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"Frontiera di Pagine Magazine on Line" Rivista di Arte, Letteratura, Poesia, Filosofia, Psicoanalisi, ... Lo sguardo poetico vive sempre di un’esperienza di confine. Ma è allo stesso tempo un modo ragionevole di conoscere il mondo, di esplorarne gli anfratti. Un fenomeno umano che si lascia sorprendere e invita a un viaggio e a una meta. La pagina scritta è il segno di una tensione a ciò che compie, al dato dell’esistenza. Attraverso questo strumento conoscitivo e antropologico, ciò che desta la nostra attenzione è sì un’esperienza di confine, spesso fratturata, ma è, per dirla con le parole di Luzi: un atto di “onore” per la realtà. L’esperienza del limite non appartiene solo al poeta in quanto tale, ma è caratteristica precipua di ogni esperienza umana. L’io ha bisogno del tu per completarsi e mettersi in relazione, e che possa, in qualche modo, vincere questa mancanza. Un qualcosa che poggia sull’oltre e che sia riconoscimento di una domanda. Un dono, un appiglio, un gancio. Oltre all’esperienza di stupore e di obbedienza devota, per dirla alla Auden, ciò che ridesta lo sguardo, con i gomiti appoggiati all’orizzonte, ci sono due termini decisivi per ogni esperienza poetica e letteraria: memoria e visione. Due atti coniugati al presente per raccogliere il reale. Si scrive ricordando, come messa a fuoco della memoria. Intesa nel suo significato di azione viva, per inseguire ciò che non si sa. Inseguimento duro che non si inventa. Un ricordo che non ricorda, scriveva Piero Bigongiari, per cercare la fodera di ciò che c’è e vederla, appunto. In questo passaggio di rubrica si scoprirà ciò che alimenta il respiro, in una narrazione presente, un abbraccio di occhi tra sangue e respiro, come uomini veri e liberi.

Le sinopie smarrite di Diego Baldassarre

di Andrea Galgano 6 dicembre 2016

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diego-baldassarre-sinopie-smarriteLa nuova raccolta di Diego Baldassare (1969), poeta romano trapiantato sulle colline pistoiesi, Sinopie smarrite, edita da Lietocolle, restituisce non già un mondo sommerso bensì la linea rarefatta e smarrita di un preludio vivente, di un’anima non arresa (e perciò vincente) e, infine, di una intensa dirittura.

Egli stesso, infatti, ci orienta sul titolo: «La sinopia è il disegno preparatorio di un affresco, disegnato sull’intonaco: quando viene realizzato l’affresco questo disegno si perde, si smarrisce. Eppure senza quel disegno l’opera finale non potrebbe essere realizzata. Se l’opera finale è l’Uomo, le sue sinopie sono le emozioni e le esperienze che l’hanno condotto ad essere quello che è».

Il portato fisico dell’opera di Baldassarre, pertanto, si intreccia con il limite e con l’incompletezza umana ma, altresì, riesce a compiere una poesia visitata da una acuta percezione del mondo. La ricchezza di questa visione interiore, le sezioni illuminate, le stanze accertate da improvvise coloriture avvengono in una prospettiva di discesa salutare, in cui il rapporto mistico tra la natura e l’artista è pervasivo, invasivo e costitutivo.

L’elemento naturale mescola varchi e scorci in un taglio di visione e volo, profonda riflessione e appunti che documentano lo smalto del vivente, la sua prolusione e la sua demarcazione di interludi e impronte, come ripasso di progetti:

«È nell’interludio tra l’ultimo battito / del volo della falena / e il raggio dell’alba sul sangue gelato / della farfalla / che l’uomo abita il suo silenzio / Si esiste solo per l’attimo che mozza / il respiro / per lo specchio scuro dell’otturatore / che riflette la retina / Per il dito cacciatore dei propri sogni / Ansima la pupilla eccitata dalle ore / insonni / La smania dell’attesa si combatte / ripassando progetti / L’esatta inquadratura è predisposta / per l’impronta di colore per l’inganno di se stessi» (Lo scatto).

La poesia di Baldassarre è visitata e abitata da una vertigine rivelativa che introduce l’agone di un’attitudine che lotta per vivere e respirare, e che testimonia, nel grido e nella domanda dell’io che preda, le parole e le raduna sulle orme ungulate, sugli scavi, sulle tracce d’acqua e sugli smottamenti d’animo: «Sono io / predatore di parole / l’unico abitante dei fogli» o ancora «Imperterrito sterro seguendo il silenzio di orme ungulate / per non sembrare dissimile / dal lupo che segue la preda».

La parola, dunque, è la sua preda vigile che insegue la verità dell’esistere e del vivere, cribrata dalle radici («Seguimi fino all’antico mulino / devo mostrarti olivi secolari / hanno radici profonde / e una pazienza senza sconfitta») e fessurata attraverso la tensione dello sguardo, oltre le linee di ogni orizzonte possibile e ogni vibrazione nel silenzio sulla terra nuda «ferita abrasa / purulenta di fango / A picco sul silenzio»: «La forma di pietra / levigata / attira la carezza / della mano destra / Rimangono impresse / nella salsedine ciottolosa / incerte linee / della vita / tre salti sull’acqua / azzurro deserto / l’esistenza si sottende / tra spuma di mare / e pioggia imminente».

In questa linea adoperata dall’autore esiste una gradazione di silenzio e palpebre che disegna il suo arriccio sgualcito e vivido, che delinea il suo abbozzo, che concreta le immagini, le compone e le riempie in una vigilanza e veglie dipinte, e tracciandole e comprimendole nelle proprie maree interiori, le fa risplendere nell’ «anima arenata sulle parole», fino ai sospinti ricordi controvento:

«All’improvviso incespico nella / radice affiorante dei sensi / Ricordi controvento sospingono / pensieri dentro una radura / laddove calpestio di formiche / traccia sentieri ortogonali / La memoria atavica della stirpe / pulsa alle tempie: vibrano / i capelli al suono delle parole / Il sussulto del tempo incute / rispetto per segnali irrilevanti / non cado ma duole la caviglia / che sosteneva il passo dei versi» (Ricordi controvento).

L’immagine tremante diviene dispendio di vita e vocazione di palpebre, che sogna l’indicibile e l’inscrivibile tensione di una trafittura e di una rivelazione di bellezza, trascritta e riemersa, come foglia sugli occhi.

La trama della vita corrente insegue trasparenze assolute e umbratili, pedina l’eterno gioco delle stagioni, lasciando emersioni vive di impronte e tracce che colorano il magma vivente attraverso una sognata e ubicata antichità, come il vento di pioggia che sciaborda tra i rami e la forra che sussurra parole d’acqua:

«Sulle mie colline adottive / sciaborda vento di pioggia tra i rami / Non scorgo il pettirosso del mattino / La forra sussurra parole d’acqua / Non è possibile muoversi oltre / il profilo del bosco / Pigramente attendo che l’arcobaleno sorga / sulle mie colline adottive / L’occhio spazia su fusti di castagno / sulle spine di giovani robinie / Ma non vola l’aquilone dei sogni / Sciaborda vento di pioggia tra i rami / Sbandano i minuti affacciati / alla finestra nascosta dal tetto / solo la poiana si libra altera / Non scorgo il pettirosso del mattino / L’anziana vicina – mani antiche / d’olivo – spezza rami avvizziti / Sul confine dell’esistenza immobile / la forra sussurra parole d’acqua» (Mani antiche d’olivo).

La trasparenza della sua poesia frequenta sponde e barriere, l’ombra incastonata sul muro, la luna che sussurra versi taglienti, dove memorie antiche curano l’apice oscuro e luminoso dell’arte e la sua veglia essenziale.

L’essenzialità è qui vertiginosa. Non solo per la concrezione elementare di immagini ed elementi come volti e condizioni ma soprattutto per l’epifania del dicibile e la sua solvente trasformazione, la comprensione del mondo e la minuta sacrale di tutti i passaggi.

Come avviene nella sezione degli Haiku, dove il bilanciamento linguistico rinserra la politura della sua espressione. Gli haiku posseggono la vorticosa fragilità di ciò che è primario ma, allo stesso tempo, anche fusione con il reale, con tutte le sue ferite e il concepimento di una domanda di amore: «Onda fragile / su scogli interiori: / spuma di vita» o «Le mie donne / corrono con il vento: / madre e figlia», «Ho abbattuto / l’ippocastano stanco: / piango sul vuoto», «Passa il vento / nevicano petali / mentre cammino».

Nelle Diafonie poi, scrive l’Autore, «si raccoglie tutto ciò che crea un disturbo (positivo o negativo) nell’esistenza: la poesia ed il suo ineffabile spirito; il lavoro o la sua mancanza; le guerre e le sue vittime; i ricordi con la loro malinconia; i viaggi; le amicizie. La vita di ogni giorno sospesa al filo sottile delle esperienze e dell’esasperazione».

Il disegno così tracciato, coperto dall’intonaco poetico e restituito da una restaurata apertura percettiva, proclama brevi dilegui di respiro e nuovi dedali mentali, guerre e pleniluni di sogni che brillano «sulle tegole di carta velina», stazioni ripiegate e solitarie (Stazione ostiense), cesure dimenticate e erranti nella liturgia del vivere: «Circonfuso da pulviscolo di idee / errante a tastoni sul foglio / attendo paziente la fortunata / congiunzione neuronale di un verso / L’irreparabile cesura tra me / e il riflesso errante offerto agli altri / m’inghiotte e mi protegge».

La poesia diviene autentica quando comunica lo stupore e il taglio, collocando gli occhi nel dramma vivente senza censure e, infine, quando recupera ciò che la vita e la realtà rilasciano («Ogni giorno si cede / ai pavimenti al vento / alle lenzuola agli altri / brandelli di noi / Gocce di sudore capelli / frammenti di pelle / saliva sperma / Incuranti degli spiccioli / di vita caduti / nel tombino del tempo» (Vita in spiccioli), o nella pieve lucente, dove il silenzio dei secoli si dilata nelle parole, e le pagine sono incise come scalfitture: «Scarpe si trascinano calcando / pagine incise con lo scalpello / ognuno incede / evitando di leggere tra le scalfitture / l’esistenza calendarizzata / Il silenzio dei secoli dilata nelle parole / La voce dell’anziano poeta torna bambina / e ascolta la solitudine dei versi».

Gli incroci delle vite pendolari raccolti nei dettagli passano nella loro minima presenza, il volo-pensiero «smuove lo sfondo del paesaggio», come se il bozzolo di carta fosse anticipo esploso di volo, il telaio memoriale della polvere di fard come riflesso, lo zoo di cartone e la soglia della memoria che propone il suo bivio dove il tempo «spezza le ali all’anima» ed «è ambra ciò che era resina».

La poesia di Baldassarre non deposita i suoi detriti di viaggio sulla pagina, bensì anima l’accertamento di una presenza di cose e presenze, volti e affermazioni di carezze e di attese, poiché l’attesa «è donna silenzio vita» e ritrova «il vuoto prima / e dopo la parola / caduta».

Frequentare l’attesa significa tendere a un compimento impaziente, proteggere la sosta cara e il traffico dei ricordi affollati, i sogni che sporgono volando, il bagliore della fuga prima del sibilo che squarcia la notte, l’interno del condominio come filigrana onirica.

Ha scritto Giuseppe Panella:

«Come con la poesia, quindi, si è in presenza di una dimensione vitale che fa esistere chi la realizza concretamente in modo tale da assumersi la responsabilità di ciò che vede e di ciò che sente, di ciò che ama e di ciò che assorbe […] Il “telaio” che lavora all’interno dell’animo del poeta produce continuamente voci e suoni e significanti che bisognerà poi trasformare in senso e significato perché la poesia possa emergere e fiorire, luccicando nel primo sole dell’alba e riflettendo sul proprio volto il piacere di vivere».

I suoi retropassaggi, allora, diventano il soggetto di una sceneggiatura temporale proiettata in tutte le dimensioni del vivente e della bellezza che persiste in ogni ruga e in ogni faglia: dai brandelli penitenti di fioca luce diurna, alle soglie di casa «lì dove un segreto sogno / ti attende imprendibile / Non sei / glaciale riflesso del cielo / ma bianco grido di ricordi / che intacca nuvole spesse / che apre varchi e chiude porte», dalla nebbia arresa alle cattedrali di sabbia, dove ricostruire, a ritroso e nell’impossibilità, guglie sommerse, dalla parola scolpita nello sguardo, erosa di lacrime e striature, fino alle sfilacciature sulla sabbia d’acqua marina.

Tutto conclama alla pienezza non tanto (o meglio, non solo ed esclusivamente) concettuale quanto piuttosto vitale. La poesia si dice in un teatro di presenza e di pioggia, dove «l’acqua scava e ti scava / la mia calma è farina / il tuo silenzio lievito / col temporale saremo pane». La pienezza è frutto di una decisione per l’esistenza, tallonare il suo senso è un disegno di figlia:

«Mia figlia disegna pipistrelli colorati / per udire il mondo in altra dimensione / Si scatena in un tripudio di pennarelli / e sul foglio volteggia inseguendo fantasie / Anni di vita le insegneranno che volare / è cosa da poeti è vizio da sognatori / Ma qui stanotte / aleggiano sul foglio pipistrelli arcobaleno» (Pipistrelli arcobaleno).

Il tempo dell’amore diviene l’oblio dicibile, dove rimbalzano le ore e l’agguato della tenera docilità di ogni passaggio, che unisce amore e co-nascenza, rifugio e dono, come egli stesso scrive, «Tornare neonati / con il medesimo / limbico bisogno / di non sentirsi soli» (Nel seno):

«Le pupille di bambina non colgono le scorie crepuscolari / di un’epoca aggettata sul vuoto / Età troppo adulta / Ti nascondi dietro la porta impugnando / tutto il coraggio necessario alla finzione / e – simulando un agguato d’amore – / urli la vita a sorpresa dietro i passi / di genitori indaffarati dai pensieri / L’ingenua bellezza sorride stupita del suo successo / Un soprassalto di dolcezza ti osserva / con gratitudine».

Oppure il retrogusto di assenza ubriaca che rappresenta la quieta presenza e il segno nel destino e la precisa meta di un’attesa ricongiunta sui passi:

«L’ametista prigioniera dell’ombra lunare / meraviglia lo sguardo / riflesso nel mare del tuo sorriso / d’artista / È amaro il sapore color del rame / con cui disegni le parole sul foglio / Solo l’aroma dei baci / distrae il pensiero smarrito nell’arco / ocra disegnato da stelle cadenti / Non ha mai abbandonato i ricordi / che dal passato ti conducono a me / A noi / Probabilmente il vento dell’Appennino / ha mescolato le emozioni / con la sabbia sedimentata nella mente / Ha sapore di vino l’ubriaca tua assenza / e fragore d’acqua sugli scogli / la tua quieta presenza nel mio destino».

La sezione Esogenesi esprime una appartenenza più che una riappropriazione. Il solco degli autori incontrati permette riscritture insolite e percorsi sorgivi di tempo: Hofmo, Saba, Rosselli, Blok, Bukowski o Campana, per citarne alcuni, librano fonemi sospesi e incompresi che permettono di far luce sulla propria esperienza di poeta e di uomo, con gli occhi muti sul mondo, dove lo splendore «della parola impressa / cicatrizza / l’animo ferito dai giorni chiusi» e dove annaspare alla ricerca di unico battito di fulgore.

Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, pp. 124, Euro 13.

 Baldassarre D., Sinopie smarrite, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

Panella G., Malinconia autunnale. Diego Baldassarre, “L’acqua sogna trasparenze”, (https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2014/06/05/i-libri-degli-altri-n-83-malinconia-autunnale-diego-baldassarre-lacqua-sogna-trasparenze/), 5 giugno 2014.

 

“Ferita donna”. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

di Serena Baroncelli 2 dicembre 2016

leggi in pdf Ferita-donna. Una lettura critica del femminile con uno sguardo rivolto al maschile

lucio-fontana-concetto-spaziale-attese-1968La nascita di una perla è un evento davvero miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dalla terra, le perle sono prodotte dalle ostriche che vivono nelle profondità marine. Le pietre preziose devono essere sottoposte al taglio e levigate per farne emergere la bellezza: le perle invece, non hanno bisogno di questo processo complementare. Nascono dalle ostriche con una naturale iridescenza brillante, una lucentezza ed una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.

Una delle ferite che la donna moderna è costretta a risanare è quella relativa al rapporto padre-figlia.

Le radici di questa ferita sono antiche e profonde: possiamo analizzarle chiaramente prendendo in considerazione l’Ifigenia in Aulide di Euripide, scritta nel 405 a.C.

Ifigenia è la figlia maggiore e prediletta del re Agamennone, eppure, nel dramma, è sacrificata, condannata a morte, proprio dal padre che la ama profondamente. Per la maggior gloria della Grecia, l’oracolo consiglia al re di sacrificare la sua primogenita. Disperato, alla fine Agamennone acconsente e manda a chiamare Ifigenia, dicendole di venire ad Aulide per sposare Achille. In seguito, il re capisce di aver commesso una pazzia, ma ormai è troppo tardi; si sente costretto a compiere tale sacrificio perché teme la rivolta delle masse inferocite e perché l’obbedienza al potere e alla gloria della Grecia prevalgono sulla sua capacità decisionale. Intanto litiga furiosamente con Menelao, il fratello sposo di Elena, accusandolo di essere uno sciocco che si lascia abbagliare dalla bellezza. Ifigenia e la madre Clitemnestra scoprono il complotto e, disperate a causa dell’orrenda verità, si scagliano contro Agamennone. Clitemnestra lo accusa di aver commesso altre infamie, cerca di farlo vergognare mentre Ifigenia lo implora di salvarle la vita. Dapprima maledice il padre assassino, Elena e gli avidi soldati diretti a Troia, ma alla fine si risolve a morire nobilmente per la Grecia, assolvendo suo padre e dicendo alla madre di non essere adirata e di non odiarlo.

In questo dramma tutte le donne sono viste come proprietà dell’uomo, di conseguenza il femminile non può manifestarsi a partire dal suo vero nucleo, ma è ridotto inevitabilmente a quelle forme compatibili con la visione del maschile. Il dramma del femminile parte allora da qui, dal predominio del maschile sul femminile, dal non riconoscimento del principio femminile, dalla negazione della possibilità di rivelarsi ed esprimersi nelle sue molteplici forme. Il femminile, quando è così svalutato e represso, si adira ed esige ciò che gli spetta in modo primitivo, come Clitemnestra che per vendetta uccide Agamennone.

Come si caratterizza dunque la ferita padre-figlia?

Menelao ed Agamennone portano nel dramma un’evidente scissione del maschile tra la cupidigia per la bellezza e l’avidità per il potere alle quali corrisponde un’analoga scissione del femminile tra la bellezza, incarnata da Elena e l’obbedienza, personificata da Clitemnestra. Il maschile diviso così in due opposti a sua volta riduce l’ideale femminile alla bellezza e all’obbedienza. Tutti e due i fratelli si servono delle donne, uno per il piacere, l’altro per il potere. Ifigenia rappresenta il potenziale femminile che, alla fine, si sottomette alla situazione e agli obiettivi del potere. Il mondo femminile è perciò svalutato, perché è ridotto al servizio dell’uomo sotto le due forme della bellezza e dell’obbedienza. La donna, quindi, non esiste in se stessa e per se stessa, poiché risulta in ogni momento l’oggetto della proiezione del desiderio maschile, ricavandone in questo modo la sua identità. Un’identità che però la pone in una posizione di Puella, cioè di dipendenza fanciullesca; inoltre l’obbedienza pedissequa la riduce al rango di serva di un padrone uomo.

La stessa situazione si perpetua ancora oggi nella cultura occidentale: il femminile è purtroppo ancora troppo spesso ridotto ai ruoli di moglie obbediente o bella amante e la reazione delle donne si conforma a queste aspettative: molte si trovano a vivere per gli uomini e non per loro stesse; altre, per liberarsi della dipendenza da Puella, imitano il modello maschile perpetuando così la svalutazione del femminile; altre invece si conformano al sistema ma, come Clitemnestra, esprimono di nascosto la loro ira, per esempio eliminando il sesso, bevendo troppo, indebitandosi con le carte di credito del marito o diventando malate…

In conclusione, il mito di Ifigenia ci fornisce un’immagine del rapporto uomo-donna quanto mai attuale. Un uomo che calpesta il femminile calpesta se stesso, perdendo così il proprio rapporto con il femminile stesso. Molti padri che credono di dover mantenere il controllo, l’autorità o perseguire potere e successo, si trovano spesso a vivere questa situazione con le loro figlie: essi hanno perso il potere delle lacrime e non riconoscono la propria ferita personale. D’altro canto, esistono molte Ifigenie moderne che hanno una visione ristretta del femminile, una visione ristretta che è nascosta nella cultura e anche nei padri e nelle madri personali.

Nella pratica psicoterapeutica è possibile trovarsi spesso di fronte donne ferite: donne che dietro la vernice del successo e della soddisfazione nascondono un sé ferito, lacerato, disperato, sanguinante. Sono donne minate nella fiducia di sé, nella capacità di costruire rapporti duraturi e, più in generale, nella capacità di operare nel mondo. Lo scopo della terapia è allora quello di affrontare questa ferita del femminile, di accettarla e risanarla, per dare voce e giustizia alla sofferenza patita.

Prendiamo una seduta tra paziente e terapeuta e consideriamo le lacrime che immancabilmente segnano il percorso di crescita e di cambiamento. Ecco, accade ora qualcosa di incredibilmente vero, puro ed autentico: le lacrime appartengono alla donna ferita. Perché le lacrime rappresentano la disillusione, simboleggiano l’abbattimento delle difese psichiche che fino a quel momento hanno permesso alla paziente di sopravvivere, comunicano che è giunto il momento di prendersi cura di se stessi e che non è più tempo di soffrire. Questi sentimenti devono essere portati alla luce ed elaborati in terapia, per far sì che quella antica ferita si rimargini. Si rimarginerà, ma non guarirà mai completamente, dal momento che la cicatrice dell’anima rimarrà visibile per sempre: tuttavia, non farà più male sbattendoci contro.

Le lacrime costellano in modo così specifico il percorso di guarigione che, in qualche modo, diventano parte essenziale di esso. Le lacrime aprono un varco nell’anima: possono dunque liberare una donna e partecipare alla sua guarigione e alla sua vita con la ferita. Le lacrime possono cadere come pioggia benefica che permette la rinascita e la crescita primaverili: precipitano nell’anima stanca e ferita così che, laddove c’era terra bruciata, arida e secca, adesso possono germogliare verdi ciuffi d’erba, possono sbocciare i semi delle proprie potenzialità, della propria essenza e donare colore, forma e musica alla vita. Anche l’ira può liberare la donna ferita, poiché la sua ferita ha un centro che duole, brucia e fa male. La rabbia è senza forma ed obiettivi, è esplosiva, fa paura. Alcune donne rimuovono il dolore e la rabbia che accompagnano la ferita: la rabbia si rivolge quindi all’interno sotto forma di sintomi fisici, pensieri depressivi, suicidi, ipocondriaci, che paralizzano la loro vita e la loro creatività. La rabbia porta però con sé anche energia, potenza che, se ben utilizzate, possono liberare le potenzialità in quanto donne e trasformare il femminile.

Il cammino verso la guarigione della donna ferita assomiglia a quel processo che rientra a pieno titolo tra i misteri più affascinanti della natura, quello che porta alla formazione della perla all’interno di un’ostrica, di cui la citazione iniziale. Una perla naturale comincia a nascere infatti quando un corpo estraneo (quasi sempre un parassita) accidentalmente penetra nel mantello soffice di un’ostrica, da dove non può essere espulso. Nel tentativo di alleviare l’irritazione, il corpo dell’ostrica assume un’azione difensiva secernendo una sostanza cristallina liscia e dura intorno all’oggetto estraneo, definita sostanza madreperlacea. Fino a quando il corpo estraneo resta nel mantello, l’ostrica continua a secernere intorno ad esso la sostanza madreperlacea, strato su strato. Dopo pochi anni, il corpo estraneo viene completamente coperto dal lucente rivestimento cristallino. Il risultato è quella bella e splendente gemma che chiamiamo perla.

L’infezione è la conditio sine qua non per la formazione della perla preziosa. Così, solo una ferita profonda, se elaborata e digerita, può condurre all’espressione piena del sé e del talento creativo di un individuo.

BIBLIOGRAFIA

Leonard, L.S (1985). La donna ferita. Modelli e archetipi nel rapporto padre-figlia. Astrolabio: Roma

 

 

Riccardo Gramantieri, Post 11 settembre. Letteratura e trauma, Bologna, Persiani Edizioni, 2016

di Giuseppe Panella 28 novembre 2016

leggi in pdf Riccardo Gramantieri Post 11 settembre

14163903_1098282886885744_1268067472_o-211x300L’11 settembre 2001 due aerei americani furono dirottati dal loro consueto percorso di viaggio e si schiantarono sulle pareti di vetro e cemento delle Twin Towers, le Torri Gemelle, orgoglio del centro commerciale di Manhattan. Il suolo aereo americano venica violato pubblicamente per la prima volta. L’impatto sull’immaginario mondiale (e non solo americano) è stato talmente imponente da mutarne radicalmente le coordinate e le implicazioni socio-soggettive. Si tratta di una pagina di psicologia storico-sociale ancora tutta da scrivere e da verificare sotto il profilo scientifico ma le sue conseguenze non potevano non influenzare prepotentemente le arti più popolari (e non soltanto quelle più esposte dal punto di vista mediatico). Se la letteratura ha una funzione di risarcimento o di cicatrizzazione dell’Io ferito – come sostiene la maggior parte degli studiosi dei rapporti tra immaginario e processi di soggettivazione, dalla Melanie Klein a Heinz Kohut a Alain de Mijolla – è indubitabile la funzione riparatrice svolta dalla narrativa di anticipazione nel caso degli eventi dell’11 settembre. Questo ottimo libro di Gramantieri, di conseguenza, ha il merito di ricostruire i processi di funzionamento di tale processo risarcitorio e di verificarne l’attuazione a livello fantasmatico e narrativo. Nel caso dell’11 settembre, la letteratura anglosassone si è concentrata in una maniera che si potrebbe definire maniacale sui fatti avvenuti in quel giorno particolare e li ha trasformati in una data che facesse da turning point alla soggettività epocale della cultura del mondo occidentale. Non è un caso, infatti, che la maggior parte della produzione più popolare (e, come si diceva prima, non solo quella) abbia come quasi esclusivo oggetto dei propri plot narrativi e dei propri sviluppi fantapolitici gli eventi relativi al crollo delle Torri Gemelle. Tutto ciò è evidente negli esempi di letteratura portati come testimonianza  nel libro di Gramantieri:

«La scelta del mondo editoriale e della critica letteraria di denominare un genere letterario come “post-11 settembre” (o post 9/11), se da una parte potrebbe sembrare l’ennesimo esempio della pratica di etichettare un’opera e confinarla in un genere al fine di poterla classificare e disporla sugli scaffali delle biblioteche e delle librerie, dall’altra è indicativa della grandezza dell’evento storico. Dopo la caduta delle torri, Ground Zero non è più il luogo in cui scoppia la bomba atomica (già evento epocale di suo) ma il luogo in cui sorgeva il World Trade Center; dopo la caduta delle torri nasce un genere letterario che descrive l’attacco al centro nevralgico degli Stati Uniti (Banks, McInerney, DeLillo), i suoi antefatti (Updike) e le sue conseguenze (Aldiss, Steyn); ma anche tutte le suggestioni che una catastrofe comporta, e da qui le storie apocalittiche (McCarthy, Crace, Aldiss, MacLeod), ucroniche (Roth), sperimentali (Julavits, Foer) e quelle di fantasmi (Shepard, King, Bradford, Oates, Schwartz). Ognuna delle opere prodotte può servire da esemplificazione di un diverso tipo di meccanismo mentale di risposta all’evento, tutti comunque riconducibili al trauma. Più che una semplice descrizione dei fatti, questa letteratura è capace di rendere visibili  quei processi psichici che avvengono a seguito di un evento spaventoso e angosciante» (p. 131).

Gli autori citati da Gramantieri sono tutti nomi “pesanti” nel panorama culturale e letterario americano – autori mainstream importanti come Philip Roth, Updike e Cormac McCarthy hanno dato il loro contributo a illuminare di luce radente un panorama devastato come quello che appariva agli occhi di tutto il mondo dopo la tragedia del crollo delle Twin Towers. Ma come hanno fatto scrittori quali Joyce Carol Oates o Jonathan Safran Foer o Don DeLillo, allo stesso modo, autori meno culturalmente riconosciuti si sono cimentati nella descrizioe di ciò che restava della mente occidentale e dell’American way of life  dopo lo schianto degli aerei sulle strutture high-tech delle Torri di Manhattan. Soprattutto chi non ne ha scritto direttamente ma solo obliquamente o allusivamente, ha colto la natura catastrofica degli eventi di quel giorno –  ha individuato cioè la sua natura di punto di non-ritorno nell’ambito delle soggettività in gioco in questa partita apparentemente finale e definitiva. Qualcosa è cambiato, qualcosa si è spezzato e non sarà più possibile tornare al passato idilliaco di un’America intatta e incontaminata. La ferita è ormai permanente (come quella di Amfortas, il Re Pescatore). La “terra delle opportunità” è diventata una Terra Desolata di morte, di violenza e di impossibilità fino ad allora mai sperimentate.

Per risarcire questo quadro psicologicamente devastato, di questo momento traumatico assoluto, è necessario trovare un rimedio plausibile ed efficace nel ricorso al fantastico. Scrive, infatti, Gramantieri a proposito del trauma del “ritorno degli oggetti cattivi”:

«Il processo psicologico che Fairbarn chiama il ritorno degli “oggetti cattivi”, cioè la riproposizione nella memoria di ricordi del passato che richiamano immagini paurose e angoscianti che si vorrebbe dimenticare, è individuabile sotto forma di finzione narrativa in alcuni testi letterari, sia mainstream sia, soprattutto, di genere fantastico, il solo capace di rendere metaforicamente rappresentabili i fatti psichici. […] La letteratura fantastica è forse in grado di rendere più compiutamente del mainstream il meccanismo psichico del ritorno degli oggetti cattivi. Essa, nelle sue varie espressioni allegoriche, è risultata particolarmente efficace nell’esemplificare il ritorno del rimosso provato negli americani dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Tralasciando le similitudini con le paranoie da Guerra Fredda o le storie di invasione, il sottogenere più capace di esprimere il perturbamento della borghesia americana di Manhattan, e contemporaneamente costituire sotto forma letteraria il processo dell’oggetto perduto e ritrovato, è quello del racconto di fantasmi. Diversamente dai romanzi, che per la loro ampia struttura permettono una visione più estesa della realtà che vogliono rappresentare, i racconti fantastici riescono a concentrarsi su singoli aspetti, e quello del ritorno del rimosso è particolarmente sentito da diversi autori di science fiction» (pp. 99-100).

Il “ritorno del rimosso” (in questo caso il trauma della distruzione di un habitat familiare e consolidato come il paesaggio urbano di Manhattan) permette alla scrittura di risarcire la perdita attraverso quel processo di “fantasticheria organizzata” che Freud ha ricostruito (brillantemente ma forse un po’ troppo cursoriamente) nel suo Il poeta e la fantasia del 1909. L’ipotesi di William R. D. Fairnbarn sul “ritorno degli oggetti cattivi” (costruita a partire dalle riflessioni precedenti di Melanie Klein sul tema delle relazioni oggettuali e sviluppata a livello generale) serve a Gramantieri per analizzare le conseguenze di un trauma collettivo che ha influenzato l’immaginario collettivo dell’intero pianeta, nel bene e nel male.

Merito del saggio, allora, non è soltanto quello di ricostruire proficuamente quindici anni di letteratura di genere nel mondo anglosassone (anni in cui sono stati prodotti capolavori come La strada di Cormac McCarthy o grandi romanzi ucronici come Il complotto contro l’America di Philip Roth che alludono alla catastrofe avvenuta l’11 settembre) quanto di avanzare delle ipotesi terapeutiche per la riparazione possibile del danno psicologico arrecato.

Un libro tra psicologia e letteratura, dunque, dove l’uso diretto della letteratura si coniuga con quello indiretto dell’analisi psicologica – un tentativo di frontiera, dunque, per utilizzare proficuamente uno strumento, quello estetico-letterario, che le pratiche paramedicali di tipo comportamentistico-gestaltico rischia di appannare e di declassare in nome di una sostenuta scientificità assoluta nello studio della psiche. Il caso del trauma post 11 settembre e della letteratura che ha sostenuto e che sorregge tuttora, invece, dimostra come scrutare nel buio della psiche sia compito comune di scrittori e psicoterapeuti (come avventurosamente già aveva sostenuto tante volte Sigmund Freud nei suoi scritti sull’argomento in questione).

 

Il ciclo Antoine Doinel. Disavventure di una autorealizzazione

di Giovanna Nicolò 25 novembre 2016

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  • Introduzione

Era il 2009. Frequentavo allora il corso di Laurea triennale in Psicologia dei processi relazionali e di sviluppo, le cui lezioni si tenevano in Aula Piovani – Facoltà di Lettere e Filosofia – via Porta di Massa, 1 – Napoli. Proprio in quella stessa aula si tenne la Giornata di Studio Internazionale “La famiglia nel cinema: un oggetto della psicoanalisi applicata”, alla quale partecipai. Fu in quell’occasione che ebbi modo di assistere alla proiezione del film “I quattrocenti colpi” di François Truffaut. Ricordo che ospitammo Anna Loncan[1], il cui intervento (Bambini trascurati: potenziamento dei legami tra distruttività e creatività. A proposito de “I 400 colpi” di François Truffaut) fu per me particolarmente interessante.

All’epoca, pur rimanendo profondamente colpita sia dal film che dalla storia e dalla lettura squisitamente psicoanalitica che era stata proposta, non mi appassionai a tal punto (e me ne meraviglio ancora!) da scoprire e voler conoscere l’intero ciclo Antoine Doinel, che consta di cinque film, quattro lungometraggi ed un cortometraggio. L’anno scorso mi capitò poi di rivedere, da sola, quel film visto per la prima volta in una aula universitaria allestita a sala cinematografica, ma stavolta volli seguire la storia “fino in fondo”, o meglio sino all’ultimo film del ciclo, “L’amour en fuite”, che io definirei un amabile punto di integrazione, sotto tanti aspetti, come si vedrà. Avendo suscitato in me nuove riflessioni, connessioni e considerazioni non slegate da tematiche che mi sono care sul piano formativo-professionale.

Ma facciamo un passo indietro …

 “Les Quatre Cents Coups”. Il primo lungometraggio di un giovane regista, François Truffaut, allora ventisettenne, diventò immediatamente celebre, inaugurando, nel 1959, la corrente cinematografica «La Nouvelle Vague», di cui costituisce l’emblema. La presentazione a Cannes, dove vinse la Palma d’Oro, sancì per il regista l’inizio di una carriera tutta in rapida ascesa, rappresentando per i giovani cineasti della corrente La Nouvelle Vague l’occasione di affermare, dinanzi al grande pubblico, la loro presenza a livello internazionale.

“Les Quatre Cents Coups” viene tradotto letteralmente in italiano con il titolo “i 400 colpi”, erroneamente, distorcendone il reale significato, che voleva essere inteso come il modo di dire “combinarne di tutti i colori” o anche “fare il diavolo a quattro”. Del resto, non ci si riferisce semplicemente alle stupidaggini compiute da un adolescente, ma, più profondamente, si rinvia ai “duri colpi” che Antoine, nella sua breve ma complicata storia, ha subìto e continua ad attirare a sé, in un circolo vizioso.

I 400 colpi non vuole essere né saggio pedagogico né opera leggera, ma lo specchio di una verità intima e profonda, che fa incontrare ed integra amabilmente coppie antinomiche (nomotetico/idiografico; tragedia/commedia, ecc.), in un itinerario unitario ed unico.

Un film mitico, una novità, dal punto di vista concettuale, stilistico ed espressivo, capace di meravigliare critica e pubblico. Un capolavoro che inizia una impresa unica nel suo genere: sarà il primo film di un ciclo – quattro lungometraggi, un cortometraggio, distribuiti nell’arco di vent’anni (Les 400 coups, 1959; L’ amour à vingt ans, 1962; Baisers volés, 1968; Domicile conjugal, 1970; L’ amour en fuite, 1979) – che vedrà lo stesso protagonista, interpretato dallo stesso attore (Jean-Pierre Léaud), crescere (da adolescenza a età adulta), lungo un percorso esistenziale di difficile auto-realizzazione.

L’asse narrativo è la figura in divenire di Antoine Doinel, sotto molti aspetti autobiografica, “alter ego” del regista Truffaut. In “Les 400 coups”, il dodicenne parigino Antoine è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: cresciuto dalla nonna durante la sua infanzia, vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, esito di un matrimonio riparatore, in una casa nella quale Antoine non ha diritto neppure a spazi fisici (dorme nell’ingresso).

Antoine esprime fame di attenzione e amore che gli adulti, autorità rigide, non sono disposti a concedergli; egli ricerca limiti e confini che possano placare, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto, mediante tendenze e comportamenti antisociali in adolescenza (bugie, furti, fughe), che si traducono, in età adulta, nella reiterazione di meccanismi di difesa fallimentari (si pensi all’incapacità di Antoine di tenersi un lavoro, alla frequentazione occasionale di bordelli, alle molteplici relazioni sentimentali ed extraconiugali).

In una delle prime sequenze di Domicile Coniugale, Antoine, parlando con un ex collega del suo matrimonio con la giovane violinista Christine, afferma: «Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo». Di Christine ama il suo essere dolce e pulita e la gentilezza della sua famiglia, elementi che gli consentono di sperimentare, almeno superficialmente, un senso di sicurezza e fiducia. Sarà proprio lei, Christine, la madre di suo figlio, che Antoine chiamerà Alphonse a dispetto del parere materno. Doinel tenderà a mentire e a tradire, continuamente, senza provare alcun senso di colpa e rimorso. Dopo un tradimento, dichiarerà a Christine: “sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, la quale gli risponderà: “avrei preferito essere la tua donna”. L’ultimo film della saga vede il divorzio da Christine, ma anche l’incontro con una figura “terapeutica”, che gli consentirà di prendere consapevolezza dell’irrisolto, di ri-conoscere sua madre, oramai morta, e di lasciarsi andare ad un amore incondizionato (quello per Sabine). Direbbe Erich Fromm alla “libertà di” … sperimentare l’unità prodotta da un attivo amore che trascende l’ego, supera le modalità dell’avere e sceglie l’autenticità dell’essere.

Con queste parole il regista Truffaut racconta chi è Antoine: “Antoine Doinel procede nella vita come un orfano e cerca famiglie sostitutive. Purtroppo quando le trova tende a scappare perché rimane un individuo incline alla fuga. Doinel non si oppone apertamente alla società, e in questo non è un rivoluzionario, ma fa la sua strada ai margini della società, diffidando di essa e cercando di farsi accettare da coloro che ama e che ammira perché la sua buona volontà è totale. Antoine Doinel non è quello che si potrebbe chiamare un personaggio esemplare, ha fascino e ne abusa, mente molto, chiede più amore di quanto non ne abbia da offrire lui stesso, non è l’uomo in generale è l’uomo in particolare. Antoine Doinel ama la vita, ma soprattutto gli piace di non essere più bambino, cioè qualcuno di cui si può disporre senza chiedergli un parere, qualcuno che si può lasciare da parte, dimenticare o rifiutare con crudeltà”[2].

Antoine è un uomo “terreno”, al quanto egocentrico, in alcune circostanze sembrerebbe poco empatico o addirittura egoista. Un essere umano “tragico”, alle prese con il perenne oscillare tra voglia bramosa di vivere e senso di alienazione; al contempo, assistiamo però al dispiegarsi del suo processo di autorealizzazione. D’altronde l’umanesimo di Truffaut, ereditato da Renoir, è da ritrovarsi in ogni suo personaggio.

Il pubblico ben accoglie questo protagonista, per il quale sente di nutrire un affetto insolito: lungi dall’incarnare il prototipo dell’eroe cinematografico, la sua insicurezza e il suo brancolare nella vita, tra gioie e dolori, conquiste ed errori, fortuna e disgrazia, lo rendono un anti-eroe automaticamente simpatico, in quanto vicino alla realtà ordinaria, tessuta di circostanze ed esperienze che non fanno che confermare la precarietà e le contraddizioni di una esistenza umana, alla ricerca di una felicità ideale ed impossibile, ma testimoniano anche l’apertura, nelle mani dell’uomo, di un ventaglio di infinite potenzialità.

  • Una anamnesi in celluloide

In “Les 400 coups” (- I 400 colpi) il dodicenne parigino Antoine, frutto di una relazione prematrimoniale, è un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa: affidato alla nonna materna (l’indebolimento fisico di quest’ultima deciderà l’accesso di Antoine al domicilio coniugale), vive ora con la madre e il padre adottivo, una coppia finta, formale, in una casa nella quale Antoine è tenuto in uno stato di abbandono affettivo e materiale dalla madre (basti pensare che non ha una camera da letto propria, dorme nell’ingresso, senza coperte, in un sacco a pelo).

La madre, Gilberte, donna bella e affascinante, salvata la faccia con un matrimonio riparatore, intreccia relazioni extraconiugali. Non presta attenzione ai bisogni di Antoine e non si prende cura di lui, pensa solo a se stessa; il padre adottivo, apparentemente bonario, strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, rinfacciando e facendo pesare il fatto di aver riconosciuto un figlio non suo. Antoine, una notte, ascolterà una conversazione tra i coniugi a tal proposito, scoprendo la sua condizione di “bastardo” nato da padre ignoto attraverso gli echi ovattati ma distinti di una “scena primaria” burrascosa, provenienti dalla camera dei genitori.

A scuola Antoine manifesta la sua irrequietezza. Per questa ragione, lo scarso rendimento e gli scherzi, diventa, in diverse occasioni, il capro espiatorio di marachelle di altri. Il solo conforto alla sua solitudine è la lettura e l’amicizia con il suo compagno di scuola René, migliore (ed unico) amico, compagno di disavventure, appoggio per l’evasione. È con lui che marina la scuola per andare al cinema, nei parchi parigini e al Luna Park, alla ricerca di esperienze e attrazioni eccitanti (molto toccante la scena della giostra in cui il ragazzo sembra vivere un momento di puro divertimento). Un giorno, marinata la scuola in compagnia di René, scopre per caso la relazione adulterina della madre, incrociandola per strada e assistendo al bacio tra Gilberte e l’amante; l’indomani a scuola giustifica la sua assenza con una eclatante quanto simbolicamente carica bugia: “mia madre è morta”. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. Accorrono a scuola la madre e il padre adottivo, il quale lo punisce dandogli un ceffone davanti a tutti i compagni di classe. Umiliato per la sua menzogna, Antoine fugge di casa e si rifugia nella stamperia dello zio di René, vagando poi di notte per le strade di Parigi. Rientrato a scuola, viene “perdonato” dalla madre, la quale, temendo che il figlio denunci la sua infedeltà coniugale, tenta di conquistarne la complicità, promettendogli una forte somma di denaro se migliora i voti in francese; così Antoine prende in prestito da Balzac uno stralcio che descrive la morte di un vecchio (riscrive una pagina letta dal romanzo La ricerca dell’assoluto) per scrivere un tema che riguarda la descrizione di “un fatto grave a cui avete assistito e che vi ha profondamente commosso” (parlerà della morte del nonno). Tornato a casa accende un cero a Balzac appiccando fuoco alle tende, ma non basta perché per quel compito il ragazzo verrà accusato di plagio dal maestro e punito.

Deluso e disperato, Antoine fugge ancora e va a vivere in casa di René. Escogita di rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del padre, per pagare, per sé e per l’amico, una gita al mare, che non ha mai visto. Una volta realizzato il furto, i due ragazzi cercano, senza successo, di venderla a un ricettatore, Antoine viene scoperto dal custode nell’atto di restituirla. Il padre lo denuncia, punendolo senza esercitare una reale funzione paterna. Il ragazzo passa, così, una notte in cella con un delinquente e alcune prostitute. La madre, per liberarsene, acconsente con durezza, “per dargli una lezione”, a che venga rinchiuso in un riformatorio lontano da Parigi, dove la disciplina è molto rigida, tanto che Antoine viene punito fisicamente con un sonoro ceffone per aver consumato anzitempo il suo pane. Viene poi interrogato da una psicologa sulla sua vita intima e sui difficili rapporti con i genitori, rispondendo alle domande con sconcertante franchezza: è in occasione di questo colloquio che viene fatta, dal diretto interessato, una sintesi più completa della propria storia infantile, fornendo elementi che prima non erano emersi del tutto. Antoine evoca anche una conversazione burrascosa udita tra la nonna e la madre, dichiarando “Mi ha voluto far abortire” (il doppiaggio in italiano non traduce il lapsus, A. dice della madre solo che “aveva voluto abortire”).

René va a trovarlo ma, per le regole dell’istituto, non può parlargli. La madre gli comunica in modo brusco la decisione di abbandonarlo a se stesso e che il padre non avrebbe più voluto incontrarlo, colpevolizzando del rigetto paterno e, meno esplicitamente, del proprio. Durante una partita di pallone Antoine approfitta della disattenzione dei sorveglianti e fugge, in una lunga corsa sino al mare. Si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua. La scena finale vede un fermo immagine, in cui viene inquadrato lo sguardo del giovane Antoine verso lo spettatore, uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà.

Nel cortometraggio “Antoine e Colette” (- Antoine e Colette, in L’amore a vent’anni) si assiste alla prima storia sentimentale di Antoine. Antoine, giovanissimo, lavora alla Philips e vive da solo. Innamorato di Colette, una studentessa che ha incontrato ad un concerto della Gioventù musicale, Antoine, romantico e sognatore, si sforza di avvicinarsi a lei e di conoscerla, ma Colette è sfuggente; non esita a traslocare per andare ad abitare di fronte a casa sua, diventando amico dei genitori della ragazza. “E questo, appunto, spiega l’insuccesso di Antoine in “L’amore a vent’anni”: Colette non sa che farsene di un ragazzo che ha sedotto i suoi genitori!” – dichiara il regista in “Il piacere degli occhi”.

In “Baisers volés” (- Baci rubati) ritroviamo 5 anni dopo Antoine Doinel che, partito volontario per il servizio militare (per dimenticare la delusione amorosa), è stato riformato dall’esercito per instabilità di carattere. Va in un bordello, dove la freddezza di una prostituta, giovane e bella, lo spinge fuori dalla camera, ma si imbatte in un’altra donna del mestiere, più grande e più materna, che preferisce alla prima. Si reca a casa della sua vecchia amica Christine Darbon, dove i genitori della ragazza lo accolgono volentieri mentre Christine lo tratta con distacco. Il padre di Christine gli procura un lavoro come portiere di notte dell’Hotel Alsina. Antoine è entusiasta in quanto ha la possibilità di leggere indisturbato, ogni tanto va a cena dai genitori di Christine; una sera, in cantina, ruba alla ragazza un bacio.

Antoine perde il posto perché lascia entrare un investigatore privato che sorprende una coppia clandestina in una stanza dell’albergo. Proprio l’investigatore, però, lo fa assumere nella sua agenzia, la Dubly. Antoine si dedica a maldestri pedinamenti; nel frattempo frequenta Christine, ma sembra essere lui ora quello distaccato, sfuggente. Gli viene affidato il caso del Signor Tabard, facoltoso proprietario di un negozio di calzature, che lo ingaggia come finto magazziniere per portare avanti indagini sul “perché è detestato da tutti” (questo l’interrogativo posto dall’uomo all’investigatore a capo dell’agenzia), ma si innamora della idealizzata Signora Tabard. Nel frattempo Christine si reca al negozio, per avere notizie di Antoine, il quale reagisce in malo modo a quelle che percepisce come pretese improvvise della ragazza: durante questo incontro Antoine, preso dalla rabbia, dice a Christine che non la stima e che non la stimava neppure quando credeva di amarla. La Signora Tabard, capito il debole di Antoine per lei, si reca a casa del giovane e lo seduce, trascorrendo qualche ora lieta con lui. “Io non sono un’apparizione … sono una donna” – afferma Fabienne Tabard, aggiungendo che tutti siamo unici ed insostituibili e che il padre sul letto di morte disse: “la gente è eccezionale”. Antoine viene licenziato per la storia con la Tabard, in quella circostanza un infarto stronca l’investigatore che aveva fatto assumere Antoine, il quale, dopo i funerali, alla ricerca di attenzione e consolazione, finisce con una prostituta.

Viene assunto poi dalla ditta SOS che ripara tv a domicilio. Christine viene a saperlo dal padre, che fa un incidente con il furgoncino della ditta, incontrando casualmente Antoine. La ragazza, approfittando dell’assenza dei genitori per il weekend, manomette la televisione e chiama il servizio di assistenza per rivedere Antoine. Quest’ultimo, inizialmente freddo e distaccato, infastidito dai modi gentili di Christine, si scioglierà poi fra le sue braccia. Scocca la scintilla tra i due, che si fidanzano. Il film termina con la scena che vede i due passeggiare in un parco mano nella mano e con la dichiarazione d’amore eterno che uno sconosciuto (che dall’inizio del film seguiva Christine) fa alla ragazza: “Io sono definitivo … voglio che lei rompa legami provvisori” … Quello sconosciuto viene forse a rappresentare lo stesso Doinel, che dichiara la sua intenzione di iniziare una storia seria, che sia per sempre, con Christine.

In “Domicile Coniugale” (italianizzato con il titolo “Non drammatizziamo … è solo questione di corna) Antoine e Christine sono due giovani coniugi che conducono una esistenza modesta ma tranquilla, sempre supportati dai genitori di lei. Christine, concertista, dà lezioni di violino, mentre Antoine prepara colorazioni artificiali di fiori destinati ad un negozio non lontano da casa. Il vicinato è amico, durante tutto il film presente come risorsa della coppia. In una delle prime sequenze, un vecchio compagno dell’officina di riparazioni ritrova Antoine mentre sta tingendo dei fiori nel cortile, viene a sapere che è sposato con una giovane violinista e gli dice: “In fondo, ti sono sempre piaciute le ragazzine beneducate, quelle borghesi, vero?” E Antoine gli risponde: “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”. In Domicile Coniugale per la prima volta Antoine si oppone apertamente, seppure in una sola occasione, al fare borghese della famiglia della moglie e alle buone maniere obbligate nei confronti delle persone influenti (la lettera al senatore che ha permesso loro di attivare tempestivamente la linea telefonica di casa), e in una discussione a tal proposito con Christine Antoine afferma che non ha tempo di annoiarsi  – lui – e che non vede l’ora di invecchiare per potersi dedicare a passioni che non ha tempo di coltivare adesso.

Non del tutto soddisfatto del proprio lavoro, si mette alla ricerca di qualcosa di nuovo e, scambiato per un altro uomo, raccomandato, viene assunto in un’industria idraulica, come addetto alla guida di un modellino di nave. Christine nel frattempo, rimasta incinta, dà alla luce un maschietto, che vorrebbe chiamare Ghislain ma che Antoine registra all’anagrafe con il nome di Alphonse. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Antoine dimostra a suo modo vicinanza alla moglie, ma pare più concentrato su se stesso; Christine si sente poco capita, gli dice che è stanca e nervosa e preferisce, per quella notte in clinica, stare da sola.

Antoine, trascurato da Christine, si lascia sorprendere dal fascino esotico di Kyoko, la moglie di un cliente dell’industria per cui lavora, della quale diviene l’amante. La donna invia dei fiori con all’interno dei messaggi d’amore indirizzati ad Antoine, quest’ultimo li getta, ma un bambino vicino di casa va a trovare il piccolo Alphonse e porta quei fiori trovati nella spazzatura a Christine. Qualche giorno dopo i fiori si aprono lasciando cadere i messaggi e facendo scoprire alla moglie il tradimento di Antoine. Christine attacca violentemente Antoine e, dopo una parentesi di finzione in cui ricevono a casa la visita dei nonni materni, costringe Antoine a trasferirsi in un hotel. Christine gli urla: “Non è stato un tradimento ma qualcosa di più grave … mi hai tolto la fiducia, mi hai distrutto la vita, non crederò più a niente”. Antoine si arrabbia, non tenta più di giustificarsi, se ne va. Ma gli incontri con Kyoko, tipica donna geisha, perdono il fascino iniziale ed annoiano Antoine. Christine, del resto, non ha smesso di amare il marito e glielo dice apertamente. Non approva, però, il progetto di Antoine di scrivere un romanzo, che secondo Christine «non può essere un regolamento di conti». Quando Antoine la bacia dolcemente e le confida: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”. Dopo un incontro con Christine, nel quale hanno espresso affetto e tenerezza reciprocamente, Antoine va in un bordello (qui confida alla prostituta Marie: “io odio tutto quello che finisce, che ha termine, che muore”). Successivamente ricerca nuovamente la sua dolce Christine e si riappacificano.

In “L’amour en fuite” (- L’amore fugge) Antoine ha superato la trentina e lavora come correttore di bozze. È innamorato di Sabine, commessa in un negozio di dischi, e sta per divorziare da Christine, dalla quale è separato da 5 anni. Circa due anni fa Antoine ha pubblicato il suo romanzo autobiografico (Les salades de l’amour – Le insalate dell’amore). Il giorno dell’udienza per il divorzio, Antoine e Christine, che hanno optato per il divorzio consensuale, si lasciano andare ai ricordi: non c’è rabbia, non mancano invece il bene reciproco ed il rispetto. Colette (la prima cotta di Antoine in “L’amore a vent’anni”), oggi avvocato, intravede e riconosce Antoine Doinel e va ad acquistare il suo romanzo.

Antoine e Colette si rincontrano alla stazione, dove Antoine ha accompagnato il figlio Alphonse (in partenza per il mare) mentre Colette è diretta ad Aix en Provence per seguire un caso in cui è chiamata a difendere il colpevole in un caso di infanticidio, il ché le risulta difficile e penoso (durante il film emergerà che Colette ha perso sua figlia, morta investita da una automobile quando aveva appena 3 anni; quel trauma ha determinato la separazione dal marito, 5 anni fa, mentre oggi Colette è innamorata del libraio Xavier, che si scoprirà essere il fratello di Sabine). Antoine non esita a salire sul treno, pur senza biglietto, per poter incontrare Colette e parlarle, ma i due finiscono per discutere in quanto la donna dichiara una volta per tutte di non aver mai amato Antoine e di essersi anzi sentita oppressa dalla sua insistenza.

Nel frattempo Sabine, stanca delle continue assenze di Antoine, lo lascia. Sarà Antoine a ritornare da lei, con una sicurezza mai provata ed espressa prima in campo sentimentale. Un passaggio importante e determinante per questa svolta è rappresentato dall’incontro casuale tra Antoine e Lucien, “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte, quel tale che da ragazzo Antoine aveva visto baciare la madre per strada: Antoine Doinel può in questa circostanza ri-conoscere la madre (descritta da Lucien come una donna “anarchica”, che soffriva l’ipocrisia della società, e al contempo un “pulcino” da difendere, che “voleva bene” ad Antoine) e, in un certo senso trovare quella figura reale e vera di riferimento che da tempo ricercava (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte, morta all’età di 47 anni). Con Lucien, Antoine si reca per la prima volta a trovare sua madre al cimitero di Montmartre. “Somigli a tua madre” – dice Lucien ad Antoine.

Antoine, con la benedizione di Christine e Colette, ritorna da Sabine per farle capire che è stata la prima donna che ha amato ciecamente e ha voluto conquistare davvero sin dall’inizio: le confida di essersi innamorato di lei trovando una sua foto strappata, e di essersi messo alla ricerca, fino a trovarla (il primo incontro proprio al negozio di dischi) e a “farla innamorare”. Antoine dice: “Ho finto di non provare nulla … ma il cuore mi batteva a cento all’ora …” e aggiunge: “La vita mi ha abituato a nascondere le emozioni, a non dire le cose in faccia”, Sabine allora afferma: “Perché non hai fiducia negli altri” e Antoine: “ma in te sì”. Si riconciliano con un bacio e con la passione che aveva fatto da apertura al film. Il loro affermare “Poi si vedrà” diventa un motto beneaugurante ed un inno all’età adulta, alla vita in tutte le sue sfumature e alla sua continuità.

  • Esperienze e relazioni familiari, affettive e sociali

Il materno. Antoine incarna probabilmente per Gilberte l’abbandono subìto dall’amante dell’epoca. Lo stile materno di attaccamento è distanziante, il rapporto che la lega al figlio è intriso di autoritarismo: lo rimprovera in maniera assillante e lo tratta da domestico più che da membro della famiglia, designandolo come “il ragazzo”. Quando si sfila le calze davanti a lui non tenta di sedurlo quanto di ignorarlo, non guardando alla sua sensibilità di adolescente. Quando Antoine scopre la sua infedeltà coniugale, Gilberte mostra una “preoccupazione materna primaria” fittizia e manipolatoria: nella scena del bagno, al ritorno dalla prima fuga notturna, la donna lava e asciuga Antoine, recitando il ruolo di una madre amorevole per comprare il suo silenzio, ma non è affatto convincente agli occhi del ragazzo, evidentemente imbarazzato per tanta regressiva ed inconsueta intimità. Antoine non si ribella mai apertamente alla madre, anzi adotta spesso un atteggiamento complice (quando il padre si rende conto che dorme senza coperte, sebbene abbia dato alla madre soldi per comprarne, Antoine va in soccorso della madre, affermando che gli va bene così, dormire nel sacco a pelo), ma la sua passività e la sua indifferenza dinanzi a negligenze ed aggressioni sono solo difensive, apparenti: il suo inconscio tiene in fresco l’odio per la madre con una rimozione possente, basti pensare alla scusa di Antoine, che si giustifica a scuola per la sua assenza rivelando al maestro che “la madre è morta”, esprimendo così in maniera forte ed eclatante i suoi sentimenti ostili, la sua rabbia, il suo rancore per il rifiuto materno. Scoperta la bugia, la madre domanderà al marito: “Perché ha fatto morire me e non te?”. E lui risponderà: “la mamma innanzitutto, no?”.

Una madre distante e inaccessibile. Toccante la scena in cui Antoine prende il posto della madre davanti allo specchio della toilette, tocca i suoi oggetti intimi e si passa la sua spazzola tra i capelli: potrebbe sembrare il bisogno di un contatto, ma condensa in sé anche la ricerca di verità, di risposte a domande che nutrono le esitazioni identitarie dell’adolescente: Chi è mia madre? Cos’è una donna? Ed io chi sono? In cosa somiglio a mia madre? In un film successivo, Baci rubati, Antoine giovane adulto, di fronte allo specchio si troverà a rivivere un momento simile: guarda la sua immagine ripetendo ad alta voce il nome di Fabienne (la donna sposata, ricca e “superiore”), quello di Christine (la dolce e pura ragazza della porta accanto) e, infine, il proprio: pronunciare, in modo ecoico e differenziato, il nome delle due donne che egli crede di amare e poi il proprio rappresenta un tentativo di far chiarezza in se stesso.

La scena della visita in riformatorio, in cui Gilberte colpevolizza il figlio e lo abbandona definitivamente, è l’ultima volta in cui Antoine vedrà sua madre. Sarà l’incontro speciale con il compagno di vita della donna, oramai morta, a portare l’adulto Antoine a perdonarla e a porgerle un saluto al cimitero.

Il paterno. “Where is the father?” è la domanda del professore di inglese. Il padre di Antoine strumentalizza il bambino per irritare o compiacere la moglie, a seconda delle circostanze, e non è certo una figura autorevole, ponendosi come benefattore che attende riconoscenza e punendo Antoine con la violenza e il tradimento pubblicamente inflitti (gli schiaffi che gli dà a scuola, dinanzi ai compagni e al maestro, per aver detto una bugia, corrispondente ad una verità inconscia – la morte della madre, e la denuncia per il furto della macchina da scrivere nell’ufficio paterno, il cui bersaglio inconscio era del resto proprio il narcisismo del genitore affettivamente indifferente). Quest’uomo non ha mai veramente riconosciuto Antoine come suo figlio, e non si sa nulla sulla sua stessa famiglia (non si allude minimamente ai nonni paterni).

La coppia genitoriale. Il legame di coppia si basa su un vero e proprio contratto che ha consentito a Gilberte di riconquistare la propria rispettabilità e a suo marito di “acquisire” una giovane e bella moglie. L’unica cosa che condividono è la mancanza di considerazione reciproca, rinforzata dall’aggressività della moglie e dal cinismo del marito.

Interazioni patologiche fra genitori e adolescente. Ladame (1978)[3] scrive: “Quello che abbiamo potuto osservare in forma ripetitiva nelle famiglie dei nostri adolescenti “con disturbi” è l’estrema importanza dell’identificazione proiettiva e la sua utilizzazione da parte dei genitori degli adolescenti. Fintantoché questo meccanismo resta all’opera in modo preponderante, e che i bisogni difensivi dei genitori sono particolarmente intensi, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate”. Queste identificazioni proiettive, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, rinforzano, in associazione con altri meccanismi di difesa arcaici, le credenze che alimentano il romanzo familiare. Un aspetto che ritroviamo nella storia di Antoine.

La parte degli avi. Dell’ambiente primario e dell’attaccamento primario di Antoine sappiamo ben poco, se non che la nonna materna ha salvato il nipote, impedendo alla figlia di abortire e si è occupata di lui sino a che ha potuto. Antoine è consapevole di questo, il rapporto con la nonna è fatto di tenerezza e amore nonostante il furto di cui il ragazzo si rende colpevole ai suoi occhi (“ero certo che non se ne accorgeva … e la prova è che non se n’è accorta” – con queste parole l’adolescente ci dice che non credeva di farle del male, o perlomeno che non era quella la sua intenzione). Nel tema scolastico prenderà poi a prestito anche un eroe balzacchiano per inventare e raccontare la morte del nonno, personaggio che in un certo senso sembrerebbe incarnare il rappresentante della stirpe sconosciuta e l’interdetto che pesa sulle sue origini.

L’amicizia libera. René, compagno di banco e di sventure, unico amico di Antoine, non è mai triste, almeno apparentemente; nonostante sia l’istigatore delle stupidaggini e dei comportamenti antisociali che mettono in atto, è portatore di una vitalità sana. A differenza di René, Antoine è più riservato, introverso, ma i due amici hanno molto in comune: sono entrambi figli unici, trascurati dai genitori, abbandonati a se stessi, adolescenti soli e solitari, che insieme alimentano la capacità di resistere alle avversità e il piacere della ricerca della libertà.

Christine, moglie e madre. “Non ho mai amato una donna in particolare. Sono amante della famiglia, padre madre …, e finalmente non sono più solo”, racconta Antoine a proposito del suo matrimonio con Christine. Quest’ultima, con il suo essere dolce e rassicurante, è l’opposto di Gilberte, la madre di Antoine: è stata da lui scelta per il suo poter essere una brava moglie e madre. Gli darà un figlio, Alphonse. Antoine e Christine si separeranno poco dopo.

I rapporti sentimentali ed extraconiugali in cui prevale la componente del desiderio sessuale testimoniano l’accesso difettoso di Antoine all’ambivalenza. In questi incontri provvisori Antoine sente di potersi abbandonare completamente (ad esempio con la signora Fabienne). Christine, in quanto proiezione dell’oggetto buono, che Antoine ha designato come “definitivo”, perché sicuro, viene protetto dalla fusionalità e dall’aggressività che Antoine ha bisogno di esperire ed esprimere e che potrebbero, secondo lui, mettere in pericolo quel legame di attaccamento. Dopo un tradimento, in un incontro ambiguo e contraddittorio, in cui sembra volersi riavvicinare alla moglie, Antoine le dice: “Sei la mia sorellina, sei mia figlia, sei mia madre”, Christine risponde: “avrei preferito essere la tua donna”.

Paternità. In clinica, quando prende il braccio per la prima volta il figlio Antoine afferma: “È il più bel bambino del mondo anche perché è mio figlio … crescerà più forte e intelligente del padre e sarà un uomo importante, più importante di Victor Hugo. Tutte le cose che ho sognato e non ho fatto tu le realizzerai”. Lo chiamerà Alphonse, a dispetto del parere di Christine, che avrebbe voluto dargli un altro nome. Si tratta di una paternità narcisistica, in cui si fatica a riconoscere il figlio come altro da sé; del resto Antoine non ha avuto un padre. Dimostra una vicinanza quasi imbarazzata alla moglie, focalizzandosi sulla propria difficoltà nel provare e gestire emozioni nuove e tanto intense. Si sentirà anche trascurato da Christine, neomamma alle prese con il piccolo Alphonse. Dopo il divorzio da Christine, il figlio vivrà con la madre, pur continuando Antoine, forse meglio di prima, ad essere per lui un padre presente (seppur distratto).

Il vero amore, Sabine. Con lei Antoine vive l’amore maturo, incondizionato, trovato più che scelto, indipendentemente da fattori terzi. È vero amore in quanto contempla e integra buono e cattivo, bene e male, dando la possibilità a ciascuno di essere se stesso e di condividere con l’altro una vita autentica.

Il terapeutico Lucien. “L’amante numero 1” (così lo definisce Antoine in una lettera a Sabine) della madre Gilberte: l’incontro con lui rappresenta per Antoine Doinel l’occasione di ri-conoscere la madre, descritta da Lucien come una donna “anarchica” e dolce, che amava suo figlio, e, in un certo senso, di trovare in questo signore, più o meno sconosciuto, tanto “normale”, una figura integrata, che incarna l’uomo capace di quell’amore libero ed incondizionato che può durare in eterno, o perlomeno una vita intera (Lucien ha assistito fino ai suoi ultimi giorni di vita la madre Gilberte).

Sfera sociale e lavorativa. La storia che i film raccontano vede il ragazzino scontroso e provocatorio lasciare il posto ad un giovane senza famiglia che, congedato dal militare, ben si adatta alla società: lavora e vive da solo, ha pochi (ma buoni) amici e sentimentalmente è alle prese con sperimentazioni se vogliamo “tipiche” della sua età, per quanto condizionate nel profondo da un modello di attaccamento insicuro. Quest’ultimo è alla base di quella insoddisfazione di fondo (tesa alla ricerca incessante del pezzo mancante!) che inciderà anche sulle scelte sentimentali future (matrimonio, rapporti e relazioni extraconiugali), e non meno in ambito lavorativo, con il continuo abbandono del vecchio lavoro in favore di uno nuovo.

Risorse

Va pur detto che il temperamento di Antoine, la sua brama di vita e la sua determinazione a riscattarsi costituiscono elementi che mettono il soggetto sulla retta via. È sorprendente come Antoine serbi in sé, nonostante le deprivazioni dell’infanzia, valori positivi di famiglia (le cui radici possono forse essere identificate nel legame di attaccamento con la nonna materna): lo vediamo prima alla ricerca di una famiglia sostitutiva (è determinante nel primo innamoramento e nella scelta di Christine come moglie), poi costruire una propria famigliola come tante altre (madre-padre-figlio), una normalità di cui non ha mai potuto fare esperienza in qualità di figlio.

La gioia di vivere che Antoine esprime in età adulta attesta la presenza di un’altra risorsa fondamentale nel suo faticato processo di auto-realizzazione, la speranza. Quest’ultima nutre l’apertura mentale e sociale di Antoine, alimentando esperienze e relazioni buone, salvifiche. Lo spettatore si meraviglierà, guardando gli ultimi film, delle interazioni e dei buoni rapporti di Antoine con vicinato, colleghi, amici: se ci fossimo fermati al primo film, Les 400 coups, non avremmo scommesso su queste competenze sociali.

  • La personalità in divenire di Antoine

L’Antoine che incontriamo per la prima volta è un dodicenne irrequieto. L’adolescenza, è risaputo, è una fase, estremamente delicata, di rinnovamento e cambiamento, portatrice di per sé di conflitti e problematiche. Se poi sei un ragazzo ‘difficile’ con un vissuto ‘difficile’ le cose si complicano ulteriormente. In “Les 400 coups”, con piccoli tocchi, lo svolgersi del film fornisce elementi della sua storia infantile, segnata da attaccamento e relazioni primarie claudicanti, la cui sintesi viene fatta, dallo stesso protagonista, durante il colloquio con la psicologa del centro di detenzione per minori.

L’Antoine che veniamo a conoscere in questo periodo della sua vita è apparentemente ‘mansueto’, obbediente e passivo in famiglia, ma ribelle e provocatorio fuori, dove rivendica attenzione, affetto, ma soprattutto identità e libertà. Frutto di una relazione prematrimoniale, è stato “riconosciuto”, formalmente, dal marito della madre, mentre per quest’ultima è solo “il ragazzo” (così lo chiama), figlio di padre ignoto, “colpevole” a sua insaputa e indegno persino di un nome proprio e di un proprio spazio vitale, tant’é che dorme nell’ingresso in un sacco a pelo. È un figlio non desiderato e non amato, manipolato all’occorrenza, e lo sa.

L’esame di realtà è conservato e le funzioni psichiche sono nel complesso buone, ma l’affettività di Antoine pare essere coartata, è ciò incide sulla sua impulsività: le sue azioni prevalgono sulla riflessione.

Alberga in lui un vissuto di abbandono e di ingiustizia che gli permette di non tenere conto della colpa e di nutrire il desiderio di vendetta. Pensiamo a quando il maestro lo priva della ricreazione dopo averlo sorpreso a far passare tra i banchi una rivista con in copertina una foto eccitante e Antoine scrive, in risposta, un poema sul muro della classe: “qui fu punito il povero Antoine Doinel per una pin up caduta dal cielo ma non è giusto e avrà la sua vendetta”; e alle spropositate minacce di Antoine (ben oltre la legge del taglione che esigerebbe un castigo commisurato al torto causato!) al compagno di classe, che ha fatto scoprire le sue iscrizioni murali (“carogna, traditore, hai i giorni contati, Morrissette!”).

Nei vagabondaggi con René, Antoine ricerca esperienze eccitanti (la scena del Luna Park). Egli condivide con l’amico la passione per il cinema, dove, marinata la scuola, vanno spesso, ma si rifugia anche nella lettura, essendo più riservato ed introverso di René.

Al quanto egocentrico, a volte sembrerebbe addirittura egoista, Antoine adulto è riservato, ed ha ancora qualche difficoltà ad esprimere e gestire le emozioni e a provare empatia; conserverà per molto tempo la tendenza a mentire e tradire. D’altra parte, però, controlla maggiormente la propria impulsività e mostra una maggiore tolleranza alla frustrazione. Il funzionamento globale della sua personalità può dirsi buono. Intelligente, brillante, a volte un po’ ingenuo ma comunque piuttosto realistico, Antoine è un treno in corsa, iperattivo e testardo; se la cava in tutte le occasioni, mostrando buone capacità di problem solving. Gioioso e ironico, apprezza l’ilarità e i momenti di svago e aggregazione (si pensi alla comicità dei momenti di scherzo con Christine o Sabine e delle interazioni con vicini e colleghi).

Insomma, Antoine appare ben adattato, non è radicalmente anticonformista e non disdegna i rapporti e le situazioni sociali, per quanto arrivi ad esprimere il sentirsi come “un pesce fuor d’acqua” rispetto alla borghesia di cui è entrato a far parte (attraverso il matrimonio con Christine), società alla quale muove per la prima volta un’aperta critica in Domicile coniugale, penultimo film del ciclo. Preferisce pur sempre i ritagli di intimità domestica in cui si dedica alle proprie passioni, lettura e scrittura.

Aspetti psicopatologici

In un contesto familiare e sociale che sovverte logiche, relazioni, ruoli e regole, destinatario di messaggi ambigui e anaffettivi, Antoine rivendica attenzione, ricerca disperatamente amore, uno sguardo che lo com-prenda, ma forse ancor di più va a caccia di senso e verità, che gli adulti non sono capaci e disposti a concedergli, mostrando essi una formalità rigida e coatta, che innalza un muro di indifferenza e insensibilità.

Come già detto, fintantoché prevalgono i bisogni difensivi dei genitori (della madre nella fattispecie), ed è preponderante la loro utilizzazione di identificazioni proiettive, le possibilità, per l’adolescente, di una vera e propria separazione-individuazione sono bloccate. Queste identificazioni, che rendono confusi i confini del Sé dell’adolescente, si associano ad altri meccanismi di difesa arcaici, scissione e idealizzazione, con il rischio – rispettivamente – di una patologia borderline dominata dal manicheismo buono-cattivo e di una patologia narcisistica dominata da un Sé grandioso. In famiglie tanto fragili l’adolescente può considerare necessaria, per la risoluzione della crisi genitoriale, l’espulsione, “modalità di transazione patologica” che si può manifestare attraverso tentativi di suicidio, fuga o viaggio patologico (Marcelli, Braconnier, 1983).

Bugie, furti e fuga impulsiva sono tentativi di ribellarsi all’indifferenza e affermare se stesso, placando, seppur provvisoriamente, i suoi bisogni di essere visto e contenuto.

Ciò che gli è assolutamente necessario è liberarsi dai legami deleteri, rispetto ai quali è rassegnato e indignato, primo fra tutti dal legame, che dovrebbe essere sacro, primario e vitale, con la madre. Gli è necessario trovare limiti e confini che gli consentano di identificarsi come soggetto intero, in relazione con soggetti interi, capaci di guardare, ascoltare e contenere anche il suo lato oscuro fatto di sentimenti ostili. Confini e limiti che gli diano possibilità di essere, di costruire un percorso libero definibile e narrabile, laddove le sue origini sono “marchiate” dall’ irriconoscibile ed indicibile.

L’agito, mettere in atto tendenze antisociali, costituisce per lui l’unica difesa, in questo caso egosintonica e adattiva, rappresentando la sola possibilità di salvaguardare sopravvivenza e affermazione di sé; al contempo le sue provocazioni sembrano voler comunicare ai genitori, agli adulti insensibili, al mondo intero, che non ha bisogno della loro sufficienza, della loro assenza presente (o finta presenza), che può fare a meno di loro, preferendo addirittura la “galera”.

Con l’amico di sventure René, l’adolescente Antoine ricerca esperienze attraverso cui sperimentare eccitazione, che confonde con quel senso di vitalità mai provato. Molto toccante la scena del Luna Park, nella giostra in cui il ragazzo vive un momento di pura adrenalina e ha la faccia di colui che è “senza pensieri”.

Antoine adulto, nei momenti più emozionanti, difficili o tristi, è ancora spinto a rispondere ad un bisogno impellente di scarica dell’eccitamento ingestibile, basti pensare, ad esempio, alla sua frequentazione di prostitute in due circostanze: congedato dal militare e dopo il funerale del collega investigatore privato.

L’accesso parziale all’ambivalenza genera in lui una doppia tendenza, da un lato a preservare quanto ha assunto come rassicurante “base sicura” (ideale assoluto da non contaminare!), dall’altro a ricercare in un altrove, nuovo e provvisorio, ciò che gli manca. Questa spinta condiziona profondamente tanto la vita sentimentale quanto quella lavorativa di Antoine, costellate da alti e bassi.

Il cinema in età adulta viene superato di gran lunga dalla passione per la lettura, che gli consente anche di attuare un meccanismo di intellettualizzazione, volto a mantenere lontani dalla coscienza pensieri, immagini ed emozioni potenzialmente pericolosi. In tale direzione si può spiegare la sua dichiarata avversione per la “noia”: il suo voler riempire le giornate di “fare”, il suo non fermarsi mai, sembra essere una strategia per non pensare troppo.

Attaccamento insicuro

Alla ricerca di una figura di riferimento, Antoine adolescente trova il suo personale dio (costruisce persino una sorta di altarino con tanto di santino!), maestro che in un certo senso lo accompagnerà per la vita, in Balzac, il quale in “Le père Goriot” scrive: «La società, il mondo vertono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri».

Le dinamiche della vita affettiva di Doinel, ancor prima che essere riferite all’assenza del padre e di una figura paterna, possono essere messe in relazione con lo stile materno di attaccamento, distanziante, che ha reso inaccessibile ad Antoine il mondo affettivo della madre, impedendogli di imparare a ri-conoscere e “digerire” le emozioni, proprie e altrui.

Rivendicando la sicurezza di cui è stato deprivato (ricordiamoci che deve la vita alla nonna materna, la quale ha rifiutato alla figlia il permesso di abortire e che ha avuto amorevolmente cura di lui finché ha potuto), Antoine difende come può la sua integrità precaria e l’amore di cui è capace, seppure con modalità inappropriate e disfunzionali: se in adolescenza ne sono espressione tendenze e comportamenti antisociali, nell’età adulta di Antoine troviamo ad esempio, costanti ed esemplificative, l’irresponsabilità nell’abbandonare sempre il lavoro vecchio per uno nuovo, la promiscuità sessuale (la frequentazione di prostitute), la tendenza a mentire e tradire (relazioni extraconiugali).

Queste modalità, che rimandano ad uno stile di attaccamento tipo A insicuro-evitante (Ainsworth et al., 1978), sono accomunate dallo schema di attaccamento dell’“evitamento angoscioso” (Bowlby, 1989)., in cui “l’individuo non possiede la fiducia che, quando ricercherà delle cure, gli si risponderà soccorrevolmente, ma, al contrario, si aspetta si essere rifiutato seccamente. Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960). Questo schema, in cui il conflitto è più nascosto, è il risultato di una madre che respingeva recisamente e costantemente il figlio” (Bowlby, 1989, p. 120).

Potremmo affermare che un tale modello di attaccamento insicuro, attraverso il consolidarsi di modelli operativi interni, può segnare l’orientamento caratteriale del soggetto in senso improduttivo (Fromm, 1947), ostacolando l’autentica espressione e realizzazione di sé. Ma va tenuto conto del fatto che l’esito psicopatologico non è l’unico possibile, così come non sono da escludere successive modificazioni e trasformazioni dei modelli disfunzionali. Più recenti studi sull’attaccamento, evidenziando aspetti quali la bidirezionalità e transgenerazionalità, sembrano porre il focus dell’attenzione su una dimensione interpersonale nella quale può giocarsi un “potenziale continuo di cambiamento” (Bowlby, 1989, p. 131), che Antoine saprà cogliere e dispiegare.

Orientamento produttivo

Nell’ultimo film del ciclo, L’amour en fuite, il cambiamento di Antoine, iniziato già nel precedente, Domicile coniugale, mostra anche la possibilità di una trasformazione caratteriale, laddove intervengano fattori (principalmente interpersonali) che favoriscono una presa di coscienza e un comportamento proattivo.

Il cambiamento di Antoine trova spinte forti sia nei nuovi legami di attaccamento (in primo luogo quello con la rassicurante, sicura, Christine, per lui “sorellina, figlia e madre”) sia nelle esperienze che contrassegnano l’età adulta di Antoine (come quella della paternità). Ma momento cruciale sarà l’incontro con Lucien, amante della madre, oramai morta, il quale fungerà da figura terapeutica, consentendogli di ri-conoscere e riscrivere la sua storia. Potrà allora essere e amare in modo autentico, nell’hic et nunc, sentire e relazionarsi in modo autentico, rispetto a se stesso e agli altri. La relazione con Sabine nasce e si sviluppa come risorsa fondamentale, spazio fecondo del cambiamento in atto, in quanto imperniata su un amore incondizionato, che implica il riconoscimento dei reciproci limiti e la condivisione di un progetto comune in cui le potenzialità di ciascuno trovano espressione e il coraggio di realizzarsi.

  • Bisogni di attaccamento, vita affettiva e realizzazione di sé

Attachment Theory e Psicoanalisi Umanistica Frommiana

Intendo proporre, in questa sede, una ipotesi di raffronto che coinvolge ed integra la teoria dell’attaccamento di Bowlby e la psicoanalisi umanistica di Fromm.

Secondo me il punto essenziale di congiunzione, che mi accingo ad approfondire, risiede nei concetti di amore e sicurezza affettiva, di cambiamento e di autenticità che, seppur in maniera diversa, sono stati elaborati dai contributi a cui si fa riferimento.

Il contributo di John Bowlby è fondamentalmente legato alla nozione di attaccamento, approfondita nei tre volumi di Attaccamento e perdita (1969, 1970, 1980). Per Bowlby come per Freud la psicoanalisi ha profonde radici nella teoria di Darwin, ma quello di Bowlby è un darwinismo del XX secolo: per l’autore l’attaccamento è istintivo e primario, indipendente dalla mera soddisfazione dei bisogni fisici, il bambino è individuo attivo e biologicamente preadattato, che ricerca la maggiore prossimità alla madre mediante schemi di comportamento propri della specie volti allo stabilirsi di un “legame affettivo intimo e costante” tra madre e bambino; il sistema di attaccamento ha l’obiettivo esterno di garantire la vicinanza con il caregiver (per assolvere la funzione biologica che B. individua nella “protezione dai predatori”) e quello interno di motivare il bambino alla ricerca di una sicurezza interna. Due sono quindi le ipotesi centrali, ampiamente convalidate dalle ricerche empiriche, nella costruzione teorica di Bowlby: 1) lo stile di attaccamento che il bambino sviluppa dipende strettamente dalla “qualità” delle cure materne ricevute; 2) lo stile dei primi rapporti di attaccamento influenza in misura considerevole l’organizzazione precoce della personalità e soprattutto il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri, quindi le future relazioni. Bowlby considera il comportamento di attaccamento come “caratteristico della natura umana in tutto il corso della vita – dalla culla alla bara”, e parla di un “potenziale continuo di cambiamento” (1989).

Nel concetto frommiano di situazione umana “possiamo vedere un intreccio di esistenzialismo e di evoluzionismo, anche se solo il secondo è dichiarato. Le posizioni evoluzionistiche diventano più esplicite nel corso delle opere di Fromm, anche con riferimenti a Bowlby” (Biancoli, 2000). Fromm, rivedendo la teoria freudiana della sessualità, sostiene che, pur esistendo una sessualità infantile, l’attaccamento del bambino alla madre non è di natura essenzialmente sessuale, piuttosto la dipendenza dalla figura materna esprime principalmente il desiderio di protezione e sicurezza, l’aspirazione ad una situazione paradisiaca di soddisfacimento e amore (Biancoli, 1986). L’autore, pur essendosi tanto occupato della società e della sua influenza sull’individuo, accentua, rispetto a Freud, l’importanza del dato costituzionale, il ché gli consente di dare un più solido fondamento teorico alla possibilità di trasformazioni caratteriali: Fromm sostiene che nella personalità entri la natura col temperamento e la società col carattere, quest’ultimo, pertanto, “può fare perno sul lato naturale delle potenzialità e assumere un orientamento diverso, relativo a un altro ambiente o anche, come dovrebbe accadere con una esperienza terapeutica, più autonomo da ogni ambiente, se la produttività che è propria della natura umana si libera e si esprime” (ibidem, p. 21).

Tutto ciò rinvia al concetto di “persistente potenziale di cambiamento” e al “modello dei percorsi di sviluppo” di Bowlby (1989): “Quei bambini che hanno dei genitori insensibili, lenti a rispondere, tendenti a trascurarli, o che li respingono, si svilupperanno con ogni probabilità seguendo un percorso deviante che è in certo grado incompatibile con la buona salute mentale e che li rende vulnerabili a un crollo, qualora si imbattessero in esperienze gravemente negative. Anche in tal caso, dato che il corso dello sviluppo successivo non è fissato, cambiamenti nel modo in cui un bambino viene trattato possono far deviare il suo percorso in una direzione più favorevole o in una più sfavorevole (…) in nessuna età della vita una persona è invulnerabile di fronte alle possibili avversità e anche (…) impermeabile a un’influenza favorevole” (ibidem, p. 131).

Difatti, pur essendo stato dimostrato come l’attaccamento insicuro sia associato significativamente a successivi problemi comportamentali, a problemi nel controllo degli impulsi, a scarsa autostima, a scarsa regolazione emozionale e a difficili relazioni con i pari (Sroufe, 1983; Turner, 1991; Zimmermann, Grossmann, 1994) , i modelli insicuri (evitante e ambivalente) non costituiscono di per sé un indice di patologia, rappresentando in alcuni casi strategie adattive impiegate in relazione a caratteristiche dell’accudimento non ottimali.

Lo stile di attaccamento insicuro-evitante viene comunque a configurare, in ogni caso, anche se in misura e qualità differenti, una situazione umana di inautenticità, determinata in primo luogo dalla messa in atto di un processo di esclusione difensiva dei propri bisogni affettivi e di protezione, che impedisce lo sviluppo di una adeguata consapevolezza ed intelligenza emotiva: “Quando un tale individuo tenta, in grado marcato, di vivere la propria vita emotiva senza l’amore e il sostegno degli altri, egli cerca di divenire autosufficiente sul piano emotivo e può venire in seguito diagnosticato come narcisista o come persona con un falso sé, del tipo descritto da Winnicott (1960)”, scrive Bowlby (1989).

Ciò richiama il concetto di “alienazione” elaborato in Escape from freedom (1941) da Fromm, il quale descrive il falso sé come struttura di carattere improduttiva (Bacciagaluppi, 2000), risultante da rapporti alienati che soffocano la coscienza umanistica, cioè “la voce del nostro vero Sé che ci richiama a noi stessi” (ibidem).

  • Una lettura interpersonale umanistica

La “fuga dalla libertà” del vero Sé

Secondo Fromm l’uomo moderno è alienato, estraniato da se stesso, in fuga dalla parte più autentica di sé. C’è infatti una bella differenza tra “libertà da” e “libertà di”: sono tanti coloro che si autodefiniscono liberi, ma in realtà non sono poi così tanti gli uomini che lo sono davvero, che scelgono la libertà di essere umani.

Sotto la pressione di una evoluzione culturale distorta la specie umana fugge dalla propria natura, fatta di infinite potenzialità, preferendo l’immagine ipertrofica di un falso sé che fa da altarino ad una nicchia di isolamento e impotenza. Non a caso Fromm parla, riferendosi ad autoritarismo, distruttività e conformismo da automi, di meccanismi “di fuga”, intesi come modi in cui i caratteri non produttivi si rapportano socialmente.

La fuga impulsiva, lo abbiamo visto, è la tendenza difensiva privilegiata da Antoine. Memorabile la scena finale di Les 400 coups, in cui l’adolescente corre verso il mare, si spinge sino alla battigia e si volta, dopo essere entrato con le scarpe in acqua: lo sguardo di Doinel verso lo spettatore è uno sguardo di dolore, ma privo di retorica, carico di speranza e di desiderio di libertà. Mi viene in mente a tal proposito anche un’altra scena dello stesso film, quella del Luna Park, nella quale appare evidente come il ragazzo ricerchi nelle esperienze eccitanti un senso di vitalità che non ha mai provato. E l’impulsività, come scarica dell’eccitamento, diviene per lui il modo per aggirare il riconoscimento e l’elaborazione delle emozioni.

Seguendo la storia attraverso i film, e quindi lo sviluppo del personaggio, possiamo però osservare il passaggio di Antoine dalla ribellione provocatoria e liberatoria dell’adolescenza ad un rassicurante conformismo, difensivo, che gradualmente si sgretola. Esso lascia posto ad una presa di coscienza e ad una scelta attiva che rendono possibili il cambiamento.

Ciò è stato possibile in quanto il temperamento di Antoine, la sua parte “naturale”, incontaminata nella sua essenza, ha incontrato relazioni buone nell’ambito delle quali fare esperienze correttive e trasformative. I valori e la gioia di vivere che Antoine esprime, nonostante tutto, in età adulta attestano la presenza di una risorsa fondamentale che egli riesce gradualmente e faticosamente ad attivare, la speranza. Secondo Fromm “Alberga nel carattere produttivo un’attiva speranza, che non si aliena nell’attesa del tempo futuro e non forza il presente ma lo vive come stato di gestazione” (Biancoli, 1986).

In Antoine, il passaggio dalla lettura alla scrittura autobiografica è emblematico, dando espressione a quel produttivo atteggiamento di apertura e attivazione che tende ad un cambiamento costruttivo, personale e al contempo socialmente condivisibile. L’uomo che egli diventa si dispiega nel progredire dalla compiacenza ad una sempre maggiore autenticità.

L’incontro con Lucien: “arte” della psicoanalisi e attivazione psicoterapeutica

La vita è fatta di paradossi nei quali, talvolta, si nasconde la verità. Chi l’avrebbe detto che proprio Lucien, che conosciamo per la prima volta in Les 400 coups come l’amante di Gilberte, sarebbe stato il volano del cambiamento di Antoine? Quest’ultimo lo definisce “L’amante numero 1” della madre, d’altronde quell’uomo aveva rappresentato proprio un nemico numero 1 per Doinel adolescente, bambino trascurato e arrabbiato, alle prese con il rifiuto materno e con l’assenza paterna.

In L’amour en fuite ritroviamo questo personaggio, Antoine lo ritrova, guarda a lui con nuovi occhi. Questo incontro interviene in un cambiamento già parzialmente in atto, segnando un momento cruciale, di svolta esistenziale per il nostro protagonista, in quanto gli consente di ri-conoscere sua madre (e di perdonarla), di ricucire ferite e ricomporre fratture che fino ad allora, avendo generato una copertura difensiva, lo avevano reso scisso e alienato, impedendo l’autentica espressione e realizzazione di sé. Da questo momento, Antoine può ri-conoscere se stesso, scoprirsi integro e integrato, nonostante una storia da riscrivere; guardare in se stesso, superando i limiti di un narcisismo difensivo e patologico, gli consente di accettare la propria fragile umanità, e di prendersi cura della propria vita autentica, del proprio essere. “Il narcisismo pone la persona nella modalità dell’avere e la rende facilmente vulnerabile, poiché ciò che si ha si può perdere, suscettibile ed esposta a sentimenti di rancore. L’odio nasce dal narcisismo ferito. (…) Al contrario l’essere io, che è esercizio di vitalità e generatività, sottrae dal rischio di perdere l’identità, che non è alienata in cose ma persistente nella sua stessa esperienza” (Biancoli, 1986).

L’incontro tra Lucien e Antoine è un “confronto vivente” (ibidem), che, nel rispetto dell’interezza dell’altro essere, consente di fare propria la prospettiva altrui. Lucien com-prende il bisogno e desiderio di verità di Antoine, e quest’ultimo ha modo, a sua volta, di com-prendere, la madre e quell’uomo più o meno sconosciuto (che ha amata sua madre sino alla fine dei suoi giorni), come anche se stesso. L’empatia di cui Antoine si mostra, forse per la prima volta, capace, è il risultato e, al contempo, la chiave del suo cambiamento.

Proprio come accade in psicoterapia. Una vera e propria arte, volta non all’adattamento sociale, quanto alla cura dell’anima. Atto creativo. Nell’hic et nunc di questo confronto non mancano resistenze, regressione e transfert, ma è la restituzione che chiama in causa il protagonista nel ruolo attivo di chi prende in mano le redini della sua vita, cosicché la presa di coscienza possa accompagnarsi al salto nell’azione, al cambiamento nel modo pratico di vita.

Lucien, analogamente alla figura del terapeuta, non si limita a fungere da specchio, bensì si mette a disposizione offrendo un rapporto stabile e ponendosi come presenza empaticamente partecipante, come reale e vera figura di riferimento, che sostiene ma non si sostituisce né si impone (ad esempio con interpretazioni selvagge). Egli è un essere umano capace di dedizione e di “prendersi cura” (rimane fino alla fine accanto alla sua Gilberte, morta all’età di 47 anni), esempio di chi sa amare produttivamente. “Il paziente può cogliere la propria interezza quando vede l’esempio dell’interezza del terapeuta. (…) Non le parole del terapeuta infondono coraggio ma il suo proprio coraggio” (ibidem).

Secondo Fromm la conoscenza sperimentata in analisi trascende quella puramente intellettuale, in quanto nel processo psicoterapeutico è possibile il rinvenire di quel volto originario, base dell’identità della persona: il paziente può riconoscere elementi della sua identità e distinguerli da quelli di pseudoidentità, insomma riconoscere il vero sé, scoprendo in esso la libertà di essere umano.

Il cambiamento di Antoine, che trova una spinta decisiva nell’incontro “terapeutico” con Lucien, è analogo a quello a cui tende la psicoterapia, che “può condurre a una triangolazione interiore dei rapporti col padre e colla madre, dove l’autoritarismo e la fissazione incestuosa lascino il posto all’intimo dibattito tra coscienza paterna e coscienza materna della persona, che è divenuta padre e madre di se stessa. La contraddizione rimane, ma non più fissata a vecchie controversie familiari, bensì come permanente tensione insita nella natura umana tra senso del dovere derivante dalla propria socialità e senso di amorevole accettazione di sé proveniente dalla vita stessa e permanente in essa anche se il dovere non venga adempiuto” (Biancoli, 1986)[4].

  • Conclusioni

Il ciclo Antoine Doinel ben viene a rappresentare la “situazione umana” (Fromm, 1947), costellata di dicotomie esistenziali e potenzialmente pro-tesa. Il protagonista non è l’uomo “colpevole” freudiano, lacerato dal senso di colpa per desideri proibiti, bensì un uomo terreno, che soffre di alienazione e insoddisfazione cronica, ma, al contempo, si impegna in una ricerca attiva di senso e verità che sostanzia il suo percorso di autorealizzazione. Sceglie di superare il passato, pur senza aggirarlo (arriverà infatti a raccontarlo nel suo romanzo autobiografico), di ri-conoscere la propria storia per cambiarne il corso, Doinel, che vive l’hic et nunc gestativo (Fromm, 1976) come artefice del proprio destino.

Fromm scrive: “l’etica umanistica prende la posizione che se l’uomo è vivo, sa che cosa è permesso; ed essere vivi significa essere produttivi, non impiegare le proprie capacità per nessuna finalità che trascenda l’uomo, bensì per se stessi, dar senso alla propria esistenza, essere umani. Finché c’è chi ritiene che il suo ideale e la sua finalità sono posti al di fuori di lui, vale a dire al di sopra delle nuvole, nel passato o nel futuro, uscirà da se stesso e cercherà adempimento dove non lo potrà trovare. Cercherà soluzioni e risposte in qualsiasi punto salvo che dove potrebbe rinvenirle: in se stesso” (1947).

Alla fine scopriamo, con lo stesso Antoine, che quando troviamo noi stessi, riconoscendo e accettando la nostra parte più autentica, possiamo incontrare davvero gli altri: smettiamo allora di ricercare la chimera dell’assoluta felicità e possiamo ‘semplicemente’ essere, essere umani.

 

[1] All’epoca neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta, membro della Société Française de Thérapie Familiale Psychanalytique, redattore capo della Rivista Le divan familial, segretario generale e tesoriere dell’Association Internationale de Psychanalyse de Couple et de Famille.

[2] Jean Narboni e Serge Toubiana (a cura di) (1988). Il piacere degli occhi / François Truffaut. (Trad. It. Melania Biancat). Marsilio, Venezia.

[3] Citato in Marcelli D., Braconnier A. (1983). Adolescenza e psicopatologia. Masson, Milano, 2006 (sesta edizione italiana).

[4] Cita Fromm E. (1955). Psicoanalisi della società contemporanea.

Davide Rondoni e lo stupore di tenebra

di Andrea Galgano 20 novembre 2016

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15146860_10211003661477458_50510230_oIl nuovo libro di Davide Rondoni (1964), La natura del bastardo, edito da Mondadori, scompone il frammento in chiarità sperata, mescola la luce buia in una traversata luminosa di «cuore sbranato e cuore niente» che raccoglie polvere e preghiera, domanda elementare e acqua, come ferita e incanto di viaggio sterminato e di fioritura aerea.

Lo sterminato viaggio cerca la profondità e l’esplosione deflagrata dell’essere in tutte le cose:

«rosa notturna che ho esplosa in testa / ferita dell’alba / cuore rovinosa festa / tremano le inferriate la cassetta di bottiglie i baci i mai / più / sterminato viaggio di cosa qui / passaggio dominatore / e tu / non sei più tu / uomo d’aeree fioriture / di rose / cerca la profondità, deflagrazione / dell’essere in tutte le cose».

In Rondoni convivono due anime: quella incontaminata affermazione della presenza dell’essere e la dismisura attonita dei dettagli di ombra e silenzio luminoso, come se ad accompagnare il tempo dell’io ci fossero due schegge di spavento e incanto, sospensione sbagliata e attraversamento d’infinito.

Scrive, infatti, Alessandro Zaccuri:

«Lo spavento e l’incanto rappresentano da sempre i poli più riconoscibili nella poesia di Davide Rondoni. Spavento come consapevolezza del rischio, però, non come rifiuto della realtà. E incanto come apertura alla vita, non come compiacimento di sé. […] In questo canzoniere recalcitrante – nel quale la ripresa a distanza di temi e lemmi ha la stessa funzione delle rime che si ritrovano ad emergere con quieta necessità – le cronache d’amore si mescolano di continuo con le vicende della contemporaneità, tra la provincia italiana e i sommovimenti laggiù in Siria o in qualche altra parte del mondo che d’ora in poi non sarà più lontana».

È l’esito di una chiamata delle cose, la sospensione dell’infinito come «una sbarra che ci traversa», l’imperversamento della Natura, il richiamo bisbigliato delle cose che mescola e imbastardisce, riflette il gemito della bellezza come un sigillo lavorato nelle oscillazioni dell’universo, nel vuoto e nella domanda ultima, aperta nella finitudine:

«Cane, o / bestia o infinito d’un infinito, cosa / sei un dio, un festone / dimenticato / appeso ai rami ai fari in discoteca / viso oscurato che pulsa / un niente / in questa notte l’universo / oscilla, in questa notte / l’universo esce a bere / cerca energia / in un altro big-bang, in un altro quartiere? / dopo festa / dopotutto ipermercato vuoto / come se avessero telefonato: ragazzi / l’alluvione, prendete / ogni cosa che potete – / o deserti scaffali della testa / vetro che perde / la scritta nel fiato / ti chiamano energia oscura del creato / mormorare di colpo: tutto amato tutto andato? –».

La natura bastarda ha la cifra dell’assoluto come segno, meta colta nel soffio del vivente e nella beatitudine estrema di ciò che compie, nell’aria persa dei «sedili di un’auto abbandonati sul pendio / schienale sudicio davanti al cielo, / la città strana scena, follie / e oblio / vedi l’alba? la notte come grande nave ci abbandona / ritira l’àncora di stelle, la sua catena / tra le costole mi suona…».

La poesia non celebra il reale, si intesse con la sua trama segreta e oscura e con la concrezione delle immagini, i lampi e i detriti, che sono nulla senza desiderio senza fine, senza il grido dell’alba, senza la luce folle della gloria: la prima occhiata aperta nell’aria allarmata, i ventagli infiniti e la resa delle stelle:

«Se non hai nella fessura da cui ti entra il porco mondo negli occhi almeno la piccola luce febbrile di un desiderio senza dine, e non guardi mai come grida l’alba anche su luride vetrate, non perdere tempo, non è questa roba intrattenimento – qui come in un sacco di poesie si dicono al vento cose dure e fantastiche, del tipo: / nessun albero / crea la luce folle della sua gloria, / dopo la notte di blu lampi e detriti / la prima occhiata aperta nell’aria allarmata / trova il perdono del rosa, i ventagli infiniti – / tira fuori una birra, il sorriso più antico che hai, ha forse fine il mistero del mondo? L’ultima stella a cosa si arrende quando l’alba dal giorno è divorata dolcemente? sei forse tu chi accende i primi neon nelle fabbriche gli occhi di tuo figlio, i fari dei treni sui binari ghiacciati? / nessun battito d’ala o di cuore / crea il luogo e il tempo / dove si arrischia e distende».

La fame dell’essenziale, la fame bastarda, il mormorare della natura e del destino è un’uscita verso il cielo tra le rovine di Roma e la linea A della metropolitana. L’amore, no, non è mai giusto, non penetra soltanto nelle fibre, compie uno scarto, una chiamata, una promessa che profuma di dismisure e verticale desiderio.

È viaggio, avventura, forza di abisso, non già per lo sconvolgimento quanto piuttosto per il suo sproposito di grido e fiamma che muove, perché fa nascere cose protese che non finiscono qui, come arde un velo oltre la giustizia e la giustezza:

«L’amore non è giusto / il ventaglio duro / splendido dei rami / si apre contro / il viola azzurro / mattini, sere / l’amore è un albero ma il fusto / s’inabissa, deve sparire / per nutrire / lo slanciato assenso che dà all’aria / e lei in un felice incendio lo incorona – / l’amore è un ragazzo che quando gli parli / fa un altro discorso / occhi lupo bianco, nubi / fa nascere cose che non finiscono qui / ma fuori dalla giustizia, in terra e in cielo / – e brucia sempre nell’aria il suo grido, / come arde un velo».

Il nascondimento, la sospensione delle cose, le esistenze delicate sono affermate dall’io che le guarda. La realtà (il suo sperdimento spaesato e la sua fioritura indocile) esprime la sua lontananza infinita di troni d’aria e inseguimenti.

Esiste una leggerezza indomita di tracce dimenticate e recuperate come collisioni dorate e immensità di universo. La muta sventura è un pianto salvato.

Il cuore decifra e insegue, nasconde le cicatrici dove «i mari invernali della mia mente cercano ancora / le tue dita d’aurora – anche dal vetro opaco / mi hai toccato le labbra – / ti cerco sempre nuova / vita, / impestato di te, gioia senza possibile cura».

Ma è ancora l’amore a opporsi alla fine, alla morte, al limite, a ciò che basta:

«bastami non bastarmi amore / fai giorno insinuando il tuo sguardo / sotto le palpebre / cucite / imbastardisci me / di te / nelle vie dove allunga le dita l’aurora, nei bar / dopo la chiusura / il tempo dell’ultimo attacco / sta venendo / in un’alba come sempre quando / la prima luce alla tenebra s’afferra / e da ogni parte si svuotano / parcheggi, muovono eserciti, stormi / s’alzano da terra e / iniziano a mormorare le maree — / toccami la mano, danzatore ferito / ritmo che mi batti / spezzato, infinito».

Il mormorare della realtà non è solo il dettaglio attraversato e trascritto che ricorre in tutte le sue sfumature, bensì è sospeso attraversamento (lei guarda la scrittura dei rampicanti), epifania guerriera e improvvisa come presentimento e sospiro sulle labbra.

Tutta la bellezza che compone il teatro della scena del mondo è fatto di segni e attraversamenti, stupori e transiti che incendiano l’orlo dei cieli e le luci notturne, grido delle stelle a miriadi e bagliori lontani, e ogni lemma dice ciò che accade, lo frastaglia, lo dispiega in tanti volti, varchi e passaggi che avvisano lo splendore:

«L’isola da lontano lanciava ancora bagliori, feriva / gli occhi, forse segnali millenari, sogni, / fiori bianchi a miriadi di notte sulle scogliere… / Palermo, sono dolci le sere / a camminare sperduti / dopo aver lavorato, sfiniti / e la mente non sa più che pensare / vuole solo sentire lui / il respiro del mare… / E tu che gesticoli al telefono e vai / ti discosti e mi lanci un’occhiata / ragazza maghrebina, / dolce, ferita, innamorata – / e mi ricorda ama, senza disperare / ama con dolore, / bastardo trovatore, ama / per non meno di questo avviso di splendore».

L’attraversamento del mondo strepita, allora, negli istanti, e nella strana gioia nel petto, come un appuntamento o una presenza, e persino la tentazione del vuoto. Ma nel termine più oscuro rifulge qualcosa di inaspettato che visita e promette.

L’unica forza smisurata è un gesto che riscopre il battito del mondo, nessun riparo nell’aria che risale. E poi ancora sconfinamenti, latrati perduti e l’ombra del grande strano splendore («Venne il bacio, uno solo e leggero sul fiume – / niente lo avrebbe motivato mai / nessun circuito o apprendimento neurale / solo quel grande strano splendore – / Poi tu o la tua ombra m’ha fissato serissima: / dimmi se lo sai, macchine non siamo, dimmi / non lo saremo mai, vero?»), in un Volto che si fa carne e ama da morire: «il Verbo, sorride, viene dal profondo / del cielo e della natura, stupisce i vivai di comete, le piogge bianche del sole / e si fa carne, ama da morire, ha un volto / un volto… imbastardisce pure lui…».

Nella poesia di Rondoni avviene sempre qualcosa di inatteso e di desiderato. L’amore delle mani giunte che ripercorre le linee fiato di Beatrice, il così sia senza fine e l’intuarsi come segno dell’impossibile. Farsi tu, essere tu come impazzito d’amore e la carezza dell’immiarsi, mondo risorto e suo segreto: «[…] – solo un impazzito / d’amore poteva senza potere più nulla, più nulla / inventare queste parole / Io mi intuo come tu ti immii / nella commedia umana e celeste / farla precipitare per le scale del suo dolore / qui tra i denti e i compostissimi furenti / baci, le tende rotte alle finestre / darti questa carezza è il segreto del mondo? / immiati, m’intuo e / spegni la luce che vediamo nella notte / sorgere la città».

La bellezza non è mai relegata in uno squarcio di affezione: è primaria, primordiale, solleva le trame del tempo, lo imbroglia, ne ferma il giogo. È il rifugio della casa sui crinali alla apertura degli occhi come un sussurro dinanzi alla tempesta, una domanda solo di amore alla musica sospesa del mondo: «L’alba sui crinali / dopo la pioggia / è indecisa / aperture del cielo / e tristezze dell’aria quasi color di perla – / un essere vola via dalla staccionata / percorro la strada deserta / odore fresco di gasolio e terra bagnata / da giorni / cerbiatti color cenere mi fissano dai campi / il verde nella foschia si prepara a splendere – / che occhi inquieti contemplare / per dire grazie serrando la giubba del vento / la musica ancora segreta del mondo».

In questo lunghissimo e profondo itinerario i figli rappresentano la domanda di un mosaico senza fine che chiede a Dio di tenerli: Clemente, il più piccolo «attaccato alle spalle» («non avrò ricchezze da lasciarti / ragazzino che porterai il mio nome e quello / di mio padre, ma quando / c’è una curva da fare e non sai / cosa ti può aspettare / prepara gli occhi, prepara il cuore»), Carlotta («Finché si gonfierà il sole, figlia mia, / il cielo riprenderà fiato / si gonfierà, sì, esploderà il sole / in un silenzio smisurato / l’attimo finale dell’universo guardato da niente, nessuno / o saremo tutti presenti – mi dirai: “babbo…” – / ci cercheremo la mano / tutti lì in un attimo felice, perso?»).

Oppure come il canto irrotto per la madre, stremato e immenso fondo:

«Quanto sono stato lontano da te / come se dovessi consumare con tutte le forze l’amore / che mi hai dato / e in tutti i viaggi / e baci e parole cercare stremato il fondo / di quel che mi hai donato / Non c’è posto del mondo, non c’è delirio / che non abbia il tuo sorriso, il tuo martirio, / ma non hai reso dominio la tua femminile vastità / Sei divenuta il silenzio alto della valle / mia madre, albero fiorito alle mie spalle».

La comunione delle parole è un profilo di grazia. Nella rastremata durezza veggente della guerra imminente, in un rosario-gesto impotente e glorioso, nel respiro farfalla tra le labbra che mette in fuga gli stormi della paura, il mare diventa impronta notturna di buio che consegna l’umano alla sua stupefatta mortalità, lungo la danza violenta delle stelle:

«Parla al buio il mare / riflessi d’oro, fanali sospesi / parla al buio il mare / parla al buio / riflessi / fanali, / l’oro dell’inverno, noi così stupidi / magnificamente mortali / all’uscita dall’hotel / l’ho sentito dalle rive gridare / cupa e azzurra forza, così solo / oltre la statale, sotto la non luna / le stelle rotte / le sue immense non parole / che sanno tutto, / come nasce l’onda / e si inabissa l’amore».

O come in una consegna gonfia della vastità, la vita si ascolta nel suo segreto esploso e ineffabile che rinasce inerme e senza ritorno:

«Non ridarmi più indietro / quel che mi hai rubato, la luce ultima, / la quiete, via / l’albero esploso della mente / non ridarmi più quel che mi hai / strappato / non ridarmi indietro niente, meglio / finire in te che morire me / in me solo / tieniti tutto, dimenticami – / perdimi / dentro di te, completamente».

La vera destinazione dell’umano si compie solo amando, è una fretta di assedio, è una lotta con l’indicibile nudo: uno strappo, un luogo fisico e ubriaco che non finisce mai, assetato di senso, ebbro di nodi, che si annida nelle nostre traversate, nella nostra esperienza, nel nostro giudizio come cammino di verità. Strappato in tutta la sua forza di abbandono, in tutto il suo fiato di movimento e danza, nella essenzialità tesa e astrale di un abisso che trema e ama «la prima eternità / chiamata lontananza» come vita salvata:

«Possiamo soltanto amare /  il resto non conta, non / funziona, / al mattino appaiono /  la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo / dell’alito mentre apri l’auto / nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare / più qui, alla riva degli occhi. E l’estate / c’era, c’è, nella calda bruna memoria / dei rami tagliati, / i visi diventano ricordi / le voci gridate stracci silenziosi, i denti conoscono il sapore / del niente e l’oblio che ha portici / e portici infiniti. Possiamo soltanto amare / strappandoci felicemente figli dalla carne / parlando d’amore continuamente / ubriachi feriti, vili / ma con gli occhi lucenti come laser / di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano. / Mormorare come dare baci nell’aria. / Il rametto profumato non si raddrizza / con i colpi della nostra ira, lo sguardo /  di tuo figlio non perde il velo di tristezza / se glielo togli mille volte / dal viso…
Possiamo soltanto amare / fino all’ultimo nascosto spasmo /  che nessuno vede / e diviene quella specie di sorriso / che si ha nell’abbraccio finalmente / di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti /  passati una volta accanto /  sulla gioia profonda delle ossa /  diranno: era fatto di allegria, amava, /  oppure diranno niente e poi niente / per sempre. Possiamo soltanto amare, / il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro».

Ogni lontananza, in Rondoni, è prossimità. La luminosità delle figure oblique si accompagna alle soglie del bello imperioso e indifeso del mondo, all’ultima parola che si consegna, all’ultimo respiro che recide il nome dal niente traversando le nascite.

Non c’è incertezza di altrove, esiste l’altrove richiamato e ferito ma rilucente in tutta la sua pienezza mai rassegnata, in tutta la sua nudità crepitante. I luoghi della poesia sono dettagli eterni di un dispendio perpetuo che schiude la verbalità ultima e oscura allo stupore “bandito” e all’amore. È il suo sì, l’estremo e stellare sigillo con le lacrime sulle ciglia: «l’ultima parola / baciando in bocca la tenebra sarà: / meraviglia».

14875085_10210821974415395_2051045130_nRondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016, pp. 144, Euro 18.

 

 

Rondoni D., La natura del bastardo, Mondadori, Milano 2016.

Zaccuri A., Rondoni dà voce alla contaminazione che salva, “Avvenire”, 11 novembre 2016.

Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

di Nikos Makris, MD, PhD

Associate Professor of Psychiatry & Neurology, Harvard Medical School

15 novembre 2016

leggi in pdf Nikos Makris – Il caso clinico di Anna O. in un contesto di neurocircuiti studiati con neuroimagine

makris-nikos-140514Premessa Storica e Culturale

Nella traiettoria evolutiva che ha condotto alla definizione come un’ entita’ neuropsichiatrica, la sindrome da conversione (conversion syndrome) ha avuto varie denominazioni, dalla originale isteria (hysteria) della medicina ippocratica (Hurst LC: Freud and the great neurosis: discussion paper. J R Soc Med 1983; 76:57–61) e degli anni di Charcot (Charcot JM: Leçons du mardi á la Salpêtrière: policliniques, 1887–1888. Paris, Bureaux du Prográes Mâedical, 1887) e Janet (Janet P: The major symptoms of hysteria; fifteen lectures given in the Medical School of Harvard University. New York, Macmillan, 1907) a cavallo dei secoli 19 e 20, alla isteria da conversione (conversion hysteria) di Freud (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), fino all’ attuale termine di Functional Neurological Disorder (FND) (DSM 5.0 APA 2013) . Quest’ ultimo termine e’ tratto dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5) (Stone J, LaFrance WC Jr, Levenson JL, et al: Issues for DSM-5: Conversion disorder. Am J Psychiatry 2010; 167:626– 627). Bisogna precisare che FND e sindrome da conversione si usano come sinonimi nella letteratura neuropsichiatrica attuale. Nell’ ontologia propria del termine “isteria da conversione”, Freud rispecchiava principalmente la natura patogenetica della condizione patologica, vale a dire il concetto meccanistico che l’ idea affettiva si converte in un fenomeno fisico.

Perche’ lo studio di FND o sindrome da conversione e’ importante attualmente e perche’ merita una particolare attenzione la rielaborazione del caso di Anna O.?

FND e’ tuttora nel limite fra psichiatria e neurologia, in una zona poco definita delle neuroscienze. Anche se esiste una dibattito riguardo l’ incidenza e la prevalenza del FND, si e’ documentato che da 30 a 60% di nuovi pazienti in cliniche neurologiche presentano dei sintomi non interpretabili. Questa e’ una prevalenza alta (Carson AJ, Ringbauer B, Stone J, McKenzie L, Warlow C, Sharpe M (2000); J. Neurol. Neurosurg. Psychiatr. 68 (2): 207–10; Carson AJ, Best S, Postma K, et al: The outcome of neurology outpatients with medically unexplained symptoms: a prospective cohort study. J Neurol Neurosurg Psychiatry 2003; 74:897–900). Inoltre, si e’ documentato che negli Stati Uniti l’ incidenza di nuovi casi diagnosticati e’ 22 per 100.000 persone annualmente (Stefánsson JG, Messina JA, Meyerowitz S (1976). “Hysterical neurosis, conversion type: clinical and epidemiological considerations”. Acta Psychiatr Scand. 53 (2): 119–38) e si stima che nella popollazione generale siano tra 0.11% e 0.5% di soggetti con FDN (Tollison, C. David; Satterthwaite, John R.; Tollison, Joseph W. (2002-01-01); Lippincott Williams & Wilkins). L’ enorme sviluppo della tecnologia medica in generale e dei calcolatori in particolare, ha cambiato il nostro modo di percepire la natura ed a influenzato profondamente il modo con il quale pensiamo e ci comportiamo. In questo, relativamente recente cambio del paradigma scientifico e culturale (paradigm shift) e’ riapparsa concretamente la possibilta’ di investigare la psiche ed in particolare l’ inconscio applicando tecnologie nuove, specialmente la neuroimagine, e nello stesso tempo sviluppare ulteriormente delle tecnologie gia’ esistenti, come ad esempio la eletroencefalografia (EEG). Il caso di Anna O. come presentato da Joseph Breuer (Breuer J, Freud S: Studies on hysteria. London, Hogarth Press, 1956), e’ uno dei casi meglio descritti nella storia della neuropsichiatria seguendo una metodologia medica tradizionale che inizia dall’ analisi con una precisa e dettagliata desrizione della fenomenologia della paziente basata su anamnesi, esame neurologico ed valutazione psichiatrica, cercando di formulare una interpretazione patogenetica e, possibilmente, anche eziologica della condizione patologica. Una volta acquisita una chiara e comprensiva imagine clinica della paziente Breuer ha applicato il trattamento catartico sotto ipnosi ed a valutato e descritto in dettaglio le manifestazioni fenomenologiche della paziente come funzione del tempo. Dopo i due anni del decorso e risoluzione della sintomatologia della sua paziente, Breur a identificato dei fattori patogenetici della condizione patologica ed a concluso che il metodo terapeutico applicato, cioe’ il metodo catartico, e’ efficace. La ricchezza nei dettagli e la chiarezza della descrizione dei sintomi ed anche della loro evoluzione temporale, fa il caso di Anna O. un’ ottimo esempio per la interpretazione dei sintomi in un relazione alle ipotesi attuali che fanno riferimento ai neurocircuiti coinvolti. E’ intuitivo che casi di FND possono correntemente essere studiati usando metodi di neuroimagine (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

Presentazione del caso clinico di Anna O. dal Dr. Joseph Breuer (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004)

Anamnesi Il soggetto Anna O. era una persona completamente sana sia cognitivamente che emozionalmente prima della manifestazione dei primi sintomi. Aveva una leggera eredita’ di neuropatia ed alcuni casi di psicosi erano successi solo in relativi distanti. Una cosa importante e’ che Anna O. si trovava spesso in uno stato oniroide (day dreaming) durante la sua quotidianita’.

Sintomatologia Nei due anni trascorsi dall’ apparizione dei primi sintomi di Anna O. fino alla loro completa risoluzione (Giugno 1880 – Giugno 1882) sono state osservate le seguenti caratteristiche fenomenologiche cardinali:

L’esistenza di un secodo stato di coscienza era un elemento cardinale il quale inizialmente sembrava come una assenza passaggera o stato oniroide temporaneo, pero’ eventualmente si e’ strutturato come uno stato di doppia coscienza.

Specifici sintomi sono stati come segue, vale a dire disturbi della funzione del linguaggio a livello di produzione, con paraphasie e perdita della capacita’ di esprimersi nella lingua natia (cioe’ in Tedesco) che pero’ si e’ sostituita con la capacita’ di esprimersi in eccelente Inglese, paralisi del braccio destro con eventuale perdita della sensibilita’ somatosensoriale (anesthesia). Altri sintomi transitori sono apparsi come disturbi visivi e uditori, allucinazioni visive, delle contratture muscolari, tosse e disturbi della nutrizione.

Patogenesi Questa condizione sembra dovuta a due fattori principali, cioe’ al surplus di vivacita’ (energia vitale) del sogetto e la sua tendenza a trovarsi in uno stato oniroide (day dreaming) nella sua vita quotidiana.

Descrizione del metodo terapeutico applicato (“catarsi”) Durante ipnosi, I sintomi della condizione della paziente sono stai discussi tra il terapeuta e la paziente. Come risultato, I sintomi sono stati eliminati.

Fra arte e scienza

Anche se il metodo di Breuer, che e’ stato usato eventualmente anche da Freud nei suoi studi clinici, è efficace nel risolvere i sintomi isterici, la questione dei suoi fondamenti scientifici rimane aperta. E questo e’ principalmente perche’ non e’ stato chiarito il suo meccanismo d’ azione. Freud stesso ha affermato che I casi da lui illustrati sembrano come “delle novelle”, vale a dire tra arte e scienza riflettendo l’ essenza della natura della medicina (Sigmund Freud and Joseph Breuer: Studies on hysteria. Penguin Classics/Penguin Books, 2004).

Il modello dei sistemi biologici e dei neurocircuiti come endofenotipi nelle neuroscienze del comportamento e la loro importanza nella Psichiatria contemporanea Nel paradigma delle neuroscienze del comportamento attuali, i sistemi biologici che nel cervello sono rappresentati dai neurocircuiti sono considerati come l’ endofenotipo, espressione intermedia tra il genoma ed il comportamento (Gottesman II, Gould TD: The endophenotype concept in psychiatry: etymology and strategic intentions. Am J Psychiatry 2003; 160:636–645)(Hyman SE, Nestler EJ: The Molecular Foundations of Psychiatry. Washinton, American Psychiatric Press, 1993)(Breiter HC, Gasic GP, Makris N: Imaging the neural systems for motivated behavior and their dysfunction in neuropsychiatric illness; in Deiboeck TS, Kersh JY (eds): Complex Systems Science in Biomedicine. Heidelberg, Springer, 2006)(Towards Conceptualizing a Neural Systems-Based Anatomy of Attention- Deficit/Hyperactivity Disorder; Nikos Makris, Joseph Biederman, Michael C. Monuteaux, Larry J. Seid man; Dev Neurosci 2009;31:36–49).

Le varie funzioni cognitive, come il linguaggio, l’ attenzione, la memoria, la funzione esecutiva, l’ abilita’ visuospaziale oppure affettive, come la paura o la gioia ed anche le funzioni autonomiche, come la termoregolazione o la regolazione della pressione sanguinea, vengono prodotte e processate da neurocircuiti specifici.

Questo concetto sta’ rivoluzionando la definizione di malattia mentale e di conseguenza la Psichiatria contemporanea. In effetti, stiamo affrontando le malattie mentali come malattie del cervello ed in particolare di neurocircuiti specifici per determinate funzioni. Questi circuiti cerebrali e funzioni o dominii comportamentali possono essere alterati in diversi disordini psichiatrici. Per esempio la funzione o dominio di attenzione e’ alterato nel disturbo depressivo maggiore, la schizophrenia ed il disturbo bipolare. In base a questi concetti si e’ formulato il modello RDoC (Research Domain Criteria) che rappresenta un nuovo paradigma nella psichiatria attuale. A scopo illustrativo segue un esempio del modello RDoC.

immagine1L’ introduzione di questi nuovi concetti hanno influenzato profondamente anche il campo psicoanalitico ed hanno contribuito nella fondazione della Neuropsichoanalisi (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012). In breve, la neuropsichoanalisi e’ nata negli anni 1990 per riconciliare la prospettiva psicoanalitica con quella neuroscientifica nello studio della mente. Si considera necessario di basarsi su circuiti neuronali i quali processano eventi mental soggettivi come intenzionalita’ o agentivita’ (self-agency) (Jaak Panksepp and Mark Solms; Trends in Cognitive Sciences; 2012).

Studi attuali in soggetti diagnosticati con FDN (sindrome da conversione) e uso di neuroimagine

Il caso di Anna O. pare un caso esemplare per tracciare un trait d’ union tra il pensamento psicoanalitico tradizionale e la visione moderna basata sul modello dei neurocircuiti. Possiamo illustrare questo indirizzo di indagine utilizzando lavori pubblicati recentemente che hanno investigato due gruppi di sintomi in soggetti diagnosticati con FDN (syndrome da conversione), specificamente la disturbi funzionali motori e somatosensoriali unilaterali.

Ho scelto due lavori rappresentativi del gruppo di David Perez come segue. Nel primo lavoro utilzzando risonanza magnetica funzionale (fMRI) Perez el al. hanno studiato la connettivita’ funzionale in pazienti con crisi convulsive psicogeniche non-epilletiche (psychogenic nonepileptic seizures (PNES)) o disturbi funzionali motori (functional movement disorders (FMD)) (An Integrative Neurocircuit Perspective on Psychogenic Nonepileptic Seizures and Functional Movement Disorders: Neural Functional Unawareness; David Perez et al.; Clinical EEG and Neuroscience 1-12 @ EEG and Clinical Neuroscience Society (ECNS) 2014 (Review)).

immagine2

Riportano alterazioni funzionali in regioni importanti per processamento di emozioni, regulation, and awareness (perigenual anterior cingulate cortex/ventromedial prefrontal cortex [vmPFC], insula, amygdala [AMG]), controllo cognitivo (dorsolateral prefrontal cortex [dlPFC], dorsal anterior cingulate cortex, inferior frontal gyrus [IFG]), self-referential processing (temporoparietal junction [TPJ]/posterior cingulate cortex [PCC]/precuneus [Pr]), and motor planning (supplementary motor area [SMA]). Particolarmente importanti sembrano i neurocircuiti che coinvolgono il giro del cingolo anteriore, l’ insula, l’ amygdala e la corteccia dorsolaterale prefrontale.

Questi neurocircuiti vengono elaborati ulteriormente nel successivo lavoro come si vede nelle figure allegate (Motor and Somatosensory Conversion Disorder: A Functional Unawareness Syndrome? David L. Perez, M.D. Arthur J. Barsky, M.D.
Kirk Daffner, M.D.
David A. Silbersweig, M.D. J Neuropsychiatry Clin Neurosci 24:2, Spring 2012)

immagine3immagine4Dysfunction in the perigenual anterior cingulate cortex (pACC) and its subcortical connections (including reciprocal cingulate–amygdalar connections) results preferentially in impaired motivated behavior, motor control, and/or affect regulation. Dysfunction in posterior parietal cortex (PCC) and its subcortical connections results preferentially in impaired spatial and perceptual awareness, including aberrant forward modeling, motor intention awareness, and/or self-agency. Reciprocal cortico–cortical connections among the pACC, PCC, and the dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC) facilitate interactions between awareness and intentional, cognitive control circuits. VM: ventromedial; DL: dorsolateral; NA: nucleus accumbens; VA: ventral anterior; LP: lateral posterior; MD: mediodorsal; LDM: lateral dorsomedial; V: ventral; A: amygdala.

Reciprocal connections are outlined among the perigenual anterior cingulate cortex (pACC), subgenual ACC (sgACC), orbitofrontal cortex (OFC), dorsolateral prefrontal cortex (dlPFC), insula, amygdala (A), and hypothalamus (H). Parallel ACC, dlPFC and OFC prefrontal-subcortical pathways (not shown) also require more exploration in the context of studies probing affective regulation in patients with functional neurological disorder (FND).

Conclusione

Il caso clinico di Anna O. in cui il metodo catartico fu applicato efficacemente nel trattamento delle sindromi da conversione, oltre al valore storico offre una descrizione fenomenologica di formidabile ricchezza e che puo’ servire come substratto per testare delle ipotesi di studi utilizzando metodi attuali di neuroimaging.

Una parte che ancora manca e’ la comprensione dei meccanismi neurobiologici che governano questo disturbo e rimane anche da chiarire il meccanismo d’ azione del trattamento psicoterapeutico.

Un’ approccio di ricerca come quello adottato in questo studio e che ha come scopo la identificazione dei neurocircuiti che stano alla base di sintomi specifici nei disturbi neurologici funzionali (FND) potrebbe condurre verso una più precisa definizione dell’ endofenotipo (biomarker) della sindrome da conversione e di conseguenza creare il ponte necessario tra il fenotipo comportamentale ed il genotipo di FND.

 

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Systems biology/neurocircuitry acts as an interface between the behavior/environment and genome/epigenome.

 

 

L’Aprile di Francesca Serragnoli

di Andrea Galgano 3 ottobre 2016

leggi in pdf  L’APRILE DI FRANCESCA SERRAGNOLI

sul sito di Lietocolle editore: Andrea Galgano su Francesca Serragnoli

1014458_10201533419246323_856356504_nLa nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta, apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro, tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Nel ricordo di Marina Sangiorgi, ora in braccia più salde di quelle terrene e ricordata nell’eterna linea leopardiana («amava l’aria dolce, la vanità del volare / e nidi piccoli, letti lunghi stretti / Bisogna ridere al barelliere che ti porta in fondo? / salutare con la mano / guardate solo il volto / il mondo è un attimo»), la poesia si raffronta al dolore, della mancanza e del cielo-fiato quando fiorisce un tremito e avviene l’inizio di un ricamo infinito:

«Spegneva Dio con due dita / il lumicino brevissimo. / La morte diventava arietta, / corsa di fiato / alito di vento sul volto / immobile della statua / inclinata sul fondale / che sente le braccia sgretolarsi / il muschio in bocca / sul capo ammucchiarsi le foglie. / Ti rivedrò un giorno? / Ti poseranno vicino / ricorderai d’avermi conosciuto / sull’orlo dell’acqua / fiorisce un tremito / l’inizio di un ricamo infinito. / L’eterno dondolare delle madri / muove le onde».

Il suo gesto poetico possiede sempre una profonda imprendibilità, ma è l’abissale profondità di chi smuove il fondale e l’abisso per rinascere sempre ad ogni istante, per proclamare la ricerca di una vita nella vita, per lasciare al sangue il clamore di un’occhiata, «i grani sciolti di un amore» e «il bianco lino nel volto trasparente / commuoverà solo il vento».

È sempre una forza nuda la dolenza della nostra sacralità, l’altare di pietra fredda dove sanguinano le ginocchia e il dolore sgretola ogni risata in un pugno di terra: «Questo dolore sgretola / ogni risata in un pugno di terra / la neve diventa gelo, trasparenza odiosa / gli abbracci sembravano radici d’uva / cadono come fili legati a un tronco morto / e quel pianto che ci lega le mani / schiena contro schiena / non è un’aquila crudele / che ha nidificato nei nostri sguardi».

Anche nel barlume buio, nella sfioritura non frenata, negli «istanti pietrificati» che «hanno in cima corone di neve» e dove tutto sembra sventrato, arriva un varco, una crepa, un buco in cui risplende la felice tessitura dell’essere: «Dentro questo vietnam girato a spalla / lascio all’abatjour indicare / un fioco pallore di luna / attendere bambina piegata sul prato / i grilli uscire dal buco del cuore».

Le altissime manifestazioni della realtà (il sorriso che ti morde le gambe, il tempo che è un cane perfetto, la primavera tagliata da ottobre «come il contadino il fieno») toccano il tempo della ferita, colorata e fiorita come una partenza: «lì c’è tua madre le avrei detto / scuce e ricuce la tua partenza / come un ferita colorata / ha messo del late / dentro un vecchio bicchiere / appoggiato alla finestra / la vedi agitare le mani / come facesse trecce alla pioggia». È in essa, nel limite buio arroccato che attraversa gli scuri che avvampa l’ultimo frammento di luce ridestata: «Laggiù la ferita è un fiore / le pareti fra noi cadono come petali / distratti da una manata di vento / il volto di cartone si piega come un vecchio amore / e ricomincia a stringere con i pugni l’aria».

Il suo posto delle fragole non è solo la sospensione ma anche il «lasciarsi leccare / un attimo dal mondo», nel viaggio breve contro il cielo, nella tersità della risata dove vivere, fino alla precisione blu dello splendore, alla faglia fra la madre e il buio, quando il canto profumato dell’aria è stretta negli anni. Essi sono brevi distanze, murati vivi, rimangono attorno alla prima casa e non sanno separarsi, sdraiati nella brezza dove il dolore, antico e colato, rimane «con granelle di cibo» per essere «un asilo / l’altalena dove spingersi nell’aria del petto / era mio, svolazzava, faceva i segni del vento / mi passava fra le mani come un anello».

Non è solo la poesia degli attimi aperti, ricuciti, sfibrati o liberati dalla letizia di una dismisura dell’anima a condensare le sue linee, è l’ora che non pesa, l’ora felice dove i cieli sono bellissimi e l’appartenenza è al fuoco che non muore, unico e peculiare:

«Nei giorni c’erano cieli bellissimi / tutti col piede appoggiato al muretto / varcavano confini, volavano schiaffi / uno sputo alla pioggia / l’esser soli di baci ne riceve tanti / ci vuole quella stranezza che girava / fra i tavoli di una discoteca / quel venire dentro le maniche / che solo il freddo conosce il brivido / ci vuole un cielo solo tuo / un cielo peso sulla spalla / con i suoi cementi, le pozze piccole / quel tramonto di gamba / grossa che gira con la palla intorno al sole / ci vuole quel briciolo di fuoco tuo / che chiede solo di cadere / come una cantilena nell’oscurità / e le calze il vento le lascia / per qualche minuto / dondolare vuote».

Pertanto, il suo allarme originario è primordiale, riflette il declino e la letizia emergente delle immagini, come «una gioia che gioca l’asso / fra me e l’universo», la fronte sudata della terra o il cielo travolto dall’addio.

Forse declino meraviglioso, forse specchio argentato o forse ancora felicità limata nel petto che custodisce i semi dell’eterno («osservavo il blu / lasciavo morire il movimento / e quelle luci i bottoni / aperti nel petto oscuro / toccavo quei muri / come un volto d’uomo / dalla rapida luce che si sdraia / nella notte, adesso. / E nessuno spegnerà il declino meraviglioso»):

«Le tue notti sdraiate nei deserti / sono occhi grandi, neri, caldi / hai mani che cercano nel vento / il ventre di una donna, / con il dito sollevi l’aria / per vedere la fronte sudata della terra / capelli lunghi come la notte appena trascorsa / un soffio muove la barca / fra l’imbrunire e il volto d’acqua / l’avvenire dondola nel blu / vibra una figura che scende / laggiù e non si volta / nemmeno per morire. / Non sai più dove la notte / vende ai fari i suoi specchi argentati. / L’acqua riflette un cielo travolto dall’addio».

L’alfabeto di Francesca Serragnoli, allora, è un tempio che custodisce l’alacre bellezza delle notti in piena con le sue ore brevi e la sua mezzanotte oltre il tavolo, cadenza l’infuocato ritmo e il respiro che «è una bandiera / bianca davanti a Dio», il silenzio del voler essere felici, il mezzogiorno delle tapparelle mentre si spinge fino alla sera delle stelle che «a testa bassa fanno la maglia», intrecciando il vivere e il morire, e nell’onda d’acqua «il gioco delle tue labbra spostava / la luna e la polvere / chiamavano l’onda per nome / chiamavamo quell’acqua, quel foulard / volevamo toccare la domenica, quel costato / come ragni del Signore, iniziare lì».

Nulla rimane fuori da questa pienezza di finitudine protesa, nulla che dopo l’eterno sfogliare dei giorni non cerchi il ricordo custodito, gli addii pestati, gli specchi del mare oltre l’aria inginocchiata e fedele, e gli anelli rovesciati come fiato:

«Non riuscivo a dire nulla d’immortale / accarezzavo moltissimi dei tuoi nomi / ero quella sulla scala mobile / che incrociavi senza morire. / Non te lo so spiegare, dicevi / ma la rosa è meglio di te / è rossa, e quel rosso tu non ce l’hai. / Hai la fuga e il piede nella pietra / non hai nemmeno l’azzurro fra punta e punta. / È come se avessi gettato / gli anelli in mare, / rovesciato il fiato come cenere».

La vita che si svolge promana e promette il suo canto disteso di dettagli dove il cuore prende fuoco nel grido agli angeli, e l’amore è promesso e lasciato, incrociato e disegnato, felice nell’aria scelta dove l’anima scivola la notte, nei codici segreti delle vendemmie: «Hai il cuore cadente dal petto / non lo sai tenere, spinge / conosco il movimento / la confusione delle due / i pulsanti, i codici segreti / il tuo cuore ha risate e sassi / sputa, non è dipinto / l’aria dolce ti cerchia il viso / come un nastro. / Stacco cose dal tuo esistere / è una vendemmia, eppure / c’è un che di aspro, di sbiadito, di invenduto / la notte, furiosa statua / cerca con le braccia di afferrarlo».

Ci sono emblemi tersi e violentissimi che muovono le sue figure nell’aria selvaggia, il canto e la domanda al cielo che è punto di fuga e di conquista, senza travestimenti. Poesia nuda che chiede nudità alle cose, le mendica, le curva pronunciandole e, infine, fa fiorire le parole in segreto dove qualcosa rimane nella polvere e non muore mai, come un nido, un incontro o un ricovero di pronunciamenti per «sentire il sole sulla testa / un cavallo che pesta l’erba / dove i pensieri miei e suoi / si annusano come animali»:

«Percorre un ripido scendere / degli occhi nel basso lei / che ha avuto voli in giovinezza / stretti in mani morte / curva sui suoi anni avverte / nello stare insieme qui / gioielli d’harem e risale / vedo nell’asfalto riflessa / paura di gioire / ma l’ossatura precisa, cadente / non morirà in quei fanali / non finirà la vita / fiorisce in lei la parola dolce / mai pronunciata, di un possibile amore».

Altra vita nella vita, voglia di vivere come musica che divide in due la riga fra i capelli e porta via, fino allo splendido sacrificio di un frantumato amore di grano e impasto di luce e terra, corpi e aria, come lo sfarzo ripido dove scivolano baci e carezze e dove «il duro grigio occhio interrato / cerca nella radura in fondo una margherita / su di lei appoggia la testa / e sogna il fresco domani»: «Mi porti là dove non sono mai stata / i piedi piatti sopra il ruvido della luna / come vecchie parrucchiere alla ricerca / di teste dove mettere i canditi. / Oh gioia che rifai con me il giro intorno al vicolo / mi porti come un cane / lasciami diventare / quel frantumato amore del grano che si lascia morire».

E allora l’incerta gloria di un giorno d’aprile, nei testi nati fra il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna e l’Ospedale di Imola, si avverte tutta la bellezza e la povertà lucente dell’essere vivi, tutto l’abbandono, la grazia dell’eternità figlia dei matti e il posto delle fragole.

Questi ritratti affermano, si posano nel mosaico senza fine di un tempo infinito, dilatato e sofferto, dove ogni crepa dell’essere, ogni limite sono occhiate splendenti al di là dell’orizzonte dell’esistenza delle parole necessarie: ­­­­«Gabriella! alza quel nero vivo uccello notturno / che raspa fra le mani strette, alzalo / che riposi fra le tempie della notte / mentre ti guardo con il volto di vetro soffiato / e le stesse vecchie dure lacrime / sono i miei occhi azzurri».

Come la povere frantumata del futuro immobile che «una donna col carrello tira via dagli angoli / pietra di pianeta, eternità morta / un buco nero sembra dal nero nuovo, / pestato con orme di ciabatta / dove la roccia è girata e rida al cielo / e il pianto ha mille piedi / che vanno e vengono dalla sua ombra», poi Rita appesa a un chiodo d’aria e i suoi occhi divorati dalla luce come una farfalla notturna, la siepe oltre il buio dell’Ingresso Nuove Patologie che attraversa l’immensità e tocca la fine, il tramonto ritornato in viso del reparto geriatria Lunardelli. Un accenno e un sigillo encore: «Ho incontrato due soldati al ventiquattro / quelli partiti per la guerra / i baffetti appena accennati / li ho visti ora che il confine è un altro / le bandiere sono alte immobili bellissime / discutevamo, ma uno è uno / uno è sempre lui, quello che era / non importano gli anni / e non hai il coraggio di dire / tu devi morire, manca poco / ti spareranno dalle piccole e frantumate isole / metteranno i sigilli, chiuderanno la porta / ricorderanno che avevi vissuto / non ce la fai a non guardare tutto come eterno».

Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016, Euro 13.

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Serragnoli F., Aprile di là, Lietocolle, Faloppio (Co) 2016.

La vergogna: breve storia d’un concetto

di Volfango Lusetti, 4 settembre 2016

leggi in pdf Breve storia della vergogna

Questo contributo è presente in Aa. Vv., Vergogna, un’emozione dimenticata, a cura di Maria Emanuela Novelli e Guglielmo Pallai, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2016, e sulla rivista «Attualità e Psicologia».

vergogna-l-emozione-dimenticataLa vergogna è uno di quegli aspetti della psicologia umana che maggiormente si prestano ad essere fraintesi.

Essa infatti si situa a cavallo fra le dimensioni antropologico-religiosa e politico-ideologica da un lato, e quella psicopatologica dall’altro lato.

E’ proprio in ragione di questa sua “posizione di confine” fra antropologia e psicopatologia, che la vergogna viene molto spesso confusa con la colpa, ossia con un’altra categoria psicologica, ugualmente “di confine” fra antropologia e psicopatologia, da cui invece è strutturalmente diversissima e per certi versi opposta.

1

Fra la colpa e la vergogna esistono, beninteso, delle indubbie analogie: esse, peraltro, a ben vedere si riducono ad una sola, però essenziale, che consiste nell’essere entrambe dei disturbi della relazione con gli altri, introiettati come percezione d’una propria esclusiva responsabilità circa un eventuale svolgimento negativo e/o distruttivo della relazione medesima.

Abbiamo però anche alcune differenze, che sono altrettanto capitali:

  • mentre la colpa, dal punto di vista antropologico-culturale e religioso, ha una matrice soprattutto giudaico-cristiana, la vergogna è assai più arcaica, universale e conosciuta in tutte le epoche, religioni e culture;
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-dinamico, ha una connotazione essenzialmente attiva (poiché trae origine soprattutto da un presunto comportamento volontario del soggetto, che si ritiene possa essere ricaduto, per l’appunto “colposamente”, su altri), la vergogna ha una connotazione nettamente più passiva, poiché riguarda all’inverso comportamenti e/o atteggiamenti altrui che si teme di dover subire, contro la propria volontà, in ragione di proprie insufficienze e caratteristiche negative, vere o presunte. Sono proprio questi comportamenti e/o atteggiamenti altrui, dunque, quelli che dall’esterno potrebbero ricadere su un soggetto il quale, entro una certa misura, ne è del tutto “incolpevole”, anche se se ne sente per qualche motivo come il destinatario “obbligato” e quasi la vittima designata.
  • mentre la colpa, dal punto di vista psico-patologico, riguarda un vissuto inerente azioni o atteggiamenti che sono state commessi o assunti dal soggetto (o quanto meno da lui desiderati e/o fantasticati) in forma pienamente consapevole, e che quindi sono non solo perfettamente conosciuti ma addirittura “rivendicati”, seppure per pentirsene, la vergogna, oltre che “ricadere in capo al soggetto” senza un’apparente colpa di quest’ultimo, appartiene in gran parte al regno dell’immotivato e dell’inconsapevolezza delle sue cause ultime, e dunque, almeno in parte, a qualcosa di sotterraneo, d’indefinito nei suoi contorni reali e di tendenzialmente inspiegabile.
  • mentre la colpa, usando categorie freudiane, riguarda soprattutto l’Io, quindi la sfera delle decisioni operative assunte da un determinato soggetto sia verso se stesso che verso l’ambiente esterno, la vergogna riguarda essenzialmente la sua modalità percettiva, e più precisamente la sua auto-percezione in rapporto al giudizio che su di lui può ricadere più o meno arbitrariamente dall’ambiente esterno, nonché il senso stesso del proprio valore e della propria identità personale (ovvero, ciò che in ambito psicoanalitico è stato denotato con il concetto di “Sé”). Inoltre la vergogna riguarda spesso ciò che a partire dall’ambiente investe direttamente e senza mediazioni razionali la corporeità del soggetto, ed insomma una sfera dell’interazione profonda fra il Sé e gli altri che per definizione non è, almeno nella maggior parte dei casi, sotto il controllo cosciente del soggetto.
  • Mentre la colpa si accompagna ad un preciso “potere” che il soggetto detiene sia sugli altri che su se stesso (su se stesso nel senso dell’auto-inibizione e dell’auto-padroneggiamento, sugli altri nel senso del loro “rabbonimento” ed anche della loro colpevolizzazione di risulta, con il potere di ricatto che da ciò consegue), la vergogna si accompagna ad un’impotenza pressoché assoluta: chi si vergogna si trova, letteralmente, “in balìa degli altri” e non possiede nessun arma da “brandire” nei loro confronti, cosa che non avviene affatto a chi è “preda dei sensi di colpa”.

In definitiva, le coordinate attraverso cui si declinano le cinque principali differenze fra colpa e vergogna che abbiamo elencato, corrispondono alle seguenti quattro dicotomie, delle quali solo la prima è d’ordine antropologico-religioso, mentre le altre tre sono prettamente psicopatologiche:

  1. a) la particolarità giudaico-cristiana della colpa, di contro all’universalità culturale della vergogna
  2. b) la connotazione volontaria, paradossalmente “potente” ed attiva della colpa, di contro alla passività ed impotenza della vergogna
  3. c) la consapevolezza della colpa, di contro alla frequente inconsapevolezza della vergogna (o meglio, di contro all’inconsapevolezza delle sue fonti)
  4. d) l’operatività etero-diretta della colpa, di contro alla percezione auto-riferita della vergogna.

Queste quattro differenze, come si vede, sono accomunate dall’essere la vergogna qualcosa che investe il soggetto e ne muta l’auto-percezione provenendo dal di fuori, anziché partire da lui stesso come avviene nel caso della colpa.

Dalle ultime tre di esse deriva poi la conseguenza che il “senso di colpa”, ovvero un vissuto nel quale il soggetto sceglie attivamente di auto-esporsi al giudizio altrui, è solo in pochissimi casi collegato, sul piano psicopatologico, con vissuti di riferimento, ovvero di tipo psicotico e delirante e/o di trasformazione corporea: per la precisione, un tale collegamento si ha solo nei “deliri di colpa”, ovvero in una tipologia della colpa in cui l’aspetto dell’esposizione passiva agli altri ed alla strapotenza del mondo acquista una particolare rilevanza, ma in compenso appare completamente mascherato da una formazione reattiva di tipo maniacale, iper-attiva ed etero-diretta la quale parte ancora una volta dall’Io, come avviene ad esempio in quei “deliri di rovina o di negazione del corpo e del mondo” nei quali si sviluppa una chiara, seppur paradossale, “ipertrofia” del senso d’una propria personale “potenza” che annulla il mondo).

La vergogna, invece, essendo in base a quanto sopra collegata ad un’esposizione puramente passiva, e senza tracce di reazione para-maniacale, al giudizio altrui, contiene sempre in se stessa un embrione d’ideazione di auto-riferimento e/o persecutoria di tipo centripeto, quindi “delirante” nel senso più classico del termine: ciò al punto che alcuni psicopatologi (ad esempio Arnaldo Ballerini) la hanno addirittura collocata nell’ambito d’un unico “continuum” con il delirio in sé (seppure attraverso gli anelli intermedi rappresentati dalle idee ossessive cosiddette “prevalenti” e dal delirio auto-riferito di tipo “sensitivo”), cosa che per quanto riguarda la colpa, almeno se presa nel suo insieme, non è assolutamente possibile fare.

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Ora, il fatto stesso che una tale confusione fra colpa e vergogna possa essersi prodotta ed abbia completamente oscurato le cospicue differenze psicopatologiche ed antropologiche (peraltro universalmente note agli studiosi) che abbiamo elencato, è a prima vista sorprendente.

Tuttavia, a ben guardare, questa situazione possiede delle ragioni storiche precise: esse risiedono nell’essersi la cultura giudaico-cristiana (tutta imperniata sulla colpa) appropriata, in questo come in molti altri casi, di concetti ad essa in parte (ma solo in parte!) affini, come appunto la vergogna, i quali appartenevano a culture e religioni anche di molto antecedenti, deformandoli e successivamente piegandoli ai propri fini ideologico-religiosi.

Pe tutti questi motivi, della vergogna, almeno nel mondo occidentale, a tutt’oggi ha preso a prevalere un’accezione molto superficiale, di tipo “politically correct” e banalmente moralistica, la quale è divenuta a poco a poco assai popolare e si è ormai radicata, sia nei mass media che in buona parte dell’opinione pubblica.

In base a quest’idea, ormai da gran tempo dilagata non solo nel “senso comune” ma anche in gran parte degli intellettuali, e persino in alcuni degli “addetti ai lavori” o “operatori della psiche” meno avvertiti, la vergogna sarebbe solamente una versione superficializzata ed esteriorizzata della colpa, e come tale essa da gran tempo, in specie con l’attenuarsi dei codici morali cristiani e del senso di colpa che era ad essi connaturato, sarebbe “deperita”, anzi addirittura “non ci sarebbe più”: insomma oggi, a differenza di quanto accadeva in un non meglio precisato “buon tempo antico” (e lo si dice con un misto di compiacimento e di rammarico), “non ci si vergognerebbe più” di alcunché.

Tutto ciò viene in tutta serietà affermato in quanto la vergogna, secondo una tale “vulgata”, anziché quel fenomeno psicopatologico molto profondo che abbiamo visto, ossia collegato ad un senso ancestrale di esposizione al pericolo nonché d’invasione psichica e corporea al limite della persecuzione e del delirio, andrebbe intesa come una “categoria morale” o addirittura politico-ideologica, da collegarsi, piuttosto che con i vissuti persecutori, con il dovere morale del “vergognarsi” (un dovere, secondo i più, oggi sempre più disatteso).

Insomma la vergogna, lungi dall’essere riconosciuta per quel fenomeno psicopatologico ancestrale e sommamente enigmatico che è nella realtà (un fenomeno lontanissimo dalle categorie “morali” perché, lo ripetiamo, assai più primitivo del senso di colpa ed imperniato, anziché sulla “volontà” e sull’attività, sulla passività, sull’inconsapevolezza, sull’auto-percezione e sull’auto-riferimento), si è trasformata in una sorta di “dovere civico”: qualcosa che di per sé sarebbe strettamente affine al “senso di colpa” ma ancora più superficiale di esso, per cui ad esempio a livello di costume, nell’attuale cosiddetta “crisi di valori”, “i meno onesti” (i quali sono per definizione carenti di “sensi di colpa” ed anche, ahimè, almeno secondo i luoghi comuni correnti, “sempre più numerosi”), non avrebbero ovviamente alcuna difficoltà psicologica a sottrarvisi.

Inutile dire come una tale visione caricaturale della vergogna, oltre a non renderle minimamente giustizia, sia del tutto inadeguata, semplicemente, a descriverla.

3

Ma accanto a queste considerazioni generali, esistono anche indizi potenti, sia a livello clinico-psicopatologico che di costume, del fatto che la vergogna, lungi dall’essere “deperita” o addirittura scomparsa dalla cultura attuale, come si pretende, è al contrario ben presente ed operante, specie nell’ambito dei fenomeni sessuali.

In realtà, almeno a prima vista, nulla appare più lontano dalla vergogna della fortissima liberazione della sessualità e dell’affermarsi di quella vera e propria concezione consumistica ed “usa e getta” che ha investito il comportamento sessuale medesimo da alcuni decenni a questa parte (per l’esattezza a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso).

In particolare, la suddetta “liberazione della sessualità” ha fortemente investito il comportamento delle donne, ed in subordine dei giovani e degli adolescenti.

Questo fenomeno ha sicuramente molto a che fare con l’introduzione massiccia degli anti-concezionali e con la conseguente divaricazione fra le categorie della sessualità/piacere e della riproduzione/dovere (quindi anche con una parziale liberazione delle donne dalla schiavitù dell’accudimento d’una famiglia che in passato, nell’ambito d’una coppia che era essenzialmente finalizzata alla riproduzione, contava nel suo seno un alto numero di figli).

Esso peraltro è suggestivamente parallelo ad un ulteriore fenomeno: lo svuotamento repentino delle Chiese nel mondo occidentale, detto anche “secolarizzazione religiosa”, ovvero un altro misterioso e repentino evento che è stato osservato proprio a partire dagli anni Sessanta del Novecento, e che denota un crescente venir meno della “presa culturale” d’un ente spirituale molto prestigioso e potente, fino ad allora dispensatore incontrastato di obblighi e di codici morali soprattutto in campo sessuale.

Questi tre fenomeni, poi (“liberalizzazione dei costumi sessuali”, “introduzione degli anticoncezionali” e “secolarizzazione religiosa”), possono a loro volta essere messi in relazione con un quarto, che possiamo complessivamente definire, in termini riassuntivi, la “crisi del modello culturale patriarcale”: si tratta in questo caso d’un fenomeno che investe assetti culturali pluri-secolari e forse millenari, e che probabilmente sta alla base degli altri.

La “crisi del modello culturale patriarcale” è caratterizzata, nell’ordine:

  • da una forte crisi dell’identità maschile, sia sul piano lavorativo che sessuale
  • dal crescente corrispettivo affermarsi del potere femminile, sia a livello socio-culturale che economico-politico
  • dal calo vertiginoso della natalità, ed insieme della mortalità infantile
  • dalla crisi del vincolo coniugale di tipo monogamico, e più in generale della “famiglia tradizionale”, e dal conseguente dilagare di famiglie, etero ed omo-sessuali, cosiddette “a geometria variabile”, ovvero con giustapposizioni varie di figli, di genitori e di “compagni” appartenenti a più matrimoni ed unioni, ecc.
  • dal venir meno crescente, in parallelo con il crescere dell’individualismo collegato al dissolvimento della famiglia tradizionale, del concetto di “dovere morale” (e conseguentemente, di quello di “colpa”), e dal corrispettivo crescere di quello di “diritto”, sia in campo sessuale e lavorativo che in tutti gli altri
  • dal diffondersi di comportamenti maschili sempre più violenti e efferati sulle donne, presumibilmente “reattivi” al crescere del potere femminile e al calo di quello maschile
  • dal diffondersi di problemi erettivi nel maschio, anche se molto giovane (un fenomeno che qualcuno ha addirittura calcolato, nella percentuale del 52% dei maschi occidentali); di tali problemi erettivi, presumibilmente anch’essi collegati con la crisi d’identità maschile, è indizio il diffondersi dell’uso del Viagra fra i giovani.

Ora, per tornare al tema della vergogna, questi fenomeni di mutamento culturale apparentemente assai eterogenei e disparati (anche se sul piano antropologico tutti riconducibili, come si è detto, alla crisi del “modello culturale patriarcale”), a ben vedere possono essere unificati, da un punto di vista psico-dinamico, sotto il comun denominatore d’una “maggiore esposizione sia delle donne che degli uomini a stimolazioni sessuali aggressive ed invasive, un tempo arginate e represse dalla cultura patriarcale e dalla sua ossessione monogamica (o quanto meno, dall’ossessione del controllo maschile sulla sessualità femminile)”.

Del cambiamento inerente la vergogna che si è accompagnato a tali mutamenti dell’antropologia e della psico-dinamica delle relazioni fra i sessi, portiamo quattro esempi, tutti particolarmente significativi.

Un primo esempio è prettamente psicopatologico:

  1. da un lato è deperita fino a sparire quasi del tutto una forma psicopatologica tradizionalmente femminile, ma non del tutto assente fra gli uomini, che imperava in epoche precedenti e che fu al centro dell’interesse di Sigmund Freud, ovvero l’isteria;
  2. dall’altro lato è cresciuta in termini esponenziali, anzi è addirittura esplosa, un’altra forma psicopatologica ugualmente prevalente fra le donne (ma che si diffonde sempre di più anche nel sesso maschile!), ovvero l’anoressia.

Ora, è lecito sospettare, sulla scia di Freud, che l’isteria fosse il sintomo (ed allo stesso tempo, il tentativo mascherato d’aggiramento) d’una repressione culturale, di chiara matrice patriarcale, di tutti quei comportamenti e “pulsioni” sessuali, anzitutto femminili, che potevano dar luogo non solo a comportamenti “trasgressivi”, ma anche ad un vissuto di esposizione diretta agli stimoli sessuali stessi (ovvero ad una forma di sessualità più o meno invasiva ed aggressiva, non filtrata da codici culturali repressivi e/o protettivi), e conseguentemente, ad un vissuto di “vergogna”.

Insomma l’egemonia culturale “patriarcale” si collocava non solo su un piano di repressione della sessualità, ma operava anche in un altro senso, finora per lo più trascurato dagli osservatori e dagli psicopatologi: essa si ergeva anche, per così dire, “a filtro e protezione” dall’esposizione sessuale medesima, e dunque dal senso della vergogna che ne conseguiva, rendendo così possibile una parziale e “mascherata” espressione di sessualità “libera” proprio attraverso la sintomatologia isterica, che in talune sue forme chiaramente la mimava. Ma come si può intuire, in un clima di “sessualità completamente liberata” dal venir meno dei codici patriarcali, come quello attuale, un tale meccanismo protettivo non è stato più necessario e nemmeno possibile, donde il declinare dell’isteria.

Analogamente si può sospettare, in maniera ugualmente legittima, che anche il crescere attuale dell’anoressia, e più in generale dei “disturbi dell’alimentazione” (fenomeno suggestivamente parallelo e inversamente proporzionale al declino dell’isteria!) rappresenti il risultato dell’odierno venir meno degli argini culturali patriarcali all’esposizione sessuale.

In altre parole, forse il venir meno del modello culturale patriarcale, nel suo “liberare” la sessualità (ed in primo luogo, la sessualità delle donne!), ha nello stesso tempo implementato la sua esposizione diretta (ovvero non più filtrata da codici culturali repressivi) alle possibili invasioni e/o predazioni  altrui, e di conseguenza il vissuto di “vergogna sessuale”.

Ciò, da un lato, potrebbe aver reso inutile ogni espressione della sessualità che fosse “mascherata” in forma isterica, e dunque ”protetta” rispetto ad un’esposizione sessuale diretta e potenzialmente aggressiva.

Dall’altro lato potrebbe aver reso necessaria, per compenso, una difesa “estrema” contro una vergogna e contro un’esposizione sessuale, ormai dilagante, da cui non ci si poteva più difendere in altri modi: ora, questa “difesa estrema” potrebbe essere stata rappresentata proprio da quel tentativo di “cancellazione del corpo e della sessualità” (ossia della fonte stessa dell’esposizione sessuale a possibili “invasioni”) di cui l’anoressia è un’evidente espressione: si pensi solo, a mo’ d’esempio, al repentino e frequentissimo cessare delle mestruazioni nella donna anoressica, ossia al venir meno, nell’anoressia, del cuore stesso dell’esposizione sessuale femminile al maschio, che coincide evidentemente con l’aspetto riproduttivo.

Un secondo esempio è di natura antropologica, ed è il seguente:

una difesa dalle invasioni predatorie per via sessuale, probabilmente, è stata rappresentata dalla riscoperta di forme di repressione religiosa che si credevano definitivamente superate o in via di superamento, per lo meno in Occidente.

Da questo punto di vista è singolare la “riscoperta” del velo, presumibilmente anche in qualità di antidoto alla vergogna, non solo da parte di donne islamiche sempre più “contaminate” dai costumi occidentali ma anche da parte delle donne occidentali stesse (seppure ancora in minima percentuale), talché si è assistito con stupore al trapasso più o meno repentino, a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, da costumi sessuali sempre più occidentalizzati e “liberi” come quelli che si erano affermati nello stesso mondo islamico fino agli anni Settanta, ad un rinnovato fondamentalismo etico, peraltro accolto con favore in buona parte dei casi (ed è proprio questa la sorpresa!), dal sesso femminile stesso: quest’ultimo, infatti, spesso dichiara esplicitamente, anche in un contesto culturale occidentale, di sentirsi, del tutto a prescindere da presunte “pressioni maschili”, molto “più protetto” da un codice morale repressivo di tipo patriarcale (e quindi anche dal velo che lo rappresenta), che non dalla “libertà” completamente de-ritualizzata che l’Occidente propugna.

Un terzo esempio, anch’esso antropologico, può essere rappresentato dal crescere nell’opinione pubblica, talora in forma giustificata ma talaltra spinta fino all’isteria ed alla caccia alle streghe, della preoccupazione per la pedofilia quale tipica fonte di invasione sessuale di tipo predatorio, e conseguentemente fonte di passività e di vergogna: ciò a fronte dell’assenza assoluta di dati statistici che dimostrino un reale aumento del fenomeno.

In altre parole, la pedofilia sembra costituire non solo l’ultimo tabù sessuale rimasto in vigore (insieme all’incesto, che però spesso viene stranamente vissuto come un pericolo “minore”), a fronte della caduta di tutti gli altri, ma una specie di “argine estremo” il quale ad un certo punto ha riassunto su di sé il senso generale e più riposto dei tabù sessuali in quanto tali (quello, appunto, d’essere un argine ai tentativi d’invasione predatoria che attraverso la sessualità assai spesso si esplicano). La pedofilia infatti, specie se praticata da figure genitoriali o para-genitoriali (ad esempio dal clero), è un comportamento perverso che, a differenza degli altri, investe direttamente ed alimenta, in una maniera assai evidente e difficile da occultare, proprio quei vissuti d’invasione predatoria strutturalmente collegati alla sessualità (“liberata” o meno che sia) di cui abbiamo fatto cenno e che la cultura attuale tende invece a negare, praticamente in tutte le forme di perversione tranne che nella pedofilia, così come nel comportamento sessuale in generale.

Saremmo insomma di fronte, in questo caso, ad una riscossa paradossale, almeno in un clima imperante di sessualità “liberata”,  dei tabù sessuali in generale, attraverso la riscossa dell’ultimo tabù inerente il sesso, la pedofilia appunto, rimasto miracolosamente in piedi (e rimastovi proprio grazie al suo stretto collegamento, allo stesso tempo, con tematiche d’”invasione predatoria” d’origine sessuale, nonché incestuosa e vagamente “genitoriale”, e con i vissuti di “vergogna”.

Un quarto esempio, ugualmente antropologico ma allo stesso tempo psicopatologico, è il crescere, nella parte meno “avvertita” dell’opinione pubblica ed in alcune fasce del radicalismo religioso, di forme anche violente di omofobia, le quali si sono recentemente tradotte addirittura in attentati terroristici e stragi di massa a danno di omosessuali “militanti”, o comunque riuniti in attività ricreative di carattere “pubblico” e/o politiche. Questo fenomeno, a fronte d’una diffusione dell’omosessualità da sempre relativamente ampia, seppure in forma sotterranea, anche nelle società e culture apparentemente più “omofobiche”, sembra indicare ancora una volta un’emersione persecutoria del vissuto di “vergogna” (intesa nella sua forma più tipica della “esposizione” ad invasioni sessuali predatorie), che l’affermarsi di un’omosessualità “vissuta in pubblico” ha evidentemente slatentizzato, in Occidente ma non solo, all’interno d’una certa fascia “retriva” di soggetti maschili.

A tale proposito si può ricordare come l’omosessualità maschile, in particolare, implichi per molti soggetti il sentirsi posti, anzi talora il porsi loro stessi in maniera volontaria ed ostentata, in una posizione potenzialmente passiva, quindi “esposta” e “soggetta”, nei confronti di invasioni sessuali predatorie d’origine maschile: ora, ciò è più che sufficiente a determinare in coloro fra tali soggetti che si sentono involontariamente esposti alla predazione sessuale (e che si presume siano particolarmente predisposti ai vissuti persecutori d’invasione predatoria), un senso di “vergogna”, con il conseguente scatenarsi di reazioni più o meno violente e paranoicali all’esposizione maschile medesima: è arcinoto ed universalmente riscontrabile nella clinica, a partire dal caso Schreber citato da Freud, il legame strettissimo che unisce “paranoia” ed “omosessualità” (un legame che per Freud era rappresentato dall’essere la paranoia la “copertura di un’omosessualità di cui ci si vergogna”, mentre secondo noi consiste ancor prima di ciò nell’essere l’omosessualità, accanto alla vergogna, un potente contrappeso ed uno strumento di neutralizzazione, in questo caso tramite il “piacere”, di invasioni predatorie); ed è altresì risaputo l’odio ed il comportamento omicida che gli omosessuali suscitano in taluni soggetti psicopatici, i quali li avvertono come “invasivi” e “minacciosi per la loro “identità sessuale maschile”, oppure per l’integrità stessa del loro Sé.

Una suggestiva conferma del possibile legame fra omosessualità e “vergogna” intuito da Freud, del resto, ci viene da un curioso fenomeno, inerente l’omosessualità, che chiama in causa proprio quel legame fra anoressia e “vergogna sessuale” cui abbiamo fatto cenno nel primo esempio da noi portato. Il fenomeno è il seguente: quegli stilisti che “vergano” i dettami della moda cui si ispirano in maniera crescente i soggetti anoressici (donne ed uomini!), sono per lo più dei maschi omosessuali di tipo “estroverso”, ovvero dei soggetti che propugnano al massimo grado, per lo meno nell’ambito della cultura attuale, l’esposizione sessuale alla predazione, ovvero la sua esplicita rivendicazione, e che talora addirittura la “provocano” (si veda, a controprova dell’oggettiva esistenza d’una tale “esposizione omosessuale” ai pericoli predatori, il sopracitato odio di moltissimi psicopatici verso l’omosessualità). Insomma, è come se quelli, fra gli omosessuali, che si sentono non solo sensibili ma anche particolarmente “reattivi” alle tematiche d’invasione predatoria per via sessuale, per un verso “sfidassero” quest’ultima “esibendo” costantemente agli altri la propria omosessualità e quasi “rivendicandola” (forse in quanto posizione “passiva” che aspira a divenire “attiva”), e per un altro verso “insegnassero” a chi non ha la loro stessa capacità reattiva come difendersene, per l’appunto, tramite comportamenti anoressici, ovvero fatti di auto-sottrazione e di “rifiuto”, insieme al cibo, del sesso.

In definitiva, è come se tali stilisti tentassero in qualche modo di codificare ad uso di “tutti gli altri”, attraverso la moda “anoressica” stessa, uno strumento efficace di “arginamento degli stimoli esterni” al fine di riparare la propria omosessualità dai pericoli dell’invasione predatoria nel momento stesso in cui la provocano.

 

In definitiva, si può affermare che la vergogna, espulsa a furor di popolo, al pari della colpa, dall’ambito del discorso pubblico e privato corrente, alla stregua d’un vero e proprio novello “tabù”, ad opera del paradigma “obbligatoriamente liberato” che sessualità e comportamenti “trasgressivi” hanno sempre più assunto nelle società occidentali (nelle quali non a caso il codice culturale patriarcale è ufficialmente in via di dissolvimento!), sembra paradossalmente essersi “rifugiata” nei recessi più profondi ed inattaccabili della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale: ma che da lì, poi, sia partita, per così dire, “al contrattacco”.

E la vergogna, in un tale “contrattacco” si è mostrata, a dispetto dall’apparenza, assai più dura a morire della colpa, anzi praticamente invincibile, per lo meno ad opera di codici culturali deboli, di superficie ed “alla moda” quali quelli correnti.

 

Concludendo, l’unica cosa utile che si può fare, rispetto ai luoghi comuni, alle confusioni ed alle banalizzazioni che investono attualmente il tema oggettivamente profondo e difficilmente sondabile della “vergogna”, è ritornare alle fonti della Psicopatologia e dell’Antropologia Culturale e riscoprire, con il loro aiuto (ed anche liberandoci per un attimo dalla lente deformante del Cristianesimo, nonché del suo retaggio culturale “illuminista”), il vero profilo della vergogna insieme con le sue tracce materiali, che sono tuttora profonde e consistenti sia nella mente che nella cultura umana.

Volfango Lusetti, Roma, 11 6 16

L’ultima riva di Michel Houellebecq

di Andrea Galgano 1 settembre 2016

leggi in pdf L’ULTIMA RIVA DI MICHEL HOUELLEBECQ (2)

HouellebecqIl territorio di Michel Houellbecq (1956) scopre l’intima e sorgiva coltre della sopravvivenza, dell’urlo lacerato e della sofferenza dispiegata.

La vita è rara. Tutte le poesie[1] (2016) edito da Bompiani, che raccoglie l’intero corpus poetico, staglia e inizia con un “metodo”, già caro a Orazio e Rainer Maria Rilke, immaginando, come avviene nella prima opera Restare vivi (1991), che

l’esperienza accumulata possa in qualche modo essere utile a un principiante, permettendogli di trovare la sua strada, mostrandogli gli errori più comuni e l’atteggiamento mentale necessario a migliorarci. Come i lettori dei romanzi e dei saggi di Houellebecq potranno facilmente immaginare, nel suo «metodo» c’è ben poco di incoraggiante, e spesso, leggendo queste pagine nitide e angoscianti, siamo costretti a domandarci se quelle che abbiamo di fronte sono davvero delle istruzioni poetiche rivolte a un ipotetico novizio, oppure il cupo bilancio di una battaglia personale contro il mondo e contro la vita, battaglia che ovviamente è persa ancora prima di iniziare[2].

La strada della poesia vive di questo territorio di sofferenza dispiegata, appunto, che riconosce l’interstizio umbratile del nulla nell’essere, la sua prominenza scura, la peculiare vibrazione del dolore cieco come un nodo che si estende fino all’assenza che si cerca per la memoria, «e consapevoli del fatto che ogni passo in direzione della verità è anche un ulteriore approfondirsi della distanza tra sé e gli altri, una conferma della propria solitudine[3]».

Restare vivi è condensare la sopravvivenza solitaria della scrittura, per lavorare sul grido articolato dell’incarico della poesia, e il poeta, come un sacro scarabeo,  entra nel suo teatro debordante e fallimentare, ma è un docile fallimento che non ha paura della felicità perché non esiste e che cerca, indissolubilmente, l’eternità:

Il mondo è una sofferenza dispiegata. Alla sua origine, c’è un nodo di sofferenza. Ogni esistenza è un’espansione e uno schiacciamento. Tutte le cose soffrono, finchè esistono. Il nulla vibra di dolore, fino a giungere all’essere: in un abietto parossismo. Gli esseri si diversificano e diventano più complessi, senza perdere nulla della loro natura originaria. A partire da un certo livello di coscienza, si produce l’urlo. Ne deriva la poesia. E anche il linguaggio articolato. (Dapprima, la sofferenza).

Con Il senso della lotta (1996), la percezione del reale di Houellebecq «lo conduce a una specie di darwinismo di secondo grado, nel quale l’ambiente naturale ha ceduto il passo a un reticolo di scambi sociali nel quale, paradossalmente, proprio chi è più consapevole è più incapace di adattamento[4]»: «Ci sono state notti in cui avevamo perso anche il senso della lotta / tremavamo di paura, soli nella pianura immensa, / Avevamo male alle braccia / Ci sono state notti incerte e molto dense».

Esiste sempre una sorta di stanca trasparenza pervasa dalla sofferenza, come se ci fosse un lividore che intesse la superficie invisibile che delimita l’aria, le parti separabili e separate del corpo, il pomeriggio abbozzato dal dolore, l’attesa dell’avvenire non ancora venuto:

Fuori fa molto caldo e il cielo è splendido, / La vita fa volteggiare i corpi giovanili / Che la natura chiama alle feste primaverili / Lei è solo, ossessionato dall’immagine del vuoto, / E sente pesare la sua carne solitaria / E non crede più alla vita sulla Terra / Il suo cuore stanco palpita con difficoltà / Per rimandare il sangue alle sue membra troppo pesanti, / Ha dimenticato come si fa l’amore, / La notte cade su di lei come una condanna a morte (Pomeriggio).

 

Ma la piaga di Houellebecq ha un contrabbando inquieto, l’incrocio senza amore corroso, l’immensità della notte che sfiora gli oggetti esitando, mentre a servizio del sangue si muove l’oscurità. Forse un ricordo di camera di giornate superflue, forse uno splendore azzurro che chiede dolcezza o fine, che sospende l’ultimo giorno precoce di un amore intero da vivere: «E per guardarci ore intere; / Tu spogliavi il tuo corpo davanti al lavabo / Il tuo viso si contraeva ma il tuo corpo restava bello / Mi dicevi: “Guardami. Sono intera, / Le mie braccia sono unite al mio busto, e la morte / Non colpirà i miei occhi come quelli di mio fratello, / Mi hai fatto scoprire tu il senso della preghiera, / Guardami, guarda, Posa i tuoi occhi sul mio corpo”» (Eccezione Rue d’Avron).

L’essenza della realtà e la sua similarità con l’essere lottano, impari, con l’alba livida delle ripetizioni identiche, con il futuro, divenuto anteriore, delle promesse, con la quotidianità divorata da un senso acre di ansia e precarietà che però cerca di trascendere nell’infinità preziosa e nel mistero, purtroppo irrisolto.

L’eternità inseguita allora è un urlo, un magma, un tono di attacco «che possa straziare il silenzio della notte», che possa spogliare  l’interludio di un breve silenzio dalla propria prigione, dalla propria inconsistenza, dal proprio sogno fragile e dall’ultima angolatura della scala, come la vita che si disegna sulle reti urbane o come la presenza nuda del mondo:

 

Muoiono talvolta d’un sol colpo, / Certe sere / C’erano abitudini che facevano la vita ed ecco che non / c’è più niente / Il cielo che sembrava sopportabile diventa d’un sol colpo / profondamente nero / Il dolore che sembrava accettabile diventa d’un sol colpo / lancinante / Non ci sono che oggetti, oggetti fra i quali si è se stessi / immobilizzati nell’attesa, / Cosa fra le cose, / Cosa più fragile delle cose / Gran povera cosa / Che aspetta sempre l’amore / L’amore, o la metamorfosi.

 

Ma la rincorsa dell’amore all’amore è un quasi-oblio vinto, un desiderio altro di vita, la fine prima dell’inizio, la sopravvivenza delle partenze, la divorato silenzio delle domande inconcluse come chiarore inevaso, il corpo dolente come testimonianza dei crepuscoli anneriti, la confusione della dolcezza lontana e l’anima che cerca il sole nel grigiore livido: «La sera si stabilizza e l’acqua è immobile; / Spirito di eternità, vieni a posarti sullo stagno. / Non ho più niente da perdere, sono solo e tuttavia / La fine del giorno mi ferisce di una ferita sottile».

Contiene una strana ferocia La ricerca della felicità. Ferocia che si dipana per tutta la durata di questo paesaggio interiore, attraverso il margine delle ragnatele urbane, dei luoghi svuotati di ipermercati e posteggi, dove le relazioni sembrano quasi una sorta di soglia di passaggio non riconciliata dove le particelle elementari sono lo sfondo di un’epica lacerata e confusa. Una domanda e una costatazione di amore tremende, una lontananza esclusa: «Perché non possiamo mai / mai / essere amati?».

È come scendere in un gorgo di catastrofe e caos, dove il remoto smarrimento dell’uomo, cavia e pedina, cerca la sua tessitura di speranza e sogno, di esistenza e lucidità di decifrazione.

Non esiste un punto di appoggio, nella notte lucida e attenta, l’orizzonte resta fluido negli orizzonti sgranati ma resta la dissolvenza del desiderio, stanato dall’oblio, irraggiungibile: «Mi disprezzavo tanto che volevo morire, / o vivere momenti forti ed eccezionali; / oggi mi sforzo di non soffrire troppo, / mi avvicino alla fine. Raggiungo il reale».

È la modulazione del tempo ispessito dal mancato contatto con la realtà interrotto, dal freddo di ciò che risulta estraneo, dal tempo ontologico in cui ritrovare la gioia, dalla linea retta delle tracce sicure di ciò che è raro:

I piccoli oggetti puliti / traducono uno stato di non essere. / In cucina, con il cuore stritolato, / aspetto che tu voglia ricomparire. / Compagna accovacciata nel letto, / più cattiva parte di me stesso / passiamo brutte notti, / mi fai paura. Eppure ti amo. / Un sabato pomeriggio, / solo nel rumore del boulevard. / Parlo da solo. Che cosa dico? / La vita è rara, la vita è rara.

 

Scrive Laura Fusco su “L’Indice”:

La realtà è la solita, “gabbia laboratorio”, e l’individuo, un po’ alla Truman Show, molto cavia e «pedina». Lo sfondo grosso modo quello di Le particelle elementari: metropoli globali, immense «ragnatele» e soprattutto quei luoghi non luoghi come ipermercati e posteggi, scenari di una socialità negata, in cui si consuma l’angoscia di riti collettivi svuotati. Insomma Houellebecq, la sua rivisitazione «epica» del reale, con angeli che volano nella stanza, microbi, metallo, edifici vuoti che rimandano l’eco dei passi, quella sorta di gigantismo, horror vacui e senso di disperante catastrofe che è il mondo. Anche se «non abbiate paura, il peggio è passato, siete già morti». Tutto in modo più “caotico” del solito, come in un “pastiche” postmoderno. O, se si pensa ai suoi ricoveri in clinica psichiatrica, in certi deliri o negli incubi, in cui è la tessitura da cui non si riesce a uscire la sostanza e il pauroso del sogno. Houellebecq è lucido e consapevole, «secondo i medici sono il colpevole»[5].

La studiosa, analizzando l’inseguimento di Houellebecq della matrice dettagliata del reale, continua ancora:

Più che il contenuto del pensiero, scomodo, provocatorio e senza freni, è il flusso la cifra, qui più che nei romanzi. Anche perché nel libro, diviso in sezioni, come critico, saggista e poeta l’autore riesce a scavare e tessere associazioni, scarti, accumuli ed escheriane variazioni sul tema, spostando piani e cambiando linguaggi e prospettiva. «Il luogo magico in cui la parola è canto non esiste» – come la felicità – «ma noi camminiamo verso di esso[6].

Il punto iniziale del suo frattale diviene, allora, una meta irriproducibile in questa vita, come il grido rapido e brevissimo della sofferenza, del dolore, del limite creaturale del corpo battuto e mescolato alla terra come bestia impura, dell’amore sospeso e spento, della malattia e della paura della morte: «Fra cinque ore al massimo il cielo sarà tutto buio; / aspetterò il mattino schiacciando mosche. / Le tenebre palpitano come piccole bocche; / poi torna il mattino, secco e bianco, senza speranza».

Il limite di Houellebecq è l’adesione a una territorialità franta, alla parola quasi bianca degli ospedali, come il gemito della prima sigaretta, come la fame, sempre la stessa, della fase estrema dell’io che

 

parla per e a nome dei poeti e dell’umanità, esorta con furia calma, in una sorta di allucinata ebbrezza, indica una via che è contraddizione, «aderite e tradite subito». L’autore è solo «di fronte all’ininterrotta presenza di sé»: «nulla interrompe mai il sogno solitario che mi fa da vita». E ripropone all’infinito i dettagli di quella realtà frattale e matrigna che è il filtro della mente, specchio che lo chiude in una “non libertà” di sperimentare. Lui capovolge: «il mondo è sofferenza perché libero[7].

 

Questa deriva di incontri e incroci, ore trascorse, insinuazioni bruciate nel silenzio delle cose, incrinature silenziose e profonde, latitudini ricercate, chiede il riposo delle erbe impassibili, del ricordo che nulla cancella, come un tentativo morente di resistere, di essere divenire e tempo presente alla ricerca di una felicità pura e di una via d’uscita dalla paura e dalla mancanza: «Le persone se ne vanno, le persone si lasciano / vogliono vivere un po’ troppo in fretta / mi sento vecchio, il mio corpo è pesante / non c’è altro che l’amore»

La Rinascita (1999) che si compie è un azzardo di ciglia. Come una luce liquida che cola, nonostante il cielo rischiari solo rovine e la pioggia batte forte mentre il sole attraversa le nuvole: «Adesso il  sole attraversa le nuvole, / la sua luce è violenta; / la sua luce è possente sulle nostre vite schiacciate; / è quasi mezzogiorno e il terrore s’insedia».

In questa perdita di cocci e partite perse, in questo disordine amaro e fiori sbocciati, esiste come una brezza inappagata, un limite mortale che interviene nell’universo duro delle realtà sconnesse e della realtà da riconoscere come la vita: «L’anno della parola divina / è ancora da reinventare; / sul mio materasso, rumino / realtà sconnesse».

È un paradiso perduto la rinascita di Houellebecq, giace nel fondo, sembra essere inseguita nel cuore battuto dei colpi oppressi, nella stanchezza della lotta, in quel che muore ma forse non si rassegna a farlo nella luce declina (Nizza) o nell’amore che non basta mai, scavato nella città: «Creatura dalle labbra accoglienti / seduta di fronte, in metrò, / non essere così indifferente: / di amore non se ne ha mai troppo».

Nel sesso indocile, nel cielo vuoto, nella stanchezza del corpo, nel mattino dei giorni che scompare e tutto sembra cancellarsi e coprirsi di sabbia, il tentativo umano è cercare un contatto con un sapore di vita che non si annulli nella catastrofe e nella deriva, che entri nelle vene allontanandosi da ogni bestialità e dalla vita senza scopo.

La sopravvivenza è il cuore affranto verso la rinascita scampata dall’universo a brandelli e sprofondato mentre il corpo freme e desidera carezze. Una mano posata sul cuore, un soffio che diventerà profumo.

Si avverte sempre una sorta di estranea contemplazione, un interludio nella calma tremenda dell’azzurro inevitabile della luce uniforme: «nel disgusto, nel tedio / nell’indifferente natura / metteremo le nostre pelli allo studio, / cercheremo il piacere puro / le nostre notti saranno interludi / nella calma tremenda dell’azzurro», poi «la notte ritorna, fine del sole / sulla pineta inevitabile / e i tuoi occhi sono sempre uguali, / la giornata e completa e stabile» e «In mezzo a questo panorama / di montagne di media altezza / riprendo a poco a poco coraggio, / accedo all’apertura del cuore / le mie mani non sono più impedite, / mi sento pronto per la felicità».

Dopo l’immenso successo di Sottomissione, il romanzo-sintomo e archetipico della traccia profetica e possibile della Francia e dell’intera Europa, dove, nel 2022, le elezioni presidenziali vengono vinte da un partito islamico e in cui, come scrive Luigi Grazioli, la tendenza

 

a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione, oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla realtà, o non è niente» e in cui le profezie diventano «l’orizzonte naturale di queste premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo, estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche quando a pretenderlo è lo scrittore stesso[8],

 

Configurazioni dell’ultima riva[9], edito da Bompiani, con l’acuta traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, rappresenta la distintiva e derivata protrusione di uno sguardo, solo leggermente scostato, dalla drastica apocalisse della grave disperazione e dove le cose partecipano alla loro aurea manifestazione, vibrano in una prominenza tracimata e lucente che ama i contraccolpi, le pause impossibili, le esigenze di vita sofferente contro il fiato del vuoto: «Così, generazioni sofferenti, / Comprese come pulci d’acqua / Tentano di restare indifferenti / Ai sensori della vita vacua / E tutte fanno fiasco, senza pianto, / Tutto ricoprirà la notte grama / E la spossatezza monogama / Di un corpo affondato nel fango».

È un libro in bilico ed appartato che sussurra la distesa grigia di una gioia che rischia l’invalidamento e la cancellazione ma che fotografa la densità dell’istante spianato[10] e fuori asse e che segna una precaria solidità: «Se muore il più puro / La gioia si invalida / Il petto è come svuotato, / E l’occhio conosce bene l’oscuro. / Basta qualche secondo / Per cancellare un mondo».

Il perimetro di Houellebecq è abitato dall’assenza ciclotimica[11] che chiude la vista delle prossimità («[…] Abitiamo l’assenza. / Poi la vista sparisce / Degli esseri più prossimi»), fino a non avere fondo, fino a ridursi a una demolizione di calma.

È la lotta continua e consolidata con l’ultimità, il compassionevole oblio che ha velato il mondo, come «L’elemento bizzarro / Disperso nell’acqua / Risveglia il ricordo, / Risale al cervello / Come un vino bulgaro» e tutto esita nel vuoto e, come spiega Fabrizio Sinisi, «Se ciò che domina la vita è un’assenza, se ogni fiducia è sparita, non è solo un problema ideale o culturale: viene meno la percezione stessa dell’essere».

L’ossessione che lavora segreta, «lieve come un sorriso lontano», in cui «Lo spazio fra due pelli / Quando si può accorciare / Apre mondi più belli / D’un grande scoppio ilàre», risolleva una domanda che è gloria e specimen moriendi di uno scandaglio che diviene l’annuncio di una manifestazione linguistica, come proclama Celan:

«La poesia, essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza -, che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo senso in cammino: esse hanno una meta[12]».

La singolare domanda di Houellebecq si attesta in questo sottopasso di regni dissolti, dove la notte s’installa indifferente, attraverso l’irreparabilità di ciò che avviene nel deserto indolente:

 

Dove ritrovare il gioco innocente? / Dove e come? / Cosa bisogna vivere? / E perché dobbiamo scrivere / Libri nel deserto indolente? / Sotto la sabbia strisciano serpenti / (Hanno sempre il nord in testa) / Niente è riparabile dai viventi,. / niente dopo la morte sussiste. / Ogni inverno ha la propria esigenza / E ogni notte la propria redenzione / E ogni età del mondo, ogni età ha la sua / sofferenza / S’iscrive nella generazione.

 

Le sue assenze di durata limitata non consolano bensì occultano, soffocano, persino astraggono nel loro foglio inquieto e svuotato, finendo per imporre la loro vetrina solitaria e la loro inquietudine concretata nell’universo lirico, che solo puntualmente e irrimediabilmente, tenta conciliazioni e si fascia:

 

Ora soffro tutta la giornata, dolcemente, leggermente, ma con qualche punta orribile che si conficca nel cuore, imprevedibile e inevitabile, per un istante mi ritorco di sofferenza e poi battendo i denti ritorno al dolore normale. / La sensazione che mi si strappi un organo se smetto di scrivere. Meriterei il macello. / Vittoria! Piango come un bambino! Le lacrime scorrono! Scorrono!… / Ho provato verso le undici qualche minuto d’intesa con la natura. / occhiali neri in un ciuffo d’erba. / fasciato di bende, davanti a uno yogurt, in una centrale siderurgica.

Scrive Nicola Vacca:

Houellebecq poeta è diverso dall’Houellebecq romanziere. L’abbandono al verso lo rende meno isterico e inquieto. Qui viene fuori lo scrittore impolitico che si aggira tra le macerie della distesa grigia della terra e annota sul suo taccuino l’assenza che abita nella tragicità dell’essere. La sua poesia non rinuncia a un pensare per paradossi, dove una «calma demolita» gioca d’azzardo con un «cammino senza sapore e senza gioia. Per Houellebecq percepire la realtà significa vivere un momento forte, essere una definizione perfetta, qualcosa che oltrepassi la morte. Tra le righe dei suoi versi si può leggere la sfida a viso aperto di un uomo che ha orrore del vuoto che dilaga. Houllebecq afferma che il mondo lo sorprende ed è per questo che scrive poesie. Per lui la vita non ha nulla di enigmatico. Nonostante amiamo aggirarci nei paraggi del vuoto, il nostro disincanto universale lotta quotidianamente con il “naturalismo esistenziale” dell’amore che vive con tutta la sua fragilità nella gestualità dei corpi che si appartengono e si respingono. Houellebecq poeta cerca di dare un senso alla condanna. Paradossalmente attraversa un universo lirico in cui per un istante si intravede un futuro per la speranza ,anche se il nulla propone alla nostra inquietudine una pace relativa[13].

 

Esiste un punto sincopato ma splendente, dove sembra trasparire una possibilità impercettibile di riscatto: è l’esperienza amorosa, violenta e definitiva che disincanta e spezza questo magma spento e subìto, dapprima come esigenza di completezza, poi come manifestazione e «gioia di ritrovare qualcuno che si è già incontrato, che si è sempre incontrato, per sempre, in un’infinità d’incarnazioni anteriori. Se non ci si crede, è un mistero».

Perderlo significa perdersi, separarsi è annullare la propria smagliatura lucente, perché tutto ciò che non è affettivo diventa insignificante e allora esso serve «per legittimare una vita», come sostiene ancora Fabrizio Sinisi, nonostante la sua affermazione «necessita di una libertà che oggi sembra un peso troppo grave[14]».

Il narcisismo macerato e diviso di Houellebecq, nutrito da Baudelaire, Verlaine e Drieu La Rochelle, come afferma Camillo Langone[15], è pieno di fame, si porge al respiro vitale, rimanendo nella traccia di un’esistenza possibile, di un colpo di vento che venga a purificare lo spazio, sebbene conosca ciò che nella vita sempre declina, quando «tutte le strade portano a stanze chiuse», e quasi finendo per declamare il bordo infinito dell’essere, tenta una lotta disperata contro l’evidenza di diminuizione: «Non sapevo di avere nel petto / Questa orrenda ostinazione d’essere / Anche privato di ogni diletto, / Di ogni piacere, di ogni benessere, / Questa imbecille e sorda forza / Che vi spinge a proseguire / mentre ogni istante rafforza / L’evidenza di diminuire».

L’esigenza di felicità è un crampo che assomma il bisogno di «avere una fede, minuscola o sublime, / un insieme di gesti / Come una danza idiota, diciamo la moresca, / una danza modesta / Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato / pochissima riflessione», per raggiungere «la felicità immobile e ciclica della ripetizione».

È un tempo decostruito e viaggiatore che invoca, a denti serrati, la lucidità di un tratto condiviso, di un corridoio che si agita e sente pena e tremor, avviluppato nella conca drammatica dell’umano:

 

Osservando tutti questi corridori, / fra cui certi social-democratici, / Sentivo pena e tremori: / è nel soffrire che schiattano. / Esaminando questo danese / Come Bjarne Riis noto al paese, / Non penso più affatto a me; / Il suo viso torturato diventa plissè / Come un viso d’essere umano / Che trova salvezza nella pena / Con i testicoli, con le mani, / Scriveva la storia umana / Senza bellezza vera, senza esultanza, / Con la coscienza di un dovere. / Tutto questo si agitava in me: / La coscienza, la pietà, la speranza.

 

Ha scritto Chiara Farangola che la Weltanschaung di Houellebecq si inscrive

 

nella linea di un pensiero tragico che esprime la crisi profonda nelle relazioni tra gli uomini e il mondo sociale e cosmico. Il «mondo senza qualità» dell’opera houellebecquiana è un mondo definitivamente abbandonato da Dio, nel quale Dio non è solamente morto, ma non è nemmeno mai esistito. L’uomo che Houellebecq descrive è lacerato tra l’aspirazione all’infinito e la realtà della morte, è l’uomo che avendo elaborato lo spazio della scienza razionale, ha rinunciato al concetto stesso di Dio e perciò a qualsiasi norma veramente etica. Il problema centrale della coscienza tragica in Houellebecq diventa allora sapere se in questo spazio razionale sia ancora possibile reintegrare un’etica, dei valori morali sovraindividuali e, se sarà possibile, pensare di nuovo in termini di «comunità» e di «universo». Questa tesi si propone proprio di mettere in rilievo l’importanza, nella visione del mondo veicolata dai romanzi di Michel Houellebecq, dei ressorts esistenziale e spirituale, rispetto a quello socio-teorico già analizzato in altri studi. Inoltre, vedremo come questa metafisica houellebecquiana si nutra nell’intuizione poetica di un immaginario materiale di acqua e di luce e di come questi momenti intuitivi costituiscano la vera voce dell’autore, quella più intima e sofferta che si strugge nell’assenza dell’Amore[16].

 

Il fondo della sua vibrazione è la «souffrance ordinaire», calcata nelle miserie quotidiane e nella separatezza dalle cose, densa nell’amarume ebbro di solitudini, come attesa di venti forti e inesorabili, nella vita sbattuta e alienata della mancanza d’amore, divenuta spietata e piena di «oggetti variabili / Di mediocre interesse, fuggevoli e instabili, / Una luce smorta scende dal cielo astratto. / è il lato B dell’esistenza, / Senza piacere e senza vera sofferenza / salvo quelle dovute all’usura, /  Ogni vita è una sepoltura / Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».

La propria derelitta spersonalizzazione si affaccia sul mondo muto, sopravvivendo, senza conduzione al significato ultimo e profondo che radica l’esistere, si sporge persino nella provocazione sessuale e ribelle, mercificata e indotta, di uno struggimento di soglie inavvicinabili che interrompe le frasi di un paradiso perduto e immane.

È lotta narcisista e laterale, male di vivere che sussume lo scuro profilo della perdita, dell’abbandono, della dissacrazione di ogni promessa bandita e maledetta che, attraverso un processo di reificazione, scompone la scena del mondo, disciogliendo i suoi residui: «le strutture del piacere munite del proprio fusibile / Che è la paura. Dell’altro. E della sua innocenza. / Il sospetto al di là di un’immobile assenza, / Di qualche cosa infine che rassomigli a un senso / Oltre le nostre pelli. Fantasma di trascendenza».

L’apocalisse di Houellebecq rappresenta, dunque, il teatro di un destino scarnificato e catastrofico che ha dismesso la libertà, rendendosi emergenza sognata e distrutta di un mistero segreto, come egli stesso proclama in questa contraddittoria confessione a Stefano Montefiori, dal titolo Contro la responsabilità: «Della libertà l’uomo non ne può più, troppo faticosa. Ecco perché parlo di sottomissione. […] In fondo la religione per me non è la fraternità, ma la comunione con una potenza spirituale realmente esistente e attiva. Una potenza anche fisica. […] Il riconoscimento di una potenza, voglio dire, tale da rendere superflua l’esistenza stessa di una morale[17]».

Tutti i paraggi del vuoto, dissociati dalla vita, attendono una promessa d’amore, come speranza e desiderio inesorabile e schiuso, profezia tenera malgrado «il limite del mio reame» che va riempiendo il sollievo di una vita di breve durata e ineluttabile e di un amore di passaggio, sempre cercato e abolito, come testamento sparito e isolato: «In fondo l’ho sempre saputo / Avrei aspettato l’amore / E sarebbe arrivato / poco prima che morissi. / Ho sempre avuto speranza, / Non ho rinunciato / Molto prima della tua presenza, / Mi eri stata annunciata. / ecco, sarai tu / la mia presenza effettiva / sarò nella gioia / della tua pelle non fittizia / così dolce alle carezze, / Così leggera e fine / Entità non divina, / Animale di tenerezza».

La sua nuda disperazione e il peso di una nullità bruciata, pertanto, entrano nel bisogno chiuso dei giorni sperduti, nella vecchiaia, nel tremore dell’essere che non esita a sparire ma che lascia, solo ed esclusivamente, nell’amore e in mezzo al tempo, «la possibilità di un’isola».

E poi ancora si addentrano nel dono di una vita intera in tutto lo splendore delle carezze del sole, nel colore di miele di Joséphine, nel cielo in fondo agli occhi come lacrime che colano, nel risveglio spesso oscurato, assillato dall’eterno («Bisogna attraversare un universo lirico / Come attraversi un corpo che hai molto amato / Bisogna risvegliare le potenze oscurate / l’assillo dell’eterno, dubitoso e patetico») e nello sguardo che scava in fondo al vuoto il tremare di un desiderio confessato e ultimo, sussurrato quasi con vergogna, come la lettera a Bernard-Henry Lèvy: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora[18]».

In questa grazia immobile, «sensibilmente schiacciante, / Che risulta dal passaggio delle civiltà» e «non ha la morte come corollario», esiste e si percepisce l’unione paradossale di morte, amore, piacere che destano la consapevolezza della rovina separata, dell’universo carnale, della scrittura del corpo precario e in cardine instabile, arreso in una splendente limitatezza, fuso in un’opportunità amorosa che attraversa lo sfacelo e si rivela come irriducibile e sublime desiderio di eternità, e, infine, assorbito nella sua interrotta genesi sacrale, come scrivono, in un’interrogativa finale che ci tocca e ci impasta, Alba Donati e Fausta Garavini, nella nota di copertina al testo:

 

Sì, oltre le notti senza cielo, oltre le mattine in cui la speranza esita a raggiungere gli uomini, c’è un momento di possibile dolcezza, quando le pelli si toccano, si incontrano, in cui il mondo può addirittura risplendere. Così appena finito di leggere le quasi cento poesie di uno dei più grandi scrittori francesi “sopravviventi” ci toccherà rimanere indecisi: ci avrà contaminato quel suo senso di condanna, di maledizione e disincanto, oppure ci avrà fatto sentire tutta l’esitazione, la fragilità e la bellezza dell’amore, della compassione, dei corpi?[19].

 

Bibliografia

Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

  • Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

Id., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993.

Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

 

 

 

 

 

[1] Houellebecq M., La vita è rara. Tutte le poesie, Bompiani, Milano 2016.

[2] Trevi E., Consigli disperati per rimanere vivi, in “Corriere della Sera”, 28 aprile 2016.

[3] Id., ivi.

[4] Id., ivi.

[5] Fusco L., recensione a La ricerca della felicità, in «L’Indice».

[6] Id. cit.

[7] Id., cit.

[8] Grazioli L., Houellebecq lercio misantropo (http://www.doppiozero.com/materiali/parole/houellebecq-lercio-misantropo).

[9] Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Bompiani, Milano 2015.

[10] Montefiori S., Le mie fotopoesie, in “Corriere della sera – La Lettura”,  12 giugno 2016.

[11] Id., Michel Houellebecq. Il mondo mi sorprende, perciò scrivo poesie: sull’amore, e sulle lavatrici, in “Correiere della Sera – La Lettura”, 25 ottobre 2015.

[12] Celan P., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 35-36.

[13] Vacca N., Michel Houellebecq. Configurazioni dell’ultima riva

(http://www.satisfiction.me/michel-houellebecq-configurazioni-dellultima-riva/).

[14] Sinisi F., «Eppure confesso che persiste il desiderio di essere amato», in «Tracce – Litterae Comunionis», dicembre 2015, p.93.

[15] Langone C., Quanto Baudelaire nelle nuove poesie di Michel Houellebecq, in “Il Foglio”, 18 novembre 2015.

[16] Cfr. Farangola C., Il mondo senza qualità. L’universo romanzesco di Michel Houellebecq, tesi di laurea, Roma.

[17] Houellebecq M., Contro la responsabilità. Conversazione con Stefano Montefiori, Libri del “Corriere della Sera”, 17 febbraio 2015.

[18] Id. – Lévy Bernard H., Nemici pubblici, Bompiani, Milano 2009.

[19] Donati A. – Garavini F., Nota al testo in Houellebecq M., Configurazioni dell’ultima riva, Bompiani, Milano 2015.