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"Frontiera di Pagine Magazine on Line" Rivista di Arte, Letteratura, Poesia, Filosofia, Psicoanalisi, ... Lo sguardo poetico vive sempre di un’esperienza di confine. Ma è allo stesso tempo un modo ragionevole di conoscere il mondo, di esplorarne gli anfratti. Un fenomeno umano che si lascia sorprendere e invita a un viaggio e a una meta. La pagina scritta è il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esistenza. Attraverso questo strumento conoscitivo e antropologico, ciò che desta la nostra attenzione è sì un’esperienza di confine, spesso fratturata, ma è, per dirla con le parole di Luzi: un atto di “onore” per la realtà. L’esperienza del limite non appartiene solo al poeta in quanto tale, ma è caratteristica precipua di ogni esperienza umana. L’io ha bisogno del tu per completarsi e mettersi in relazione, e che possa, in qualche modo, vincere questa mancanza. Un qualcosa che poggia sull’oltre e che sia riconoscimento di una domanda. Un dono, un appiglio, un gancio. Oltre all’esperienza di stupore e di obbedienza devota, per dirla alla Auden, ciò che ridesta lo sguardo, con i gomiti appoggiati all’orizzonte, ci sono due termini decisivi per ogni esperienza poetica e letteraria: memoria e visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale. Si scrive ricordando, come messa a fuoco della memoria. Intesa nel suo significato di azione viva, per inseguire ciò che non si sa. Inseguimento duro che non si inventa. Un ricordo che non ricorda, scriveva Piero Bigongiari, per cercare la fodera di ciò che c’è e vederla, appunto. In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.

Sottrarre il telefonino all’ex fidanzata equivale a rapina

sms-message-text-700x352di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

31 marzo 2015

Sottrarre il telefonino all’ex fidanzata equivale a rapina. E’ quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza numero 11467 del 20 marzo 2015.
Chiarisce la Suprema Corte nella Sentenza in commento che “l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine.”
Perquisire il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi è un atteggiamento che, secondo la Corte di Cassazione, “assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, avente ad oggetto il tentativo di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.”
Ecco perché deve desumersi il principio per cui, “nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene.” Ciò viene sostenuto alla Corte di Cassazione, richiamando l’orientamento maggioritario in Giurisprudenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953).
Secondo la Suprema Corte di Cassazione, ”anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata.”(Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848)

Suprema Corte di Cassazione
sezione II
sentenza 19 marzo 2015, n. 11467
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 20/11/2012, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del Gup presso il Tribunale di Barletta, in data 16/10/2006, che aveva condannato C.P. alla pena di anni due, mesi due di reclusione ed Euro.600,00 di multa per il reati di tentata violenza privata (capo A), violazione di domicilio e lesioni personali (capo B) e rapina (capo C).
2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti ed equa la pena inflitta.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando quattro motivi di gravame con i quali deduce:
3.1 con riferimento al delitto di rapina, violazione di legge, contestando la sussistenza del dolo specifico non potendosi considerare “ingiusto” il profitto morale a cui mirava l’agente che si impossessò del telefonino della sua ex fidanzata al solo fine di far conoscere al padre di costei i messaggi che la stessa riceveva da un altro uomo. Eccepisce, inoltre, che in sede cautelare il Tribunale del riesame aveva escluso il reato di rapina reputando insussistente il requisito dell’ingiustizia del profitto.
3.2 con riferimento al capo B), violazione di norme processuali, avendo la persona offesa dichiarato di voler rimettere la querela, determinando così l’estinzione del reato di lesioni personali.
3.3 sempre con riferimento al capo B), manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 614 cod. pen..
3.4 con riferimento al capo A), mancanza e manifesta illogicità della motivazione in quanto l’affermazione di responsabilità per il reato di tentata violenza privata sarebbe del tutto apodittica.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.
2. È manifestamente infondato il primo motivo di ricorso in punto di insussistenza del dolo specifico per il delitto di rapina, sotto il profilo dell’assenza del requisito dell’ingiustizia del profitto. Secondo un indirizzo consolidato e risalente di questa Corte, nel delitto di rapina il profitto può concretarsi in qualsiasi utilità, anche solo morale, in qualsiasi soddisfazione o godimento che l’agente si riprometta di ritrarre, anche non immediatamente, dalla propria azione, purché questa sia attuata impossessandosi con violenza o minaccia della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7778 del 14/02/1990 Ud. (dep. 31/05/1990) Rv. 184507; Sez. 2, Sentenza n. 12800 del 06/03/2009 Ud. (dep. 23/03/2009) Rv. 243953). Pertanto la Corte ha ritenuto che anche il fine di ottenere “un bacio” dalla parte offesa, in cambio della restituzione del monile sottratto, integra quell’utilità, anche solo morale, che qualifica il dolo specifico del reato di rapina, distinguendolo dalla violenza privata (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 49265 del 07/12/2012 Ud. (dep. 19/12/2012 ) Rv. 253848). Nel caso di specie il ricorrente riconosce di aver agito per perseguire un’utilità di carattere morale (non patrimoniale), sottraendo il telefono cellulare alla ex fidanzata, ma contesta il carattere “ingiusto” di tale utilità, osservando che l’azione dell’imputato è stata finalizzata esclusivamente a dimostrare al padre della sua (ex) fidanzata, attraverso i messaggini telefonici, i tradimenti perpetrati dalla figlia, e, dunque, l’esistenza di una relazione con un altro uomo “sicché l’intento del prevenuto è stato quello non già di conseguire un profitto ingiusto, bensì di dimostrare al genitore della sua ragazza l’ingiustizia e la scorrettezza del comportamento tenuto dalla figlia”.
3. Orbene, a parere del Collegio, proprio tale riconosciuta finalità integra pienamente il requisito dell’ingiustizia del profitto morale che l’agente voleva ricavare dall’impossessamento del telefono cellulare della sua ex fidanzata. L’instaurazione di una relazione sentimentale fra due persone appartiene alla sfera della libertà e rientra nel diritto inviolabile all’autodeterminazione fondato sull’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (e della donna) senza che sia rispettata la sua libertà di autodeterminazione. La libertà di autodeterminazione nella sfera sessuale comporta la libertà di intraprendere relazioni sentimentali e di porvi termine. Nel caso di specie la pretesa dell’agente di “perquisire” il telefono della ex fidanzata alla ricerca di messaggi – dal suo punto di vista – compromettenti, assume i caratteri dell’ingiustizia manifesta proprio perché, violando il diritto alla riservatezza, tende a comprimere la libertà di autodeterminazione della donna e si pone in prosecuzione ideale con il reato di tentata violenza privata, di cui al capo A), avente ad oggetto il tentativo del C. di costringere la sua ex fidanzata a riallacciare il rapporto di fidanzamento dalla stessa troncato. Non può dubitarsi, pertanto, del requisito dell’ingiustizia del profitto (solo morale) perseguito dall’agente mediante l’impossessamento del telefono della sua ex fidanzata.
4. Di conseguenza può essere formulato il seguente principio di diritto: “nel delitto di rapina sussiste l’ingiustizia del profitto quando l’agente, impossessandosi della cosa altrui (nella specie un telefono cellulare), persegua esclusivamente un’utilità morale, consistente nel prendere cognizione dei messaggi che la persona offesa abbia ricevuto da altro soggetto, trattandosi di finalità antigiuridica in quanto, violando il diritto alla riservatezza, incide sul bene primario dell’autodeterminazione della persona nella sfera delle relazioni umane”.
5. È manifestamente infondata l’eccezione di estinzione del reato di lesioni personali per remissione di querela, sollevata con il secondo motivo di ricorso, essendo il reato perseguibile d’ufficio in quanto aggravato ex art. 61, n.2 cod. pen..
6. Ugualmente inammissibili sono le censure sollevate con il terzo e quarto motivo, poiché si risolvono in censure generiche, al limite dell’aspecificità e non scalfiscono la solidità della motivazione che ha giustificato le conclusioni assunte dalla Corte territoriale in punto di sussistenza del reato di violazione di domicilio e del tentativo di violenza privata.
7. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Sogno, mito e pensiero

di Gabriele Di Maio  24 marzo 2015

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indexSogno, mito e pensiero. Quanto se ne è parlato! Ha ancora senso farlo? Forse no, come molti credono. Ma forse si, se ci concediamo un viaggio tra le costellazioni neurali che tanti misteri ancora nascondono.
La psicoanalisi parla di inconscio anche come di una condizione a cui giungere, e per Freud il sogno ne era la via regia di accesso. E probabilmente non aveva tutti i torti.
Solitamente la domanda fatale sopraggiunge al termine di una disquisizione, insinuando l’ammiccante dubbio…ma questa volta la sua urgenza è impellente, quindi: le persone private di contatti diretti col mondo, come ad esempio i sordomuti e non vedenti dalla nascita, sognano? E’ come chiedersi: fanno parte del nostro mondo, oppure no?
Se per Freud la ormai insinuata convinzione circa la possibilità di rappresentare i processi psichici attraverso espressioni fisiologiche fu il segno e la condanna di un impasse, oggi non è più così; a differenza del lontano 1894, oggi forse é possibile rendere al padre della psicoanalisi il sogno e la aspettativa. Oggi una tomografia assiale computerizzata (TAC) può identificare alcune aree che, se danneggiate, alterano in vari modi l’attività onirica. Sto parlando delle regioni parietali inferiori di entrambi gli emisferi e la regione ventromesiale profonda. Esse, se danneggiate, interrompono la esperienza cosciente del sognare. Cosciente, appunto.
Lesioni in queste aree ci dicono che il fattore principale di cui esse sono responsabili è la capacità di rappresentarsi, concretamente, nella mente, l’informazione attraverso la modalità visuospaziale.
Ma se la esperienza visuospaziale è legata alla esperienza cosciente, in chi ha deficit percettivi nelle modalità sensoriali primarie, si verifica una cessazione della attività onirica o solo della sua parte cosciente?
Del resto, lesioni nelle aree temporo-occipitali ventromesiali comportano la perdita della immaginazione visiva nei sogni, ma ne resta preservata l’attività onirica. Un mezzo di contrasto, questa evidenza scientifica tutta nuova, che però richiama inevitabilmente alla mente la concezione ferencziana che vede il sogno declinato in un momento primario, dedicato alla ripetizione dell’evento traumatico, e in un momento secondario, dedicato alla sua elaborazione.
Lungi dal voler localizzare la attività onirica all’interno delle reti neurali del nostro universo cerebrale, si può invece dire che essa è coinvolta in una dinamica viva e attiva tra i meandri delle connessioni.
Se è vero che il sogno, durante il suo viaggio nel cervello, termina con una rappresentazione percettiva concreta, che lo rende “reale” ( e quindi raccontabile), giustificandone la qualità allucinatoria e delirante, potremmo solo concludere che chi vive una esistenza priva di contatti col mondo, ne è comunque parte integrante, è “uno di noi” ma, al massimo, non è soggetto ai deliri, e forse neanche alle nevrosi, che appartengono al mondo dei sensi che da sempre, imponendoci uno stato di coscienza, ci obbliga a scindere il bene dal male, la luce dal buio, il bianco dal nero, proiettando fuori da noi ciò che invece è esclusivamente dentro, ed è destinato a restarci, nonostante l’umano bisogno del contrario. Cosa è questo, se non un delirio e l’allucinazione di un mondo che, realmente, non esiste?

Forse si, forse è proprio vero che per riuscire a scorgere la veridicità nascosta tra la intuizione circa l’esistenza di neuroni permeabili e neuroni impermeabili legati strettamente dalla forza della conduzione sensoriale, si é reso innanzitutto necessario concepire gli archetipi come l’aspetto psichico della struttura cerebrale. Una bizzarra ironia della sorte ha voluto che Jung si ponesse nel mezzo, come tramite e ponte necessario tra Freud e le auspicate evoluzioni e forgiature scientifiche di cui si sarebbe marchiata la psicoanalisi. Jung, quindi, non ha soltanto posto il Sé al centro sradicandolo dalle profondità dell’inconscio collettivo (Gramantieri, Monti, pp. 91), ma ha posto al centro la funzione creativa del suo genio, dando piena dimostrazione della possibilità, da lui sostenuta, di poter interpretare il sogno servendosi di un atto di amplificazione, non solo di associazioni.
Quanto sono forti le correlazioni tra una simile riflessione e la visione in Freud, Jung e Bion, quindi? Direi che è questo uno di quei casi in cui una connessione, o meglio, una Proiezione ( che sia dinamica o neurale, o entrambe) fa davvero la differenza.
Lancio, quindi, non delle domande, ma l’augurio di coltivare con produttività i semi della certezza, lasciando a questa fecondità un auspicio di riconoscimento: il sogno, con molta probabilità, non è identificabile e non si esaurisce solo nella sua esperienza cosciente, ma è la prova ed il risultato di tutto ciò che c’era “prima”, di tutto ciò che è pre-verbale, pre-conscio, simbolico, risalente all’era in cui non avevamo bisogno di scindere il bene dal male e proiettare fuori persino le divinità.
La espressione della materia ancestrale che risiede nel cervello, prima che nella formazione della mente, e nella mente fatta di simboli, prima che nella formazione delle connessioni neurali di cui siamo dotati oggi. É come tornar a riprendere, nel mare limpido ma sempre vivacemente scosso della psicoanalisi, il concetto bioniano secondo cui pensare e sognare sono espressioni dello stesso meccanismo mentale, poiché il sogno é il mezzo attraverso il quale avviene la conversione in pensiero delle esperienze sensoriali. Del resto, é lo stesso Gramantieri a ricordarci, attraverso le parole di Bion, che la parte più arcaica di pensiero é costituita da preconcezioni, i cui contenuti mentali innati designano uno stato psichico di attese. Esse sono pensiero potenziale (Gramantieri, Monti, pp. 122).
Grazie anche alle neuroscienze, il sogno diviene, di diritto, il risultato e la prova di quel Linguaggio Dimenticato, conferendo maggiore forza alla concezione, sentita e vivida ora più che mai, secondo cui esso va a configurarsi come il processo di “digestione” della realtà (Gramantieri, Monti, pp. 134).
Se è vero che è possibile rintracciare delle corrispondenze tra i macroperiodi storici dell’umanità e le fasi psico-sessuali illustrate da Freud, sorge irrefrenabile l’impulso di chiedersi se ed in che misura il padre della psicoanalisi identificherebbe l’attuale periodo storico in una fase denominata “matura”. E chissà se Sandor Ferenczi, ai giorni nostri, rimprovererebbe ancora alla psicoanalisi il ricorrere ad un metodo troppo intellettuale.

Riccardo Gramantieri-Fiorella Monti, Sogno, mito e pensiero. Freud, Jung e Bion,Persiani,Bologna 2014, 196 pp., euro 16,90.

Bibliografia
Freud, S. (1899-1900), trad. it. L’interpretazione dei sogni, in Opere, 3. Torino: Boringhieri, 1966.
Fromm, E. (1951). Il linguaggio dimenticato. Introduzione alla comprensione dei sogni, delle fiabe e dei miti. Milano: Bompiani.
Gramantieri, R., Monti, F. (2014). Sogno, Mito e Pensiero. Freud, Jung e Bion. Bologna: Persiani.
Jung, C. G. (1916-1948). Considerazioni Generali sulla Psicologia del Sogno. tr. it. in Opere, Torino: Boringhieri.
Jung, C. G. (1982). Gli archetipi dell’inconscio collettivo. Torino: Bollati Boringhieri.
LeDoux, J. (1996). The Emotional Brain. The Mysterious Underpinnings of Emotional Life (tr. It. Il Cervello Emotivo. Alle origini delle Emozioni. Milano, Baldini & Castoldi, 1998).
Lurija, A.R. (1973). Come lavora il cervello. Introduzione alla neuropsicologia. Bologna: Il Mulino, 1988.
Ramachandran, V., S. (2012). L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana. Milano: Mondadori.
Sacks, O. (1990). Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi. Milano: Adelphi.
Solms, M., Kaplan-Solms, K. (2002). Neuropsicoanalisi. Un’introduzione clinica alla neuropsicologia del profondo. Milano: Raffaello Cortina.

L’eternità imprendibile di Dario Bellezza

di Andrea Galgano 17 marzo 2015

leggi in pdf L’ETERNITÀ IMPRENDIBILE DI DARIO BELLEZZA

11054360_1587600471483713_4618579255528510578_nLa recente pubblicazione che raccoglie tutta l’opera poetica di Dario Bellezza (1944-1996), a cura di Roberto Deidier, scandaglia la poderosa e verbosa poesia di un poeta che ha abitato con estremità la scena letteraria romana degli anni 50-90, arrischiando l’ipotesi, come scrisse Silvio Ramat su «Poesia» del maggio 1996, poco tempo dopo la morte del poeta a causa dell’AIDS «[…] che in Dario Bellezza s’incarnasse, con un orgoglio più forte del turbamento e degli sbandamenti, la figura del Poeta, al quale, ieri come oggi, le Istituzioni concedono poco o nulla; mentre appunto lui solo, il Poeta, persegue implacabilmente una sua verità, un ideale di cui la sua natura vorrebbe far dono a tutti […]».
Ma il dono di Dario Bellezza è la fuga dal proscenio dell’io lirico attraverso la rottura (o meglio il sipario franto), la trasgressione e la passione amletica, come scrive Roberto Deidier:

«Da qualsiasi punto la osserviamo, la poesia di Bellezza appare in fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. Come un tentativo di fuga, a vedere bene, se una certa pesantezza della struttura impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri, L’avversario e Proclama sul fascino. Eppure, nonostante il suo movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarla e comprenderla, e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente, quanto una voluta barocca. Tale tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. […] Così Bellezza è rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Amleto che cerca di corrodere dall’interno, con la sua sola ma rumorosa presenza, la sonnolenta borghesia romana, è in realtà l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima. Ciò che il poeta vuole rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. La strada dell’eversione, che passa anzitutto attraverso l’affermazione dell’alterità sessuale, è percorsa già fuori tempo massimo, mentre l’onda d’urto della contestazione inizia a perdere il suo potere corrosivo e la scena nazionale è occupata da più tragiche tensioni».

Pertanto, lo scandaglio e lo smalto del suo disarmo fa i conti, all’inizio della sua rappresentazione, con la straripante ombra di Pasolini, come vocazione, come grigia e indiscussa tendenza non solo alla morte nel presente, ma al morire, come annota Davide Rondoni su “Avvenire” del 5 marzo 2015:

«Intendo la sua durissima temperie, o anima o meglio fissa idea, o forse ancor meglio dire smalto – chè d’anima no, non si parla se non per negarla e vituperarla, in nome di lui, del corpo o meglio del sesso, che demone borghesissimo ricorre nel disarmato Bellezza, tra le case di poetesse e di letterati molto impegnati. Voglio dire che la verbosa ossessione della morte nel geniale poeta romano indica quale fosse la lastra grigia, gelida, la cardarelliana tinta di quella comunità letteraria – preda di maggiori o minori esaurimenti di energie e di fobie, sublimate in alcuni casi nel potere, o nella sicurezza data dal salotto o dal partito o da entrambi (partito / salotto dei migliori). Una carnale, potente, fiorentissima paura della morte. Un barocco senza fede».

L’eros compone il suo teatro, lo condensa, lo proclama, ne dirama la sua coltre inespressa, nella fissità mobile delle notti romane, con le esili disperazioni e degradazioni. E nell’amore orfano, sviato e disilluso, Bellezza compie il suo rito di coazione e sacrificio, che lo conduce fino a Penna, ma ne priva la portata innocente, comprimendo il margine, la sessualità precaria e maledetta che si dilata fino all’incontrastabile regno della morte, esibita in una nitida delazione di mente e corpo, per non giungere mai «al compimento di un proposito e formula reprimende sul suo stato, formula di un desiderio assoluto e in parte inespresso, dove proprio amore e morte coincidono come fine di qualcosa che non è mai stato posseduto del tutto» (Alessandro Moscè): «Ma quale sesso ha la morte? / È ragazzo. È ragazza. Spaventosamente / materna mi abbraccia al limitare del sonno, / quando l’alba affretta la sua agonia / e il giorno calza i suoi occhi di malinconia…», o ancora «Ho paura. Lo ripeto a me stesso / invano. Questa non è poesia né testamento. / Ho paura di morire. Di fronte a questo / che vale cercare le parole per dirlo / meglio. La paura resta, lo stesso. / Ho paura. Paura di morire. Paura / di non scriverlo perché dopo, il dopo / è più orrendo e instabile del resto. / Dover prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore».
«La bestia che è in me e latra» condensa la parola poetica in una agonizzante corpo a corpo, come un io abbandonato e intossicato che discende «nelle regioni della creaturalità, di un universo offeso dalla Storia» (Roberto Deidier), come un amante estatico o un osceno trasgressore di forma e figura. Ecco che il provocatore-cantore di una rovinosa visione che declina e apre la sua fisicità in una performance che la conduce nell’abisso di un consunto lamento elegiaco, descrive il mondo in un epicedio: «Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio / della notte metà del tempo che m’incalza / ostinato inquisitore di un corpo / sbalordito dall’abitudine, decomposto, / in ansia perpetua di non lasciare traccia / di sé nei corpi altrui o stampo caldo / nelle fresche leggere menti adolescenti / né la Storia, l’ordalia infernale / dei tiranni assetati di sangue e morte / non considero, ne viene anzi, rabbia, / sgomento, urlo lontano nella gola secca, / pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!».
Scrive Maeba Sciutti:

«Dario Bellezza sa di essere il proprio avversario, di portarlo nel corpo come un male inguaribile. Impossibile ipotizzare un dramma più grande e infatti il poeta tracima, sviene, si rialza, barcolla ma resta sempre sull’orlo pericoloso della dissolvenza. Anche quando grida la rabbia verso «altri moribondi normali», contro le «segrete immense rivalse della invidia poetica», quando dice l’indicibile per l’uomo civilizzato e “contabile” che ha ancora qualcosa da perdere e cerca nella mediazione la sua salvezza personale, paradossalmente il lettore sente che Dario Bellezza può farlo perché non ha nessun futuro da barattare, perché ha raggiunto il culmine della sincerità nel culmine della disperazione (e forse il lettore-uomo medio non eroico pensa, con intima indignazione, che effettivamente il culmine della sincerità può esserci solo nel culmine della disperazione quando questa è intesa nel suo modo più pieno, più concreto e fatale: assoluta mancanza di speranza, assoluta assenza, certezza del non futuro)».

Il sangue dell’assenza, la consunzione, la pronuncia antagonista della voce proclama una tentazione smisurata e fanciullesca che comprime l’io, che si spegne in un tramonto assorto di speranze, «cercando la vita smarrita, il sole funesto / e sporco di un pomeriggio invernale: / la luce negli occhi di un Dio che è sparito»: «Dura legge sapere che niente / potrà consolare il niente assoluto».

E il mondo sguaiato e lucente, da cui proviene Bellezza, è una «vecchiaia recente» che si rivela nello smarrimento e nella mancanza, nell’insonnia illusa e nella ferita ingrigita, come scrisse Pasolini nel risvolto di copertina di Invettive e licenze (1971), «che una nuova prospettiva schiaccia contro la vecchiaia vecchia e antica. […] Quindi si è messo a descrivere le forme e gli oggetti delle sue angosce (che ogni buon collega e semplice lettore non può che considerare abominevoli) come se fossero forme e oggetti dell’assoluto: come le bottiglie e i vasi di Morandi. Nessun compromesso, nessuna complicità, nessuna facilitazione, nessuna concessione, nessuna deroga: nemmeno il sollievo di un sottotitolo gradevole, di una nuda citazione».

L’avviluppo del proprio io sente il peso della colpa e della mancata libertà, del vizio (e dello scandalo) della morte, in cui «il derelitto produttore di parole» segue un destino precipitato nella lacerazione, disprezzando, come avviene in Morte segreta (1976) i valori di una società costituita, finendo per celebrare la dismissione e l’acuto segreto del proprio essere, della propria intima finitudine.
Scrive Roberto Deidier: «Nei suoi versi la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo di malattia e di morte. Ma prima di quest’ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente che non vuole e non sa guardare al futuro, né costruirlo, il corpo e la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e ben più reali tripudi. Quella stessa fisicità non tarda infatti a mostrarsi nei caratteri alterni, e ovviamente ossessivi, della ricerca e dell’incontro, del distacco e dell’assenza».

La fragilità iconica e oggettuale non si concentra su una figuratività scrupolosa e animata, bensì fonda un limbo indeterminato, congiunge il processo creativo a un annuncio di colloquio estremo e scisso che condiziona la mitologia e la fisiologia di ogni incontro con la realtà, con il corpo/amante, con la amletica figuratività fisica: «Dentro / il cuore si agita invano la parola chiave, morte, / morte terrena, morte eterna, ed è il corpo trionfante / bestia che si accalda a dimostrarlo in attesa / di diventare freddo come un marmo. / Questo corpo che vesto e nutro e lavo / e accordo ai separati corpi altrui, costringo ad amare, / manometto, chiedo il perdono della sua putrefazione / perenne in una erezione instabile e impotente, sterile, / senza figli severi e solari per confortare vecchiaia».
La straziante scena della sua anima ciba la visione temporale degli eventi accaduti di un antagonismo che concede sdoppiamenti e figurazioni sbilenche, in cui la scrittura del Corpo assurge a parola lirica, a ferita, a passione che risorge.
In Libro d’amore (1982), il disincanto della vocazione si spinge verso una rifiutata dolenza, verso un amore sbiancato che diventa, come si legge nella quarta di copertina, «non-acquisto e non-conoscenza, perdita totale, senza compensi, di sé e dell’altro, recupero cruento e fatale del buio originario».
L’unione degli opposti e la loro sregolatezza scenica, se da un lato richiama alla scissione del sentimento sospingendolo fino all’estremità e all’affanno, dall’altro invoca dolcezze e fisionomie care ed accennate che diano respiro alla corporalità e alla creaturalità sfiorata e sfiorita, depredata dalla ferocia della Morte («Ascoltavo la morte nel mio sogno / di pazzo dirmi all’orecchio soave: «Ti trascuro. Non verrò mai da te». / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / alla finestra la luce della luna. E / nel mio cuore un presentimento»), in un amore che si opponga, non come pasoliniana disperata vitalità ma come concreta oltre-rappresentazione di una colma felicità.
Il labirinto segreto del suo essere si confronta con la contorsione di una commedia tragica, in cui la sua voce scoperta addita piazze, luoghi, strade e luci stagionali, dove la folla spiata si afferma nella disillusione e nella consumazione: « Forse mi prende malinconia a letto / se ripenso alla mia vita di tempesta e di / mattina alzandomi s’involano i vani / sogni e davanti alla zuppa di latte / annego i miei casi disperati. / Gli orli senza miele della tazza / screpolata ai quali mi attacco a bere / e nella gola scivola piano il mio / dolore che s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre / un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza».
La guarigione del mondo passa attraverso il passaggio dentro questo ampio gesto di esistenza, in cui «L’umile stato diseguale del poeta», aggredito, assediato, temuto, celebra il suo segreto singhiozzo, il suo monologo precipitante, il profondo canto della sua raucedine: «”Il mondo non è più quello di una volta”. / Risuona il vecchio mondo di suoni nuovi / ma la novità non porta che terrore / e silenzio. / Laggiù nel nuovo mondo che io guardo / c’è poca speranza, molta violenza / ma guardando si risale il tempo / e gli anni si volatilizzano: / e tutto può dalla sua cenere risorgere / meno la nostra voglia di vivere / che intoccabile resterà intoccata».
La soglia senza salti che fa convergere assenza e presenza ha l’odore agrodolce di una rivolta perduta e persa, del retroscena derivato che esibisce la sua tragedia attraverso la lotta con il Nulla, che proietta il baluginìo del Dio-distante-occulto in un caleidoscopio scisso di disamore.
Il destino del poeta è affrontare questa lotta sfumata di decisione radente e di buio paesaggio «di lingua pesta», di omosessualità dolente e di disagio: «Ma il quotidiano insiste. Ed io volo / verso il tarlo segreto della notte / per non saperne di più. Insiste così / il quotidiano, e stinge addosso la sua pece / o pace perduta, incontrando i mostri / attigui dell’eros metropolitano / che ormai costano troppo sul mercato / degli schiavi. Insiste dunque il quotidiano: / la poesia è merce o merda, voli di gabbiani / in tempesta mentre si pensa a sorella Morte, / o la Musa vagante in clinica, in crisi / di astinenza, / l’astinente essendo io / gioioso immondo testimone di un giorno / di pioggia: calamitoso e sventurato giorno / solfeggiando in mortale voragine il buio / di domani o ieri o il tempo che scorre / verso eternità imprendibili».
Scrive ancora Alessandro Moscè: «La condizione dell’inappartenente e dell’inadatto compie quella serie di vagheggiamenti che fanno il paio con l’atteggiamento che ripiega sulla stagione all’inferno, sull’amore che coinvolge e sconvolge. L’esibizione del male e l’inibizione all’amore riproducono l’idea della fallibilità che mangia l’esistenza, che distrugge l’uomo e il tempo. In Io il personaggio evita di sorprendere, di farsi attore, e l’esperienza relazionale prende il sopravvento».
L’andatura deragliata di Serpenta (1987), inscritta nelle apparizioni romane («Ormai non resta che battere / la trafficata città / in cerca di chi non c’è più. / Non c’è più nel tempo solitario / degli addii»), nelle ouverture di fuga onirica e nei suoi emblemi, rammenta il passato divorato della felicità intravista e impossibile, come ricordo e memoria, per un antico corpo amato e ora scomparso, per i sensi celebrati nella passione che ora hanno partitura ombrata, come grido ferito e lancinante («La mia religione dunque non fu / amore in questo dopo millennio di paure / scontate che di notte fanno capolino / nei sogni di un malato; / o fughe verso il nulla / nulla cenere, nullo destino / o legge primordiale del pensiero / che scateni simmetrie giuste al Paradiso / Paradiso confuso di ricordi / vissuti in mezzo al guado di Caronte»).
È la solitudine imperfetta e fracassata di un «tempo alabastrino» irreparabile, in cui persino Dio diventa l’ossessione di una voce roca e assoluta: «La tua anima bisognosa di Dio / abbiamo umiliato. Ma è Dio / che dobbiamo cercare – Dio che è in noi, / insieme, votati alla distruzione / per rinascere santi. / Siamo due in uno: separati / soffriamo; – non possiamo dividerci: / nuove attese ci aspettano -: / viaggi, legami fino allo svincolo / finale che sarà di amore e morte. / Noi siamo la morte; e dobbiamo / diventare vita. Dobbiamo farcela: / per questo ciò che è tuo è mio / e basta. Per l’eternità».
Il ritmo di Libro di poesia (1990) raccoglie un lungo smalto molecolare tradito, si appropria di una partitura irregolare dove, come annota Franco Brevini nel risvolto di copertina, «il desiderio erotico si fa contorcimento e gesticolazione. Attraverso gli inferni della devianza metropolitana, tra interni asettici e mortuari, caserme e stazioni, il poeta trascina un disperato desiderio di abbattere il muro di una solitudine che si richiude ogni volta su di lui».
Lo psicodramma messo in atto, da un lato sottende al dramma dell’io e alle sue posture, con il pronunciamento della perdita e della sua presenza d’ombra, dall’altro l’apocalissi penitente dell’amore si fa straziata invocazione ed esclusione: «Credo, morte aspettando, di rifare / il già fatto nel mondo in salvazione: / volteggiando innocuo devo la sorte / ricostruire così come la volle / nel cuore la mia favola perduta: / spavento non è fuga, o liquido / scivolare sulla perdita d’ombra». Ecco il barocco imperfetto, la dismisura che volge verso un cuore desolato e assente, la desolazione assorta e abolita, il tragico territorio di anime assiderate e in esilio, laddove la notte avvolge nel suo «inesausto regno sotterraneo» e poi «spengo in avventure e litigi infiniti / catastrofi pellegrine, l’eco di memoria / da abolirsi nella notte oscura; / buio della vita se fu un’altra, / in cerca di passato».
Il forte contrasto interno che alimenta la sua poesia, come accade in L’avversario (1994) è il tralucere della sua identità che affronta il Male corrosivo e sfiancante di un fantasma e di uno strazio incombente, fino alla sottigliezza fragile della poesia, che rappresenta il richiamo e la vertigine («[…] s’invertigina / la vita passata e ne muore») della sua testimonianza.
Estraneità (esclusione) e consapevolezza in un unico ponte di sguardo e rimpianto avventizio («Poveri, pochi anni / sono rimasti, gelidi, limitati; / li dubito e li annuso sperando / di moltiplicarli e cedo deluso / al rimpianto calunnioso»), come cuore in disuso: «Nessuno / sa che cosa sono diventato. / Spauracchio sepolto, gattone celeste / o grigio affossatore d’avventure».
Il suo unico canto rimasto è il sillabario della sorte. La sua povera irresolutezza che si imbatte nei detriti di una quotidianità franta: «Come terrore di elevarsi a cime / più alte del bisogno del creato / le sterminate strade ma finite / percorro nel mio umile stato / diseguale, chiedendo ai pochi / l’errore di sapere chi vorrà / suonare il più bel piffero / di tanta gioventù sfuggita / e perduta nel sogno di una vita!».
Commenta Alessandro Moscè:

«Ecco, allora, che la morte non funge più da ossessione onirica. I serpenti che strisciano prima del colpo che avvelena e uccide, trovano terreno fertile per riprodursi. Proprio la malattia segnerà il destino di Dario Bellezza. Un’atroce malattia, che sembra, a posteriori, anche un presagio. Ma c’è qualcosa che sembra peggiore della morte, che è estraneo perfino alla fine: è la convenzionalità dell’indifferenza comune, l’inferno quotidiano di un tempo lascivo, oltraggiato. Questo è il senso compiuto dell’opera di Bellezza, che genera crudeltà e compassione per i soggetti più deboli e indifesi. L’esilio è nel tempo, tra individualità e storia. Lo scontro sul piano ideale porta ad inquadrare un universo nero, irrecuperabile. La sconfitta dell’uomo è l’estremo sentire nella screpolatura delle cose. E con esse il singulto segna il passo dolente verso l’addio per un destino comune».

Persino il rifugio nell’innocenza animale dei gatti, come «purezza della natura vittoriosa», diventa enclave esclusiva e riparata. Bellezza diventa il passeggero di soglie e proiezioni, in cui raccontare il proprio flatus drammatico senza tracce, la sua intuizione che permane in una breve concessione e in un tradito spazio lucente: «Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati».
L’abisso viene sollevato dalla forza della parola poetica e dalla violenza alla propria scrittura. In esso, la corrosione e l’aggressione alla scena rappresentano l’esito di una contraddizione che aspetta nel buio con il suo verbo sincopato e il suo Sacro reso casto.
La riscossione del passato nel presente non ha più orma nel transito dell’eternità passeggera, «la fine dell’amore dopo l’amore» compone la dimensione magmatica dell’esistenza e la sua forma che, come scrive Pasolini, «Bellezza puntigliosamente cerca di distruggere anche la forma del magma, facendo del magma poltiglia. Ma ciò è messo in scacco dalla sua stessa natura di scrittore, in cui il senso della forma è invincibile. Così, apprestata la poltiglia ecco da questa poltiglia filtrare nettari e narcotici di grande qualità. Come la sete di vita – in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte, così il senso della forma è più forte della scandalosa e insincera voglia di distruggerla».

coverDario Bellezza, Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015, 767 pp., euro 20.

BELLEZZA D., Tutte le poesie, a cura di Roberto Deidier, Mondadori, Milano 2015.
AA.VV., Ricordo di Dario Bellezza, in «Poesia», maggio 1996.
AA.VV., Addio amori/addio cuori, Fermenti editrice, Roma 1996.
GNERRE F., L’eroe negato. Omosessualità e letteratura nel Novecento italiano, Baldini & Castoldi, Milano 2000.
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L’accertamento dell’elemento psicologico nell’omicidio volontario e nell’omicidio preterintenzionale

untitleddi Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

                                                                                                               20 febbraio 2015

L’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale, hanno il loro carattere distintivo nell’elemento psicologico.

Nella recente Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, del 6 febbraio 2015, numero 5676 è stato affermato l’orientamento prevalente in giurisprudenza, secondo cui, “sul tema dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale, costituito – nel rispetto dei principi di imputabilità del reato e della corretta interpretazione degli artt. 43 e 584 cod. pen. e in coerenza con la ratio dell’istituto – dal dolo di percosse o lesioni, assorbendo la disposizione di cui all’art. 43 cod. pen. la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato (Sez. 5, n. 40389 del 17/05/2012, dep. 15/10/2012, P.C. in proc. Perini e altri, Rv. 253357), la Corte ha rimarcato che l’intento diretto a percuotere la vittima o a causarle solo lesioni (sì che l’evento morte, pur legato da nesso di causalità alla condotta dell’agente, non sia voluto), deve essere accertato, quando la lesione, che lo ha prodotto, sia stata arrecata per mezzo di oggetto atto a produrlo, avendo essenziale riguardo al tipo di oggetto utilizzato, alla reiterazione eventuale e alla direzione della condotta lesiva, alla parte corporea sede di organi vitali avuta di mira e/o concretamente attinta. Tale percorso metodologico è del tutto coerente con la costante affermazione di questa Corte, che rimette l’accertamento dell’elemento psicologico in cui risiede il criterio distintivo tra l’omicidio volontario (in cui la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale) e l’omicidio preterintenzionale (in cui la volontà dell’agente è diretta a percuotere o a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte, che si determina per fattori esterni) alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta (tra le altre, Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, dep. 21/09/2007, Zheng, Rv. 237685; Sez. 1, n. 30304 del 30/06/2009, dep. 21/07/2009, Montagnoli, Rv. 244743; Sez. 1, n. 40202 del 13/10/2010, dep. 15/11/2010, Gesuito, Rv. 248438; Sez. 5, n. 36135 del 26/05/2011, dep. 05/10/2011, S. e altri, Rv. 250935), e demanda al giudice di attenersi – al fine di valutare l’esistenza del dolo omicidiario e di verificare se l’evento sia stato escluso o sia stato visto dall’agente come possibile, come probabile o come certa conseguenza diretta della sua azione – a una indagine sintomatica, e cioè agli elementi fattuali indicativi all’esterno della direzione teleologica della volontà dell’agente verso la morte della vittima secondo le regole di esperienza e l’id quod plerumque accidit (tra le altre, Sez. 1, n. 12954 del 29/01/2008, dep. 27/03/2008, Li e altri, non massimata sul punto; Sez. 1, n. 13596 del 28/09/2011, dep. 12/04/2012, Corodda, non massimata sul punto), quali, in via esemplificativa, il comportamento antecedente e susseguente al reato, la natura del mezzo usato, le parti del corpo della vittima attinte, la reiterazione dei colpi (Sez. 1, n. 15023 del 14/02/2006, dep. 02/05/2006, Piras, Rv. 234129, che espressamente riconduce l’omicidio ai reati a forma libera, intesi come fattispecie casualmente orientate), e ancora la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta (Sez. 1, n. 28175 del 08/06/2007, dep. 16/07/2007, Marin, Rv. 237177), e ulteriormente la micidialità del mezzo usato, la reiterazione delle lesività, la mancanza di motivazioni alternative dell’azione (Sez. 1, n. 5029 del 16/12/2008, dep. 05/02/2009, De Montis, Rv. 243370).

Nella svolta disamina secondo l’indicato percorso, la Corte di merito, che ha anche ritenuto prive di rilievo ai fini della decisione le ripercorse considerazioni espresse dalla difesa in ordine alla condizione psicofisica dell’imputato e della vittima al momento del fatto, e ha escluso che le richiamate e illustrate dichiarazioni dei testimoni avessero offerto elementi di supporto alla tesi difensiva, ha apprezzato la correttezza delle argomentazione del G.u.p., che aveva individuato il dolo omicidiario diretto escludente la preterintenzionalità, inducendolo da fatti certi, specificatamente indicati (ripetitività dei colpi, loro direzione, violenza crescente con cui sono stati inferti, forza impressa a quello mortale, capacità lesiva del mezzo usato, maggiore di quella di un normale coltello).

La Corte, soffermandosi, poi, sulla questione della reiterazione e della direzione dei colpi inferti con il coccio della bottiglia di vetro rotta al momento, ha motivatamente illustrato gli esiti lesivi individuati dalla consulenza medicolegale in sede latero-cervicale sinistra e nella zona iliaca sinistra, e ha criticamente ripercorso le deduzioni difensive afferenti all’azione lesiva che aveva interessato la regione cervicale antero-laterale, dando circostanziate e ragionevoli risposte, anche sulla base della stessa fotografia richiamata dalla difesa, a conforto della sua tesi, e degli esiti della consulenza medico-legale.

Né la Corte ha prescisso dall’avvertire che anche l’ipotesi della unicità dell’azione lesiva all’origine delle lesioni al collo della vittima, che sarebbe stata comunque in rapporto di continenza con la contestazione originaria, non incideva sulla valutazione relativa alla sussistenza del delitto così come qualificato, considerate le modalità e le caratteristiche dell’azione posta in essere dall’imputato, deponenti conclusivamente per la certa conferma del dolo diretto del ricorrente sotto la forma del dolo alternativo.”

Hans Sahl e l’esilio-rigattiere

di Andrea Galgano 31 gennaio 2015

leggi in pdf  HANS SAHL E L’ESILIO-RIGATTIERE

l’articolo sul sito di Del Vecchio editore

hans-sahlLa poesia di Hans Sahl (1902-1993) si appropria della rada percossa dell’esilio, come stato di coscienza, come pulviscolo estraneo e come biografia limpida.
Come ebreo e come oppositore di Hitler, Sahl lasciò la Germania, passando per Praga, Zurigo, Parigi, dove visse fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Rimase poi in due campi di internamento francesi, dai quali riuscì a fuggire, (condividendo la drammatica esperienza con Walter Benjamin), patendo «sulla sua carne la labilità dell’esistenza, l’orrore della guerra e la minaccia incalzante della deportazione, prima di raggiungere il porto di Marsiglia, dal quale riuscì infine a salpare in direzione degli Stati Uniti, dove rimase anche dopo la conclusione della guerra (in patria l’esule ritornò solo nel 1989). L’esilio, pertanto, dà l’abbrivo all’apprendistato letterario dell’autore, segnalandosi come autentico Leitmotiv della sua produzione poetica e narrativa, non perdendo mai lo smalto dell’attualità anche nella produzione più tarda, quando assurgerà a conditio umana per eccellenza» (Nadia Centorbi).
L’estemporaneità fugace del tempo che varia l’esilio, lo modella, lo istoria in una scena spoglia e vivente, raccoglie immediatezza e deriva, soggette alla dilazione del tempo, condensandosi «nell’assertività ontologica dell’ «io accado», «io sono un evento» («Scrivere poesie – ovvero quel che ancora ne è rimasto»), onde una poetica fondata sull’assunto morale dell’hic et nunc, al quale si abbarbica l’esule disorientato, sopravvissuto a eventi epocali, che ne hanno minato, ma non annientato, la fede nel futuro della sua specie» (Nadia Centorbi).
La disorientata sonorità del tempo e la sfiancata rabbia sospendono identità e dispersione, attestano il problema-esilio in una spirale estranea che permane limpida, che intarsia il potere enunciabile della testimonianza come avvento e ricordo, e travagliata materia vissuta.
Comprendere Sahl, pertanto, significa fare i conti con un dramma lacerato e condiviso, in una memorialità precaria, e altresì, scompaginare l’uomo per riappropriarsene, articolando la promessa identitaria che guarda gli scenari in cui ha vissuto: dalle città europee fino alla New York notturna e all’accorata Marsiglia, come sospesa invasione di sguardo: « Alberi nel porto / navi in sosta, / uomini addormentati / sotto gli alberi delle navi, / passaggio di gabbiani, / vele sospese, / nebbia mattutina / sopra il porto. / Svanirono le stelle / al nostro incontro, / tra gli alberi delle navi / impallidì la luna» (Marsiglia II)».
L’isolamento non solo celebra l’altrove ma compone la trama dell’ “esilio nell’esilio”, finendo per coincidere con il limite delle utopie e delle ideologie e capace di connotare la tormentata visione del mondo, caricandola di forte tensione simbolica. Il coraggio di far fronte a una dura compiutezza e ad una magmatica contraddittorietà:

«La storia della mia generazione è la storia dell’ascesa e della caduta di un’idea che si rivelò utopica. Il sogno di una società senza classi, che animò il pensiero e l’azione di noi giovani, si tramutò in incubo non appena la realtà del comunismo entrò in disaccordo con la sua idea. La storia dell’esilio fu anche e soprattutto la storia di una questione di coscienza, che ciascuno dovette risolvere per suo conto e che implicava la domanda se si potesse ancora trovare un principio di identificazione o anche solo collaborare con un partito che era pronto a denunciare ogni autocritica come tradimento della lotta comune contro il nemico politico Adolf Hitler. Quanto coraggio ci voleva, quanto dominio di sé, per prendere le distanze da uomini con i quali insieme si lottava, si divideva la fame, si lavorava, si amava, si soffriva, e per dire loro che non si approvava più la loro politica, e col rischio di essere da loro evitato o addirittura perseguitato, dire no e farlo in esilio».

L’annotazione fugace si rinviene nella sua prima raccolta Le chiare notti. Poesie dalla Francia (1942), pubblicato in America, laddove, le liriche vengono sillabate e cadenzate da una memoria di diario, in cui ogni verso pare svelarsi nell’assoluta immediatezza, come reale strumento di conoscenza umana e poetica, e come annota Ottavio Rossani, «con una ricerca stilistica e ritmica legata alla tradizione tedesca. L’uso di rime, e spesso anche del sonetto, dimostra che la sua tensione esistenziale contingente entrava dentro la necessità di dare un ordine al caos in cui la realtà l’aveva gettato. Le raccolte successive […] abbandonano questo controllo estetico, per cui Sahl si lancia in una totale libertà espressiva. I versi non sono più controllati, ma in compenso sono più asciutti, più essenziali, spesso anche scabri e in qualche misura sbrigativi. I temi sono in fondo sempre gli stessi: l’estraneità che diventa una forma di vita; il poeta confessa che non può sentirsi in patria ormai da nessuna parte, ma che si sente estraneo dovunque si trovi. La scelta dell’esilio è ponderata e avventurosa nello stesso tempo».
La piena corrispondenza della sua geografia biografica combacia perfettamente con l’immagine poetica, attraverso il profumo della ricerca della verità, attraverso la piena descrizione diretta che non ammette cesure o cancellazioni, e in cui la pienezza del dramma esule (e degli esuli) compie la sua vertigine «in scomparti di treni […] / oceani solcando e in sale d’attesa»: «S’è pur così fugace come noi siamo stati, / noi scacciati ovunque di Paese in Paese, / per lui però, che è privo d’altri certificati, / la sua sola carta fino ad oggi rimase».
Scrive Giuseppe Moscati:

«Sahl veste piuttosto agevolmente i panni dell’esili(at)o, respira e inspira profondamente l’esilio fino a fare della sua condizione forzosa di sfrattato dalla propria terra una libera e piena scelta esistenziale. Una scelta di crescita, indubbiamente. Tanto che proverei a definire quello di Hans Sahl come un «esilio evolutivo». Certo, non si può negare che sia stata per lui un’esperienza drammatica, dolorosa, lacerante anzi come testimonia ogni sua pagina, e tuttavia è anche vero che la sua estetica, la maturazione della sua coscienza politica e culturale (un unicum), la sua concezione del mondo, il suo stesso grado di conoscenza degli uomini e delle donne hanno trovato proprio nell’esilio la loro prima energia propulsiva. Attraverso il filtro dell’esilio Sahl rivede e risente gli orrori di cui è stato diretto testimone; ripercorre le strade accidentate della sua esistenza offesa, non da ultimo dagli stenti patiti da vittima di due campi di prigionia in Francia, portando avanti una sorta di “gioco serio” con la memoria; rilegge il rapporto con amici e intellettuali e si confronta con la realtà politica e culturale del suo Novecento, sempre da esule volontario facendo ritorno nella sua Germania solo nel 1989».

Ogni verso sembra scampato e strappato. Ogni prolusione umana scorre in una sismografia di immagini diverse, «riflessioni e ammonimenti che il poeta rivolge a se stesso quasi per prendere atto di un destino sempre più oscuro nelle sue manifestazioni» (N. Centorbi).
La consistenza esistenziale raccoglie sentenze dilacerate, disorientamenti di sguardo e dimenticanze notturne in cui la nostalgia precaria delucida lo scampo della parola effimera: «Il cuore non legare a quel che è già perduto, / non merita l’amore quel che a fuggir costrinse, / delle immagini scorda il notturno assalto, / dimentica la mano che nel vuoto ti spinse, / e a quella falsa eco non prestare ascolto, / che dal mondo di ieri fino a te rintocca. / Il cuore non legare a quel che è già perduto. / Proteggiti finchè la tua ora non scocca» (Sentenza).
Il paesaggio ricco e fastoso si accompagna alla scia della chiarità, alla consumazione, all’apocalisse rilasciata, all’uomo che «porterà le tue cose alla stazione» che «è già sulla porta e aspetta».
È il tempo che ruba forma al caos e la rima alle rime, che raggiunge il suo apice di sovvertimento, e che «scandisce in sillabe la danza della morte a cuor sereno», laddove però la parola si scarnifica, appropriandosi della sua chiarezza pulita: «Dal tempo e dalla sua rima mi sono estraniato, / il tempo la mia rima mi ha rubato. / Dove i mondi crollano e s’annientano popolazioni, / per addensarsi in rima la parola non ha più occasioni. / Mettere in canto l’orrore non è forse azzardato / strappare a ciò che non ha rima qualcosa di rimato, / per chi ancora le parole possiede nella parola cacciar di frodo / per illustrare la carie ossea della lingua trovare il modo, / e dove tutte le parole vengono meno, / scandire in sillabe la danza della morte a cuor sereno» (De profundis) o ancora: «In questo posto più non dovresti stare, / nell’erba l’ultima cicca s’è già spenta, / tra le baracche notturne il ratto s’avventa, / la guerra è già prossima – via dobbiamo andare» (Poesia dal campo).
La chiarità (delle notti di luna, del paesaggio che erompe) diviene il manifesto della fuga che individua città e irrompe brutalmente come massacro: «Perché senza le chiare notti in fondo / non ci sarebbe alcun finimondo / e vicino alla casa cadrebbero le bombe / e la pioggia spegnerebbe le vampe. / perciò abbi paura delle chiari notti a maggio, / quando spuntano i lillà e la luna col suo raggio, / e con la moglie e figli altrove andate / finchè le chiare notti non siano passate».
Le associazioni di Sahl salvano il magma poetico dal suo rotto grido, dal pianto ineluttabile, dal divampo di guerra e devastazione, ma implorano, allo stesso tempo, la meta salva dell’io, la vittoria sulla morte, dove la precarietà disagiata dell’istante registra la sorte e ripiegandosi si dilata in immagini febbrili e vorticose, come nature stravolte di oggetti sparsi: «No, devi riconoscere / che non ci si è dimenticati di te. / Ieri sono arrivate per te due lettere d’oltreoceano / e la paglia, sulla quale sei sdraiato, / è stata cambiata ed è pulita. / Molti pensano a te. / Questa settimana, così si dice, / la commissione esaminerà / il tuo caso. / Si dimostrerà / che sei un amico di questo Paese».
Scrive Nadia Centorbi:

«la centralità dell’io sembra dissolversi nella coralità di un soggetto lirico polimorfo, in quel noi che scandisce ossessivamente la sequenza lirica. Attraverso il noi il destino individuale del poeta si identifica con il destino di molti altri esuli incontrati, incrociati o semplicemente presenti nella schiera di quanti furono segnati dall’esperienza della fuga dalla patria. Con ciò, il poeta suggerisce che nell’esperienza dell’esilio, che egli ha condiviso con migliaia di altri profughi, non esiste un destino d’eccezione che possa valere su tutti gli altri come modello emblematico: tutti gli esuli, al di là delle diverse peculiarità che ne scandirono le rotte, costituiscono un unico coro, condividendo omogeneamente le stesse difficoltà, lo stesso martirio della persecuzione, della fuga nonché del disorientamento derivato da un’esistenza irreparabilmente stravolta. A differenza delle poesie del primo ciclo poetico, nei componimenti più tardi Sahl non cede alla malia di centralizzare la sua personale esperienza di esule e perseguitato. All’estemporaneità dei versi della fuga subentra la responsabilità morale di preservare una “memoria dell’esilio” che attecchisce, appunto, nella coralità del noi […]».

Come egli stesso scrive, dalla luce improvvisa e radente di Marsiglia: «Noi non viviamo, noi non moriamo, noi attendiamo, / noi facciamo a gara con la morte a chi arriva per primo, / noi tutti sappiamo che dobbiamo aspettare, / noi siamo già morti, ma ancora non lo sappiamo, / e giochiamo coi sentimenti come si gioca a palla, / noi ci facciamo derubare dal primo cretino / e prenotiamo posti su navi che non esistono, / noi abbiamo compreso già da tempo il nostro destino / e non moriamo».
È la lingua che porge il fianco alla testimonianza ma non si imbarbarisce, non proclama avversione o rabbia («il tuo cuore sentirà di nuovo, / un sole riscalderà te e un volto conosciuto»), ma celebra la propria dignità («Dal sangue scorso in tempi passati / qui è sbocciata rarissima vite»), il proprio resoconto oggettuale e il proprio sguardo, la propria speranza e il proprio spasmo d’attesa: «nell’hotel in cui alloggio / è già passato qualche grande spirito, / uomini ubriachi fanno chiasso sulle scale, / la polizia arriva di solito verso le sette, / e la vecchia sta china sui suoi libri / verifica i conti ed enumera le macchie sulle lenzuola / qui nell’hotel in cui crepo».
Le sue successive raccolte Noi siamo gli ultimi (1976) e Noi siamo gli ultimi. La talpa (1991) la nota dell’esilio abbraccia la Storia, incontra nuovamente i volti di un tempo spezzato, riflette l’oscillamento di uno sbigottimento estraneo, come aveva già scritto in Le croci di legno, «sbigottito dal senso di colpa / d’esistere ancora e strepitando, chiacchierando, masticando / vivere la proroga».
La rotta di Sahl permane nel suo taccuino non bruciato, proclama dispersione e smarrimento perseguitato, insegue similitudini di lontananze («Noi più lontani delle innumeri stelle / ci estendemmo fino a orbite planetarie […]» Forse da qualche parte / in un luogo inaccessibile / un’orma ancora, uno strato d’erba / testimonia le tracce di chi passò da qui / e i vostri canti intonò), invita all’interrogazione ultima e reduce: «Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. / Noi portiamo in giro lo schedario / con le cartelle segnaletiche dei nostri amici / appeso al collo come la cassetta degli ambulanti. / Istituti di ricerca fanno domanda / per ottenere degli scomparsi gli scontrini della tintoria, / musei custodiscono le parole della nostra agonia
come reliquie sottovetro. / Noi, che sprecammo il nostro tempo / per motivi comprensibili, siamo diventati i rigattieri dell’incomprensibile. / Il nostro destino è un monumento sotto tutela. Il nostro cliente migliore / è la cattiva coscienza della posterità. / Prendete, servitevi. / Noi siamo gli ultimi. / Interrogateci. / Noi siamo competenti. (1973)» e infine si confronta con la signature precisa e logora delle tracce come stimmate e ritardo di baveri: «Così compariamo davanti a voi, / con il sorriso che da noi / vi aspettate, col basco disinvolto / sull’orecchio o la yarmulke, / incidendo con il pollice / le stazioni dell’esilio / sull’ormai logora carta geografica, / unendo precisione a poesia, / infondendo vita ai resti / prima che essi ci sfuggano via nella corrente / della risciacquatura del ricordo, / senza lasciar traccia e arrivederci per sempre».
Il valore dialogico e umanistico di ogni atto di scrittura è il memorandum per attestarsi nella profonda dignità umana, per consegnarsi a un tempo vasto e irriducibile, al respiro dell’ essere uomini contro ogni devastazione e rimozione, pur sopraffatto dalla sproporzione e dalla povertà di essere vivi, per lasciare il campo cantando: «Un uomo, che alcuni ritenevano / saggio, dichiarò che dopo Auschwitz / non fosse più possibile alcuna poesia. / Sembra che delle poesie / l’uomo saggio non abbia avuto / alta considerazione – / quasi che queste servissero a consolare / l’anima di sensibili contabili / o fossero vetri intarsiati / attraverso i quali si guarda il mondo. Noi crediamo che le poesie / siano ridiventate possibili / ora più che mai, per la semplice ragione che / solo in poesia si può esprimere / ciò che altrimenti sarebbe superiore a ogni descrizione».
L’esito di una nitidezza spoglia è effimerità profuga («La lirica nella nostra epoca / può essere solo effimera. / Comunicazione con la condizionale»), volto, città amata, patria-sorella, amore vissuto e rivissuto e ricordo purificato.
Essere cristallo nella lavina, sottrarsi alla fugacità feroce del tempo, partecipare al dramma dell’umano, significa, per Sahl, germinare nel suolo sottaciuto e «nella conchiglia dell’albero, / sui rami del sogno», racchiudere la linfa della lingua nell’«abbacinante / chiarore / del non ancora» e vivere un passaggio «dal regno del divenire / in quello del divenuto».
Ma non canta la fine né l’oscurità forte dell’oblio. Lo testimoniano le magnetiche poesie americane, dove New York appare fulgida e splendente in tutte le sue meravigliose contraddizioni.
Nella sua feritoia ferita, Sahl pone il suo rifiuto, come impossibile riducibilità dell’uomo e rimozione, come miseria di odio e di peccato. Lentamente egli esce dal mondo in silenzio, «verso un paesaggio al di là di ogni lontananza / e ciò che fui e sono e ciò che resto / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / verso un Paese non ancora battuto. / Lentamente esco dal tempo / verso un futuro al di là di ogni stella, / e ciò che fui e sono e sempre resterò, / se ne va con me senza impazienza e senza fretta / come se mai fossi stato o quasi» e dinanzi alla catastrofe, rimane un ultimo e infinito grido: «Mi rifiuto di scrivere un necrologio / per l’uomo come se fosse / un incidente biologico / tra due epoche glaciali».

SAHL H., Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo, a cura di Nadia Centorbi, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2014.
ID., Das Exil im Exil, Luchterhand, Frankfurt am Main 1990.
CENTORBI N., «Ich bin ein lebendes Memorial». Lethe e Mnemosyne nella poesia di Hans Sahl, in COTTONE M. – DOLEI G. – PERRONE CAPANO L. (a cura di), Dalla rimozione alla memoria ritrovata. La letteratura tedesca del Novecento tra esilio e migrazioni, Artemide Ed., Roma 2013, pp. 95-116.
ID., I volti dell’esilio, in «Poesia», luglio-agosto 2014.
DOLFI G., Il poeta-testimone che smentì Adorno, in “Il Manifesto”, 23 marzo 2014.
MOSCATI G., Hans Sahl. Fogli sparsi di un rigattiere dell’incomprensibile, in «Nuova Antologia» 2014.
ROSSANI O., Giornata della memoria: le poesie di Hans Sahl “Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo”, in “Corriere della sera on-line, 27 gennaio 2015 (http://poesia.corriere.it/2014/01/27/per-la-giornata-della-memoria-leggere-le-poesie-di-hans-sahl mi-rifiuto-di-scrivere-un-necrologio-per-luomo/)

L’elemento oggettivo del reato

images41YDDY8Xdi Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

                                                                                                               30 gennaio 2015

In questa pubblicazione affronteremo l’elemento oggettivo del reato.
Cos’è l’elemento oggettivo del reato? La definizione che viene data è la seguente: l’elemento oggettivo del reato è costituito dalla condotta umana, dall’evento naturale in rapporto di causalità che lega la condotta all’evento.
La condotta umana è l’azione o omissione posta in essere dal soggetto agente.
Per azione si intende qualsiasi movimento dell’uomo che determini la modifica della realtà esterna mentre per omissione il non porre in essere una determinata azione che per legge si aveva l’obbligo di compiere.
Per la sussistenza del reato occorre inoltre la sussistenza del nesso psichico intercorrente tra il soggetto attivo e l’evento lesivo. Il verificarsi di un singolo atto deve quindi necessariamente imputarsi alla volontà del soggetto agente.1
In dottrina sono state sviluppate varie teorie relative all’individuazione, certa, delle cause che hanno portato alla realizzazione della fattispecie lesiva. L’interpretazione di queste teorie hanno portato a concludere che non tutte le condizioni e gli antecedenti comportamentali che hanno preceduto l’evento possono essere considerati nesso causale tra atto e reato, solo quelle in mancanza delle quali il reato non sarebbe stato compiuto.
La teoria della conditio sine qua non, assume, infatti, che è condizione dell’evento solo quella che si può considerare necessaria e sufficiente al prodursi dell’ accadimento lesivo. In passato, gli interpreti del diritto prendevano in considerazione anche la teoria della “causalità adeguata”, asserendo che, per esserci un nesso causale, era necessario che l’azione fosse genericamente idonea a produrre l’effetto antigiuridico.2
Una recente sentenza della Corte di cassazione che ha deciso sulla calunia, ha ritenuto che ” la pacifica linea interpretativa dettata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 17992 del 02/04/2007, dep. 10/05/2007, Rv. 236448), è necessario, perché si realizzi il dolo di calunnia, che colui che falsamente accusa un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato, in quanto l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra il momento rappresentativo (ossia, la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) ed il momento volitivo (ossia, la intenzionalità dell’incolpazione). Si è inoltre precisato (Sez. 6, n. 29117 del 15/06/2012, dep. 18/07/2012, Rv. 253254) che la piena consapevolezza, da parte del denunciante, dell’innocenza della persona accusata è esclusa quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 46205, del 06/11/2009, Rv. 245541; Sez. 6, n. 27846, del 10/06/2009, Rv. 244421; Sez. 6, n. 3964 del 06/11/2009, Rv. 245849).3

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1 Elementi del reato: elemento oggettivvo ed elemento soggettivo, in www.studiocataldi.com

2https://www.hoepli.it/editore/hoepli_file/materiali_libri/Il_reato.pdf

3 C. Cass. Pen, Sez. VI, Sentenza 12 settembre 2014, n. 37654.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE VI
SENTENZA 12 settembre 2014, n. 37654

Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 giugno 2013 la Corte d’appello di Messina ha confermato la sentenza emessa il 30 maggio 2007 dal Tribunale di Messina, che dichiarava F.S.A. , B.S. , S.F. , V.F. e T.P. (nelle rispettive qualità di Sindaco del Comune di (omissis) , il primo, e di Assessori comunali, tutti gli altri) responsabili del reato di calunnia in danno del responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune, I.C. , e, previa concessione delle attenuanti generiche, li condannava alla pena sospesa di anni due e mesi due di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
1.1. Secondo la ricostruzione operata dai Giudici di merito, con la delibera della Giunta municipale n. 34 del 22 gennaio 1996, trasmessa per conoscenza alla locale Procura della Repubblica, il Sindaco ed i componenti la Giunta comunale avevano accusato il geometra I. – quale responsabile dell’Ufficio tecnico comunale – del reato di omissione di atti d’ufficio rispetto agli obblighi derivanti dall’ordinanza n. 225 del 19 dicembre 1995, emessa dal Sindaco F. per fronteggiare l’emergenza dei rifiuti, sebbene essi fossero a conoscenza delle obiettive motivazioni per cui quell’Ufficio si trovava nell’assoluta impossibilità di osservare il provvedimento sindacale. L’I. , in particolare, aveva posto in essere alcune attività in esecuzione dell’ordinanza, la cui menzione era stata dolosamente omessa nella delibera trasmessa alla Procura della Repubblica, con la precisa intenzione di incolparlo del reato di cui all’art. 328 c.p..
2. Avverso la su indicata sentenza della Corte d’appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori di fiducia degli imputati, rispettivamente deducendo, con separati atti, i motivi di doglianza qui di seguito partitamente illustrati.
3. Nell’interesse di F.S.A. e B.S. i difensori di fiducia hanno dedotto tre motivi di ricorso, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
3.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368 c.p., 192 e 530 c.p.p., 12 del D.P.R. n. 915/1982, non avendo la Corte di merito considerato che il Sindaco aveva emesso un’ordinanza contingibile ed urgente, la n. 225 del 19 dicembre 1995, avente ad oggetto la realizzazione in territorio comunale di una discarica provvisoria ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. n. 915/1982, tenuto conto dell’imminente scadenza della proroga per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani nella discarica sita nel Comune di Malvagna, nonché dei reiterati solleciti rivolti al Comune di Giardini Naxos dalla Provincia di Messina, per la realizzazione di una discarica propria. A fronte di una situazione emergenziale sul piano della tutela della salute e dell’igiene pubblica, anche per l’oggettiva impossibilità di risolvere il problema con il ricorso alle procedure ordinarie, è risultato comprovato che l’ordinanza sindacale non costituì oggetto di puntuale esecuzione da parte dell’I. , cui era stato ordinato di provvedere, previa acquisizione del relativo preventivo di spesa, all’affidamento diretto dei lavori di realizzazione. Dagli stessi allegati alla delibera n. 34/1996, del resto, si evinceva perfettamente la netta distinzione tra lavori pubblici e servizi pubblici – tra i quali rientra lo smaltimento di r.s.u. – sì da rendere errata la giustificazione addotta dall’I. , di non poter procedere a trattativa privata per l’affidamento diretto di lavori pubblici, a fronte di un preventivo di spesa di L. 462 milioni, in quanto non prevista dall’art. 12 della L.R. n. 4/1996 in materia di opere pubbliche.
L’atipicità della situazione escludeva il ricorso alle procedure ordinarie di formazione degli atti amministrativi, in ciò risiedendo la sostanza del potere sindacale extra ordinem previsto dalla legge, con la conseguenza che la persona offesa si era posta in una condizione tale da ostacolare, in mancanza di qualsiasi giustificazione giuridica, l’operato del Sindaco e della sua Giunta, avuto altresì riguardo al contenuto della relazione a firma dell’Ufficiale sanitario, dott. Si.Ga. , che aveva individuato un sito idoneo per la realizzazione della discarica provvisoria, indicando in modo preciso i lavori da eseguire.
3.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368 e 42 c.p., 192 e 530 c.p.p., nonché all’art.12 del D.P.R. n. 915/1982, avendo la Corte di merito errato nel qualificare come vera e propria denuncia ai fini del reato di calunnia il contenuto della deliberazione n. 34/1996 della Giunta Municipale: deve escludersi, infatti, la presenza di una diretta incolpazione dell’I. per il reato di omissione di atti d’ufficio, atteso che il Sindaco ed i componenti della Giunta non hanno fatto altro che prendere atto della mancata attuazione dell’ordinanza sindacale n. 225/95, disponendo la trasmissione degli atti all’A.G. in merito all’eventuale ravvisabilità di ipotesi di reato a suo carico. Il pieno convincimento della legittimità dell’operato del Sindaco, inoltre, esclude che quest’ultimo ed i componenti della Giunta possano essersi psicologicamente rappresentati in termini di assoluta certezza la piena innocenza dell’I. .
3.3. Violazioni di legge ex art. 606, lett. b), c.p.p., in relazione all’art. 538 c.p.p., per quel che attiene alla conferma delle statuizioni civili della sentenza di primo grado.
4. Nell’interesse di S.F. e T.P. il difensore di fiducia ha dedotto tre motivi di ricorso, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
4.1. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all’art. 368 c.p., in punto di accertamento dell’elemento oggettivo del reato di calunnia, per difetto del presupposto tipico relativo alla falsità dell’incolpazione. La delibera n. 34/1996 muoveva infatti dall’assunto che l’I. , quale responsabile dell’UTC, non aveva adempiuto all’ordinanza sindacale n. 225/1995 – emessa facendo uso dei poteri straordinari concessi dall’art. 12 del D.P.R. n. 915/82 – e, comunque, non aveva risposto all’amministrazione comunale entro il termine di giorni trenta per esporre le ragioni del ritardo, decidendo, tra l’altro, di andare in congedo ordinario dal lavoro nel periodo ivi previsto per adempiere, tenuto conto del clima di assoluta emergenza causato dalla mancata raccolta dei rifiuti e da un serio pericolo per la sanità pubblica, in mancanza di un sito ove effettuare il relativo smaltimento. Dal raffronto oggettivo delle attività poste in essere dall’I. con quanto richiesto nell’ordinanza n. 225 risulta chiaramente che egli non eseguì le prescrizioni sindacali – relative all’individuazione del sito, alla predisposizione di un preventivo di spesa, all’incarico in favore di una ditta di sua fiducia, alla predisposizione di un consuntivo e alla realizzazione della discarica provvisoria – e di tanto il Sindaco e la Giunta, preso atto dei termini già scaduti e della mancata esecuzione dell’ordinanza, vollero informare l’autorità giudiziaria.
4.2. Violazioni di legge e carenze motivazionali in relazione all’art. 368 c.p., in punto di accertamento dell’elemento soggettivo del reato di calunnia, poiché la Corte d’appello avrebbe dovuto tener conto del contesto di assoluta emergenza e dell’atteggiamento non collaborativo da parte dell’I. . Al riguardo, in particolare, la delibera n. 34/96 non esprimeva alcuna certezza sulla sua colpevolezza, ma si limitava ad informare l’A.G. della mancata esecuzione della precedente ordinanza affinché venissero eventualmente riscontrate ipotesi di reato, mentre le attività poste in essere dall’I. furono omesse perché ritenute irrilevanti rispetto alle prescrizioni contenute nell’ordinanza sindacale, e non per accusarlo falsamente.
4.3. Violazioni di legge in relazione agli art. 368 e 47, comma 3, c.p., non avendo la Corte d’appello correttamente considerato il rilievo difensivo secondo cui gli imputati, in ragione della qualifica da essi rivestita al momento del fatto e della situazione di emergenza nella quale operavano, hanno ritenuto di portare a conoscenza della Procura ciò che per loro era stato certamente interpretato come un illecito rifiuto in relazione all’utilizzo di uno strumento previsto dall’art. 12 del D.P.R. sopra citato, e quindi come il compimento di un reato per il quale vigeva l’obbligo d’informare l’A.G..
5. Nell’interesse di V.F. i difensori di fiducia hanno integralmente richiamato i due motivi formulati a sostegno del gravame avverso la sentenza di primo grado (ossia, la carenza dell’elemento psicologico dovuta ad errore scusabile ex art. 47, comma 3, c.p. e l’obbligo di denuncia del reato all’A.G. ai sensi dell’art. 361 c.p., data la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli imputati) ed hanno altresì dedotto vizi di violazione di legge e carenze motivazionali in relazione agli artt. 368, 47, comma 3, c.p. e 12 del D.P.R. n. 915/1982, il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.
La Corte d’appello, in particolare, ha erroneamente ritenuto non applicabile la disposizione di cui all’art. 12 del su citato D.P.R., laddove i tempi necessari per lo svolgimento di tutti gli adempimenti da porre in essere per indire una gara ad evidenza pubblica sarebbero stati del tutto incompatibili con l’urgenza di provvedere e non avrebbero fatto altro che aggravare ulteriormente la situazione di grave pericolo per l’igiene e la pubblica incolumità, tanto che la stessa Provincia regionale di Messina aveva più volte sollecitato l’adozione di un provvedimento contingibile ed urgente, minacciando anche una denuncia per omissione.
Nonostante l’applicabilità dell’ordinanza ex art. 12 cit. apparisse inconfutabile nel caso di specie, entrambi i Giudici di merito hanno erroneamente escluso la configurabilità dell’errore scusabile ai sensi dell’art. 47 c.p..
Si afferma in sentenza, inoltre, che l’I. avrebbe richiesto all’Intendenza di Finanza di Messina l’autorizzazione ad occupare in via provvisoria l’area di proprietà demaniale individuata per la realizzazione della discarica, ma il relativo sito era stato già individuato dall’Ufficiale sanitario, che ne aveva espressamente attestato l’idoneità ai fini dell’art. 12 del D.P.R. sopra citato.
Erronea deve ritenersi anche l’ulteriore affermazione secondo cui egli aveva predisposto una delibera di acquisizione di relazione geologica che il 29 dicembre 1995 non venne approvata dalla Giunta presieduta dal Sindaco, poiché con la delibera in questione (n. 646/95) la G.M. non ritenne necessario approvare la proposta sul rilievo che l’U.T.C. già disponeva di una relazione geologica inerente l’intero territorio.
Erroneamente valutata dai Giudici di merito, infine, risulta la questione relativa alla predisposizione del preventivo di spesa necessario per la discarica provvisoria, poiché lo stesso fu redatto solo in data 16 gennaio 1996, ossia dopo 27 giorni dalla notifica dell’ordinanza, e pervenne all’Ufficio tecnico nel pomeriggio del medesimo giorno, allorquando il Dirigente aveva già ultimato il suo servizio ed aveva lasciato l’ufficio senza prenderne visione, facendovi rientro, dopo un periodo in cui rimase assente per congedo e malattia, solo il (omissis) . Errata, dunque, deve ritenersi la ricostruzione dei fatti da parte dell’I. , quando afferma di aver comunicato all’amministrazione le sue perplessità circa l’impossibilità di procedere a trattativa privata, poiché l’importo presumibile della relativa spesa venne consegnato solo il 16 gennaio, quando egli era già andato via dall’ufficio, rimanendo assente per altri 15 giorni.
Considerato in diritto
6. I ricorsi sono fondati e vanno accolti per le ragioni di seguito esposte e precisate.
7. Emerge dalla lettura delle decisioni dei Giudici di merito che l’ordinanza sindacale n. 225/1995, notificata all’I. il 20 dicembre 1995 e trasmessa per conoscenza alle autorità amministrative competenti, oltre che alla Procura di Messina, aveva stabilito che il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune: a) individuasse in via provvisoria l’area adiacente al depuratore consortile lato mare come il sito ove effettuare la discarica dei rifiuti solidi urbani, secondo quanto già suggerito nell’apposita relazione redatta dall’Ufficiale sanitario in data 11 novembre 1995; b) predisponesse un preventivo di spesa concernente sia l’occupazione temporanea di tale area, sia la realizzazione della discarica, alle condizioni indicate dalla Provincia di Messina e dall’Ufficiale sanitario; c) incaricasse una ditta di sua fiducia in grado di provvedere a tale realizzazione, predisponendo a consuntivo l’esatto ammontare delle spese; d) desse attuazione alla discarica in tempi brevi.
L’ordinanza, richiamata nella motivazione della successiva delibera di Giunta municipale n. 34 del 22 gennaio 1996, aveva ad oggetto la individuazione e la realizzazione di una discarica temporanea, ex art. 12 del d.P.R. n. 915/1982, per i rifiuti solidi urbani nel territorio comunale, stante l’imminente scadenza – il 17 gennaio 1996 – della proroga dell’autorizzazione rilasciata dalla Provincia regionale di Messina al conferimento dei predetti rifiuti presso la discarica di un altro Comune.
Vi si precisava, altresì, che il mancato rispetto dell’ordinanza e dei relativi tempi e modi di attuazione avrebbe comportato l’eventuale adozione di provvedimenti di natura amministrativa, disciplinare, penale ed erariale nei confronti dei funzionari incaricati, in considerazione della ‘somma urgenza’, legata anche al carattere igienico-sanitario del provvedimento.
Nell’articolato assetto motivazionale della su citata delibera n. 34/1996, avente ad oggetto proprio il mancato rispetto ed attuazione del contenuto della precedente ordinanza sindacale n. 225/1995, la Giunta municipale rilevava che ‘nessuna comunicazione, relazione o atti’ erano pervenuti all’Amministrazione comunale da parte del dirigente dell’Ufficio tecnico in merito a quanto disposto per effetto del su menzionato provvedimento, emanato dal Sindaco nella sua qualità di Ufficiale di Governo e Autorità sanitaria, creando così ‘notevoli disagi’ alla predetta Amministrazione ed alla cittadinanza, con le conseguenti determinazioni legate all’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente, per l’inosservanza della sopra citata ordinanza, e all’invio di copia della delibera alla Procura di Messina ‘per tutti quei reati riscontrabili dall’omissione, non rispetto e non attuazione della citata ordinanza sindacale n. 225/1995, nei confronti del dipendente I.C. ‘, nonché al Prefetto e ad altre autorità amministrative per opportuna conoscenza.
Dalle decisioni dei Giudici di merito risulta, peraltro, che l’I. si era adoperato, a seguito dell’emissione dell’ordinanza n. 225/95, nei termini appresso indicati: a) richiedendo all’Intendenza di Finanza di Messina l’autorizzazione ad occupare in via provvisoria l’area individuata per la discarica; b) predisponendo una proposta di delibera di acquisizione di relazione geologica, che in data 29 dicembre 1995 non fu approvata dalla Giunta municipale; c) richiedendo al capo del settore dei lavori in economia del Comune, il 27 dicembre 1995, il preventivo di spesa concernente la realizzazione della discarica. Tale preventivo di spesa, trasmesso in data 16 gennaio 1996 dal tecnico che lo aveva redatto, risulta essere pervenuto alle ore 18.10 di quello stesso giorno, quando il dirigente dell’Ufficio tecnico aveva già ultimato il servizio ed era andato via, rimanendo successivamente assente dal servizio, per congedo e malattia, sino al (omissis) .
8. La formulazione del tema d’accusa poggia proprio sull’omessa menzione di tali attività amministrative nel corpo della su citata delibera n. 34/1996, attività che, invece, erano state poste in essere dal funzionario a tal fine incaricato, prospettandosi in tal guisa un suo comportamento assolutamente inerte a seguito dell’emissione dell’ordinanza sindacale n. 225/1995.
Al riguardo, tuttavia, occorre inquadrare i contorni della complessa vicenda storico-fattuale in esame, così come ricostruita dagli stessi Giudici di merito, nel contesto di obiettiva urgenza legata alla necessaria realizzazione della discarica nel territorio comunale ed alla ricorrenza di una situazione di emergenza nella tutela della salute e dell’igiene pubblica, situazione ripetutamente segnalata dalla Provincia di Messina ed ampiamente rappresentata nel su menzionato provvedimento sindacale, alle cui precise e dettagliate statuizioni, pertanto, occorreva dare piena e puntuale attuazione, anche in ragione della particolare ristrettezza dell’arco temporale entro cui l’Amministrazione comunale era stata chiamata ad intervenire.
La trasmissione di copia della delibera assunta dalla Giunta municipale alla locale Procura della Repubblica è avvenuta per informare l’Autorità giudiziaria del verificarsi di una situazione in cui il Sindaco ed i membri della Giunta, lungi dal manifestare alcuna personale convinzione riguardo alla colpevolezza della persona offesa, mostravano di ritenere irrilevanti le attività sino ad allora poste in essere dal funzionario comunale rispetto all’articolato quadro di prescrizioni contenute nell’ordinanza sindacale poco prima adottata, ritenendo, pertanto, che si fosse palesato un comportamento omissivo di atti urgenti.
Fondavano essenzialmente tale rappresentazione circa la mancata esecuzione della delibera non solo gli elementi di valutazione complessivamente derivanti dal raffronto oggettivo tra il preciso contenuto dei diversi adempimenti amministrativi richiesti e la natura essenzialmente prodromica o interlocutoria delle attività effettivamente realizzate, che di certo non ne evidenziavano una precisa e completa attuazione (tanto che il preventivo di spesa non fu predisposto, ma se ne diede incarico ad altro funzionario, che procedette alla sua trasmissione all’Ufficio tecnico solo il giorno prima della data di scadenza della proroga dell’autorizzazione rilasciata dalla Provincia di Messina, mentre la proposta di delibera acquisitiva di una relazione geologica, non contemplata nell’ordinanza sindacale n. 225/1995, non fu approvata dalla Giunta municipale), ma anche le ulteriori circostanze, parimenti poste in rilievo, o comunque emergenti dalla motivazione della delibera di Giunta n. 34/1996, indicative del fatto che gli imputati ritenevano di aver correttamente agito nel peculiare ambito dell’intervento extra ordinem previsto dal su citato art. 12 (con la conseguente tutela offerta dalle previsioni sanzionatorie dettate nell’art. 29 del citato d.P.R. n. 915/82) e che l’Ufficiale sanitario, sotto altro ma connesso profilo, aveva già provveduto ad individuare un sito ritenuto idoneo per la realizzazione della discarica ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 915/82, che era stato in effetti puntualmente indicato nella sua relazione del 13 novembre 1995 in quello adiacente all’area che ospitava il depuratore consortile.
9. Al riguardo, secondo la pacifica linea interpretativa dettata da questa Suprema Corte (Sez. 6, n. 17992 del 02/04/2007, dep. 10/05/2007, Rv. 236448), è necessario, perché si realizzi il dolo di calunnia, che colui che falsamente accusa un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato, in quanto l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra il momento rappresentativo (ossia, la sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) ed il momento volitivo (ossia, la intenzionalità dell’incolpazione).
Si è inoltre precisato (Sez. 6, n. 29117 del 15/06/2012, dep. 18/07/2012, Rv. 253254) che la piena consapevolezza, da parte del denunciante, dell’innocenza della persona accusata è esclusa quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente la presenza di condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza (Sez. 6, n. 46205, del 06/11/2009, Rv. 245541; Sez. 6, n. 27846, del 10/06/2009, Rv. 244421; Sez. 6, n. 3964 del 06/11/2009, Rv. 245849).
Nel caso in esame, in effetti, non vi è stata una compiuta rappresentazione di tutti gli elementi di conoscenza nella predisposizione dell’atto inviato all’Autorità giudiziaria, ma ciò è avvenuto perché gli imputati avevano maturato la convinzione – dandone, peraltro, ampia giustificazione nella stessa motivazione della delibera di Giunta municipale – che il responsabile dell’Ufficio tecnico, a fronte di una situazione di obiettiva urgenza, non avesse fatto nulla di realmente significativo rispetto al quadro degli adempimenti e delle prescrizioni precisamente delineato nel precedente provvedimento.
Né, del resto, si esprimevano certezze riguardo alla colpevolezza del funzionario comunale, ma si adottavano provvedimenti di vario tipo nei suoi confronti, informando l’Autorità giudiziaria della situazione che in quel momento si era venuta a determinare, affinché venisse eventualmente ravvisata la presenza di ipotesi di reato legate alla mancata esecuzione dell’ordinanza sindacale.
Al riguardo, si è già tracciata in questa Sede (Sez. 6, n. 22922 del 23/05/2013, dep. 27/05/2013, Rv. 256628) una precisa linea di discrimine, allorquando si è affermato che solo l’ingiustificata attribuzione come fatto vero di un fatto di cui non si è accertata la realtà presuppone la certezza della sua non attribuibilità sic et simpliciter all’incolpato.
Quando invece l’erroneo convincimento riguardi, come avvenuto nel caso in esame, profili essenzialmente valutativi o interpretativi della condotta oggetto di addebito, l’attribuzione dell’illiceità è dominata da una pregnante inferenza soggettiva, che, nella misura in cui non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata, è inidonea ad integrare il dolo tipico della calunnia.
Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, conseguentemente, l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza, secondo la formula in dispositivo meglio enunciata.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non costituisce reato.

 

L’intuizione ardente, l’affinamento critico: “Di là delle siepi”, Andrea Galgano

di Adriana Gloria Marigo    16 gennaio 2015

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7787 copertina - Copia - CopiaNell’accingermi alla lettura di un saggio dedico l’iniziale attenzione all’indice bibliografico, poiché da quel primo avvicinamento scaturisce la percezione di trovarmi davanti al richiamo coinvolgente della materia critica in questione o al suo sfioramento: non è una questione di mera suggestione, ma la deduzione della consistenza del lavoro di ricerca, organizzazione e infine argomentazione dell’autore.

Secondo questo criterio mi sono immessa in Di là delle siepi di Andrea Galgano con la visione di un corpo critico di pregevole rigore, sostenuto da una tensione conoscitiva ed ermeneutica favorevole perché informata alla passione dell’autore per la discesa entro la dynamis che governa la produzione dei due poeti, all’intuizione ardente dei più intimi connotati della loro ragione immaginale e all’affinamento critico che si avvale di notevole studio: in particolare di una modalità che, padroneggiando gli elementi indispensabili alla critica classica e la sicurezza di un alfabeto psicoanalitico che consente di individuare i meccanismi e i processi psichici sottesi agli eventi creativi entro la scrittura e che affondano nella densità della vita, nelle frantumazioni del sentimento, nello spasmo del riconoscimento del nulla o della ricostruzione di una età possibile solo di ricordanza, costituisce le fondamenta dell’ analisi di Galgano.

Questo particolare sguardo vigile e dedicato – attenzione che è sì filologica, ma non strettamente tale perché attraversata dal sensibile intelletto per la poesia (ricordiamo che Andrea Galgano è visitato dal daimon del verso) – alla materia complessa, vasta, inesauribile di visitazione di Leopardi e Pascoli, permette al critico di considerare i due grandi poeti in una dimensione non di separatezza, ma di “rimandi” in quanto, nelle differenze inevitabili e salienti, emergono certi elementi che accomunano e vengono declinati con tonalità chiaroscurali tali da connotare con precisione le loro poetiche – da una parte – e individuare le affinità – dall’altra – per poter scrivere della loro comunanza: “ … sia Leopardi sia Pascoli costruiscono una vera e propria teoria della visione” 1.

Questa dichiarazione è una delle istanze da cui muove il lavoro critico di Galgano e che presto si dimostra un vero percorso di “ars inveniendi”, quasi applicazione del pensiero leibniziano nelle parti funzionali al testo letterario di grande espansione lirica: sulle conoscenze acquisite dalla grande mole critica che investe Leopardi e Pascoli, il poeta-critico innesta la logica della scoperta di verità nuove mediante l’indagine delle corrispondenze (le “correspondances” di cui scrive Irene Battaglini in Preludio, pag. 19) che si traducono nei temi reali (spazio geografico, spazio siderale, corpi celesti, paesaggio naturale,…), nei temi psicologici (memoria, ricordo, “sguardo vedovo”, vago, infinito, “nido”…), in quelli universali (amore, vita, morte, felicità, illusione…) consentendo l’affioramento delle differenze che – come nello sviluppo di un principio d’individuazione – colloca ciascun poeta nel posto privilegiato in ragione della propria specifica coscienza, affettività, intelligenza spirituale, della personale frequentazione della materia di eccellenze che precedono e attengono – anche qui in un clima di corrispondenze – all’opera individuale, della conseguente irradiazione in fatto di materia filosofico-poetico-letteraria, rapporto con la storia, lascito nella misura di memoria e modernità.

Nel riconfermare che la prossimità tra Leopardi e Pascoli si radica nel tema della fanciullezza “La fanciullezza diventa il luogo poetico da cui attingere immagini strettamente collegate all’idea del lontano e del vago, come fonti di un unico processo immaginativo. La facoltà immaginativa infatti comprende la realtà in maniera indefinita” 2
Il mito dell’infanzia rimanda alle origini, in forma aurorale, come “penombra dell’anima” che riporta allo stupor mundi prenatale, all’entrata dell’io sulla scena del mondo e alla prima scoperta dell’armonia” 3, Andrea Galgano introduce, proprio in relazione al poeta di San Mauro, il tratto del “puer aeternus” “dunque, che riecheggiando il Fedone di Platone, tenta, attraverso la poesia, di trovare «nelle cose […] il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima» e come avviene in Tolstoj, di affermare l’infanzia come ideale dell’umanità.” 4

In questo reiterare la fanciullezza, lo “sguardo vedovo” pascoliano configura il mondo d’imprecisione, vaghezza, dissolvenza, trovando in esse “appagamento della vista che non spazia ma si rassicura nella sua cornice campestre, luogo topico della vera poesia e della vita del fanciullino, amante del compiuto e del circoscritto” 5, mentre il vissuto della perdita – comune a entrambi i poeti – è sì il segno del tragico, ma anche il segno di uno sguardo innocente che accosta il divenire quale manifestazione «… dove tutto ciò che accade è “senza perché”» 6 e proietta il sentimento d’infinitudine sulla quale insistono il desiderio, la ricordanza, la caduta delle illusioni come “tensione elementare alla purezza espressiva, vivida nel vedere della poesia, vissuta come disincantata elegia nelle increspature del reale e nell’energia dell’affectus, e che conduce la voce a una sorgiva quanto gratuita domanda di felicità”. 7

Andrea Galgano, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini, Roma, Aracne, 2014, euro 18

1 A. GALGANO, Premessa – Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. pag. 24
2 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. pag. 65
3 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. pag. 153
4 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. pag. 154
5 Cfr. M. BALZANO, L’opera poetica
6 Cfr. E. SEVERINO, Il nulla e la poesia
7 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. pag. 347

Il sapore della realtà, il colore del giorno che passa, la memoria del presente. Andrea Galgano, Di là delle siepi

di Giuseppe Panella 11 gennaio 2015

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7787 copertina - Copia - CopiaLodando l’impianto non esclusivamente accademico e di pura ricerca e curiosità bibliografica che presenzia alla ricerca di Andrea Galgano (doti quest’ultime presenti nel libro ma che non lo soffocano né gli impediscono di comunicare le proprie novità ermeneutiche), Davide Rondoni scrive con efficacia nella sua prefazione al libro:

«Qui no, spira invece un’aria di partecipazione e di fame, non ho altra parola, che somiglia a quella con cui bevendo qualcosa si ascolta con attenzione e ci si interessa alla vita di un amico, ai suoi casi e alle sue testimonianze. Il lungo approfondimento sul tema della memoria, oltre a fornire una chiave lungo la quale leggere evoluzioni e cesure in una ideale storia della poesia, ci mostra come e quanto questa indagine sia mossa dalla volontà di entrare in un mistero, e la sua fragranza che trapela nelle opere in esame. Ma senza quella fame di amicizia, tale indagine sarebbe stata più mesta e fredda, più distaccata e non per questo più obiettiva. C’è un metodo affettivo che guida l’autore, libero di prender suggerimenti da precedenti lettori molto diversi e quasi antagonisti tra loro»1 .

La dimensione di “amicizia” che pervade lo scritto di Galgano gli permette di affrontare con vigore e rigore due autori studiatissimi sui quali si potrebbero consultare intere biblioteche senza esaurirne la lezione e la concezione del mondo dei due poeti analizzati nel suo volume (Leopardi è l’autore più studiato della letteratura italiana dopo Dante; su Pascoli la ricerca accademica e non è stata finora caricata robustissimamente). Essere “amico” di un poeta significa – per Galgano – partecipare della sua vita interiore e comprenderne la mente e soprattutto l’anima scendendo in profondità al loro interno. Significa, in effetti, capire che cosa ha significato per essi l’incontro, durato tutta la vita, con la poesia. Vuol dire entrare, intus et in cute, con gli strumenti della critica letteraria e dell’analisi psicoanalitica, nel loro laboratorio segreto, nella fucina delle loro immagini verbali e della loro espressività verbale. E’ quello che deliberatamente rivela Irene Battaglini nel suo bel Preludio poetico all’opera di Galgano, individuando le ragioni della sua riuscita:

«La struttura del saggio è autoesplicativa: non si parla di vita e opera, ma di opera e vita, non si parla per dualismi, ma per correspondances, in un gioco di intersoggettività alla stregua di goethiane affinità del cuore e della mente. Questa trama di linguaggi e memorie, di fatto, ricorda la rivoluzionaria lezione di Lurjia, quando respinge la tradizionale teoria delle funzioni cerebrali localizzate e ci apre alla visione delle interconnessioni. La conoscenza attraverso la poesia è quindi, in parte, implicita»2.

Di conseguenza, l’analisi ricostruttiva di Galgano non si concentra tanto sulla dimensione filologica dei testi e la loro affidabilità quanto sul senso globale che essi assumono all’interno dell’opera poetica cui appartengono. Per lo studioso potentino, la capacità poetica fa tutt’uno con la sua espressività emozionale e la potenzialità del suo sguardo si esprime come rapporto di relazione tra la figura del poeta e la sua estroflessione verbale come capacità di cogliere nella parola la densità del suo rapporto-scontro-annullamento nel mondo.

Ciò appare evidente in Pascoli e nel suo rapporto con l’evento centrale della sua vita: l’uccisione di suo padre Ruggero il 10 agosto 1867 che influenzerà pesantemente la sua concezione del mondo e della poesia e lo renderà consapevole dell’esistenza del proprio “sguardo vedovo”:

«La comunanza degli esseri umani non trova risposta alla domanda di significato del reale. Tutta la poesia di Pascoli si muove quindi verso uno “sguardo vedovo”, in un impianto assiologico che diviene principio costitutivo fondamentale dell’esistere, in una crisi radicale del significato e della presenza dell’io. Il passato diviene pre-sente come un incessante vivere per la morte in un destino violento, privato, infranto nella sua purezza e nella sua religio domestica.Questa traccia segue il percorso di questo studio, volto a concepire da un lato come in Pascoli vita e poesia siano forme insanabili e ossimoriche e dall’altro ad indicare l’innocenza del “fanciullino” dinanzi alla inesplicabilità dei processi naturali. La densità dell’attimo poetico è vissuta nell’intuizione originaria inconscia, nella sostanza sensibile che risulta porta di accesso al microcosmo e al macrocosmo del reale .L’itinerario poetico si nutre di memoria, che dal dato occasionale si solleva alla scoperta di una impressione, di una corrispondenza simultanea di autobiografismo e di trasfigurazione simbolica divenuta psicologia crepuscolare e potenza in atto di luoghi e di precarietà»3.

Ma il nucleo centrale del saggio di Galgano è nell’accostamento di poetica tra Leopardi e Pascoli dove l’accento è maggiormente posto sulla concezione della poesia come forma espressiva privilegiata e più significativa della soggettività umana (rispetto alla prosa del romanzo o del teatro, ad esempio, anche se questo in entrambi non accade sempre nelle espressioni saggistiche) e non sui risultati, peraltro spesso molto diversi, della loro opera realizzata.
Nella parte del volume dedicata al tema della rimembranza e della siepe “che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, il poeta di Recanati viene letto in chiave di confronto-scontro con Petrarca e con la sua idea dei ”segni di memoria” quale permanenza dell’eterno in un ambito di assoluta transitorietà4. Galgano sembra postulare, quindi, per seguire la linea critica direttrice dell’”angoscia dell’influenza” che contraddistingue il modello psicoanalitico di Harold Bloom5 , la presenza di un agon, un conflitto silenzioso fatto di ammirazione e di sogno, tra il poeta di Recanati e l’autore del Canzoniere. Ma se il modello di riferimento da superare è proprio Petrarca, questo non vuol dire che Leopardi si limiti a cercare di andare oltre la sua prospettiva del ricordare. La sua riarticolazione del concetto poetico di memoria (poi suddivisa e ricompressa in quelli di ricordanza e di rimembranza – così come egli stesso fa nello Zibaldone il 24 luglio 1820) è particolarmente significativa e urgente:

«Petrarca ha avvertito il dramma vivente dell’oblio. Le rovine che si trasformano, i frammenti di un’antica unità che ci inseguono, si fanno carne, divengono l’irrecuperabile stoffa del desiderio. L’immedesimazione umana, psicologica e letteraria di Petrarca in Leopardi si attesta nel riuso dei modelli antichi, nel dramma peculiare petrarchesco e nella sua specificità memoriale che diviene assente percezione dinamica del mondo. Leopardi, tuttavia, non è tanto interessato alla psicologia del ricordo, quanto al rapporto tra la memoria e la storia, collettiva e individuale, tra l’ossessione del ricordo e l’innocenza di felici età trapassate, irrimediabilmente perdute. La rimembranza per il poeta non è semplice rimando nostalgico e neppure una credenza illusoria nella possibilità che il passato si ripeta, non essendoci in Leopardi una convinta adesione alla teoria dell’eterno ritorno. Essa soprattutto consente di rivivere dall’interno la condizione psicologica dell’età adolescenziale, reimmergendo l’io nella situazione di attesa fervida per il futuro, che è il vero elemento animatore dell’esistenza umana»6.

Allo stesso modo – ed è, in fondo, questo l’obiettivo che Galgano vorrebbe raggiungere nella sua ricerca – tra la poesia di Pascoli e quella di Leopardi esiste un sotterraneo fil rouge che costituisce un tentativo di integrazione e di conciliazione suprema da parte del poeta di San Mauro di Romagna, di ritrovamento di un’armonia interiore che esalti l’innocenza originaria della soggettività umana e la riconduca alle sue scaturigini profonde:

«Sul piano tematico il punto nodale di contrapposizione tra i due sistemi ideologici di Pascoli e Leopardi è raggiunto in Passeri a sera, considerato una risposta indiretta a Leopardi, negatore di ogni intervento provvidenzialistico, sebbene intriso di senso religioso. L’ottica delle formiche, a cui gli uomini sembrano enormi e il tenue tratto ironico affine dei passeri ricorda il Dialogo d’un folletto e d’uno gnomo, soprattutto la polemica anti-antropocentrica che si rifà al desiderio di felicitò della Natura nell’omonimo dialogo con l’Islandese. E diversamente dal suo predecessore, l’ansia di significato pascoliana non esclude nel suo grido, a volte lacerato, a volte cosmico, l’Intelligenza superiore che riesce a ricavare dal male il bene, seppur attraverso una lucida rassegnazione»7.

Il nucleo centrale della poetica di Pascoli – come è ben noto – è quella dell’interiorità poetica aurorale del canto lirico, la dimensione del “fanciullino”.
E’ questo uno degli snodi della ricerca di una poesia non tradizionalisticamente atteggiata ad ode (quale si poteva rintracciare a tutto il primo Novecento nel maestro bolognese Giosue Carducci) o a espressione linguisticamente e abulicamente modulata. Scartando la dimensione del vate (come era accaduto nel Carducci meno avvertito e/o significativo espressivamente e come sarà poi nel D’Annunzio meno innovativo a livello linguistico), il poeta regredisce produttivamente allo stadio “infantile” dell’osservatore dell’evento (sia naturale che storico) e lo riproduce mimeticamente.
Così argomenta Galgano, trovando una serie di possibili fonti pascoliane in importanti autori anglosassoni (Wordsworth, il Carlyle della conferenza su Odino nel Culto degli eroi, tanto per citarne un paio) e soprattutto nella relazione con la rimembranza leopardiana:

«Per citare solo alcuni dei raffronti possibili, tale tematica è già presente in Wordsworth, in particolar modo nel Nature’s Priest; in Carlyle, in cui la visione della creazione poetica si accompagna alla purezza della parola che incontra l’intima essenza della bellezza, in Ruskin, dove viene sviluppato il tema della elezione del “vero” in tutte le sue forme, come traduzione in opera della meraviglia del mondo e del gran mare delle cose visibili, ed è evidente in Leopardi stesso, in cui l’io, motore vitale della poetica idillica, rappresenta, da un lato, la scoperta negli antichi del “fanciullesco”, ossia della piena armonia tra uomo e natura (in tal senso essi costituiscono una sorta di rivelazione dell’uomo a se stesso) e, dall’altro, il ritrovamento di una coscienza autentica del vivere, attraverso la possibilità di ricondurre la poesia alla natura»8.

La “malinconia” di Leopardi di cui il “sedendo e mirando” dell’ Infinito è sintomatica espressione9 si trasforma in pre-“contemplazione della morte” a mano a mano che l’innocenza dell’infanzia si allontana e subentrano le ansie e le “impurità” dell’età matura (in particolare, la tentazione della sessualità come in poesie quali Digitale purpurea contenuta in Primi poemetti del 1904).
L’estetica del “fanciullino”, allora, ha la funzione di esorcizzare la decadenza della progressiva maturazione dell’anima e del corpo e riportare la poesia alla sua funzione primigenia di “rinnovellamento”, di rinnovamento totale, cioè, dei sentimenti più puri degli uomini.
Il privilegiamento di ciò che è il “piccolo” (del microcosmo) significa proprio questo:

«Il problema della perdita e della vita come perdita è il tema portante della regressiva struttura poetica, in cui la vertigine nell’infinitamente piccolo, diventa dimensione precisa dell’esistenza. L’avvenimento di questa visione è un tentativo di ricercare e di ricreare uno spazio aperto alla contemplazione, in un simbolismo caricato di oggetti, denso di profondità e di significato»10.

Nella ricca trattazione critica di Galgano, la ricerca poetica di Leopardi e Pascoli è così giustamente rinnovata nel senso positivo del ritrovamento di nessi e di contesti nascosti che altrimenti avrebbero rischiato di andare perduti in una ricostruzione che fosse rimasta puramente a livello storico-storicistico.

Andrea Galgano, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini, Roma, Aracne, 2014, euro 18.

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1 D. RONDONI Prefazione ad A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido, prefazione di Davide Rondoni, preludio di Irene Battaglini, Roma, Aracne, 2014, p. 14.

2 I. BATTAGLINI, Preludio ad A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 19.

3 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , pp. 21-22.

4 Cfr. A. TORRE, Petrarcheschi segni di memoria. Spie, postille, metafore, Pisa, Edizioni della Scuola Normale, 2008.

5 Cfr. H. BLOOM, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, trad. it. di M. Diacono, Milano, Feltrinelli, 1983.

6 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 49.

7 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 342.

8 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , p. 155.

9 Almeno quanto argomenta Elio Gioanola in Leopardi, la malinconia, Milano, Jaca Book, 1995.

10 A. GALGANO, Di là delle siepi. Leopardi e Pascoli tra memoria e nido cit. , pp. 181-182.