di Andrea Galgano Prato, 25 aprile 2013
La poesia di Robert Frost (1874-1963) raccoglie a piene mani nella perdita e in essa trova, come scrive Massimo Bacigalupo «il risanamento», il «fare punto momentaneo contro lo smarrimento».
È il cuore, la vetrata centrale della sua poesia. Il rapporto diretto tra poesia e memoria solleva il piano della smaccata atemporalità, del dettato bucolico che non conosce perfezione edenica, ma si riscopre vellutato nella rottura profonda, nella lacerazione e nella follia.
Quando T.S. Eliot lo definì «il più eminente e il più distinto poeta anglo-americano vivente» univa la sedimentazione della cultura anglosassone alla materia rurale e ancestrale della poesia, che unisce il monologo al dialogo, l’inflessione alla creazione fertile dei personaggi.
Nato in California, dove rimase per 11 anni, si trasferì, dopo la morte del padre, con la madre e la sorella nel Massachusetts, dopo essersi iscritto al Dartmouth College e poi successivamente ad Harvard. Non raggiunse mai la regolarità negli studi, lavorando come insegnante, calzolaio e perfino editore dell’opera di D.H. Lawrence.
Il matrimonio con Elinor Miriam White rappresentò la vertigine del suo discorso amoroso, con lei si trasferì definitivamente in Inghilterra nel 1912, dopo gravi dissesti finanziari e psicologici.
All’estero Frost incontrò Pound, che apprezzò e lo aiutò nel pubblicare i suoi testi. La vicinanza e l’influenza di poeti come Edward Thomas, Rupert Brooke o Robert Graves, fu decisiva. Di ritorno negli Stati Uniti, la sua fama divenne conclamata, arrivando a vincere ben quattro premi Pulitzer.
Il New England rappresentò per lui il mistero e la calibrata ancestralità di un movimento espressivo che per guardare il reale, incanala nel discorso, nelle inflessioni colloquiali e nel linguaggio, la tensione metrica che, se per temi si avvicina a Hardy, Browning e Yeats, di contro, sviluppa una peculiare e profonda espressività, unita alla lirica breve, musicale, lontana da ogni unisono vocale, come annunciava egli stesso nel 1913: «Io solo fra gli scrittori inglesi mi sono consciamente proposto di ricavare musica da quello che potrei chiamare il suono del senso».
Quel suono del senso è l’esito di un rinnovamento che inventa una ruralità bucolica e invita chi legge a decifrarne i segreti, le sineddoche, l’ambiguità di un “tranello”: «Bello è il bosco, buio e profondo, / Ma io ho promesse da non tradire, / Miglia da fare prima di dormire, / Miglia da fare prima di dormire».
Il respiro del bosco, ossia di una condizione vivente e vitale, si accompagna al peso della vita e alla tappa ultima del riposo eterno. Esiste sempre un doppio piano nella radice di uno sguardo: da una parte l’elemento naturale che si pone come spartiacque per una condizione successiva, per aprire il tempo poetico alla riflessione del dialogo. La bellezza e la pace hanno sempre una sinistra condizione, in cui l’oscurità dei boschi raccoglie il suo tremore, la sua paura o tragedia, in un originale contrasto. Il suono del senso accompagna il senso del suono, come tensione vitalistica a una suggestione mai dolciastra, a una struttura che pone l’accento sulla condizione umana nelle sue varianti, solo apparentemente, leggere.
Per Frost il senso è un accordo musicale che precede l’esistenza delle stesse parole, in questa vicinanza avviene la vitalità del linguaggio.
In una lezione del 1915, tenuta alla Browne and Nichols Schools afferma: «Quando ascoltate qualcuno che parla, sentite delle parole, certo, ma sentite anche dei toni. Il problema è quello di riportarli, di ri-immaginarli, e di metterli per iscritto […] E il grande problema è questo: come metti su carta questi toni? Come esponi il tono?». E poi successivamente nel 1918 si rapporta a Yeats, intravedendo un possibile accenno di risposta:
«William Butler Yeats dice che tutte le nostre parole, frasi ed espressioni per avere efficacia devono conservare il carattere della lingua parlata. Dobbiamo scendere al linguaggio di ogni giorno, prima di tutto – alla dura parola quotidiana della strada, degli affari, dei commerci, del lavoro estivo – prima di tutto; ma abbiamo anche un obbligo, quello di elevare le parole di ogni giorno, di dare loro un’impronta di metaforicità».
Se Brewer affermava che Frost «appartiene a una tradizione che deriva dall’insoddisfazione con la melodia “tennysoniana”, e si pone con Yeats, Pound ed Eliot tra i grandi rinnovatori della voce parlante nella poesia moderna», è pur vero che l’interesse metafisico di Frost gioca il suo ruolo decisivo in una doppiezza ironica e tragica, in cui la sottigliezza si accompagna all’eloquenza radicata e ordinata.
La più americana delle questioni poetiche, ossia il rapporto tra la poesia e il parlato, che da noi solo nel Novecento ha visto in alcuni autori un campo profondo di indagine, da Montale, a Giudici fino a Sereni, gioca la sua partita su questo rapporto. Persino William Carlos Williams ricostituirà la tessitura musicale della poesia-prosa, in cui suono e significato corrispondono perfettamente, come equilibrio ragionato tra lingua e parlante.
La stessa rusticità di campagna si allontana dal dettato straniante della vita sociale e l’intonazione omogeneizzante del verso frostiano recupera una tendenza e un avvicinamento all’uso metrico virgiliano, come ha esaminato Brodskij «Frost e Virgilio hanno in comune la tendenza a nascondere il vero tema dei loro dialoghi sotto lo splendore opaco e monotono rispettivamente dei pentametri e degli esametri». L’altezza sonora afferma il flusso della rarità del ritmo.
In un saggio del 1931, Educazione attraverso la poesia, Frost afferma:
«L’educazione attraverso la poesia è educazione attraverso la metafora […] La poesia comincia con metafore superficiali, graziose, decorative, e giunge al pensiero più profondo che conosciamo. La poesia offre il solo modo ammissibile di dire una cosa e intenderne un’altra. Chiedono: “Perché non dici quel che pensi?” Non lo facciamo mai, d’accordo, perché siamo tutti troppo poeti. Ci piace parlare in parabole e accenni indiretti, vuoi per diffidenza vuoi per qualche altro istinto […] Scrivere è tutta questione di avere idee. Imparare a scrivere è imparare a avere idee».
Le labbra socchiuse della verità obliqua di Emily Dickinson, trovano in Frost un alleato complice, come comunicazione tra sé e sé in un linguaggio mai soggiogato e netto, mai povero ma profondamente segnico.
L’originaria trasposizione comunicativa destina la indecidibilità verso la doppiezza dell’espressione, verso il gioco continuativo e arduo dell’esperienza poetica. È la sua forza, il suo non celebrato specchio: «The land was ours before we were the land’s».
Scrive acutamente Massimo Bacigalupo che:
«Frost vive ben diversamente il mondo o il mondo morale (per lui sono tutt’uno), un mondo che non ha facili soluzioni, in cui le persone offrono le loro versioni parziali senza che ne venga indicata una definitiva. L’universo è caratterizzato dalla problematicità, dall’indecidibilità, non in maniera amletica e capziosa, ma a livello immediato di percezione. La moralità in Frost è sensazione, per parafrasare la lode che di John donne fece Eliot: è poesia. L’idillio coi boschi non produce certezze o consolazione, ma rimanda sempre al principio della verità assente».
Il bagliore del concetto e della figura, che egli racimola dall’esperienza elisabettiana di Shakespeare e dal concettismo del Seicento, trova uno stridore tra chi abita i campi e la joi de vivre, tra il contrasto silente tra bianco e chiaro, intento e forma e disegno e assenza.
L’isolamento, l’estinzione e i limiti umani insuperabili, messi in evidenza da Randall Jarrell non chiudono la semplificazione ironica e vertiginosa della sua scrittura, ma aprono a una questione insoluta.
La natura del New England porge il suo barbaglio di comunione con la condizione umana. Un muro con il filo spinato occlude la vista di due persone, dall’altra parte ci sono una cerva e un cervo, da questa, due individui guidati da amore e dimenticanza: «Quasi la terra per un imprevisto favore / Li avesse assicurati che ad essi ricambiava / il loro amore».
L’evento che tocca le due persone annota e glossa la loro affezione, porgendo la specularità di un amore ricambiato tra il loro essere e la terra che guardano.
In Frost non esiste il bozzetto melodrammatico o l’edenica percezione di uno spazio, nonostante la vicinanza con Wordsworth e con la tradizione classica, ma il limite umano rivela la sua intensa precarietà, come ad esempio il vaneggiamento di alcuni personaggi, la scoperta di un adulterio, la lunga incertezza mentale.
La sua pantomima lirica acquista la dimensione del dramma, in cui la fattoria afferma il suo centro propulsivo e fragrante del mondo.
Il mondo di Frost concede inenarrabili effetti di quinta, in cui l’umano abita frequentemente e assiduamente l’angolo convesso di un trapasso, come da una landa felice al nido delle api nelel pareti, come dal dramma domestico alla teatralità dell’idillio (come accade in All revelation), per «destarsi all’esperienza, raccogliere i semi gettati prendendo in mano ogni tondo frutto, assopirsi stanchi e soddisfatti prima ancora di aver spogliato tutto il frutteto».
La conoscenza della notte è un viaggio inesauribile nella perdita, nel sonno, nella distanza cinica e virulenta, con una capacità ironica e spregiudicata che non si nutre di ansia o di inquietudine soffusa e solo nell’agone sconvolge la «satisfaction of superior speech», per convogliare in un terrore ironico di molte voci: dalla metafisico-ironica alla drammatico-teatrale, fino alla satirico-discorsiva, che meditano sulla realtà fattuale, soggettiva e poi universale, ordinata e coordinata in solchi, come testimonia Mietitura:
«Non si sentiva oltre al bosco altro suono che uno, / la mia lunga falce che frusciava al suolo. / Che cosa sussurrava? Non lo sapevo io stesso; / era forse qualcosa sul calore del sole, / qualcosa, forse, sull’assenza di suono – / Per questo sussurrava e non parlava. Non era sogno del dono d’ore vuote, / o facile oro profuso da fata o da elfo: / qualunque cosa in più della verità sarebbe apparsa / debole al fermo amore che ordinò il prato in solchi, / non senza delicate lanceole di fiori / (orchidee pallide), e un fulgido verde serpente fugò. / Il fatto è il sogno più dolce che la fatica conosca. / La mia lunga falce frusciava, lasciava il fieno ammucchiarsi».
Il «New York Times» nel dedicare a Frost un editoriale in occasione del suo ottantesimo compleanno mise in rilievo la sua intensità peculiarmente americana:
«Poeta intensamente americano, Frost ha toccato quegli aspetti della vita degli Stati Uniti che, pur dopo un secolo di sviluppo urbanistico, ancora costituiscono il nostro comune substrato. Il nostro concetto delle relazioni tra gli uomini, il nostro modo di intendere il lato tragico dell’esistenza e la nostra nozione della speranza restano intimamente legati alle case coloniche ed ai campi appena arati. Frost scrive su un mondo vero di gente vera, riuscendo ad introdurre in esso il lettore che ne ricava il senso di una viva esperienza e momenti di autentica rivelazione».
Il lavoro del poeta abbraccia l’infrangersi del tempo, il suo smarrimento e nascondimento, il ritrovamento di luce, come l’abbandono di un tratturo e il ritrovamento di un calice nascosto e originario in Directive, in essi trova luce e sospetto di ombra.
Frost R., Conoscenza della notte e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori, Milano 1999.
Brodsky J., On Grief and Reason, Farrar Straus & Giroux, New York 1995.
Brower R.A., The poetry of Robert Frost: constellations of intention, Oxford University Press, Oxford 1963.
Gardini N., Com’è fatta una poesia, Sironi, Milano 2007.
Jarrell R., Poetry and the Age, Knopf, New York 1953.
Penn Warren R., The themes of Robert Frost, University of Michigan 1947.
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Andrea Galgano.25-04-2013 Robert Frost e la perdita
TACCUINI DI POLITICA PROFESSIONALE
di Irene Battaglini Prato, 3 marzo 2013
pdf ETICA DELLE PROFESSIONI DI AIUTO IN ERICH FROMM, short link
Se tutto ciò che facciamo si affaccia sull’infinito, si lavora più serenamente. Vincent Van Gogh
Colui che è maestro nell’arte della vita, non distingue tra il suo lavoro ed il suo tempo libero, ma semplicemente persegue la sua visione dell’eccellenza, qualsiasi cosa stia facendo. Lasciando agli altri decidere, se sta lavorando, o semplicemente giocando. Koan Zen
Abstract. Lo psicologo, il terapeuta, colui che lavora con l’Altro e definisce se stesso e la relazione come strumento principe nell’intervento, applica strumenti, regolamenti, codici, talvolta in modo privo di un pensare riflessivo, ma in modo unicamente pratico. Questa modalità è prima di tutto sintomo di una posizione dipendente, e non di una posizione di autonomia di pensiero, non già perché l’autonomia è data dalla rottura dei codici, ma perché l’autonomia è data dalla consapevolezza dei codici, e quindi dal loro rispetto e non dal loro subirli, quindi dalla capacità di ridiscuterli all’interno del sistema valoriale. Secondariamente, questa modalità è indicativa di una condizione nevrotica all’interno della professione, che ha a che fare con l’identità e con l’etica del lavoro, poiché produce un conflitto dovuto al fare senza comprendere, all’interno di una dinamica finalizzata alla produttività della conoscenza dell’Altro, ad esempio a livello diagnostico, e non finalizzata all’esperienza dell’Altro nel Lavoro.
L’oggetto della riflessione non è l’etica, ma la prospettiva psicologica della posizione etica ed esistenziale del professionista, che è anche ermeneuta delle produzioni del suo lavoro e delle opere della sua comunità.
E in estensione, di come l’applicare in modo inconsapevole una deontologia abbia connotazioni morali e non permetta così di assumere una posizione etica; creando il presupposto di una impossibilità individuativa a livello del Sé, professionale e personale, generando stress fino a determinare una perdita di senso rispetto alle scelte che il professionista ha fatto un tempo e che, qualche volta, non è più in grado di riconfermare.
Questo lavoro è il primo di una serie di Appunti di politica e di etica del lavoro che Frontiera di Pagine e Polimnia Professioni ospitano per tutto il 2013, con l’intento di aprire la strada ad un nuovo dibattito all’interno dell’establishment delle professioni vocazionali, di aiuto e di mentoring, e di costruire luoghi di dialogo con le professioni emergenti e con tutte le figure professionali e i tessuti di rete con i quali il libero professionista deve rapportarsi con sempre maggiore frequenza.
Sento di dover anche raccogliere questa “occasione” anche a nome di Polo Psicodinamiche, perché il mio ruolo mi chiama anche ad espormi non solo come portavoce di un gruppo di professionisti (psicologi, psicoterapeuti, mediatori familiari, che trovano spazio nella nostra organizzazione …), ma soprattutto ad elaborare le variabili che orientano il rapporto complesso che nasce tra un’organizzazione privata, che eroga servizi formativi, di progettazione e di consulenza, e la prospettiva dell’etica nel territorio imprenditoriale e sociale in cui opera. Di fatto un’azienda è in grado di incidere, sebbene limitatamente al microcosmo in cui estende la sua efficacia, nella realtà valoriale dei suoi interlocutori, clienti, fornitori, collaboratori, e non si può sottrarre al confronto etico se decide di rispondere appieno alla domanda non solo del mercato ma dell’Uomo, essendone una diretta conseguenza, un’emissione, una declinazione creativa e produttiva della comunità in cui si radica. In altre parole, sono spesso chiamata a decisioni che vanno ben oltre la logica imprenditoriale e che richiedono riflessioni e individuazioni, non diversamente da quello che capita nella vita privata del singolo, con tutto il peso del dover scegliere anche per coloro che in questa realtà trovano appartenenza e certezze, in cui trascorrono molto tempo, cui donano molte delle loro migliori energie. E’ quindi un cantiere sempre aperto da mettere tutti i giorni in condizioni di sicurezza, e non esaurisce mai il suo compito di integrare i fatti dei singoli in una realtà più grande, che vuol tendere all’infinito che è nell’Uomo e cui l’Uomo appartiene. Poiché tutto transita per la nostra soggettività, un articolo sull’etica del lavoro presuppone una prospettiva etica a priori, ed è quindi l’onestà intellettuale che mi porta a dire che questo articolo è di parte poiché esercita la libertà di discutere di alcune tematiche e non di altre. Non possiamo pretendere di essere indifferenti, neutrali, oggettivi, in un contesto in cui le dimensioni dell’umano sono così fortemente accese, in gioco. In un’azienda, ci si pone obiettivi, target, finalità, ma la teleologia e la pensabilità non possono esaurirsi con la programmazione. E la cosa si fa ancora più complessa quando si parla di innovazione, di distruzione creativa, di pensiero divergente e di sistemi emergenti. Nulla di questi assiomi cognitivi avrebbe una fenomenologia senza un passato, un precedente, una stratificazione di un qualche tipo, una costellazione in divenire. In questi ultimi anni di sofferenza politica ed economica, come italiani siamo ancora più sensibili ai problemi delle professioni, dell’espansione, della crescita.
La pensabilità del lavoro, come di tutte le cose che l’uomo costruisce, sta anche nella sua teleologia, e questo ha a che fare con una cronografia non estemporanea, con un dominio del tempo non solo prassico ma anche metaforico, che deve trascendere se stesso, per dirsi degno di arrivare a domani.
Alcune delle riflessioni che seguono si ispirano ai recenti lavori di Sandra Buechler, psicoanalista di orientamento interpersonale dell’Alanson White Institute di New York, e vuole accennare, senza pretesa di esaustività, ad alcuni aspetti dell’etica del lavoro dal punto di vista del professionista impegnato nella relazione d’aiuto e in tutte quelle aree, definite come intellettuali, in cui la costruzione di senso si interseca alla produzione di conoscenza. Ci avvarremo del sostegno di Carl Gustav Jung e Erich Fromm, del cui pensiero Sandra Buechler è studiosa titolata, e che ha sviluppato in alcuni suoi lavori brillanti, come Still Practicing: The Heartaches and Joys of a Clinical Career (2012), Clinical Values: Emotions That Guide Psychoanalytic Treatment (2004) e Making a Difference in Patients’ Lives: Emotional Experience in the Therapeutic Setting (2008), le delicate tematiche dell’empatia e della partecipazione emotiva del terapeuta nel percorso analitico, del suo approccio valoriale, delle sue scelte in relazione ai fattori economici e alle terapie rimborsate dal sistema assicurativo o sanitario.
Il Sé di un professionista dovrebbe essersi formato nella storia, nella tradizione scientifica e filosofica, nella ambivalenze delle scelte teoriche e nei conflitti delle questioni prasseologiche.
Senza l’assunzione di queste dimensioni evolutive, non è attuabile alcun cambiamento delle professioni, poiché le professioni cambiano e superano le “crisi”, soltanto se a cambiare sono anche i professionisti che le abitano.
Rogers nel 1951 ha definito la relazione d’aiuto come «una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L’altro può essere un individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di aiuto potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggior possibilità di espressione».
La specificità che la distingue dalle altre relazioni umane è l’aspetto metacognitivo: per competenza d’aiuto si intende infatti la capacità di dare vita ad una relazione umana in modo consapevole, controllato ed intenzionale, padroneggiando razionalmente abilità «che sono un tutt’uno con ciò che si è».
Il professionista della relazione d’aiuto spesso è un medico, uno psicologo, uno psicoterapeuta, un mediatore familiare, ma in alcuni ambiti della sua professione può essere anche un religioso, un infermiere, un veterinario, un avvocato, un genetista e ancora, più indefinitamente, un uomo che, forte delle proprie esperienze e della competenza fornita attraverso una serie di acquisizioni e legittimazioni, metta a disposizione di un altro uomo tali competenze al fine di alleviare un disagio, confortare e ridurre una sofferenza, esprimere una valutazione o apportare una consulenza che apporti elementi che prima non c’erano.
La relazione di aiuto si costella ogni volta che ci siano di mezzo amore e carenza, potere e fragilità, abbondanza e bisogno. Queste variabili dicotomiche concorrono ad alimentare la più grande disparità definita sinteticamente con “asimmetria”, ed è una delle chiavi necessarie per comprendere la tensione tra i due “sistemi valoriali” (quello del paziente e quello del professionista). Prescindere da questa considerazione potrebbe voler dire mettere in atto una negazione se non un diniego, probabilmente per tutta l’angoscia che ci sovrasta quando sentiamo di aver bisogno di aiuto.
Colui che viene aiutato ha solitamente un gran bisogno di quell’aiuto che chiede. E colui che dovrebbe aiutare, il professionista, deve poter pensare non solo al bene del suo cliente, ma anche al proprio ed al sostentamento di sé e della propria famiglia. Vediamo come il lato economico è infinitamente potente nell’informare ciascun sistema valoriale.
Il nostro compito di Knowledge Workers, di “lavoratori della conoscenza”, è di approfondire i temi etici poiché sono il fondamento del nostro dire e del nostro agire, e non sono questioni secondarie che riguardano solo i radicali, i filosofi, i politologi e i giuristi. I problemi etici riguardano tutti noi e contribuiscono a formare il giudizio e l’orientamento delle persone.
Si può obiettare che non c’è tempo, nelle accelerazioni che caratterizzano la società in cui viviamo, per simili riflessioni, e che progettare il futuro nel lavoro e attraverso la cartografia del lavoro, sia inutile dal momento che ci scontriamo con l’imprevedibilità e le incertezze rispetto a ciò che può avvenire, con i contratti a breve termine e con la precarietà. Risulterebbe pertanto più funzionale e meno rischioso restare ben collocati nel presente, sottraendosi all’opportunità di ricomporre la dissonanza che ci è dato sentire.
Se i tempi “cambiano” ad un livello socioculturale, il Tempo non cambia perché è molto più di una rappresentazione fenomenologica. Il Tempo è la coordinata metastorica nella quale si costruisce l’identità, e non può cambiare come non può cambiare la struttura dell’acido nucleico.
Richiamiamoci a Erich Fromm. Dobbiamo restituirci ad una posizione interiore per non far fuori la possibilità di produrre conoscenza realmente nuova.
Ci troviamo di fatti nella condizione dei viaggiatori che dispongono di molte risorse per affrontare i loro spostamenti e di poter scegliere numerosi posti da visitare. Resta il fatto che gli occhi dell’esploratore sono stanchi, le sue membra affaticate, e nonostante tutte le registrazioni e le fotografie, non riesce a sentire il desiderio di andare avanti. Perché sa che non sta cercando una terra promessa, non ha niente altro cui da sognare, per dirla con Fairbairn non ha la possibilità di sviluppare nuovi investimenti oggettuali.
Tutto è già visto, perché visitabile a priori. E’ privo di spinta vocazionale pertanto non produce conoscenza nuova.
Perché conoscenza nuova è visitare con occhi nuovi. Così lo psicologo non può avvalersi solo dei manuali per imparare, ma dovrà attingere dall’esperienza, al rapporto diretto con i suoi interlocutori. E a qualche cos’altro che sta nel rapporto con l’Altro, con il Maestro, con l’Infinito.
Dire quindi che occorre l’esperienza, che occorre essere graduali, presuppone dunque avere coordinate etiche più salde di coloro che sperimentano in modo fine a stesso, per verificare in modo empirico la realtà. Più salde perché sia l’esperienza stessa ad essere in qualche modo informata all’etica e contenuta nell’etica. L’esperienza attraversata dalla prospettiva etica non può essere ridotta a faccenda pratica, ad un “accidente” che pur essendo reale, non appartiene in definitiva alla natura propria di qualche cosa. Questa credo sia il luogo di genesi della frattura cui come vedremo fanno riferimento Erich Fromm e Sandra Buechler.
Che sia organizzativo o individuale, che sia diagnostico o di prevenzione, di trasformazione o di empowerment, l’intervento per la salute è pur sempre una incursione di un “ente” nella soggettività e nel sistema valoriale di un altro “ente”. Non si tratta solo della dinamica tra due “sistemi” individuali, ciascuno ascrivibile a due differenti sistemi valoriali, ma della dinamica propria tra due sistemi valoriali, in quanto ciascun ente è portatore, sino a prova contraria, di una soggettività etica, morale, sociale, spirituale. E ancora non possiamo scusarci con la fenomenologia dell’asimmetria del rapporto tra medico e paziente, che richiede di essere mitigata e lambita continuamente dalla deontologia.
Dunque la deontologia di una professione si esprime quale epifenomeno regolamentato di una morale che ha che fare con l’economia, in cui “doniamo” una cura in cambio di un bene che deriva dal bisogno di cura, nutrimento, conforto (il denaro, il baratto), e solo in minima parte da un processo di interiorizzazione dei valori. In altre parole è il prodotto di una mediazione tra istanze diseguali, che sono costrette a richiamarsi l’una l’altra ad un cammino di reciprocità.
Il processo di interiorizzazione dei valori, dovrebbe essere un processo di elaborazione, per quanto possibile innescato dalla consapevolezza, frutto di una negoziazione tra l’Io e il Sé, e in teoria dovrebbe essere assimilabile ad una integrazione di oggetti dotati di significato etico e non ad un ulteriore aumento delle difese superegoiche.
E’ un processo che genera sofferenza, che richiede Tempo.
La relazione di aiuto si fonda quindi su una domanda di etica, e non il contrario: è mossa dall’etica, possiede potenzialità etiche che stanno nella tensione dell’Uomo verso l’Infinito, tenuto vivo dal sentimento, dal desiderio di essere cosa buona per l’Altro.
A margine di queste riflessioni, a proposito dei valori, prima di addentrarmi nell’argomento centrale, ovvero sull’attualità del pensiero di Fromm sull’etica del lavoro, voglio citare Carl Gustav Jung, quando dice: «La psicologia è l’unica scienza a dover prendere in considerazione il fattore del valore (cioè del sentimento), dal momento che esso costituisce il tramite fra gli eventi psichici e la vita. Spesso si accusa la psicologia di non essere scientifica a questo riguardo; ma i suoi critici non riescono a capire la necessità scientifica e pratica di prendere adeguatamente in considerazione il sentimento».[1]
«Tuttavia rimangono fatti cui almeno lo psicologo medio deve prestare attenzione, poiché i conflitti e l’intervento dell’inconscio sono i tratti caratteristici della sua scienza. Se tratta a fondo un paziente egli si trova a dover fare i conti con questi elementi irrazionali, duri a essere formulati in termini razionali. Perciò è del tutto normale che le persone sprovviste dell’esperienza propria dello psicologo medico riescano difficilmente ad adeguarsi quando la psicologia cessa di essere una tranquilla attività di laboratorio e diventa parte attiva dell’avventura della vita reale. Altro è esercitarsi al bersaglio in un poligono di tiro, altro è partecipare ad una vera battaglia: il medico si trova di fronte a tutta una serie di fattori casuali caratteristici di una guerra autentica. Egli si trova infine ad avere a che fare con realtà psichiche, anche se non è in grado di ridurle in definizioni scientifiche. È per questo motivo che nessun manuale può insegnare la psicologia: si può imparare solo dall’esperienza diretta»[2]
Jung solleva il tema dell’autenticità nella relazione terapeutica, considerando la relazione di cura uno scenario denso di conflitti, sottolinea che per valore si debba intendere sentimento. Il sentimento diventa valore sulla base proprio del fatto che il sentimento mi orienta nella valutazione, nell’attribuzione di valore alle cose che mi capitano: etica infatti deriva da ethos, che vuol dire carattere, comportamento, condotta, costume.
Il lavoro di Sandra Buechler assume uno sguardo antitetico rispetto alle tendenze antistoriche dominanti nelle professioni di aiuto e più in generale nelle professioni intellettuali.
Nel 2005 Buechler presenta l’intervento “Why we need Fromm Today: Fromm’s Work Ethic”, alla Conferenza Internazionale “Orientamento Produttivo e la Salute Mentale”, in occasione del 20° anniversario della Società Internazionale Erich Fromm 29 ottobre-1° novembre 2005, a Lugano. Dalla traduzione di Debora Spini per Rainer Funk:
«Vorrei mettere in primo piano l’etica del lavoro di Fromm, così rilevante per il suo pensiero sulla vita piena. La sua concezione è diametralmente opposta a quella puritana, che oppone il segmento lavorativo della vita ai passatempi non lavorativi. Il pensiero di Fromm sottolinea invece, distanziandosi nettamente, sì l’importanza del lavoro, ma non come oggetto a sé stante o in contrapposizione con altre attività – come analizzeremo ora in breve.
Sono convinta che per noi, come analisti, sia lecito esprimere i valori che più ci appassionano. Non credo che il legame con l’impresa analitica mi richieda di far finta di lasciare i miei valori a casa quando vado a lavorare la mattina. Penso che le applicazioni sbagliate del concetto di neutralità abbiano creato molta confusione sulla questione se si possa ritenere appropriato, per un analista, di esprimere i propri valori più saldi e profondi. Per sottolineare questo tema, organizzerò le mie considerazioni intorno ad una serie di valori a cui tengo in modo profondo».
Marco Bacciagaluppi, studioso di Erich Fromm, sostiene in un suo scritto che “Se dovessimo riassumere ciò che Fromm rappresenta come forza morale, potremmo dire, per usare le sue stesse parole, che egli «ci richiama a noi stessi».”
Fromm è un intellettuale dimenticato. Il dovere di un intellettuale è resistere al potere e alla seduzione della scienza. Romano Biancoli[3] sostenne che «Fromm non si è mai lasciato inquadrare in nessuna scuola di pensiero. A vent’anni dalla sua morte, ancora non riusciamo ad assegnarlo a questa o quella corrente definita. Né si può dire che sia un eclettico, anzi, al contrario, lui esprime una posizione complessiva netta e caratterizzata. Dell’eclettico ha l’attingere a molte fonti, ma poi stringe sintesi personali che superano spesso le fonti da cui prendono e si formulano in modo autonomo e originale. Il tratto più qualificante del pensiero di Fromm, l’umanesimo radicale, è vedere nell’essere umano la radice di tutto. Il presupposto è che esista una natura umana come caratteristica di base della specie umana, comune a tutti gli uomini, i quali presentano non solo una stessa anatomia e una stessa fisiologia, ma anche una medesima struttura psichica. Questo rende il genere umano una unità e spiega la comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane, della loro arte, dei loro miti, dei loro drammi (Fromm, 1962, p.55). E’ una visione teorica che trova applicazione clinica principalmente nella correlazione “center-to-center” tra analista e paziente (Fromm, 1960; Biancoli, 1995): l’analista può comprendere il paziente in quanto sperimenta in se stesso ciò che quest’ultimo sperimenta, secondo la massima di Terenzio: “Nihil humani a me alienum puto”. Ogni individuo, in quanto membro del genere umano, è potenzialmente capace di sperimentare in sé ogni esperienza umana. Il trattamento psicoanalitico ispirato all’umanesimo radicale si propone il mutamento del paziente da un orientamento alla passività interiore e al possedere ad un orientamento all’attività, avviando il cammino dalla modalità dell’avere alla modalità dell’essere.
Egli immette nella cultura del novecento le linee di forza dei grandi maestri di umanità, da Isaia a Socrate, da Meister Eckhart a Spinoza, da Goethe ad Albert Schweitzer, cioè prospettive di pensiero atte ad attraversare tempi lunghi e intere epoche della storia.
Fromm afferma che la natura umana non si può scorgere come tale ma attraverso le sue diverse manifestazioni. E’ nella “situazione umana” che si manifesta la natura umana (1947). Dai testi di Fromm, si può riassumere come segue il suo concetto di “situazione umana”. Nell’evoluzione dei primati risultano due tendenze: la determinazione sempre meno istintiva del comportamento e la crescita del cervello, particolarmente della neocorteccia. Cioè, l’uomo è il primate fornito della minima dotazione istintiva e del massimo sviluppo cerebrale (Fromm, 1973, p. 201). La singolare emersione biologica diventa un dato, intrinsecamente contraddittorio, della situazione umana: far parte della natura e insieme trascenderla, proprio per la debolezza degli istinti e la consapevolezza di sé, estranea ad ogni altro animale. L’armonia dello stato naturale è rotta, il mondo dell’uomo è il mondo del conflitto (Fromm, 1947, pp. 29 e sgg.).
La frattura che vive dentro l’uomo reca una fondamentale “dicotomia esistenziale”: individuarsi o regredire (Fromm, 1941, 1955). Il processo di individuazione è caratterizzato da autonomia e solitudine. Procedendo lungo questa via si arriva a conseguire quei gradi di libertà che consentono di amare. In alternativa, la “fuga dalla libertà” (Fromm, 1941) è la risposta regressiva alla paura della solitudine, inevitabile costo dell’individuazione.
Fromm descrive la contrapposizione tra etica umanistica ed etica autoritaria nell’opera “Dalla parte dell’uomo”, in cui contrappone anche l’autorità razionale a quella irrazionale, la coscienza umanistica a quella autoritaria. La coscienza umanistica è per Fromm “la voce del nostro vero Sé, che ci richiama a noi stessi, per diventare ciò che siamo potenzialmente”.
Egli sostiene inoltre che il carattere cosiddetto produttivo sia il più vicino alla virtù. »
L’etica della virtù si basa sull’assunto che le azioni siano successive alle scelte, e che quindi la moralità non ha a che fare con l’obbligatorietà dell’azione; si guarda alle persone, alle disposizioni del carattere.
I valori proposti da Sandra Buechler per ribadire l’attualità del pensiero di Fromm, sono l’integrità, la realizzazione di Sé, il coraggio, la speranza attiva e il senso di avere uno scopo, la libertà. Ci soffermeremo solo su integrità e realizzazioni di Sé, per ragioni di tempo e di spazio.
Se per la Buechler (2003, 2004) l’integrità umana è uno stato «nel quale le motivazioni profonde, le assunzioni di base e le azioni formano un insieme compatto», Fromm espone la sua concettualizzazione di integrità relativa al lavoro, portando ad esempio l’Artigiano del Duecento e del Trecento.
Per Fromm quell’artigiano vive la vita piena, egli impara il proprio lavoro da altri artigiani, quindi nella relazione, in un contesto strutturato e organizzato. Apprende dal proprio lavoro, in quanto nell’ambiente di lavoro sviluppa relazioni, capacità, abilità, e inoltre ri-progetta continuamente se stesso attraverso l’apprendimento di competenze via via più complesse, in una storia che non è solo sua personale, ma all’interno di un tessuto sociale.
Questa che oggi chiameremmo vision, vision imprenditoriale, si situa come uno dei capisaldi di società “piena e sana” (si noti come il lessico di Fromm rimanda ad un principio di abbondanza e non di scarsità), in cui il lavoratore è incoraggiato a lottare per realizzare il Sé, sviluppando quella che il Premio Nobel per l’economia Amartya Sen[4] ha chiamato capability, capacità di realizzazione di Sé, capacità di felicità possibile: la dimensione professionale o lavorativa, non è alienata dal resto della vita, è integrata nell’esistenza.
Nella società di Erich Fromm, il lavoro è scenario di realizzazione del Sé, e di esperienza del Sé. In questo scenario sociale, nessun uomo può essere il mezzo per i fini di un altro, ma è egli stesso il solo fine di se stesso e del proprio operare. In questa accezione di integrità, l’uomo non può neppure prestare se stesso ai fini di poteri che non siano buoni e produttivi, in altre parole questo uomo non può mercificare il proprio operato in un contesto in cui non può essere libero, in cui le attività politiche ed economiche non siano subordinate al suo sviluppo. La segmentazione e la parcellizzazione delle mansioni (oggi si parla di alta specializzazione), non sono un incentivo al processo di integrazione. Inoltre, Fromm sostiene che: «Non si può separare l’attività di lavoro dall’attività politica, dall’uso del tempo libero e dalla vita personale. Se il lavoro dovesse diventare interessante senza che gli altri settori di vita divenissero umani, non avverrebbe alcun vero cambiamento».[5]
E’ probabile che ciascuno di noi abbia un modo molto personale di chiedere aiuto, di attivare cambiamento, di porsi in modo innovativo verso l’esistenza. Un modo personale di apprendere e di progettarsi. Ciascuno, direbbe il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, possiede personali funzionamenti e capabilities che non sono felicità ma realizzazione, soprattutto immateriale.
Credo che l’etica della conoscenza non posso sottrarsi al confronto e alla riflessione sulle tematiche epistemologiche, poiché sono direttamente connesse al knowledge working e alle sue modificazioni.
Si assiste alla nascita della psichiatria olistica e alla medicina umanistica. Alla computer art e all’economia della felicità. La logica formale non apprende attraverso l’esperienza ma impara dai metodi dell’esperienza; si fa problematizzare dalla soggettività; la psicologia e l’antropologia necessitano di categorie di analisi, manuali con criteri assiomatici, antropometrici.
Questo movimento interno, che potremmo definire ibridazione delle logiche conoscitive, potrebbe essere anche letto come il percorso individuativo della gnosis, un ripristino della sua identità primigenia dopo un lungo inverno di separazioni interne. Un tempo le arti e le scienze erano accorpate nel sapere delle Muse, e non vi era frattura e conflitto tra aree della conoscenza.
Proviamo a leggere questo fenomeno come la risposta inconscia ad un bisogno tutto umano di restituirsi all’unità, all’integrità interna. Di risanarsi di fratture praticate, dal positivismo, dall’integralismo culturale, dalla rigidità che si veste di coerenza.
E’ il tentativo di rispondere in modo individuativo ad una scissione che non comporta salute, ma un forte stress. E il produttore di conoscenza come il professionista della salute sono chiamati a sentire il loro sintomo e ad elaborarlo.
A non soggiacere necessariamente alle regole imposte da un meccanismo largamente nevrotizzante. Sono invitati da Fromm, e non solo da lui, a rivedere le posizioni interiori quando non rispondono più alla pienezza valoriale dell’autenticità che solo l’Uomo può attribuire ed è in grado di attribuire.
Sandra Buechler ce ne porta un esempio che richiede una trattazione a parte: il modello economico della managed care.
Ma ancora un inciso sulla conoscenza. La confusione a livello metodologico, inevitabilmente conduce alla trasfusione dei contenuti, e rende assai complicata se non impossibile la verifica di un risultato.
L’etica della conoscenza deve poter riflettere sulle sistematizzazioni valoriali per procedere ad una possibile revisione. La progettualità didattica cambia in modo radicale, e l’approccio pluridisciplinare deve fare i conti con le trasformazioni metodologiche.
Non solo come psicologi, ma anche come docenti e come formatori siamo tenuti ad interrogarci sulle questioni di fondo, per non correre il rischio di attraversare una crisi identitaria senza essercene accorti. Nelle cose stabili alberga già il seme del cambiamento, come ci insegna Lao-Tse.
Anche se spostiamo il livello di osservazione dal singolo uomo all’organizzazione, dobbiamo interrogarci sulla capacità dello psicologo del lavoro e delle organizzazioni di leggere e di tradurre il sistema valoriale aziendale a favore del committente.
Il punto di frattura è tra i bisogni psicologici degli utenti e i bisogni psicologi dell’organizzazione, poiché le due finalità non sempre coincidono.
È sempre più difficile ancorarsi al qui ed ora, su questa zattera così fragile. Dobbiamo ritrovarci e costruire ancora, riprovarci, continuare sul sentiero tracciato da Fromm, Jung, Freud, e molti altri studiosi, per non essere afferrati dall’idea che tutto sia inutile. Stabilire una rotta, costruire nuove mappe, anche se sembra tutto molto sfilacciato, incompleto, incompreso.
Nuovi modelli, antiche forme di cooperazione. Immagini fondate sul dono, sulla bellezza.
Appare anche difficile giungere a una qualche conclusione coerente di questo piccolo percorso che, volutamente, è stato frammentario, proprio perché voleva dare l’idea della complessità, e ricchezza, delle relazioni tra queste discipline. Se tuttavia un epilogo si deve trarre da questo rapido viaggio, esso può bene essere espresso da una frase di Karl Popper del 1912: «Se psicoanalisi ed etica rinunzieranno ad ogni disputa nominalistica e a ogni diatriba ideologica, e sapranno collaborare nel futuro, i risultati non potranno che essere eccellenti.»[6] Cento anni dopo non sappiamo ancora se le cose siano andate così.
«Non vi è frattura tra lavoro e gioco, tra lavoro e cultura. Il modo in cui l’artigiano si guadagna da vivere determina e influenza il suo intero sistema di vita».[7]
[1] C.G. Jung, L’uomo e i suoi simboli
[3] http://www.psychomedia.it/pm-proc/opifer/17-fromm.htm
[4] Amartya Sen nacque nel 1933 a Santiniketan (in Bengala): divenne docente presso l’università di Calcutta, presso il Trinity College di Cambridge, poi a Nuova Deli, alla London School of Economics, a Oxford e, successivamente, all’università di Harvard. Nel 1998, pur mantenendo la sua carica di docente ad Harvard, ha fatto ritorno come rettore al Trinity College. Presidente della Economic Society, della International Economic Association, della Indian Economic Association, a Sen è stato conferito il Premio Nobel per l’economia nel 1998. Egli è autore di numerosissime opere, delle quali meritano sicuramente di essere ricordate Collective Choice and Social Welfare (1971), On Economic Inequality (1973), Commodities and Capabilities (1985), Etica ed Economia (1987), Inequality Reexamined (1992), Lo sviluppo è libertà (1999), Globalizzazione e libertà (2002).
[5] Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, p. 312
[6] Karl Popper: “Never let yourself be goaded into taking seriously problems about words and their meanings. What must be taken seriously are questions of fact, and assertions about facts: theories and hypotheses; the problems they solve; and the problems they raise” (Popper K., 1992, p.16)
[7] C. Wright Mills 1951 p. 220, citato da Erich Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea, p. 175).
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Irene Battaglini, 3 marzo 2013.

PSICOANALISI INTERPERSONALE UMANISTICA
PDF 1. 2013. EVOLUZIONE O INVOLUZIONE, short link
di Alessio Barabuffi Prato, 24 febbraio 2013
in collaborazione con
La libertà individuale non è un bene della civiltà.Era massima prima di ogni civiltà,e però allora era per lo più senza valore, perché l’individuo non era praticamentein grado di difenderla.
Sigmund Freud
INTRODUZIONE
Mi hanno sempre colpito i racconti di coloro che, tornando dai paesi del cosiddetto terzo mondo, sono assolutamente meravigliati di come gli abitanti di questi paesi si mostrino sorridenti e solari pur vivendo in baracche, scalzi e senza la sicurezza di un pasto; un commento amico sintetizza al meglio quanto sto cercando di dire: “Non capisco come sia possibile per questi bambini, che per avere una Coca Cola devono fare quattro chilometri a piedi nudi nella foresta, divertirsi e ridere spensierati. Penso ai miei figli col broncio perché non hanno l’ultimo gioco per la
playstation o che piangono perché la carne ha troppi “grassini!”.
La definizione terzo mondo afferisce alla sfera economica che per molti aspetti porta con sé anche lo sviluppo sociale (maggiori risorse economiche si traducono spesso in maggiori servizi e quindi alla maggiore vivibilità di un determinato sistema sociale) ma non necessariamente è legato al benessere psichico inteso come massima libertà percepita nella realizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche.
Nel terzo mondo gli individui vivono in condizioni che ricordano molto quello che noi chiamiamo Uomo Primitivo ma sembra che siano più sereni o quanto meno si può dire, in proporzione, che noi del primo mondo siamo molto meno sereni di quello che dovremmo essere.
Questo lavoro si pone come obiettivo quello di confrontare criticamente lo stile di vita dei nostri progenitori con il nostro del XXI Secolo cercando di capire cosa è cambiato, perché è cambiato e con quali conseguenze per il nostro benessere psichico; per far questo prenderò in considerazione alcuni contributi storici ed altri che danno una lettura della situazione sociale in chiave psicoanalitica.
INIZIAMO DAI PRIMITIVI
CHI ERANO?
Per iniziare penso sia opportuno descrivere brevemente, senza quindi partire da troppo lontano, i passi evolutivi che hanno portato l’uomo ad essere quello che è oggi.
2,4 milioni di anni fa si affacciava l’homo habilis capace già di utilizzare utensili: il suo cervello, ormai, era cresciuto nelle sue dimensioni fino a circa 800 cc e grazie allo sviluppo dell’area di Broca è possibile pensare che fossero in grado di utilizzare una prima forma di linguaggio (Cianti, 2010).
L’Homo Erectus compariva circa 1,8 milioni di anni fa per rimanere in auge circa per un milione e mezzo di anni: i resti fossili ci fanno capire che era un potente guerriero, esploratore, abile cacciatore ed inventore grazie anche ai suoi 1200 cc cerebrali. È stato il primo ad addomesticare il fuoco, sviluppando quindi ulteriormente gli utensili e viaggiando anche fino in Cina e nel sud Est asiatico (Cianti, 2010).
300 mila anni fa l’homo sapiens, con la sua postura retta ed il suo cervello pienamente sviluppato, faceva da ponte verso quello che sarà l’homo sapiens sapiens. Circa 150 mila anni fa compariva l’homo sapiens Neandertalensis che pur avendo un cervello più capiente dell’uomo moderno per circa l’8%, un’altezza di 160 cm ed uno scheletro poderoso, scomparve misteriosamente forse sterminato proprio dall’homo sapiens (Cianti, 2010).
Ecco che 120 mila anni – 180 mila anni fa compare l’uomo moderno, il sapiens sapiens, riconosciuto in due razze il Cro-Magnon ed il Combe Capelle; dall’analisi del DNA non emergono mescolanze con specie di homo più arcaiche: si tratta quindi di un uomo nuovo (Cianti, 2010).
COSA FACEVANO?
Già in questo paragrafo potranno emergere i primi spunti riflessione dettati da un confronto, che viene del resto immediato, con l’homo moderno. I resti fossili avvicinano molto il comportamento dei primitivi con quello degli animali che si muovono in branco: cacciano se hanno fame, una volta saziati si dedicano all’ozio ed alla cura della prole, si accoppiano quando le stagioni e la disponibilità di cibo lo consentono e si ingegnano in nuove scoperte spinti da curiosità; si intuisce subito che è l’individuo con le sue esigenze ad essere al primo posto poiché:
“E’ infatti l’individuo il vertice della evoluzione. È lui che porta dentro di sé i geni da trasmettere, è in lui che avvengono tutte quelle mutazioni casuali delle quali li più idonee serviranno alla specie per adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente” (Cianti, 2010, p.121)
Ma per poter garantire al meglio l’evoluzione l’homo deve essere, e sentirsi, libero di muoversi, di spostarsi di pensare e di esprimere al meglio le proprie potenzialità realizzando i suoi intenti: molti esperimenti dimostrano che animali, tra cui l’uomo, privati di questa libertà si ammalano e spesso si lasciano morire. In questo senso Erich Fromm, sociologo e psicoanalista della seconda metà del ‘900, parla chiaro:
“[…] libertà non consiste nel laissez-faire e nell’arbitrio. Gli esseri umani hanno una struttura propria al pari di ogni altra specie e possono crescere soltanto in conformità a tale struttura. Libertà non significa affrancamento da tutti i principi guida, bensì possibilità di crescere secondo le leggi strutturali della esistenza umana, vale a dire secondo restrizioni autonome. Essa comporta l’obbedienza a leggi che governano lo sviluppo umano ottimale; ogni autorità che favorisca tale scopo è un’ “autorità razionale”, a patto che la sua attività promotrice consista nel potenziare il dinamismo, il pensiero critico e la fede nella vita del bambino; è invece un’ “autorità irrazionale” quando imponga al bambino norme eteronome che servono ai propositi dell’autorità, non però agli scopi della struttura specifica del bambino” (Fromm, 1977, p. 95)
La vita in branco, o meglio in tribù, non modificò affatto questa libertà primitiva poiché, essendo stata raggiunta con secoli di evoluzione, era funzionale alla sopravvivenza: avendo perso ormai la capacità di arrampicarsi rapidamente sugli alberi, a causa della postura definitivamente eretta e della scomparsa degli artigli, era necessario unirsi in gruppo (tribù) per fronteggiare i grandi predatori rendendo così la caccia più proficua e funzionale.
COME VIVEVANO?
Queste tribù avevano ancora una struttura relativamente semplice composta da pochi individui e scarse distinzioni sociali. Sulla base della disponibilità di selvaggina si distinguono Società a ritorno immediato (scarsa disponibilità), e Società a ritorno ritardato (maggiore disponibilità) (Cianti, 2010); nella fattispecie nel primo caso le principali caratteristiche sono:
- Cibo consumato immediatamente;
- Gruppi non stabili e nomadi;
- Nessuna istituzione, regole semplici e flessibili, strettamente egualitaria;
- Impegni a breve scadenza, individualismo ed indipendenza;
- Condivisione del cibo e degli strumenti, sanzioni a chi accumula proprietà personali;
- Accesso libero al territorio.
Nel secondo caso invece:
- Il cibo in eccesso viene lavorato e conservato;
- i gruppi non sono stabili, restano però legati strettamente e sono parzialmente nomadi;
- esiste un capo, un consiglio di saggi, regole complesse ed un ordine superiore di legami come i clan, le fratrie e le parti;
- Impegni e legami sono considerati importanti;
- esiste la proprietà del cibo e delle donne, c’è scarsa condivisione;
- il territorio resta libero ma è controllato, nasce la proprietà su alcune risorse.
Anche Fromm (1975) arriva ad affermare che, con molta probabilità, le situazioni di caccia potrebbero aver generato nuovi schemi di comportamento come ad esempio collaborare e condividere altre cose poiché, appunto, la collaborazione fra i membri di una tribù era una condizione fondamentale: se questo fosse vero ne deriverebbe che “l’uomo moderno ha un impulso innato di collaborazione, di compartecipazione, piuttosto che di uccidere e di infliggere crudeltà (Fromm, ibidem, p. 178). M.D. Sahlins (1960) sottolinea che le necessità di adattamento hanno fatto subordinare al primate certe sue inclinazioni come il predominio e la competizione brutale a favore di collaborazione, moralità e solidarietà, elementi che emergono anche nell’arte rupestre dove infatti tra gli episodi di vita raffigurati brillano per loro assenza scene di guerra fra uomini. Tutto ciò entra profondamente in conflitto con il nostro modo di vedersi nel mondo dove della nostra economia ci porta a pensare ad un uomo che naturalmente è incline a trafficare, barattare o accumulare avidamente comprando possibilmente a buon mercato “facendo l’affare” e rivendendo massimizzando il profitto in barba alla solidarietà (Service, 1966).
LE RELAZIONI SOCIALI
Prima di tutto è necessario precisare che, trattandosi di una dimensione di tribù:
“[…] sono le relazioni sociali strette a prevalere, le emozioni dell’amore, il codice della vita familiare, la moralità dettata dalla generosità condizionano tutte insieme l’atteggiamento verso le merci, in modo da ridurre il comportamento economico” (Service, 1966)
Non ci stupisce, quindi, che le relazioni sociali nelle società primitive siano prive di ogni forma di dominanza ed anche coloro che arrivano ad assumere uno status o un prestigio superiori si distinguono per generosità e modestia; gl’unici riconoscimenti che gli spettano sono l’amore ed il rispetto degli altri. Inoltre la struttura sociale non prevede una leadership formalizzata, tipico degli stadi successivi dello sviluppo culturale, quindi la carica di capo non esiste ma passa da una persona ad un’altra a seconda della necessità. Fromm sottolinea come ci sia enorme differenza fra le culture che incoraggiano avidità, invidia e sfruttamento e culture che invece si muovano in senso opposto: se nel primo caso queste caratteristiche andranno a formare il “carattere sociale” e quindi una sorta di sindrome della maggioranza, nel secondo caso invece saranno solo aberrazioni individuali dalla norma con poca influenza sul resto della popolazione (Fromm, 1975). Questa tipologia di rapporti sociali dimostrano che l’uomo non è equipaggiato geneticamente per questa psicologia di dominanza- sottomissione (ibidem): ma come si proteggeva quindi dai membri socialmente pericolosi? Gran parte del controllo era raggiunto attraverso le norme e le usanze e qualora non bastassero a prevenire comportamenti socialmente sconvenienti erano previste sanzioni come: isolamento, mostrare minore cortesia, derisione e nei casi limite l’ostracismo, usanza arrivata almeno fino all’Antica Grecia.
In altre società di cacciatori si poteva arrivare anche al duello:
“Quando la disputa è fra un accusatore e un accusato, come succede di solito, l’accusatore ritualmente scaglia le lance dalla distanza prescritta, mentre l’imputato cerca di evitarle. Il pubblico può applaudire la velocità, la forza e la precisione dell’accusatore mentre scaglia le lance, oppure l’abilità con cui l’imputato le schiva. Dopo un certo tempo si raggiunge l’unanimità, dopo che si è delineata l’approvazione per l’uno o per l’altro. Quando l’imputato si rende conto che la comunità lo sta giudicando colpevole, deve lasciarsi ferire (non uccidere, ndr) in qualche parte carnosa del corpo. Viceversa, l’accusatore interrompe semplicemente i suoi lanci quando capisce che l’opinione pubblica è contro di lui (C.,W.,M., Hart, A.,R., Pilling, 1960; corsivo mio)
Ancora M.D. Sahlins ha contestato la premessa su cui è fondata l’aggressività dei cacciatori primitivi ovvero la penuria ed una continua condizione di fame; egli ritiene, al contrario, che quella dei cacciatori fu la prima società affluente ovvero quella società in cui vengono soddisfatti tutti i bisogni. Non dobbiamo, però, leggere questa condizione nell’ottica consumistica della modernità poiché queste popolazioni producevano molto e desideravano poco raggiungendo quindi presto la prosperità.
LA RIVOLUZIONE AGRICOLA: L’EVOLUZIONE?
Dopo che l’uomo preistorico ebbe scoperto
che era in mano sua – inteso così letteralmente – migliorare
la sua sorte sulla Terra, non poté più essergli indifferente
che un altro lavorasse con lui o contro di lui.
Sigmund Freud
Come ci si è arrivati e le conseguenze
Possiamo datare l’inizio della rivoluzione agricola circa 150.000 anni fa, nel momento in cui i sapiens abbandonarono il continente africano per diffondersi sull’intero pianeta iniziando dalla mezzaluna fertile ovvero l’attuale Turchia, Iraq, Siria, Giordania, Libano ed Israele. In questa parte del pianeta l’orzo ed il grano selvatico crescevano spontaneamente e questo permise all’uomo di passare da una condizione di nomadismo ad una stanzialità permanente con tutta una serie di conseguenze che cercheremo di vedere nel dettaglio.
La prima di queste è sicuramente che l’uomo, una volta capito che piantando i semi del grano questo ricresceva, iniziò a rendersi indipendente dalla natura producendo qualcosa in più di ciò che la natura stessa gli aveva dato. Quindi da un punto di vista psicologico questi cambiamenti fornirono all’uomo una nuova prospettiva poiché capì che con la sua volontà poteva determinare il corso degli eventi (semino e la pianta cresce) e non soltanto il “caso”. Fromm (ibidem, p.197) arriva a ipotizzare che “la scoperta della agricoltura possa essere alla base di tutto il pensiero scientifico e dei successivi sviluppi tecnologici”.
Altre conseguenze secondarie ma solo in ordine di tempo, portarono all’allargamento degli allevamenti, iniziando ad accumulare cibo e dando così alla popolazione la possibilità di crescere: deriva anche da questo l’esigenza di iniziare a riconoscere e regolamentare la proprietà privata riducendo pian piano sempre più la libertà di cui fino ad allora aveva goduto il primitivo-cacciatore.
Ma quale può essere il motivo di questa svolta epocale? Si sono fatte varie ipotesi:
“Secondo alcuni i cambiamenti climatici conseguenti alle ultime glaciazioni favorirono lo sviluppo massivo di graminacee che indusse gli uomini a nutrirsene, ma questa tesi non tiene conto del fatto che l’agricoltura sorse in ogni clima e già da 200.000 anni l’uomo conosceva e occasionalmente si nutriva dei semi di queste erbe. Secondo altri la rivoluzione dipese dall’estinzione delle grandi prede come i mammouth ad esempio e dall’incremento demografico. Non ci sono però segni di carestie nel Paleolitico e l’incremento della popolazione fu successivo alla agricoltura. altri ipotizzano la nascita di nuovi bisogni come quella della proprietà dei beni o il desiderio di un più elevato status sociale. Ma i preistorici avevano già monili ed ornamenti di ogni genere e la gerarchizzazione sociale fu una conseguenza, non la causa della agricoltura. Più convincente appare la prospettiva biologica teorizzata da Wadley e Martin (1993) se non altro perché spiega l’accettazione delle tristi condizioni della agricoltura. La presenza nel frumento di esorfine, sostanze oppiacee, analgesiche, ansiolitiche, e gratificanti in grado di modificare il tono dell’umore sarebbe servita a mitigare il drastico cambiamento. Le esorfine danno assuefazione e provocano crisi di astinenza, ma la quantità presente nei cereali non comprometteva il lavoro mentre ne compensava le frustrazioni. Sicuramente fu arduo per l’uomo come d’altronde lo è adesso, accettare la promiscuità degli insediamenti, la fatica spesa a beneficio di estranei non consanguinei e la subordinazione imposta.
[…] Se non ci sono state influenze esterne come mai l’agricoltura è nata contemporaneamente e con gli stessi criteri in ogni parte del mondo, da gruppi di umani che non avevano nessun contatto fra di loro?”
(Cianti, 2010, p. 146, corsivo mio)
Riassunti in una breve tabella ecco i pro ed i contro della rivoluzione agricola (Cianti, 2010, p. 155):
PRO
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CONTRO
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- Nascita della civiltà. Molte menti libere dall’affanno del cibo (non food specialists) si dedicano alla produzione di beni e di pensiero;
- Cibo per tutto anche se di scarso valore nutritivo;
- diminuità mortalità infantile;
- Sopravvivenza dei più.
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- Peggioramento della salute;
- inquinamento;
- Sviluppo demografico eccessivo;
- Cibo ottenuto con grande dispendio di energia. Ritmi naturali stravolti;
- Grande riduzione del tempo libero;
- Individuo, libertà, famiglia e società perdono il loro valore naturale.
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Le prime forme di Civiltà ed il ruolo centrale della Madre
Il surplus di cibo permise ad una ristretta cerchia di persone di non impegnarsi nella caccia rimanendo libera da obblighi per la sopravvivenza e, quindi, nella possibilità di impegnarsi in altri ruoli: non solo artigiani, soldati e burocrati ma anche e soprattutto menti libere di pensare per scoprire ed inventare ovvero gli specialisti non-food fondamento della civiltà (Cianti, 2010).
Dal 1961 in poi scavi archeologici hanno portato alla luce le rovine di Catal Hüyük, una delle città più antiche dell’Anatolia; una delle sue caratteristiche più sorprendenti è il grado di civiltà che vedeva già la presenza di suppellettili di lusso come specchi di ossidiana, pugnali di metallo ma anche recipienti di legno di varie dimensioni e di varia raffinatezza. Nonostante ciò sembra, che le strutture sociali mancassero degli elementi caratteristici degli stadi successivi dell’evoluzione. Mellaart (1967) sottolinea che nonostante l’evidente grado di sviluppo anche dell’artigianato, il lavoro e le sue regole erano pubbliche e derivavano dall’esperienza comunitaria: ancora una volta mancano le premesse per la formazione di una leadership permanente che organizzi, previo ricompensa, l’intera organizzazione economica. Questo si verificherà soltanto in seguito quando il surplus sarà tale da poter essere trasformato in capitale i cui proprietari potranno far lavorare gli altri per loro. Ma intanto, parlando di struttura sociale, una delle caratteristiche fondamentali dei villaggi neolitici è il ruolo centrale della madre: infatti se gli uomini si dedicavano solo alla caccia e le donne alla raccolta delle radici e dei frutti è probabile che l’agricoltura sia stata scoperta dalle donne mentre l’allevamento del bestiame sia stato sviluppato ed organizzato dagli uomini. Automaticamente la capacità di dare la vita, propria della terra e della donna e assente nell’uomo, mise subito la madre in una posizione di supremazia sia sociale che religiosa:
“[…] i misteri della donna come ad esempio la fertilità, costituivano una parte della vita degli uomini neolitici e paleolitici ed erano alla base del potere del matriarcato. Gli uomini primitivi hanno dovuto calcare gli aspetti del matriarcato sui loro manufatti per poter meglio comprendere i suoi poteri e quindi separarsi da esso: il loro compito psicologico è stato quello di recepire i significati in modo da potersi individuare”
(McCully, 1988, corsivo mio)
Altro elemento che testimonia questo ruolo di assoluta centralità della donna è l’arte rupestre: nella sola Catal Hüyük su quarantun sculture affiorate dagli scavi ben trentatré raffiguravano dee sole, o magari con un maschio, o incinte, o mentre partorisce ma mai in subordinazione ad un uomo:
“Spesso la dea-madre è accompagnata da un leopardo, vestita di pelle di leopardo, oppure rappresentata simbolicamente da leopardi, che allora erano gli animali più feroci e pericolosi della regione. Così veniva vista come la signora degli animali selvaggi, e si metteva in luce l suo ruolo di duplice dea della vita e della morte come molte divinità femminili” (Fromm, 1975, p.201)
Ma ciò che più stupisce è il fatto che i dati raccolti dagli scavi ci parlano di società matriarcali assolutamente non-aggressive e pacifiche e ciò, secondo J.J. Bachofen (1949), è dovuto nello spirito di affermazione della vita e nell’essenza di distruttività propria della sfera femminile:
“Il primo rudimento della civiltà umana, il punto di partenza per ogni virtù e per ogni più alto aspetto dell’esistenza, è invece il fascino promanante dal principio materno, il quale, in una vita piena di violenza, dovette apparire come il principio divino dell’amore, dell’unità e della pace. […] Una tale disposizione d’animo propizierà un modo di sentire più alto, propizierà ogni azione benefica, ogni dedizione, ogni disciplina, ogni pietà sui morti. […] Come al principio del paterno è proprio il limite, quello del materno è propria invece l’universalità; come quello implica l’appartenenza ad un’unità determinata, così questo non conosce limitazioni, simili, in ciò, alla vita stessa della natura. […] La famiglia incentrata nel patriarcato è conchiusa come un organismo individuo, quella matriarcale conserva invece quel carattere tipicamente universalistico che ritrova nei primordi, a contrassegnare la vita matriarcale di contro a quella superiore dello spirito.”
(Bachofen, 1949)
Questa ipotesi attirò pesanti critiche da parte degli antropologi dell’epoca per due ordini di motivi: il primo perché, ormai inseriti in una società patriarcale, era impossibile per loro stravolgere gli schemi di riferimento sia sociali che mentali ed accettare che la dominanza maschile non fosse la prassi (del resto Freud era figlio di questa società ed arrivo a concepire la donna come un uomo castrato (Fromm, 1975)), ed il secondo perché le prove a sostegno di questa ipotesi si basavano su miti e drammi senza portare niente di concreto e reale come scheletri, vasi, utensili, armi, ecc.
LA RIVOLUZIONE URBANA: L’INVOLUZIONE?
Ci sono singoli uomini
a cui non manca la venerazione dei loro contemporanei,
sebbene la loro grandezza riposi su doti e opere
del tutto estranee alle finalità della massa.
Sigmund Freud
Nel quarto e nel terzo millennio lo sviluppo di insediamenti stabili portò ad una centralizzazione dei piccoli villaggi in città sempre più popolose; crebbero, quindi, le esigenze anche da un punto di vista logistico: fu necessario scavare canali per irrigare i campi e drenare le paludi, si costruirono argini e terrapieni per prevenire i disastri di possibili inondazioni, ecc.
Anche la struttura sociale cambiò in virtù del fatto che per questo tipo di lavori occorreva una forza-lavoro specializzata che si preoccupasse solo di quello; a sua volta, quindi, era necessario che altre persone coltivassero la terra anche per loro e che qualcuno, una élite, pianificasse, proteggesse e controllasse che tutto fosse svolto secondo quanto deciso. Questo portò una accumulazione di surplus di gran lunga superiore rispetto a quella dei primi villaggi del neolitico: per la prima volta questo surplus non aveva più il ruolo di riserva per i momenti di bisogno ma diventava capitale per una produzione in espansione. Ma ci fu un altro cambiamento importante:
“La società aveva assunto un eccezionale potere di coartare i suoi membri. La comunità poteva negare ad un membro recalcitrante l’accesso all’acqua chiudendo i canali che passavano per i suoi campi. Questa possibilità di coercizione fu una delle basi sulle quali si fondò il potere dei re, dei sacerdoti e dell’élite dominante, una volta che riuscirono a sostituire o, in prospettiva ideologica, a “rappresentare” la volontà sociale. […] Si scoprì che l’uomo poteva essere usato come strumento economico, che poteva essere sfruttato e reso schiavo”
(Fromm, 1975, pp.207-208)
Come si è già, forse, potuto intuire comparve la suddivisione in classi: una parte privilegiata dirigeva ed organizzava in cambio del mantenimento di un tenore di vita esagerato ed inaccessibile al resto della popolazione ovvero i contadini e gli artigiani. L’ultimo livello nella scala sociale era riservato agli schiavi ed ai prigionieri di guerra.
La scoperta dal capitale portò alla legittimazione del sistema di produzione della conquista come modo per assoggettare popolazione limitrofe guadagnando così anche i loro possedimenti. Lo strumento di conquista per eccellenza fu, ovviamente, la guerra che nasceva dalla contraddizione di fondo di un sistema economico che se da un lato aveva esigenze di unificazione per raggiungere una funzionalità ottimale, dall’altro iniziava a scontrarsi con le separazione politiche e le lotte dinastiche per la gestione del potere:
“La brama di possesso non può non condurre a una guerra di classi senza fine. L’affermazione dei comunisti , che il loro sistema metterà fine alla lotta di classe in quanto abolirà le classi, è pura illusione, dal momento che anche il loro sistema si basa sul principio del consumo illimitato quale scopo dell’esistenza. Finché ciascuno aspira ad avere di più (incrementando quindi il capitale, ndr), non potranno che formarsi classi, non potranno che esserci scontri di classe e, in termini globali, guerre internazionali. Avidità e pace si escludono a vicenda.
(Fromm, 1977, p. 17)
Quindi l’origine della guerra non si ebbe da fattori psicologici come l’aggressività umana ma in condizioni in cui, a prescindere dalla brama di potere dei burocrati, la guerra era utile e per la quale però, ma solo secondariamente, si vedeva necessario generare e accrescere la distruttività e la crudeltà umane.
Il ruolo non più centrale della Madre: il Patriarcato
Questi cambiamenti socio-economici spostarono il focus dalla creazione della vita e dalla fertilità del suolo al pensiero astratto e meditativo, all’intelletto necessario per nuove invenzioni, per nuove tecniche per le costruzioni e per le guerre. Il mito espresso nell’inno babilonese alla creazione chiarisce bene la portata del cambiamento:
“Questo mito descrive la ribellione vittoriosa degli dei maschili contro Tiamat, la “Grande Madre”, che governava l’universo. Essi formarono un’alleanza contro di lei e scelgono Marduk come Capo. Dopo una lotta durissima, Tiamat viene massacrata, dal suo corpo si formano cielo e terra, e Marduk impera come dio sovrano. […] Il senso della prova è quello di dimostrare che l’uomo ha superato la sua incapacità di creazione naturale – prerogativa della terra e della femmina – con una nuova forma di creazione, la parola (il pensiero). La storia biblica comincia dove finisce il mito babilonese: il dio maschio crea il mondo con la parola” (Fromm, 1975, pp.209-210)
Si passò quindi al principio della norma patriarcale di governo della società in cui è fondamentale l’elemento del controllo: della natura, degli schiavi, delle donne, dei bambini. Quindi un controllo che non si limita alla natura ma l’uomo, e non la donna, arriva a controllare sé stesso e a questo punto la leadership cambia: se prima era accettata volontariamente perché fondata su competenza e quindi razionale (Fromm, 1975), adesso il patriarcato ne impone una basata sulla forza, sul potere, sullo sfruttamento, mediata dalla paura e dalla sottomissione e quindi irrazionale (Fromm, ibidem). Mumford (1963) sottolineò che questo nuovo mondo urbano se da un lato era efficiente, preciso e rigoroso, dall’altro si dimostrava sadico con una inspiegabile, almeno fino ad allora, necessità, da parte dei monarchi, di ostentare monumenti o tavolozze in cui erano raffigurate le loro imprese; Fromm commenta così:
L’esperienza clinica in terapia analitica mi ha portato da parecchio tempo alla convinzione che l’essenza del sadismo è la passione per un controllo illimitato, pseudo-divino su uomini o cose. […] Nella nuova civiltà urbana, oltre al sadismo, si sviluppa la passione per distruggere la vita e l’attrazione per tutto quanto è morto necrofilia (Fromm, 1975, p. 211)
Per concludere Mumford (ibidem) fa anche un’altra considerazione molto pertinente notando che ogni civiltà storica inizia sempre con un nucleo vivo, urbano, frizzante, si pensi alla pòlis, e termina in una fossa comune con necropoli e paesaggi apocalittici.
La rivoluzione industriale
Facendo un enorme passo avanti a livello cronologico arriviamo alla seconda metà del Settecento: fino ad ora l’agricoltura, che ovviamente si è col tempo evoluta affinando le conoscenze e le tecniche di coltivazione, l’ha fatta da padrona anche se si sono susseguiti regni, guerre e carestie. A partire dal 1780 il settore dell’industria crebbe a dismisura e la produzione di beni, che fino a quel momento non era stata in grado di tenere il passo con lo sviluppo demografico, divenne più rapida andando a migliorare alcuni aspetti della vita della gente. La crescita delle possibilità occupazionali data dall’industria portò ad una lenta emigrazione dalla campagne e, quindi, ad un sovraffollamento delle città che non erano ancora in grado gestire una grande mole di persona da un punto di vista alimentare ed igienico sanitario: tutto questo fu aggravato dal fatto che l’impiego di combustibili fossili, carbone e petrolio aggravò pesantemente l’inquinamento ambientale e l’agricoltura che mancava sempre più di forza lavoro fu costretta ad industrializzare la produzione adeguandola ad esigenze strumentali senza rispettare le necessità legate ai terreni che si impoverivano progressivamente.
Da un punto sociale questo nuovo assetto accentuò la frattura sociale fra capitale e forza lavoro e l’industria per alimentarsi iniziò a creare nuovi e superflui bisogni imponendo la domanda per beni non indispensabili.
Riepiloghiamo, quindi, i pro ed i contro della rivoluzione industriale (Cianti, 2010, p. 156):
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Infatti benché le differenze tra gli individui appaiano sotto questo aspetto grandi,
ogni società è caratterizzata da un certo livello di individuazione
al di là del quale l’individuo normale non può andare.
Erich Fromm
La critica di Freud alla Civiltà
Credo possa essere opportuno iniziare della definizione che Freud (1949) dà della civiltà ovvero «la somma delle opere e delle istituzioni in cui la nostra vita si distacca da quella dei nostri antenati animali e che servono a due scopi: a proteggere l’uomo dalla natura e a regolare i rapporti degli uomini tra di loro».
L’autore arriva a questa definizione cercando di trovare la fonte della infelicità dell’uomo e ne individua tre: lo strapotere della natura, la fragilità del corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano i rapporti fra uomo e famiglia, fra Stato e Società. A partire da questa insoddisfazione si è creato il terreno da cui poi, in varie occasioni storiche, si è elevata una condanna. La prima è la vittoria del cristianesimo sulle altre religioni pagane (Freud, ibidem) ma non è questo il contesto per approfondire questo aspetto, la seconda si ebbe con il perfezionarsi dei viaggi di esplorazione che permisero di entrare in contatto con popolazioni e tribù primitive anche se un’interpretazione erronea dei loro usi e costumi portò gli europei a credere che costoro conducessero una vita semplice e felice, con pochi bisogni ma assolutamente irraggiungibile per loro culturalmente superiori, infine, la terza ed ultima occasione, si ebbe con la scoperta del meccanismo della nevrosi: l’uomo iniziò a diventare nevrotico in risposta alla dose di frustrazione che la società gli impose per servire i suoi ideali civili e come immediata e sciagurata reazione si pensò alla possibilità di eliminare o ridurre queste frustrazioni tornando quindi ad essere felici.
Alle tre fonti di infelicità individuate in precedenza dobbiamo aggiungerci anche una profonda delusione per aver preso coscienza del fatto che i progressi straordinari nelle scienze naturali e nelle loro applicazioni tecniche non ha aumentato affatto la quantità di piacere, soddisfazione e benessere percepito:
Il raggiungimento del benessere e delle comodità per tutti avrebbe avuto come risultato, così si credeva, la felicità senza restrizioni per tutti. La trinità composta da produzione illimitata, assoluta libertà e felicità senza restrizioni venne così a formare il nucleo di una nuova religione quella del Progresso: una Nuova Città terrena del Progresso si sarebbe sostituita alla Città di Dio. L’imponenza della grande promessa, le stupende realizzazioni materiali ed intellettuali dell’era industriale devono essere tenute ben presenti se si vuole capire l’entità del trauma che oggi è prodotto dalla constatazione del suo fallimento. […] Il fallimento della Grande Promessa, […] è intimamente connesso al sistema industriale in ragione dei due principali presupposti psicologici della Grande Promessa stessa: 1. che lo scopo della vita sia la felicità, vale a dire il massimo piacere, inteso quale soddisfazione, di ogni desiderio o bisogno soggettivo che una persona possa avere (edonismo radicale); 2. che l’egotismo, l’egoismo e l’avidità, che il sistema non può fare a meno di generare per poter funzionare, conducono all’armonia ed alla pace.
(Fromm, 1977, pp. 12-13)
Proseguendo nella sua dissertazione Freud si chiede perché non possiamo essere felici di alcuni progressi che, di fatto, sembrano aver migliorato le condizioni di vita umane? Fa riferimento ad invenzioni come il telefono, le ferrovie, le navi che permettono traversate oceaniche, allo sviluppo della medicina preventiva e quindi la riduzione della mortalità infantile, ecc. ma proprio in relazione a questa si chiede, provocatoriamente, in cosa può giovarci se come rovescio della medaglia:
[…] ci costringe alla massima cautela nel procrearli, sicché in complesso non ne alleviamo più che nei tempi precedenti al trionfo dell’igiene, sottoponendo d’altro canto la nostra vita sessuale nel matrimonio a condizioni difficili e agendo probabilmente contro la benefica selezione naturale? E che cosa significa infine per noi una vita lunga, se è piena di difficoltà, povera di gioia e così tormentosa da farci salutare la morta come la nostra sola liberatrice? (Freud, 1949 in 2010, p. 112)
La critica alla Civiltà Moderna, da parte dell’autore viennese, continua prendendone in considerazione singoli aspetti secondo lui peculiari come ad esempio la cura per le cose inutili e l’ordine da cui nascono giardini con funzione di serbatoi di ossigeno (Freud, 1949), aiuole fiorite e tutto quanto necessario per onorare la bellezza e la pulizia e si stupisce del fatto che, riconoscendo i vantaggi di una condotta ordinata ed igienica, l’uomo sia vinto, tuttavia, dalla tendenza naturale alla trascuratezza, all’irregolarità ed all’inaffidabilità rendendo necessario un lungo e coercitivo percorso di educazione per essere avvicinato ai modelli celesti (Freud, ibidem): secondo lui il legame pulizia-igiene era conosciuto dall’uomo anche prima dell’era della profilassi scientifica ma l’utilità non spiega la grande importanza che gli riserviamo e per cui deve essere in gioco qualcosa d’altro (Freud, ibidem). Probabilmente qui Freud intende riferirsi ad aspetti nevrotici della psiche dell’uomo che iniziarono ad emergere in coincidenza con i grandi cambiamenti dello stile di vita dettati dalle esigenze di inurbamento. Se ci pensiamo bene questo può essere rintracciato anche ai giorni nostri: l’offerta di prodotti per la pulizia della casa e per l’igiene personale ha raggiunto una varietà tale da far pensare che le industrie produttrici, che decidono di investire a tal punto in marketing e produzione, devono aver colto una qualche forma di debolezza su cui lucrare: ciò non è sicuramente dannoso per noi individui ma se allarghiamo l’attenzione all’impatto ambientale le prospettive cambiano in modo radicale. Personalmente mi hanno sempre colpito gli spot (sia video, sia in cartaceo con immagini talvolta inquietanti) che pubblicizzano prodotti anti-acaro facendoti vivere la inevitabile necessità di proteggerti da questo animale invisibile che minaccia la tua salute: fermo restando che obbiettivamente la presenza dell’acaro è dannosa mi sono sempre chiesto, con approccio totalmente ascientifico, come facessero negli anni ’70 senza questi prodotti e come sia stato possibile che l’uomo sia sopravvissuto per tutto questo tempo ignorando la presenza di questo invisibile nemico. I danni che lui provoca all’uomo credo possano avere pari dignità rispetto a quelli provocati all’uomo dallo smog.
Un’altra caratteristica della nostra Civiltà che Freud prende in considerazione è la regolamentazione dei rapporti fra gli uomini reso necessario dal fatto che, in assenza di una quale regola, finirebbe per vincere il più forte scatenando un regime di lotta intraspecie permanente. Per cui:
La coesistenza umana diventa possibile solo se si trova una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e faccia blocco contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si contrappone poi come “forza bruta”. Questa sostituzione del potere del singolo con quello della comunità è il passo decisivo a favore della civiltà. La sua essenza consiste nel fatto che i membri della comunità si limitano nelle loro possibilità di soddisfacimento, laddove il singolo non conosceva restrizioni del genere (o anche la tribù, almeno non in maniera così pesante) (Freud, 1949 in 2010 p. 118)
Ecco da qui nasce l’esigenza della Giustizia cioè la garanzia che l’ordinamento giuridico stabilito non sarà nuovamente infranto a favore di un singolo; col sacrificio di parte dei moti pulsionali di ciascun individuo si avrà la garanzia di non venire surclassati dalla forza bruta.
L’autore inizia qui un confronto fra lo sviluppo della civiltà e lo sviluppo pulsionale del singolo individuo. Il primo è caratterizzato da modificazioni dei moti pulsionali umani, la cui soddisfazione è il compito economico della nostra vita (Freud, ibidem): ma questo, nello sviluppo individuale, è già stato riconosciuto come sublimazione (delle mete pulsionali) ovvero trasferire il soddisfacimento dei moti pulsionali stessi su altri canali. È solo grazie a questo che nella civiltà emergono le attività psichiche superiori, scientifiche, artistiche ed ideologiche. Si ripensi a come sono nati, all’interno delle prime tribù, gli specialisti non food: il surplus alimentare ha permesso ad alcuni individui di cessare la naturale attività mirata a procacciarsi il cibo e concedersi più tempo e più risorse mentali in attività speculative di varia natura.
La natura delle relazioni sociali nella Civiltà
Il numero di Dunbar rappresenta il limite cognitivo entro il quale un individuo è in grado di mantenere relazioni sociali stabili, ossia relazioni nelle quali un individuo conosce l’identità di ciascuna persona e come queste persone si relazionano con ognuna delle altre. Secondo l’antropologo britannico Robin Dunbar un gruppo composto da, approssimativamente, più di 150 individui necessita di regole e leggi più restrittive per rimanere stabile e coeso.
Si pensi, quindi, alle conseguenze del passaggio da piccola tribù di cacciatori/raccoglitori prima e proto agricoltori poi, a grande comunità civile. Fromm, in questo senso spende parole molto importanti:
Le osservazioni dimostrano che, in libertà, i primati sono poco aggressivi, mentre nello zoo sono estremamente distruttivi. Questa distinzione è di importanza fondamentale per la comprensione della aggressività umana, perché, fin’ora nel corso della sua storia, l’uomo non è quasi mai vissuto nel suo “habitat naturale”, ad eccezione dei cacciatori, dei raccoglitori di cibo e dei primi agricoltori fino al quinto millennio a.C. L’uomo “civile”è sempre vissuto negli “zoo”, e cioè secondo una gamma di cattività e di non-libertà, e così vive tuttora, persino nelle società più avanzate (Fromm, E., ibidem, pp. 141-142).
Poco più avanti, sempre Fromm, continua:
È importante rilevare che, come dimostrano le prove, un ampio rifornimento di cibo non impedisce l’aumento di aggressività in condizioni di affollamento. Gli animali dello zoo londinese erano ben nutriti, eppure l’aggressività saliva a causa dell’affollamento. […] Dagli studi sull’aumentata aggressività dei primati in cattività […] l’affollamento è la condizione principale per il dilagare della violenza. […] Esiste forse una esigenza “naturale” per un minimo di spazio privato? Forse l’affollamento impedisce all’animale di esercitare il suo bisogno innato di esplorazione e libero movimento? Forse l’affollamento è sentito come una minaccia al corpo dell’animale che reagisce con l’aggressione? […] L’animale “privato-dello-spazio” può sentirsi minacciato da questa riduzione delle sue funzioni vitali e reagire con l’aggressione. Ma, secondo Southwich, la demolizione della struttura sociale di un gruppo animale costituisce una minaccia ancora peggiore. Ciascuna specie animale vive all’interno di una struttura sociale caratteristica. Gerarchico o no, è lo schema di riferimento cui si è adattato il comportamento animale. Condizione necessaria per la usa esistenza è un equilibrio sociale tollerabile, che, se distrutto dell’affollamento, rappresenta una forte minaccia per l’animale. […] Per chi è convinto che la soddisfazione di tutti i bisogni fisiologici debba bastare per instillare un senso di benessere nell’animale (e nell’uomo), questo tipo di vita (anche in uno zoo non affollato, ndr)dovrebbe essere l’optimum. Ma tale esistenza parassitaria li priva di quegli stimoli che permetterebbero un’espressione attiva delle loro facoltà fisiche e mentali; perciò spesso si annoiano, diventano apatici e depressi. (Fromm, E., ibidem, pp. 144-145)
Circa cinquanta anni prima di Fromm, Freud (1949) aveva sottolineato che è oramai inutile continuare a considerare l’uomo come un essere mite negando nel suo corredo pulsionale anche una potente aggressività. Egli ha sottolineato come quest’ultima sia un grande fattore di disturbo dei nostri rapporti col prossimo e come costringa la Civiltà ad un grande dispendio di forze per controllarla spingendo gli uomini in “identificazioni e rapporti amorosi con meta inibita, di qui le limitazioni della vita sessuale e di qui anche il precetto di amare il prossimo come se stessi” (ibidem). Più avanti nello scritto lo psicoanalista viennese legherà l’aggressività con la proprietà privata affermando che “il possesso di beni privati dà il potere, e quindi la tentazione di maltrattare il prossimo” (ibidem): ritorna quindi quanto scritto in precedenza in merito alla nascita delle prime forme di capitale e quindi della necessità di istituire la guerra non tanto per trovare un adeguato sfogo alla istintiva natura aggressiva umana (Fromm, 1975), quanto piuttosto per conquistare il capitale della vicina tribù.
Per concludere vorrei approfondire uno dei precetti ideali dei nostri tempi citato in precedenza: ama il tuo prossimo come te stesso. A questo punto è chiaro che la via dettata dal Cristianesimo non è praticabile dall’uomo se non a prezzo di grandissime frustrazioni. Si pensi, ancora, a come può vivere un individuo frustrato fino a tal punto oppure un individuo che avendo contravvenuto a questo precetto è costretto a convivere col senso di colpa per essere stato cattivo in un contesto storico-culturale che millanta buonismo in ogni dove. Freud (1949) si dilunga nello spiegare perché secondo lui il Cristianesimo pone una condizione utopica: egli ne fa una questione di merito, “se amo qualcuno questo qualcuno se lo deve in qualche modo meritare” (Freud, ibidem, p.131), ed inoltre considera anche l’amore in chiave narcisistica, “Lo merita se in cose importanti mi assomiglia tanto da far si che io possa in lui amare me stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me che io possa amare in lui l’ideale che ho di me stesso (Freud, ibidem, p.131). Quindi dà una lettura interpersonale di questo precetto sostenendo che non solo l’altro non merita il mio amore ma merita piuttosto il mio disprezzo poiché non pare avere il minimo riguardo nei miei confronti anzi non perde occasione per danneggiarmi e arrivando a dire che sarebbe più opportuno “[…] se quel grandioso precetto suonasse: ama il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te stesso”.
Personalmente ritengo che quanto indicato dal Cristianesimo sia destinato al fallimento perché fin dagli albori della sua esistenza l’essere umano ha sempre considerato prioritaria la sua sopravvivenza e quanto può sembrare dettato dall’altruismo a mio parere, e qui mi sento molto vicino a quanto sostenuto da Freud in precedenza, non è altro che una soddisfazione narcisistica dei propri moti pulsionali: da cacciatore solitario sento l’esigenza di unirmi in piccoli gruppi non tanto per sim-patia verso gli altri quanto perché, come abbiamo visto, gli adattamenti evolutivi rendevano per un singolo individuo più difficoltoso affrontare gli animali feroci: in gruppo avevo maggiori probabilità di raggiungere l’obiettivo di caccia, sfamarmi e quindi stare meglio; arrivando ai giorni nostri, sento la necessità di aiutare una persona in difficoltà perché la sua difficoltà risuona in me e mi provoca un tale stato di disagio che solo aiutandola riesco anche io a stare meglio (e per questo affronto anche un faticoso cammino formativo finalizzato ad utilizzare il mio disagio per aiutarla, arrivando a farne una professione).
Mi rendo conto che questa riflessione potrebbe congelare gli slanci caritatevoli dei benefattori del XXI secolo ma non mi si fraintenda, non sto affermando che non esistono fenomeni di solidarietà ai giorni nostri, sto solo dando a questi una lettura che si spinga oltre il fin troppo comune “lui/lei è sempre disponibile per tutti perché è proprio una brava persona”: ai miei occhi continua ad essere una brava persona ma la causa della sua disposizione d’animo la leggo, appunto, altrove.
Un caro amico una volta ebbe a dire: “Di consapevolezza non è mai morto nessuno!”
CONCLUSIONI
Alla fine di questa breve rassegna mi rendo conto di aver lasciato poco spazio alla speranza; del resto, però, l’esigenza di approfondire queste tematiche nasce, prima di tutto, dall’inevitabile confronto con la quotidianità che vede un incredibile escalation di aggressività agita intraspecie e poi dal fatto che gli individui che busseranno alla porta del nostro Studio proveranno proprio da questa Civiltà.
La speranza la può dare il cambiamento. Fromm, in Avere o Essere? (1977), si è posto il problema chiedendosi se è necessario prima cambiare la struttura economica e quindi la mente umana o viceversa, dandosi questa risposta:
“Partendo dal presupposto che la premessa risponda al vero, che cioè soltanto un mutamento sostanziale del carattere umano, vale a dire il passaggio dalla preponderanza della modalità dell’avere a una preponderanza della modalità dell’essere, possa salvarci dalla catastrofe psicologica ed economica, bisogna chiedersi: è davvero possibile una trasformazione caratteriologica su larga scala? E in caso affermativo, come fare a produrla? A mio giudizio, il carattere umano può mutare a patto che sussistano le seguenti condizioni:
- Che si sia consapevoli dello stato di sofferenza in cui versiamo;
- Che si riconosca l’origine del nostro malessere;
- Che si ammetta che esiste un modo per superare il malessere stesso
- Che si accetti l’idea che, per superare il nostro malessere, si devono far nostre certe norme di vita e mutare il modi di vivere attuale.
(Fromm, 1977, p 185)
Personalmente ritengo che, con molta lentezza, la nostra Civiltà si stia avvicinando alla piena consapevolezza di quello che Fromm mette al punto 1.
La strada quindi è molto lunga ma c’è speranza: nulla cambia se niente cambia.
Bibliografia:
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Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975;
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Fromm E., Fuga dalla liberta, Mondadori, Milano, 1987;
Hart C. W. M., Pilling A.R., “The Tiwi of North Australia, 1960, in: Case Histories in Cultural Anthropology, Holt, Rinehart & Wilston, New York 1960;
McCully R., Jung e Rorschach, Mimesis, Milano, 1988;
Mellaart J., Catal Hüyük: a neolitic Town in Anatolia, Thames & Hudson, Londra 1967; McGraw-Hill, New York 1967;
Mumford L., La città nella storia, Edizione di comunità, Milano, 1963.
Sahlins M.D., The Origin of Society, Sci. Amer, 203 (3), “Notes on the Original Aflluent Society, in: Man, The Hunter, a cura di R.B. Lee, I. De Vore, Aldine, Chicago 1968;
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