

non si erano accorti di noi.

 

Insieme sotto il ghiaccio l’uno tra le braccia dell’altro.

La testa di Jean Marie appoggiata sulla spalla di Troy.

I capelli erano riemersi in superficie e si erano ghiacciati.

Gli occhi erano aperti nella perfetta lucidità della morte.

 

Seduti beatamente. Neanche un respiro!

Era il 1967 e non c’erano cinture di sicurezza

a separarli. Belli

come manichini nella vetrina dei fratelli Slater.

Volti illesi, neanche un graffio.

Potevi credere

che stessero respiran-

do, dal momento che, qualche scintillante

riflesso della luce rivelava

bollicine nel ghiaccio,

e l’accenno di un sorriso

sul volto perfetto di Jean-Marie.

 

Fino a che punto Troy aveva guidato la macchina sul lago Chippewa

prima che il ghiaccio scricchiolasse, cedesse, e si aprisse

come giganti mascelle – almeno di quindici metri!

Un risultato come il salto in alto di Troy, 2 metri e 96 centimetri.

 

Nella neve salmastra erano visibili le tracce della macchina

sulla sabbia della spiaggia in cui d’estate

ci stravaccavamo e prendevamo il sole

sfidando il tumore della pelle a colpirci. E si poteva vedere

con quanta destrezza avesse girato il volante sul ghiaccio

proprio al punto giusto.

Si poteva notare

come avesse fatto girare e aderire le gomme alla superficie ghiacciata

e avesse fatto afferrare a Jean Marie la sua mano Oh oh oh!

 

L’inabissamento fu lento, e silenzioso.

 

La sponda est del lago Chippewa, meno profonda

di gran parte del lago, ma profonda abbastanza (3 metri)

da risucchiare la Chevy del Signor Dupuy,

rese visibile dalla spiaggia soltanto

la voragine nel ghiaccio.

E poi nella notte stellata

una caduta di 5 gradi Fahrenheit

e il ghiaccio si riformò sulla macchina sommersa.

Chi l’avrebbe mai detto del lago Chippewa!

 

Ora, di mattina, sotto al ghiaccio ripulito

c’è un’intimità scioccante.

Con i guanti portiamo via cumuli di neve farinosa.

Con gli stivali calciamo pezzi di ghiaccio.

Increduli lo fissiamo

Vedendo Jean-Marie Schuter e Troy Dupuy

come non li avevamo mai visti in vita.

La condensa dei nostri respiri nella luce di una domenica mattina.

 

Sarà qualcosa con cui dobbiamo convivere –

alla coppia non importa del nostro sconcerto.

Perdutamente innamorati, senza alcun bisogno di applausi

essendo stati ignari dei nostri applausi

al ballo della Herkimer Junior High dove

tre anni prima furono nominati re e reginetta.

(Nella Contea di Herkimer, New York, siete cresciuti in fretta.

Il corpo è maturato, il cervello è rimasto indietro

come il più lento maratoneta della squadra

applaudivamo con affetto scambiato per derisione adolescenziale.)

 

Nessuno voleva ancora chiamare i soccorsi.

C’era un silenzio sognante sopra il ghiaccio così come sotto.

E cambiava tonalità – argento, grigio-fantasma, blu

pallido – come il cielo cambia sopra di noi

quanto un genitore arrabbiato. Come!?

Il lago Chippewa era il luogo in cui alcuni di noi andavano a pescare

con i loro nonni. A volte, andavamo a pattinare.

In estate c’erano motoscafi, canoe. C’erano stati

annegamenti nel lago Chippewa di cui avevamo sentito

ma nessuno dei nostri.

 

Polizia, camion dei pompieri, sirene d’ambulanza squarciavano l’aria.

Sconosciuti si urlavano contro.

Ci era stato ordinato di allontanarsi dal ghiaccio del lago

che irradiava bellezza e di dirigerci verso la spiaggia affollata.

Dalla crudele luce diurna sorta per vedere

la Chevy del 1963 del signor Dupuy

agganciata all’amo come un grande pesce predestinato.

Tutta quella privacy tirò fuori fiumiciattoli di ghiaccio

che scorrevano senza pietà!

Sapevamo che fosse sbagliato disturbare gli

amanti congelati e renderli meri corpi.

 

La morsa dolce e letale del lago Chippewa

Ma nessuna morsa sopravvive al disgelo.

 

Uno di noi, Gordy Garrison, avrebbe scritto una canzone.

“Too Young to Marry but Not Too Young to Die”

(riecheggi di “I Saw Her Little Footprints

in the Snow” di Bill Monroe), che cantava con la sua band “The Raiders”,

accompagnandosi alla chitarra Little Martin

che aveva comprato da suo cugino Art Garrison

quando Art si era arruolato nella marina americana e per un po’

era l’unica cosa in auge alla Herkimer High, i Raiders

suonavano ai balli del venerdì sera in palestra, ma poi

ci diplomammo e le cose cambiarono e nient’altro

uscì fuori dalla canzone di Gordy o dai Raiders.

 

“TOO YOUNG TO MARRY BUT NOT TOO YOUNG TO DIE”

fu la prima pagina dell’Herkimer Packet.

Ritagliammo l’articolo e lo conservammo per decenni in un

comò.

(Nessuno si iscrive alla Herkimer eccetto

coloro che poi si trasferiscono e non tornano più.)

Il ritaglio è ingiallito, terribilmente sgualcito,

e sta iniziando a lacerarsi. Quando alcuni di noi guardano

le foto i nostri cuori cessano di battere – oh, solo un battito!

 

 

Fu una cosa con cui imparammo a vivere –

non ci fu nessun ragazzo fremente di morire tra di noi.

Avremmo accettato, probabilmente – .

Respiro profondo, occhi sbarrati – , Troy.

Un segreto mantenuto stropicciato e ingiallito nel comò

però, se doveste chiedercelo, ridendo negheremmo.

 

A volte vediamo Gordy, e sua moglie, June. I nostri nipo-

ti sono amici. Canticchiamo la sua vecchia canzone

per farlo arrossire

ma sembra crudele, siamo tutti sotto anti

coagulanti ora.

 

Hometown Waiting For You

 

All these decades we’ve been waiting here for you. Welcome!

You do look lonely.

No one knows you the way we know you.

And you know us.

 

Did you actually (once) tell yourself—I am better than this?

One day actually (once) tell yourself—I deserve better than this?

 

Fact is,you couldn’t escape us.

And we have been waiting for you. Welcome home!

Boasting how a scholarship bore you away

like a chariot of the gods except

where you are born, your soul remains.

 

We all die young here.

Not one of us outlived young here.

Check out obituaries

in the Lockport Union Sun & Journal.

Car crash,

overdose.

Gunshot, fire.

Cancers of breast,

ovaries, lung,

colon. Heart

attack, cirrhosis

of liver.

Assault, battery.

Stroke! And—

did I say over-

dose? Car

crash?

 

Filling up the cemeteries here.

Plastic trash here.

Unbiodegradable Styrofoam here.

Three-quarters of your seventh-

grade class now

in urns, ash and what remains

in red MAGA hats.

 

 

 

Those flashy cars

you’d have given your soul

to ride in,

just once, now

eyeless

rusting hulks

in tall grass.

Those eyes you’d

wished might crawl

upon you like ants,

in graveyards

of broken glass.

 

Atwater Park where

you’d wept

in obscure shame

and now whatever

his name who’d trampled

your heart, he’s

ash.

 

Proud as hell

of you though

(we admit)

never read a

goddamn word

you’ve written.

 

We never forgave you. We hate winners.

 

Still, it’s not too late.

Did I say overdose?

Why otherwise are you here?

 

Ti Abbiamo Aspettato

 

Ti abbiamo aspettato per tutti questi decenni. Benvenuto!

Sembri davvero solo.

Nessuno ti conosce come ti conosciamo noi.

E tu ci conosci.

 

Ti sei davvero (una volta) detto – Valgo più di questo?

Un giorno (una volta) ti sei davvero detto – Merito più di questo?

 

Il fatto è: non potevi sfuggirci.

E ti abbiamo aspettato. Benvenuto a casa!

Fregiandoti di come una borsa di studio ti abbia portato via

come un carro degli dèi, senonché

dove nasci, la tua anima permane.

 

Moriamo tutti giovani qua.

Qui nessuno è riuscito ad invecchiare.

Controlla i necrologi

nel Lockport Union Sun & Journal.

Incidenti d’auto,

overdose.

Sparatorie, fuoco.

Tumori al seno,

ovaie, polmone,

colon. Crisi

cardiaca, cirrosi

epatica.

Aggressione, percosse.

Infarto! E –

ho detto over-

dose? Incidenti

d’auto?

 

Si riempiono i cimiteri qua.

Buste di plastica,
polistirolo non biodegradabile qui.

Tre quarti della tua classe

di seconda media è adesso

nelle urne, cenere e quel che rimane

nei cappelli rossi MAGA. *

 

Quelle auto pacchiane

per cui avresti dato l’anima

pur di salirci su,

almeno una volta, ora

senz’occhi

carcasse arrugginite

nell’erba alta.

Quegli occhi che volevi

brulicassero su di te come formiche,

nei cimiteri

di vetri rotti.

 

Il giardinetto Atwater dove

piangevi

colmo di vergogna nascosta

e adesso qualunque sia

il nome di chi abbia fatto sobbalzare

il tuo cuore, è

cenere.

 

Orgogliosissimi

di te però

(ammettiamo)

non abbiamo mai letto

una fottuta parola

di ciò che hai scritto.

 

Non ti abbiamo mai perdonato. Odiamo i vincenti.

 

Tuttavia, non è troppo tardi.

Ho detto overdose?

Altrimenti per quale altro motivo sei qua?

 

 

 *Acronimo di “Make America Great Again”, slogan della campagna elettorale di Trump del 2016.

Old America Has Come Home to Die

 

Old America has come home to die.

From Oklahoma oil fields where the sun

beat his head and brains boiling in a stew

of old memories. Penance for my sins

I never owned up to.

 

From Juneau, Alaska, where he’d fished

coho salmon on the Mary Flynn.

From Black Fly, Ontario,

where he’d been a hobo farmhand,

and from New Jericho, Manitoba,

where he’d mined gypsum sand,

Old America has come home to die.

Bad memories like shreds of tobacco on the tongue,

you can’t spit off.

 

From Big Sky, Montana, where

he’d been a cowboy. From

Western Pacific, Sandusky,

and Santa Fe Railway, from the Gulf

Islands and Skagit River, Washington,

where he’d worked construction,

Old America has come home to die.

Bosses treat you like shit on their shoe

they can scrape off any time.

And they do.

 

From the Great Lakes, where

he’d worked freighters

in minus-

zero

weather, lost

half his damn fingers and toes

to frostbite. From the mines

at Crater Falls, Idaho,

where his lungs turned the hue

of anthracite. And from Moab,

Utah, where he’d been incarcerated

seven years for a rob-

bery he hadn’t done,

Old America has come home to die.

Romantic life of a “hobo”

lasts until your legs go.

 

Old America freckled with melanomas,

straggly hair to his shoulders

like the boy-General Custer,

and fester-

ing sores

on his back, sides, and belly

has come home to die

where no one remembers him —

“Uncle Eli?”

who’d sent postcards

from the West long faded

in Granma’s photo album

as out of a void

in an era before Polaroid

Old America has come home to die.

Old America with a blind left eye.

Old America with a stump

of his gangrenous left leg, amp-

utated at the knee.

How bad I treated my family

who loved me.

Come home to say I am sorry and I love you.

 

Great-Granma’s youngest sister’s

son Eli who’d left the farm in 1931

to work on the Erie Canal, but no —

disappeared somewhere west

beyond Pocatello, Idaho. We’d guessed

you’d died in the Yukon, or in

the Eagle Mine in Utah. Capsized

in the Bering Strait, or vaporized

at the Fearing Nevada Test Site

or murdered by railroad cops

and flung into the Mississippi —

poor Uncle Eli!

Sins I have committed these many

years, I regret. Wash my soul

clean before I die.

Trying to explain why he’d left home except —

Where is Marta? Please

let me see Marta — his brother’s wife

he was in love with, and Marta told him

she was pregnant, and he abandoned

her to her violent husband like a coward.

Years I never thought of Marta, or Ma —

any of you. Now, that’s all I think about.

Forgive me how bad I behaved

when I was young . . .

 

Old America, we are not cruel

people, but the fact is mostly we’ve

forgotten you. And Great-Aunt Marta

too—died in 1961. And her oldest

son Ethan, who’d be the one

you’d want to see, is gone, too —

somewhere south of the 38th parallel,

Korea.

Where are my brothers—Frank, Joseph, Frederic?

My sisters—Margaret, Elizabeth?

My cousin Leah?—so many cousins . . .

Old America, frantic to repent,

has brought us presents —

flute carved out of a walrus tusk, Inuit

doll and soapstone skulls, beaded belts and

miniature pelts and something that causes Maya to scream,

Oh God—is that an Indian scalp?

 

Old America has come home to die

this first week of December

in time for Maya to videotape

an interview with Great-Uncle Eli

for her American Studies seminar at Wesleyan —

Life of an Oldtime “Hobo.”

Her classmates will be impressed —

Old America is like awesome, fantastic —

and her professor will grade an A —

Tragic, vividly rendered & iconic.

 

La Vecchia America è Tornata A Casa a Morire

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire.

Dai giacimenti di petrolio dell’Oklahoma dove il sole

gli spaccava la testa e il cervello bolliva in un minestrone

di vecchi ricordi. Penitenza per i miei peccati

che non ho mai confessato.

 

Da Juneau, Alaska, dove aveva pescato

salmone argentato sulla Mary Flynn.

Da Black Fly, Ontario,

dove era stato un bracciante hobo*,

e da New Jericho, Manitoba,

dove aveva estratto gesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

Brutti ricordi come filamenti di tabacco sulla lingua,

che non puoi sputare.

 

Da Big Sky, Montana, dove

era stato un cowboy. Dalle

tratte ferroviarie della Western Pacific, Sandusky,

sino a quelle di Santa Fe, dalle Isole

del Golfo e il fiume Skagit, Washington,

dove aveva lavorato nei cantieri,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

I padroni ti trattano come merda sotto le loro suole

che possono raschiar via quando vogliono.

E lo fanno.

 

Dai Grandi Laghi, dove

aveva lavorato sulle navi cargo

sotto

zero

aveva perso

metà delle sue dannate dita delle mani e dei piedi

per congelamento. Dalle miniere

di Crater Falls, Idaho

dove i suoi polmoni erano diventati color

antracite. E da Moab,

Utah, dove era stato detenuto

sette anni per una ra-

pina che non aveva commesso,

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La vita romantica di un “hobo”

dura fintantoché le gambe non cedono.

 

La Vecchia America macchiata di melanomi,

capelli in disordine sulle spalle

come quelli del Generale Custer, e

piaghe
infette

sulla schiena, fianchi e pancia

è venuta a morire

dove nessuno si ricorda di lui –

“Zio Eli?”

che aveva inviato cartoline

dall’ovest sbiadite dal tempo

conservate nell’album di foto della nonna

come uscite dal nulla

in un’era prima della Polaroid

la Vecchia America è tornata a casa a morire.

La Vecchia America con un occhio sinistro cieco.

La Vecchia America con la sua protesi

alla gamba sinistra incancrenita, am-

putata al ginocchio.

Quanto ho trattato male la mia famiglia

che mi amava.

Torno a casa per dire che mi dispiace e che vi amo.

 

Il figlio della sorella più piccola della bisnonna,

Eli, che aveva lasciato la fattoria nel 1931

per lavorare al Canale Erie, ma no –

scomparve da qualche parte nell’ovest

oltre Pocatello, Idaho. Ci eravamo immaginati

che fossi morto nello Yukon, o

nelle miniere di Eagle nello Utah. Annegato

nello Stretto di Bering, o vaporizzato

nello Spaventoso Nevada Test Site*

o assassinato dai poliziotti ferroviari

e scaraventato nel Mississippi –

povero Zio Eli!

Dei peccati che ho commesso in tutti questi

anni, me ne dolgo. Purifico la mia anima

prima di morire.

Cerco di spiegare perché

avesse lasciato casa, solo che –

Dov’è Marta? Vi prego

fatemi vedere Marta – la moglie di suo fratello

di cui era innamorato. Marta gli disse

che era incinta e lui come un codardo

la abbandonò al suo violento marito.

Anni in cui non ho mai pensato a Marta, o a mol-

ti di voi. Adesso, è l’unica cosa a cui penso.

Perdonate quanto mi sia comportato male

da giovane…

 

Vecchia America, non siamo gente

crudele, ma il fatto perlopiù è che

ti abbiamo dimenticata. E anche la prozia Marta

morì nel 1961. E il suo figlio più grande

Ethan, quello che

ti farebbe piacere vedere, è morto anche lui –

da qualche parte nel 38esimo parallelo sud,

Corea.

Dove sono i miei fratelli – Frank, Joseph, Frederic?

Le mie sorelle – Margaret, Elizabeth?

Mia cugina Leah? – così tanti cugini…

Vecchia America, convulsa nel ravvedersi,

ci ha portato dei regali –

zufolo di zanna di tricheco, bambola

eschimese e teschi di pietra ollare, cinture di perle e

tappeti di pelliccia animale e qualcosa che fa urlare Maya,

Oh dio – è la testa di un indiano?

 

La Vecchia America è tornata a casa a morire

questa prima settimana di dicembre

giusto in tempo per fare in modo che Maya registri

un’intervista con il prozio Eli

per il suo seminario in American Studies a Wesleyan –

La vita di un “Hobo” di altri tempi.

I suoi compagni di classe saranno impressionati –

La Vecchia America è un qualcosa di stupendo, fantastico –

e il suo professore le darà una A –

Tragica, vividamente rappresentata e iconica.

 

 

 *Un hobo è un vagabondo che adotta in maniera tendenzialmente volontaria uno stile di vita senzatetto improntato alla semplicità, al viaggio, all’avventura, alla ricerca interiore, alla marginalità, svolgendo  talvolta lavori occasionali.

*Sito, istituito l’11 gennaio 1951 per test sulle armi nucleari

That other

 

They laughed, but no. You

don’t remember that.

 

What you think you remember—

it wasn’t that.

 

Yes—you remember

some things. And

some things did

happen. Except not

that way.

 

And anyway, not

to you.

 

Quell’altro

 

Ridevano, ma no. Tu

non lo ricordi.

 

Ciò che pensi di ricordare –

non corrisponde al reale.

 

Sì – ricordi

alcune cose. E

alcune cose sono davvero

successe. Però non

in quel modo.

 

E in ogni caso, non

a te.

 

Traduzione di Emanuele Emma ed Emanuela Falco.

La sorgente della Nuova poesia americana

di Andrea Galgano  8 dicembre 2020

leggi in pdf 181.NUOVA POESIA AMERICANA VOL.2

Il secondo volume della Nuova poesia americana[1], edito da Black Coffee, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, restituisce l’abbandono, il giaciglio solitario del tempo, la forza del mistero, il grido roco e lucente del contatto e del desiderio e, come afferma Alberto Fraccacreta:

«un corpo solido, un’efflorescenza timbrica così chiara e stentorea che la si può riconoscere immediatamente anche da pochi grafemi, simboli, figure retoriche […], anafore, ripetizioni tratte dal blues e dalla tradizione folk, mistura di linguaggio alto e locuzioni non soltanto pop ma persino punk, tono colloquiale, tendenza a far prevalere frasi gnomiche e a effetto per colpire il lettore, scardinamento metrico, utilizzo di slang giovanile che riflette una visione cinica e disillusa del mondo, risemantizzazione di espressioni idiomatiche e volgarismi».[2]

Efflorescenza, scardinamento e risemantizzazione, dunque, che plasmano l’io in modo minuzioso e isolato, per così dire, come afferma John Freeman nell’introduzione, ma che riesce a strappare e consegnare la creativa giacenza del desiderio, della rabbia e del dolore attraverso la rapidità dell’epifania, l’affilamento contratto della lingua, e l’orlo dei paesaggi con la loro brutalità lucente.

Partendo da Kim Addonizio, originaria di Washington D.C. ma che vive a San Francisco, la cadenza del battito sanguigno, l’estremità del corpo («Quando lo trovo, staccherò quell’indumento / dall’omino come stessi scegliendo un corpo / che mi porti in questo mondo, attraverso / le grida del parto e anche le grida dell’amore, / e lo indosserò come fosse ossa, come pelle, / e sarà lo stramaledetto vestito / in cui mi seppelliranno»), lanciato come limite, il cuore della carne è un incastro di memoria e dolore stupefatto (come la forte Generazioni, che unisce immigrazione oblio), fino alla tensione di istinto e desiderio, femminilità strappata e umbratile, durezza sofferta, blues violento, instabile e redento e, infine, amore che si squaderna, fino alla mappa stropicciata degli inferi («Per te mi spoglio fino alla guaina dei nervi. / Tolgo i gioielli e li appoggio al comodino. / Sgancio le costole, stendo i polmoni su una sedia. / Mi sciolgo come un farmaco nell’acqua, nel vino. / Sgoccio senza macchiare, me ne vado senza smuovere l’aria. / Lo faccio per amore. Per amore, io scompaio»):

«Mi piace toccare i tuoi tatuaggi nella più assoluta / oscurità, quando non posso vederli. So per / certo dove stanno, so a memoria la minuta linea del lampo che pulsa appena sopra / il capezzolo, so trovare, come d’istinto, le spire / azzurre d’acqua sulla tua pelle dove un serpente / s’attorce, affronta un drago. Quando ti tiro / a me, prendendoti fino a quando non resta niente / di noi silenziosi sui lenzuoli, adoro baciare / le figure nella tua pelle. Dureranno finché non verrai bruciato a cenere; qualsiasi cosa potrà durare / o mutarsi in dolore tra noi, loro saranno in te / ancora. Il pensiero di tale permanenza è spaventoso. / Così li tocco al buio; ma li tocco, ci provo».

Le correnti di Garrett Hongo, poeta delle Hawaii, sono un’ondulata e vibrata solitudine che ingloba il destino, il senso del tempo e dello spazio come un blues a bocca chiusa (si pensi a La leggenda), la storia e i suoi crogioli, il territorio dell’infanzia e delle figure care, le carte espatriate e l’esilio («La terra di lava fiammeggia di primule e bacche di rovo, / fuochi fragranti di rosa e azzurro / che sfrecciano nell’intrico del sottobosco. / Io sono fuori che do da mangiare ai polli, / spargendo rimasugli di semi e bucce di melone / sulle pietre sbeccate e il legno marcio del sentiero nella foresta»), il suo mosaico di cadmio e rimpianto, come splendore e rovina: «In California, a nord del Golden Gate, / il rampicante cresce quasi dappertutto, / erompe nei pascoli, / dall’ombra degli eucalipti / lungo la strada / sommergendo stamberghe fantasma e steccati in rovina / che si sbriciolano nel marciume / imbevuti dalle piogge recenti».

È un solco di paradiso perduto, l’istante cesellato dal nutrimento della terra, dove l’elegia solitaria vive di voci di soglie e di cielo, dell’immagine di Neruda, in un nome di lode e di litania, di polpe bagnate e felicità di aria tropicale.

Il grido rivelatorio di Lawrence Joseph, nato a Detroit ma ora a New York dove insegna legge alla St. John’s University School of Law, è una fusione dei dettagli e degli affreschi della temperie operaia e genesi libanese e americana. Queste luci rifratte di New York rappresenta la potenza dell’evento, la decifrazione delle cose sui taccuini e la ruvidezza delle distanze trasfigurate: «Prima dell’alba, di nuovo sulla strada, / sotto un cielo che mi inonda di ghiaccio, fumo e metallo. / Non voglio pensare / che il proiettile mi ha perforato la spalla, / che i denti marci del tossico / hanno sorriso, i capelli gialli gli si sono gelati. / […] Non sono io che urlo contro nessuno / a Cadillac Square: è Dio / che ruggisce dentro di me, con la paura / di essere solo».

La californiana Kay Ryan, cresciuta nella valle di San Joaquin e nel Mojiave, premio Pulitzer e National Humanities Medal, esplora il ritmo combinatorio delle rime interne, attraverso la morbida e scarna nudità di una infinita creaturalità, dalla teatrale bellezza dei fenicotteri, alla lieve pazienza della tartaruga, ai corvi sghembi, fino alla catarsi della rugiada e delle sue perline e alle oasi-miraggio.

È una epifania nascosta, il germoglio e lo scrutinio delle cose («Debolezza e dubbio / sono simbionti / celebri in tutti / gli ordini fungini»), gli orli del tempo e le nuove stanze: «La mente deve / riadattarsi / ovunque va / e sarebbe / comodissimo / imporre le sue / vecchie stanze – basterebbe / picchettarle / come una tenda / interiore. Oh, ma / i nuovi fori / non stanno dove / prima c’erano le finestre».

Aracelis Girmay, di Sant’Ana in California, che ora vive a New York e insegna all’Hampshire College, vincitrice del Whiting Award per la Poesia, consegna il dono vivido dell’intimità come purezza e dialogo, scheggia dolorosa di storia (si pensi a coloro che attraversarono il mare dal Nord Africa all’Europa, molti eritrei come i suoi avi), agone di vita che pulsa («Cantiamo così, per giorni & giorni, / allineate in file & file & file, rivolte al mare»), la vita e il dolore come in The Black Maria e il tocco, come conoscenza ultima e percettiva. Il suo ritmo è un soggiorno di grazia e purezza:

«Che fare con la consapevolezza / che il nostro vivere non è garantito? / Forse un giorno toccherai il giocane ramo / di qualcosa di splendido. & crescerà & crescerà / nonostante i tuoi compleanni & il certificato di morte, / & un giorno darà ombra alle teste di qualcosa di splendido / o renderà se stesso utile al nido. Esci / da casa tua, dunque, credendoci. / Niente altro importa. / Ovunque sopra di noi è il toccarsi / di estranei & parrocchetti. / alcuni tra loro umani, / alcuni tra loro non umani. / Dammi retta. Ti dico / una cosa vera. Questo è l’unico regno. / Il regno del toccare; / i tocchi del disapparire, delle cose che scompaiono».

Chiude l’antologia Kevin Young, originario di Lincoln, Nebraska, ma che vive in New Jersey, Chancellor of the Academy of American Poets, canta la danza estatica della realtà, come avviene in Lettere dalla Stella Polare: «Cara, le luci qui non chiedono / niente, il bianco cade / attorno alle mie lettere muto, / inarrestabile. Ti scrivo / dalla pancia vuota del sonno / dove niente tranne il freddo / si chiede dove vai; / nessuno qui scuoia teste aspre / e da poco come limoni, e solo / l’auto canta AM tutta / notte. In città / ho visto bimbi mezzo- / morsi dal vento. Perfino i treni / arrivano senza un’anima / che li accolga; le cose qui / non hanno bisogno di me, questo mondo / balla da solo».

Il blues racconta di volti e fantasmi, come quelli di Langston Hughes o Lucille Clifton, l’evenienza dell’evento, le serenate delle stelle lacere e del fulgore in frantumi e la cara oscurità: «Essere scomparsi, presi, / è quello che vuol dire paradiso – // È pieno di – ali – // Musica di ciò / che manca».

Aa.Vv., Nuova poesia americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020, pp. 192, Euro 13.

Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

[1] Aa.Vv., Nuova Poesia Americana. vol.2, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, Edizioni Black Coffee, Firenze 2020.

[2] Fraccacreta A., D’avanguardia e feconda: la poesia americana oggi, in “Avvenire”, 8 dicembre 2020.

Margine di fuoco di John Smolens

di Emanuele Emma  21 novembre 2020

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Il margine di fuoco è un punto di non ritorno cruciale e definitivo.

Voluttuoso nella sua tragica essenza anestetica e antiestetico come una cicatrice inferta da un intervento chirurgico.

Un incendio circoscritto nella piccola comunità di Whitefish Harbor.

Vite comuni e senza troppe pretese sullo sfondo del Lago Superiore, uno dei laghi più importanti del Nord America e il più grande d’acqua dolce per superfice nel mondo.

È in questa piccola arcadia dimenticata da Dio in inverno e popolata dai turisti in estate che i disgraziati destini di Hannah LeClaire, Martin Reed, Pearly Blankenship, Sean e suo padre Frank Colby si scontrano in una serie di vorticosi eventi.

Margine di fuoco racconta la storia dell’estate in cui Hannah e Martin tentano di ricostruire la loro vita. Si incontrano per caso, si innamorano, e decidono di restaurare una vecchia casa sul lago. Le cose si complicano quando Sean Colby ritorna in città dopo essere stato congedato dal servizio militare. Hannah è la sua ex fidanzata e la tensione cresce giorno dopo giorno. Scritto in una prosa ricca e piena di grazia, questo romanzo carico di suspense è allo stesso tempo un’emozionante storia d’amore, vendetta e rinascita, a cui fa da sfondo la bellezza incontaminata di uno dei grandi mari interni d’America, il lago superiore.”

La diciannovenne Hannah, imperscrutabile, solida e resiliente con alle spalle una gravidanza indesiderata aggravata in un assegno per finanziare l’intervento dell’aborto è determinata a voltare le spalle al tragico evento che ha condannato e limitato la sua esistenza in un puntino sulla mappa del Michigan.

Hannah convive con un dolore abnorme per la sua età, che le ha provocato malessere, frustrazione, allontanamento e rimorso.

Fare i conti con il proprio passato vuol dire affrontare ancora una volta la natura possessiva ed inarrendevole, connaturata in una disprezzante ed eloquente voglia di vendetta, del suo ex fidanzato Sean Colby.

“Hanna si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse deciso di avere il bambino, ora sarebbe riuscita a evitare tutto quel dolore? Forse, era un castigo.

Forse, dipendeva tutto da un senso di colpa che non riusciva a nascondere, a dispetto del nome che davi al colore, a dispetto del numero di mani di vernice che applicavi.

Fu allora che capì che aveva paura, che la tensione nervosa che la attanagliava – le tremavano leggermente le mani- era causata da una paura che lei non aveva mai conosciuto prima, e in quell’ istante capì anche questo: era una paura che andava nascosta.”

 

La penna meticolosa e dal ritmo superbo di Smolens ci conduce nell’incubo amorevole di una famiglia americana disfunzionale della seconda metà degli anni novanta.

Sean Colby, padre perduto e soldato disonorevole, congedato prematuramente dall’esercito dopo gli scandali avvenuti al bar “Mare Adriatico” ad Ancona.

Frank Colby, poliziotto del paese stimato e ben voluto, figura in cui si incarnano gli sbrigativi ideali di giusto e giustizia assieme ad una controversa, e allo stesso tempo profondamente radicata, idea di potere ed esercizio delle leggi.

La signora Colby è un flat character, una madre in crisi con sé stessa e col marito, perennemente ubriaca ed incallita fumatrice di sigarette al mentolo.

Il ritorno di Sean a Whitefish Harbor è un grande e doloroso fallimento, da un lato deve ancora somatizzare quanto successo in Italia, dall’altro non riesce ad accettare la nuova relazione amorosa di Hannah con Martin.

Martin Reed, più grande di Hannah di dieci anni, guida una Mercedes in un posto in cui una tale macchina è soltanto una stranezza, una cosa fuori posto dal fascino vago o addirittura anonimo.

Un ragazzo per bene che, assieme a suo cugino Pearly, sta ristrutturando la casa malridotta ricevuta in eredità da una zia alla ricerca di una vita serena e lontana dalla grande città da cui proviene.

Martin Reed, vittima di Sean e straniero.

Pearly Blankenship è una figura letteraria originale e sicuramente la più simpatica e divertente dell’intero romanzo.

Yooper, carpentiere, esistenzialista, ubriacone, punto di riferimento e coscienza centrale del luogo in cui vive, assiduo frequentatore della biblioteca pubblica e quasi amico di Frank Colby.

Questo personaggio genuino e stravagante sarà oggetto di un delizioso processo in tribunale, che di per sé potrebbe benissimo rientrare in un’antologia.

 

“Sapeva cosa pensava la gente di lui e, per essere cortesi, non gliene fregava niente.

Era un tipo solitario, ma dopotutto, essere lasciato in pace era sempre stato il privilegio di uno Yooper.

Se non avesse vissuto nella casa della sua povera madre, avrebbe incontrato qualche difficoltà a tenere un tetto sulla testa.

I suoi impieghi erano per lo più stagionali: per lunghi periodi, nel corso dei mesi invernali, a metà pomeriggio lo trovavi all’Hiawhata Diner o, più facilmente, al Portage, uno dei bar lungo Ottawa Street.

Se c’era un problema, qualcosa che implicasse l’intervento della polizia, il primo nome che ti veniva in mente era quello di Pearly.

Eppure alcuni, soprattutto i più vecchi, sapevano che frequentava la biblioteca pubblica.

E, per essere onesti, ci sapeva fare con i lavori di falegnameria edile.

Se riparava un tetto, non c’erano più infiltrazioni; se montava una porta, non si bloccava.

La sua filosofia, se ne aveva una, era che le cose in questo mondo dovrebbero essere a piombo, in pari e a squadro, ma non lo sono quasi mai.

L’universalità della provincia americana insegna che il giudizio altrui è un catalizzatore per gli eventi futuri e non può fare a meno di esistere.

Non importa quanto tu sia disposto a cambiare o quanto tu sia già cambiato, verrai sempre ricordato e marchiato a fuoco per quello che ti è successo o hai fatto in passato.

È l’abietta logica binaria del bene e del male a dominare il microcosmo della provincia. Margine di fuoco sfugge dalla categorizzazione di genere, non è soltanto un classico romanzo di suspense, è una mescolanza di elementi e situazioni che si intersecano insieme, dalla storia d’amore alla tragedia familiare, sino ad arrivare alla conclusione del romanzo che è una lezione di letteratura in piena regola. C’è sempre una seconda volta per tutti, nonostante tutto.

John Smolens insegna alla Northern Michigan University dal 1996.

Ha pubblicato nove romanzi e una raccolta di racconti, è stato nominato per il premio Pulitzer e il National Book Award e il Detroit Free Press ha selezionato Margine di fuoco come miglior libro dell’anno.

Margine di Fuoco è un libro pubblicato da Mattioli1885.

“L’idea della vernice fresca, l’idea di rendere pulita e onesta quella casa e quella vita ora sembrava assurda.

Ci sarebbe sempre stata la paura.

Ci sarebbe sempre stato il dubbio.

Ci sarebbe sempre stato il rimpianto.

Hannah si chiese: se non fosse andata fino in fondo, se l’anno prima avesse tenuto il bambino, ora sarebbe riuscita ad evitare tutto quel dolore?

 

 

 

 

 

 

 

 

Julie di Don Robertson

di Emanuele Emma  14 ottobre 2020

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È la voce di un’affidabile bugiarda a guidarci, attraverso una successione cronologica di eventi, nell’intimità di trentasei anni di storia americana, tra catastrofi e rivoluzioni culturali epocali.

Da una domenica pomeriggio di novembre 1938, fredda e leggermente bianca, passando per il paradisiaco 1949, in cui Julie si fidanzò con un ragazzino dal vocabolario frizzante e colorito chiamato Morris Bird III, sino ad arrivare al freddo letto di una clinica sanitaria nel 1974.

“Ciao. Mi chiamo Julie, e come nome, beh, non ha niente che non vada, capite?

Eppure, suona in qualche modo timido, incerto, e perciò preferirei mi avessero chiamata… uhmm…

Julia, se proprio devo essere sincera. O anche … addirittura … signorina Julia.

E il fatto che io confessi una cosa tanto imbarazzante mi rende forse alquanto arrogante o seriosa, o sostenuta? Beh, nel caso, me ne scuso.

Non credo di essere arrogante o seriosa, niente affatto.

E’ solo che sono sempre un po’ con la testa fra le nuvole, e insomma non è un difetto che ci possa morire qualcuno, giusto? Non potete condannarmi a morte per questo.

E, sapete, a pensarci bene, non mi dispiacerebbe essere, almeno un po’ arrogante e sostenuta.

Se lo fossi stata, mi sarei risparmiata parecchi imbarazzi e dispiaceri.

E non c’è niente di sbagliato nel volersi risparmiare imbarazzi e dispiaceri, dico bene?

Senza parlare poi del dolore. Oh, ma non credo che al Padre eterno freghi tanto di cosa mi piaccia o non mi piaccia, se ne infischia delle mie preferenze ed è sempre stato così.

La verità è che, credo, ho avuto la mia buona dose di caro, vecchio, maledetto dolore nella vita, e anche di più.

Il mio primissimo ricordo ha a che fare, guarda caso, col dolore, e ricordo tutto quanto fin troppo bene.”

 

Il riverbero del passato luccica nel diario di Julie, oscillando tra il senso di colpa e il sentimento nostalgico di cui la prosa è intarsiata.

Il solenne scrutinio del tempo si rivela essere la capacità appresa di comprendere ed umanizzare situazioni e personaggi che hanno costituito ed alimentato la difficile e timida vita di Julie.

«Io amo più di quanto mi ricordi davvero di aver amato»

Il tono dei ricordi è mutevole, cupo e sincero nel ricostruire i rapporti con la madre e la sua famiglia d’origine, innocuo e all’apparenza inconsistente quando gli eventi del mondo esterno si intersecano nel finto presente di Julie, dolce e nostalgico nei confronti del suo primo e vero amore.

«Guardai i giocatori di baseball, il fitto traffico di East Boulevard, un laghetto con le anatre, un campo da tennis, vecchi che giacevano su panchine verdi cadenti e scheggiate, altre persone anziane che camminavano con i loro grossi e anziani cani, e spiai e ascoltai tutte quelle cose che parevano permanenti ed eterne, e mi dissi che, d’accordo, potevo aspettare; avevo la giovinezza dalla mia parte.

Morris e io avevamo solo quattordici anni, dopotutto era solo soltanto il brillante e perfetto 1949, e il tempo, il dolore, e i pensieri ansiosi non avrebbero mai potuto danneggiare quella brava ragazza quattordicenne e il buon vecchio 1949, non finche’ fossi stata abbastanza tranquilla da vedere e assaporare quei giorni per la loro rapida dolcezza senza fiato».

Julie ripercorre la propria esistenza scavando nei recessi di quelle piccole e incontrovertibili ferite quotidiane che si trasformano man mano in bugie per sopravvivere.

Bugie e rapporti umani ostacolati, oppure basati su vicissitudini personali, costituiscono il portamento del sordo dolore della protagonista, rivelando l’umanità e la fragilità delle false promesse di vita e della sofferenza.

A braccetto col passare degli anni tutte queste menzogne si rivelano per quello che sono, ingannevoli appigli di fede che distruggono la forza di credere in sé stessi.

Julie è la perla postuma del grandioso Don Robertson, romanzo scritto negli ultimi anni della sua vita e mai pubblicato da nessuna casa editrice.

Questo libro breve e ricco di significati e bellezza, ha potuto prendere vita grazie allo straordinario e meticoloso lavoro di Nicola Manupelli, scrittore, traduttore e importatore di capolavori americani.

Nella commovente postfazione intitolata “Don, il ritrovamento di Julie e un ragazzino di diciotto anni”, possiamo rinvenire preziose informazioni sull’autore e sulla sua vita.

È una postfazione molto interessante, ci permette di capire chi è stato questo gigante della letteratura dimenticato dall’editoria occidentale e poco chiacchierato sul web, possiamo toccare con mano la sua incontrastabile determinazione nello scrivere, nonostante il diabete gli avesse fatto perdere le gambe, un cancro ai polmoni e due attacchi di cuore.

«Più mi addentravo nell’opera di Don, più mi rendevo conto dell’ampiezza, della magnificenza, dell’umanità dello scrittore e del grande progetto che stava dietro a tutto quanto: un affresco della storia americana attraverso gli uomini e le vite comuni.

Un affresco che conteneva varie gradazioni di umore, dall’ironico al tragico, dal dissacrante al sacro, dal massimale al minimale.

E’ stata usata spesso l’espressione Grande Romanzo Americano per tanti scrittori, e ormai è quasi svilente utilizzarla, e non dirò che l’opera di Don lo sia.

Ma il fatto è che adesso, ogni volta che sento parlare di Grande Romanzo Americano, beh… non posso fare a meno di pensare a Don».

 

 

 

Questa America di Holly Goddard Jones

di Emanuele Emma 3 ottobre 2020

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Sette racconti tragici e melanconici dal ventre molle del sud compongono l’antologia “Questa America” di Holly Goddard Jones.

Un ritratto fedele sull’universalità della provincia americana ed il suo riecheggiante senso di perdita.

Sette racconti taglienti ed irrisolti che prendono vita dai paesaggi perduti dell’infanzia e della giovinezza, ispirati a fatti parzialmente reali, scritti con il nobile intento di restituire dignità letteraria a soggetti e situazioni che spesso rimangono nel silenzio.

E’ la ferocia dei sentimenti che permea la prosa pulita e scarna della Jones, rivelandoci di volta in volta la fugacità della felicità e del candore.

Holly Goddard Jones è nata a Russellville, Kentucky, nel 2008 ha esordito come scrittrice di storie brevi nell’antologia “The Best American Mistery Story” al fianco di Alice Munro e Joyce Carol Oates.

L’acclamata raccolta di racconti “Questa America” è stata pubblicata da Fazi editore nel 2011, nel 2015 è stato pubblicato il suo primo romanzo intitolato “La prossima volta”.

Attualmente è insegnante di scrittura creativa presso l’università del North Carolina.

“L’ America proletaria, quella in cui la vita scorre tra un supermercato, una giornata in fabbrica e una cena al Pizza Hut, ma solo il venerdì sera perché dal lunedì al giovedì non è proprio il caso. Siamo nel Kentucky, dove c’è una città che si chiama Roma ed è così piccola che quel nome le calza come un cappello troppo ampio. Ma anche qui le ragazze rimangono incinte e non ne capiscono bene la ragione; anche qui i padri abbandonano il tetto familiare mentre i figli muovono i primi passi, ma in realtà in casa non ci sono stati mai perché la loro vita da sempre scorre altrove, su autostrade protese verso un sogno che non arriverà a realizzarsi: non alla guida di un furgone, non nelle mille notti perse dentro un pensiero fisso che si avvita e non torna.”

E’ il racconto “Brava ragazza” ad aprire l’antologia.

Jacob è un padre vedovo alle prese con un rapporto complicato con il suo unico figlio.

Tommy è accusato di aver violentato una ragazza di quindici anni, suo padre si troverà a fare una scelta difficile ed incisiva.

“Aspettative di vita” è la storia di Teo Burke, allenatore di basket sposato e con una figlia con gravi problemi di salute, che intrattiene una relazione con una sua alunna che man mano sfocerà in qualcosa di più grande per entrambi.

“Parti” è il doloroso racconto narrato in prima persona dalla madre di Felicia, ragazza stuprata ed uccisa in un campus universitario.

“Ci sono sere in cui tutte le mie certezze, le cose su cui in teoria dovrei poter contare, come la forza di gravità, l’ossigeno e il sorgere del sole, perdono ogni potere su di me.

So chi ha ucciso Felicia.

Ho incrociato il suo sguardo una mezza dozzina di volte in tribunale, e ho capito, semplicemente, ho avvertito il senso di colpa emanare da lui, rovente come una febbre, e posarmisi addosso, nauseante, umidiccio e velenoso.

Questo lo so.

Ma certe sere è Art che vorrei vedere distrutto, spezzato.

Vorrei che stesse male almeno quanto me adesso, che conoscesse la solitudine: la solitudine di una donna, quella che si prova ad essere senza figli e senza un uomo, senza nient’altro a definirti o a motivarti.”

Si prosegue con “Il mito della caverna”, giudicato come il vero fiore all’occhiello di tutta la raccolta.

Il titolo di per sé è evocativo, un rimando alla filosofia platonica.

Il giovanissimo Ben è impegnato in una lotta contro la cecità proprio quando sta per entrare nell’ età adulta attraverso l’aiuto del padre.

“Senza occhiali il mondo era una macchina confusa di luci, ombre e colori, come il panorama al di là di un vetro spruzzato di pioggia.”

In “Un uomo Onesto” viene raccontata una particolare amicizia, un amore impossibile ed una vita ostacolata da una gravidanza indesiderata.

L’incipit del racconto è fulminante, perfetto.

In “Retrospettiva” viene raccontata la tragica storia di Libby, segnata da una grave violenza e da un aborto, delusa dalle bugie dell’ex marito e dalle aspettative di vita matrimoniale mancate.

“Ma Libby voleva ricordare anche quello che molto probabilmente era stato il giorno più perfetto della sua vita, quando voleva così poco, e quel poco che voleva, una casa e dei figli, le gioie quotidiane del matrimonio, le era sembrato non solo probabile, ma garantito.

Aveva bisogno di ricordare quel sentimento, anche se nel farlo si sentiva stringere la gola e provava un dolore al petto.

Non era possibile ricreare quel senso di fiducia, quell’ingenuità.

Quando la si perdeva, scompariva per sempre.”

L’ultimo e fatidico racconto è “La prova dell’esistenza di Dio”

La storia dello stupro di Felicia viene narrata in terza persona, si ricostruisce la genesi della violenza attraverso la storia personale di Simon, omosessuale latente e succube del padre imprenditore, e Marty, i due ragazzi coinvolti nell’avvenimento, portando il lettore ad una unica e deprimente conclusione.

“Sapeva che suo padre lo amava, a modo suo: un amore egoistico e limitato.

Un amore che chiedeva più di quanto fosse in grado di dare in cambio.

E anche sua madre lo amava, ma era una donna debole, inetta, e perciò anche il suo amore era debole e inetto.”

In “Questa America” il Kentucky è il sostrato dei sentimenti inquietanti e dei desideri proibiti, una terra che si configura quasi anonima nella sua precaria ordinarietà, rivelando la fragile bellezza e l’individualità degli esseri umani che la abitano attraverso le loro tragiche e disperate esistenze

Se è vero che l’uso della lingua è tutto ciò che possiamo opporre alla morte e al silenzio, allora Holly Goddard Jones è la prova del nove!

 

 

La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum

di Emanuele Emma 18 settembre 2020

leggi in pdf La ragazza della porta accanto

Nel perverso oscurantismo culturale ipermoderno nessuno più sembra sia disposto ad essere accoltellato da un’opera d’arte.

Viviamo in un mondo in cui la violenza è imperante, ma per antinomia nei romanzi si stagliano con prepotenza correttezze politiche e decenze collettive sino a rendere tutto un’illibata massa uniforme.

Entrare in una zona di sconforto finzionale ed annichilirsi è un’esperienza che fortifica, non entrarci per paura, e preferire marcire guardando il mondo dall’ unica e narcisistica prospettiva che si adotta è, senza ombra di dubbio, poco intelligente.

Ciò che la nostra società persuasiva ed invasiva sta lentamente cancellando sono le voci autentiche, contraddittorie ed impopolari che non scendono a patti con i canoni etici ed estetici della letteratura contemporanea.

Se “It” di Stephen King fosse stato pubblicato nel 2020, al posto che nel 1986, troveremmo ancora quel famoso rito che simboleggia il legame indissolubile tra i Perdenti nonchè il passaggio dall’infanzia all’età adulta?

Oggi, qualche editore, ripubblicherebbe “La ragazza della porta accanto” di Jack Ketchum?

Purtroppo, alle orecchie dei lettori italiani, questo autore è quasi sconosciuto.

Jack Ketchum è l’alter ego di Dallas Mayr, (Livingstone, 10 novembre 1946- New York, 24 gennaio 2018) lo pseudonimo è un riferimento a Jack Ketch, boia inglese morto nel 1686 e il cui nome è stato per diverse generazioni il soprannome dei giustizieri britannici.

Scrittore controverso e di culto in patria, è stato intrappolato (e lo è ancora) nelle rigide costrizioni di genere al punto che le sue opere sono considerate veri e propri archetipi letterari horror.

Il suo esordio avvenne con “Off Season” nel 1981, romanzo dal quale si iniziò a delineare il nucleo tematico dei futuri scritti: l’essere umano visto come animale disturbato in grado di compiere la volontà del male.

Diversi romanzi e racconti di Ketchum sono rielaborazioni di fatti di cronaca nera avvenuti negli Stati Uniti.

Nella “Ragazza della porta accanto” si ripercorre il terribile omicidio di Sylvia Marie Likens avvenuto in Indiana nel 1965.

America rurale, anni Cinquanta. David ha 12 anni e incarna il prototipo dell’adolescente medio. Frequenta gli altri ragazzi del vicinato e comincia a sviluppare un certo interesse per il sesso femminile. Quando le sorelle Meg e Susan Loughlin si trasferiscono a vivere nella casa accanto, David è felice dell’opportunità di ampliare il proprio giro di amicizie, anche se Meg, che incontra per prima, è un paio d’anni più grande. I genitori delle due ragazze sono rimasti uccisi in un incidente d’auto, e le sorelle Loughlin sono state affidate alla vicina di David, Ruth. Ma Ruth, in apparenza ottima madre di famiglia, nasconde una vena di sadismo e alienazione, che sfoga dapprima sottoponendo le ragazze a percosse sempre più violente e dolorose, poi dando vita a una serie di torture fisiche e psicologiche di cui David e gli altri ragazzi del vicinato divengono testimoni e, in qualche modo, complici inconsapevoli. La polizia non prende sul serio le denunce di Meg: l’unica speranza per lei e la sorella è nell’aiuto dell’amico David. Riuscirà a salvare le sorelle prima che sia troppo tardi?

L’attacco del romanzo è una domanda disarmante e provocatoria che il David adulto pone direttamente ai lettori, invitandoli già dalla prima riga ad abbandonare ogni convinzione.

“Credete di sapere cosa sia il dolore?”

Da qui inizia il perturbante viaggio che condurrà nel seminterrato di casa Chandler.

La prosa snella, priva di adornamenti retorici, vigorosa nella sua brutalità, ci permetterà di scendere passo dopo passo nel seminterrato delle barbarie, osservando i deliranti consensi di Ruth con gli occhi del David preadolescente.

David è bloccato in un pericoloso interregno, un’impasse emotiva che lo renderà spettatore consapevole e mai aguzzino dei torbidi maltrattamenti protratti all’amata Meg.

“Non vi racconterò ciò che successe dopo. Mi rifiuto. Preferireste morire piuttosto che raccontare certe cose.

Preferireste morire piuttosto che assistervi. E io vi ho assistito, e ho visto”.

Ruth Chandler è la figura chiave del romanzo.

Donna abbandonata dal marito e sola nel crescere tre figli maschi, misogina e sessualmente repressa, il cui predominio sugli eventi è la concausa che alimenta la narrazione.

È il lasciapassare della sua autorità che porta ad infrangere ogni qualsivoglia regola sociale e morale.

Ruth non ha problemi a corrompere dei ragazzini con delle birre, basta poi non dirlo a casa.

Il disagio della sua sociopatia è tangibile a partire dai segni dell’invecchiamento precoce sul viso, dai piatti sporchi nel lavandino, lo troviamo nell’odore stantio di fumo di sigarette che si respira in casa, e lo viviamo a pieno nella ferocia dei suoi sinistri pensieri che si traducono, la maggior parte delle volte, in azioni.

Sullo sfondo la quasi arcadica provincia americana post maccartismo, dove si dorme ancora con la porta aperta, dove i bambini rimangono inascoltati dagli adulti (come è successo anche Meg) mentre nelle silenziose mura domestiche si consumano violenze inenarrabili.

“Mi sdraiai sul divano e pensai a come è facile ferire una persona, e non è necessariamente nel fisico. Basta colpire quanto ha di più caro”.

Con “La ragazza della porta accanto”, Ketchum ha tracciato con incredibile realtà traslucida un ritratto impietoso sulla forza ammaliante del male e sul subdolo potere della persuasione di cui sono stati vittima degli ottusi ragazzotti di provincia.

Per antifrasi al titolo, è un attualissimo romanzo morboso e soffocante che andrebbe letto nella sua interezza non come romanzo horror, bensì come opera dalla straordinaria potenza evocativa.

Si possono chiudere gli occhi mentre si legge, si possono lasciar perdere alcuni cruenti dettagli, ma non si può restare indifferenti e non provare empatia davanti agli scempi descritti.

In lingua originale il libro è facilmente reperibile, l’ultima edizione italiana risale al 2013, edita dalla defunta casa editrice Gargoyle.

Sulla piattaforma Netflix è disponibile l’adattamento cinematografico del romanzo.

La storia di Meg Loughlin merita nuova vita in Italia!

 

 

 

 

 

 

 

 

L’uomo autentico di Don Robertson

di Emanuele Emma 14 settembre 2020

leggi in pdf L’uomo autentico recensione

Cosa rimane di noi se non la passione, e come penseremo di sopravvivere quando questa passione romperà gli argini e si riverserà nel mondo circostante tramutandosi in sangue?

Chiedetelo ad Herman Marshall e forse otterrete risposta.

Marshall è il dissacrante antieroe letterario tratteggiato con rude grazia dalla straordinaria vena di un romanziere caduto nell’ oblio e riscoperto in Italia soltanto nel 2016.

Di Don Robertson ( 1929-1999), nativo di Cleveland, Ohio, autore di diciotto libri, Nutrimenti edizioni ha pubblicato cinque dei suoi romanzi.

In vita ha goduto per più di un decennio di un grande successo, al punto che uno dei suoi romanzi divenne nel 1997 un film per la televisione americana.

L’attività di scrittore gli valse il Putnam Award e il Cleveland Arts Prize for Literature.

Senza mai smettere di scrivere, si è allontanato progressivamente dall’ambiente letterario, anche a causa di gravi problemi di salute, fino a venirne dimenticato.

L’uomo autentico è ambientato nella torrida bava acida del Texas, dove il grande sogno americano è soltanto un fantastico epiteto, e la vita scorre su autostrade protese verso verità indicibili e pensieri logoranti che confluiscono all’unica arteria dell’individualità e del riscatto: il sangue.

Herman Marshall è un uomo veemente senza freni inibitori, figlio della grande depressione ed incarnazione del retaggio culturale violento americano.

Quest’uomo autentico e genuino è stato martoriato dalla vita, ha combattuto i tedeschi in guerra, ha visto morire quello che credeva sangue del suo sangue ed infine ha visto sua moglie spegnersi poco dopo una scioccante confessione su cui ruota il perno del romanzo.

“I treni tagliavano in due col loro suono la densità della notte, e le cicale si strofinavano le zampe e cantavano.

Il traffico sibilava sulla Gulf Freeway, e un auto passò rombando; la radio era accesa a tutto volume.

Lo skyline di Houston, che sembrava una collana di pietre preziose, incombeva sulle cime degli alberi, e Herman Marshall si disse: E’ tutto un mare di cose senza senso, che danno può fare se provo a cambiarle un po’? O parecchio a seconda di come si vuole vederla.”

Gli uomini che popolano l’uomo autentico sono vecchi ed incontinenti, come lo stesso Marshall, bevono birra Shiner e indossano cappelli sbiaditi mentre percorrono le fumose strade texane a bordo di utilitarie vecchie quanto loro.

Sangue, birra e urina sono i liquidi che lubrificano gli ingranaggi narrativi dell’opera e che ne scandiscono il ritmo.

L’uomo autentico è l’empito di un canto di dolore narrato con maestria ed ironico cinismo, nell’ultimo e lancinante tentativo di ridare dignità e senso alla propria vita attraverso un elogio alla follia.

Robertson ripercorre la vita di un uomo scevro di ogni qualità, attraverso una prosa elegante in cui allo stesso tempo coesistono volgarità e sentimentalismi, e che porterà il lettore ad uscire fuori dalle solari certezze della vita.

In fondo Herman Marshall è un bravo ragazzo di Hope, Arkansas.