L’esilio reduce di Ghiorgos Seferis

di Andrea Galgano 29 settembre 2017

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giorgos_seferis_1963Nella sua voce risuonava una nota dolente come se l’oggetto del suo amore, la sua adorata Grecia, avesse malaccortamente e distrattamente rovinato le acute risonanze dell’ululato. Il mellifluo cantore asiatico era stato più d’una volta costretto da una folgore inattesa al silenzio; le sue poesie si facevano sempre più dense, sfavillanti, rivelatrici.

Henry  Miller

Il nomadismo di Ghiorgos Seferis, pseudonimo di Georgios Seferiades, (1900-1971) è una migrazione dello sguardo. Una migrazione toccata dalla scalfittura disorientata dell’anima. Ed è la stessa anima a recare il portato di una vertigine umbratile e precisa che lega il brogliaccio di passato e presente, nazione e patria perduta, memoria, identità, folto di immagine che incastona Omero, Eschilo, Sofocle, Pindaro, Massimo Cazzulo afferma:

La scelta linguistica indica chiaramente i due poli attorno ai quali orbita la poesia seferiana: culturale l’uno, etico l’altro. Culturale perché trivellare gli strati successivi della lingua, recuperare il passato e farlo rivivere innestandolo nel tessuto linguistico più vivo e corrente significa dichiarare implicitamente la continuità della lingua greca, negare qualsiasi iato tra passato e presente […][1]

Una corposa antologia di testi, Le poesie[2], (da Svolta del 1931, fino a Quaderno di Esercizi, II, raccolta postuma del 1976), che è stata da poco pubblicata dall’editore Crocetti, con la traduzione di Nicola Crocetti e la prefazione di Nicola Gardini, restituisce agli occhi la condizione di un poeta che porta addosso il segno di un luogo di bellezza e asperità, la raffinatezza e la tradizione, il mito e il suo «porto sepolto».

Nato a Smirne, si trasferì ad Atene con la famiglia nel 1914, formatosi poi nella facoltà di Giurisprudenza di Parigi (si laureò nel 1924) dove seguì il padre, giurista insigne di Diritto Internazionale, da qui guardò alla catastrofe dell’Asia Minore, ossia la disfatta dell’esercito greco in Asia Minore, appunto, durante la guerra greco-turca, la distruzione di Smirne e il conseguente abbandono delle comunità greche di quella zona.

Rientrò in Grecia nel 1926, dove intraprese la carriera diplomatica che lo renderà cosmopolita e poliglotta (spiccano i viaggi ad Ankara e Londra tra tutti, in quest’ultima infatti fu decisiva per la conoscenza e la traduzione della poesia di Eliot prima, Pound, Valéry e Auden poi, ma anche Albania, Nord Africa e Medio Oriente). Quando fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1963, Atene stava attraversando gli anni più bui della dittatura dei colonnelli, la sua dichiarazione pubblica, avvenuta poco tempo prima della morte, rappresentò un emblema di forza e splendore, e i suoi funerali divennero, pertanto, una sorta di manifestazione politica, di riscatto e di tensione.

Roberto Galaverni scrive:

Se a partire dal romanticismo – pensiamo solo a Schiller e a Leopardi – i poeti ci hanno detto che il rapporto con l’origine è perduto, per un autore neogreco qual è appunto Seferis questa rottura doveva assumere un carattere insieme drammatico e totalizzante, diventare il segno o la cifra unica del destino, visto che riguardava la patria stessa della poesia, e allora la perdita dell’armonia e della pienezza, della lingua e del canto, della possibilità di ordinare il mondo secondo giustizia […] tuttavia, non sarebbe giusto derivare meccanicamente la sua vicenda poetica dagli eventi dello sradicamento e da una ferita pur così profonda e immedicabile. Questi costituiscono piuttosto un elemento importante di un percorso di svelamento e di conoscenza più ampio (condotto sempre attraverso gli strumenti poetici e secondo l’etica del verso), che si allarga via via ad anelli concentrici fino a configurare alcune fondamentali verità dell’uomo non in termini storici o circostanziali, bensì assoluti, inamovibili, eterni.[3]

L’erranza costituisce non soltanto il passaggio vociante di una condizione, ma, soprattutto, l’epos di una linea che cerca di cucire il tempo affondato nel sangue, la scelta della poesia, il repertorio degli antichi detriti e l’interrogazione del destino.

Il poeta ci dice il suo disgiungimento dell’anima dinanzi alla clessidra muta, al repertorio dell’attimo invischiato nella domanda, il buio vivo dell’istante dinanzi al vasto mondo che richiama e si richiama: «Attimo, inviato da una mano / che avevo tanto amato, / mi hai raggiunto al tramonto come una colomba nera. / Biancheggiava di fronte a me la strada, / alito dolce del sonno / al termine dell’ultima cena… / Attimo, grano di sabbia, / che da solo hai tenuto tutta / la tragica clessidra muta, / come se avesse visto l’Idra / nel giardino celeste» (Svolta).

I drammi che tremano nella loro nudità sono melodie di lacrime sradicate (Oreste, Astianatte, Andròmeda, Alessandro Magno e i mille volti sconosciuti), corpi che ritornano alla loro fruttifera estremità, singhiozzo che dona al mondo un cielo pieno di stelle, il cuore disertore che disegna fondi di nudità:

Sul sasso della pazienza / sedesti verso sera, / e il nero della pupilla / svelava il tuo dolore; / e sulle labbra avevi / la linea che trema nuda / quando l’anima si fa arcolaio / e pregano i singhiozzi; / avevi in mente la melodia / che muove alle lacrime / eri un corpo che dall’estremità / ritorna al frutto; / ma lo strazio del tuo cuore / divenne senza un gemito / il senso che dona al mondo / un cielo pieno di stelle (La ragazza triste).

Nella sua profondità si rinviene sempre un lascito di meraviglia ancestrale, qualcosa che non si disfa mentre si cerca di raggiungerla, mentre si ha coscienza di una perdita già insita, una fame satolla e incosciente che è soffio cancellato e diario segreto di un incastrato miraggio.

È un canto stretto, allora, che ritma le nebbie, un affossamento di immagine che tiene l’anima ancora, mentre i ricordi brillano nel loro bruciore ritrovato e nella efferatezza di uno smarrimento scolpito: «Si gonfia lento il mare, le sartie menano vanto e si addolcisce il giorno. / Tre delfini nereggiano luccicanti, la gòrgone sorride, e un marinaio fa cenni, dimentico a cavalcioni sull’albero di gabbia».

L’esperienza singola, che raggruma poi l’esperienza universale stremata, dispone la catabasi disorientata del folto dell’essere e il remoto reperito dal foglio.

Il tempo di Seferis è un sommerso tempo spogliato, laddove l’amore rimane la lama del silenzio e la chimera, il velo piaggiato, la confessione contrapposta  e inconsolabile, come accade in Scolii:

Sulla veranda si era fatta sera / la fretta batteva le ali a noi vicina / e nei due cuori aveva la sua tana / una confessione contrapposta. / Sfiorita la voce infruttuosa / sui labbri sciami di errori a iosa / solo dal fondo del corpo, cielo, / aspettavamo della grazia il velo. / Il buio ronzava nella villa / e dalla luce della stella a oriente / fino al magnete dei tuoi capelli, / ricorda l’angelo trascendente / all’improvviso con rapidi anelli / caduti, due ventagli nel pensiero / che con la stessa implorazione / leggevamo come un evangelo. / Donna estranea al mio cuore, / bella donna adorata, / mi resta il tuo stupore / in questa sera insensata  / dei tuoi occhi gli anelli neri / e l’orrore leggero della sera…/ Chínati, rientra nel tuo fodero / lama del mio silenzio, mia chimera.

L’assolutezza sfrontata è sete e fame di occhi chiusi che cercano la volta del firmamento, «la luce oltremare / sopra le nostre dita», la figura della Gòrgone che appare come un epicedio di sguardo.

Nicola Gardini afferma:

[…] la poesia […] è esclamazione, impeto, che le parole sempre distorcono in qualche misura, producendo nel lettore o nell’ascoltatore la pretesa di un messaggio o di un pur minimo senso. L’ “ah!” Seferis riesce a esprimerlo in modo convincente, fino alla fine, accarezzando il senso, indicandolo, e sempre riuscendo a scansarlo, allontanandolo dopo averlo intuito, alternando la precisione dello stile – vigile e sintetico – con la vaghezza e la suggestione, perfino una qualche dispersività. […] Le poesie di Seferis sembrano nascere da un’occasione, quasi sempre, e l’occasione risulta privata della sua “occasionalità”, ridotta a evento assoluto e, così, alla fine in giudicabile, imprendibile, perfetti e imperfettibile in una volta. I ricordi ci sono, ma non costruiscono una memoria, non in senso autobiografico e nemmeno proustiano; non vogliono, forse non devono, perché il recupero è dato per impossibile, e vince solo la perdita, il tempo distruttore, l’irritrovabile.[4]

In Seferis, avviene sia l’elezione rammagliata del tempo, sia lo svanimento della pronunciazione, che è sì smarrita, senza traccia, inabissata, ma quando si rivela, nella vita che viene meno e negli inferi, celebra lo smottamento di ciò che non finisce, il nero grappolo d’uva sotto il sole a picco, il corpo, il ricco veliero delle cose.

In questo canto, così appartato e vivente, si consuma il dramma dell’esistere («I segreti del mare si scordano sulla riva / la tenebra dell’abisso si scorda nella stiva; / risplendono purpurei i coralli del ricordo…»), la cenere e la vertigine del litorale, il silenzio folto e le parole confuse al sangue come nell’amore.

Mario Vitti sostiene:

Gli aspetti che continuano ad affascinare il lettore di Seferis, a distanza di trent’anni dal Premio, sono rappresentati soprattutto dalla presenza nella sua poesia dell’ambiente insulare greco e dall’uso particolare del mito classico. Si tratta di due aspetti coesistenti e interdipendenti, che stanno a fondamento dell’indole poetica di questo autore. L’esperienza quotidiana del paesaggio greco che si schiude alla sua vista assume in lui un significato esistenziale, non appena questa presenza fisica viene posta a confronto con la memoria di fatti e personaggi appartenenti al passato, in particolare al mondo antico. In un simile coinvolgimento di sensi e della mente sembra naturale che il paesaggio e il mito nato in questo paesaggio si confondano; poiché infatti è quasi normale per un greco sensibile, sul quale pesano la memoria storica e il mito della classicità, avere una visione “greca” del dramma che nasce e finisce con la vita di ciascun uomo, nel modo in cui sa di esserlo Seferis.[5]

Queste ombre di noci in fiore, le lanugini del bacio alle foglie, le letture dimenticate, la lievità di conchiglie e lamenti, fondi di istanti e rapidi sistri di vento, cercano lo specchio di un ricongiungimento di epoche, il viaggio non consunto che ripete uno scenario drammatico e irripetibile che, attraverso «La mediazione del paesaggio fa giungere al poeta voci di altre esistenze, di altre persone più vere, più autentiche di quelle che si trovano intorno a lui e in mezzo alle quali è condannato a vivere[6]»:

Sul sasso della pazienza aspettiamo il prodigio / che ci dischiude i cieli e rende tutto meno grigio / come nel dramma antico il nunzio viene a riferire / nell’ora in cui svaniscono le rose dell’imbrunire… / Rosa scarlatta del vento e del fato, puoi restare / solo nella memoria, come un ritmo profondo, / rosa notturna, passasti come un ondeggiare / purpureo del mare…Così semplice è il mondo.

Ne La cisterna, la fioritura della luce cade nel ritmo disanimato del tramonto e il moto delle cose si spegne in un buiore d’ebano.

Ecco questa caduta è il fiore che forza la bellezza della prospettiva. Prospettiva piegata (e piagata, certo), ma che nella impurità linguistica dispone il tempo sfiorato e concepisce grembi di parole nude e speranze dove «Scorrono le ore, i soli, le lune, / rappresa come uno specchio è l’acqua; / sta con gli occhi sgranati la speranza / quando tutte le vele affondano / all’estremo mare che le nutre».

Se di impurità si tratta, è soprattutto desiderio di amore infinito, non una cesura con l’esistente. Che possa così frangersi sulla riva l’onda che sulla sabbia resta schiuma. L’amore di Seferis per l’esistente è mare («Il mare con cui venisti ti ha portato / lontano, tra i limoneti in fiore, / ora, al risveglio dolce delle Parche, / mille figure con tre semplici rughe / conducono il Sepolcro in processione»), un corpo segreto, un profondo grido, «uscito dalla grotta della morte, / come l’acqua briosa dentro il solco / come l’acqua che splende solitaria / tra l’erba e parla alle radici nere…», poiché «la notte non crede più nell’alba / l’amore vive per tessere la morte / come l’anima libera, così, una costerna che educa il silenzio / nella città avvolta dalle fiamme».

Ecco i rilievi di un’arte disadorna, protesa al primo seme che ricomincia. Le dita avvertono il fresco della pietra nel rischio dell’anima e nel silenzio al colmo. Mani scomparse e mutile, come se nella separazione ci fosse qualcosa che fa cadere i sogni e le membra fiacche:

Tornammo sfiniti alle nostre case / le membra fiacche, la bocca devastata / dal sapore di ruggine e salsedine. / Al risveglio, ci dirigemmo a nord, estranei / immersi nella bruma delle ali immacolate dei cigni che ci ferivano. / Le notti d’inverno, l’impetuoso vento dell’est ci toglieva il senno / d’estate ci perdevamo nell’agonia del giorno che non riusciva ad estinguersi. / Riportammo indietro / questi rilievi di un’arte disadorna.

La poesia si muove, quindi, attraverso il contrasto irrisolto del tempo, laddove la giustizia riceve il taglio irrisolto di una invocazione amorosa, non conclusa. Il viaggio dell’anima, che insegue lo spazio minimo di respiro, è logorato, non solo dalla guerra, dall’esilio e dalla perenne fenditura, ma dall’ininterrotto richiamo con chi ci ha preceduto e fatto vivere.

In Seferis, questa sempiterna feritoia trova il suo acme ne Il re di Asíne, in cui il minuto richiamo omerico si accompagna all’incontro sensoriale e memoriale, e dove rivive la domanda che giace nel fondo, come uno spigolo di sogno:

E il poeta si attarda a guardare le pietre e si domanda / chissà se esistono / in mezzo a queste linee guaste, agli spigoli, alle punte alle curve, alle cavità / chissà se esistono / qui, dove s’incontrano la pioggia, il vento e l’usura / se esistono il moto del viso, la forma dell’affetto / di quanti diminuirono così stranamente nella nostra vita / di quanti rimasero ombre di flutti e pensieri nella sconfinatezza del mare? / O forse no, non resta altro che il peso / la nostalgia del peso di un’esistenza viva […]

È istinto ulissico, quando riporta l’àncora tra gli asfodeli, sembra un angiporto nel paese chiuso di navi spezzate dai viaggi conclusi e corpi che non sanno più amare, quando porta al suo interno i remi rotti nella calma sconfinata delle acque.

Anche il vento rappresenta la decimazione dell’aria nella separazione, nelle ferite delle terre straniere, come una lettera infinita che unisce luce ed oscurità nel piovasco che grava:

Chi ci leverà dal cuore questa pena? / Ieri sera un piovasco e oggi / il cielo coperto grava ancora. I nostri pensieri / come gli aghi di pino del piovasco d’ieri / ammucchiati sulla porta di casa e inutili / vogliono innalzare una torre che crolla. / In questi villaggi decimati / su questo promontorio esposto al vento del sud / con la linea dei monti che ti nasconde, / chi valuterà per noi la decisione dell’oblio? / Chi accetterà la nostra offerta in questa fine d’autunno?

Ciò che trema nel fondo è il senso del tragico, che attraverso la concrezione di immagini frante, depone il depredamento e sprofondamento delle luci. Si pensi anche alla porosità marina di Kichli, dove la calma delle acque naufraghe gli consentiranno un serrato dialogo con il passato, in una sorta di nekyiomanteia.

Non solo, il tono reduce di un relitto che affiora dal mare di Poros «fa scattare nell’anima del poeta un riflesso quasi condizionato. Il poeta, nello scorgere la nave adagiata sul fondale, percepisce delle voci. Il relitto è un mediatore che suscita nella sua memoria persone care del passato, forse dimenticate, forse tradite[7]».

Il taglio raro del silenzio, le statue infrante, lo sconforto che nasce dalla resa delle realtà perdute, il dolore impossibile ed inevitabile («Tutto ciò che amai si è perso con le case / che l’altra estate erano nuove / e son crollate al vento dell’autunno») non riescono ad annullare i mandorli in fiore, i marmi splendenti, il mare che si frange («Chìnati, se puoi, sul mare oscuro dimenticando / il suono di flauto sopra i piedi nudi / che calpestarono il tuo sonno nell’altra vita sommersa. / Scrivi, se puoi, sull’ultimo tuo coccio / il giorno, il nome, il luogo / e gettalo in mare perché affondi»):

Tante e tante cose ci sono passate sotto gli occhi / che gli occhi non hanno visto nulla, ma più oltre / e dietro, la memoria come un telo bianco una notte in un recinto / dove avemmo strane visioni, più strane anche di te, / passare dileguando nell’immoto fogliame di uno schino; / perché abbiamo conosciuto così bene la nostra sorte / vagando tra le pietre rotte, per tremila o seimila anni, / frugando in edifici diroccati che forse erano casa nostra, / tentando di ricordare date e gesta eroiche; / ci riusciremo? / perché siamo stati legati e dispersi / abbiamo lottato con difficoltà – dicevano – inesistenti, / smarriti, ritrovando una strada piena di reggimenti ciechi, / sprofondando in paludi e nel lago di Maratona; / riusciremo a morire normalmente? .

Questa oscurità sommersa e opaca si espone all’abisso, all’estraneità vivente, all’affranta metrica dei sistri del tempo. Ma è origine, genesi, sboccio dell’attimo che cresce come lama sospesa che aduna l’umano, sparpagliato in mille frammenti, come lo stupore puro di una fuga amata:

Non altro che questo era il nostro amore / fuggiva, tornava e ci portava / una palpebra china assai distante / un sorriso pietrificato, perso  / nell’erba mattutina / una conchiglia strana che l’anima / tentava con insistenza di spiegare. / Non altro che questo era il nostro amore / frugava piano tra le cose intorno a noi / per spiegare perché ci rifiutiamo di morire / tanto appassionatamente. / E se ci reggemmo a lombi, se abbracciammo / altre nuche con tutta la nostra forza, / e confondemmo il respiro / al respiro di quella persona / se chiudemmo gli occhi, non era altro / che questo profondo desiderio di sorreggerci / nella fuga.

Il suo diario di bordo solleva la polvere dei gesti, i sussurri violentati e le sete dorate dei ricami d’oro, dove poter emettere l’amore sotto le vene, l’acqua piovana, le lunghe ombre espatriate dei pendii e, infine, la volta dei platani come grazia semplice.

Durante i viaggi a Cipro, Seferis respira l’avvenimento di ciò che c’è, l’affioramento di qualcosa che si credeva irrimediabilmente sommerso, il recupero millenario delle voci aediche, il miracolo cosmico che regola la materia universale:

Il mondo / ritornava com’era, il nostro, / con il tempo e la terra. / Profumi di lentisco / si riversarono sulle pendici antiche della memoria, / grembi tra foglie, umide labbra; / e tutto si seccò d’un tratto nell’estesa piana, / nella disperazione della pietra, nella forza erosa, / nel luogo vuoto con l’erba rada e i rovi / dove strisciava un serpente spensierato, / dove impiegano molto tempo per morire (èngomi).

Nelle confessioni agli scali delle stelle, nelle fughe e nelle sabbie, così come negli autunni piovosi, l’uomo cerca l’erba assetata e la sua insaziabilità si riflette nel dolore, quando l’inseguimento di Dio diviene un lungo viaggio nel fumo azzurro e nell’amore.

Si potesse far riposare le proprie disiecta membra, che ricordano il passato inseguito tra ruderi sfasati e bellezze eterne e sfibrate: «La prima cosa che Dio ha creato è l’amore / poi viene il sangue / e la sete di sangue / pungolata / dallo sperma del corpo come dal sale. / La prima cosa che Dio ha creato è il lungo viaggio; / quella casa aspetta / con un fumo azzurro / con un cane invecchiato / che aspetta il ritorno per morire».

Il suo tremore tattile dispiega, allora, le ciglia sprofondate e sghembe come conchiglie, l’orizzonte coperto e l’assoluta cadenza delle basole:

Apri gli occhi e dispiega / il panno nero e tendilo / apri bene gli occhi, fissali / concèntrati, concèntrati, ora sai / che il panno nero non si dispiega / nel sonno e neppure nell’acqua / né quando le ciglia rugose calano / e sprofondano sghembe come conchiglie, / ora sai che la pelle nera del tamburo / ti copre tutto l’orizzonte / quando apri gli occhi riposato, così. / Tra l’equinozio di primavera e l’equinozio d’autunno / qui c’è l’acqua corrente, qui c’è il giardino / qui ronzano le api in mezzo ai rami / e squillano nelle orecchie di un neonato / ed ecco il sole! e gli uccelli del paradiso / un sole enorme, più grande dalla luce (Mattina)

Il suo pronunciamento diviene aperto, dunque, nei varchi splendenti, in cui egli parla sull’orlo dell’abisso, attraverso una quête di intaglio e memoria, che vuole sfuggire al tempo e dimorarvi, allo stesso tempo, con un tocco, uno sfioramento, un ornamento al di là del vuoto.

Il respiro non rappresenta soltanto la sorgente da cui prendere fiato, è anche lo sperdimento della lingua che nomina, dove tutto è eterno ed effimero, come la Grecia che strazia ovunque:

Perché credo che la poesia sia necessaria a questo mondo moderno in cui siamo affetti da ansia e paura. La poesia ha le sue radici nel respiro umano: e cosa mai saremmo se il nostro respiro dovesse venir meno? La poesia è un atto di fiducia: e chi sa se il nostro disagio non dipenda da una mancanza di fiducia. […] E devo aggiungere che oggi dobbiamo ascoltare quella voce umana che chiamiamo poesia, quella voce che rischia sempre di andare estinta per mancanza di amore, ma che sempre rinasce. Minacciata, ha sempre trovato un rifugio; rifiutata, rimette sempre radice nei luoghi più impensabili. Non fa distinzione tra luoghi grandi o piccoli del mondo; la sua patria è nel cuore degli uomini di tutto l’universo; ha l’istinto di sapersi sottrarre al circolo vizioso dell’abitudine (dal discorso di accettazione del Premio Nobel).

[1] Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

[2] Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

[3] Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

[4] Gardini N., La voce di Seferis, in Seferis G., Le poesie, cit., pp. pp.8-9.

[5] Vitti M., Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

[6] Vitti M., cit.

[7] Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

seferis147337Seferis G., Le poesie, Crocetti, Milano 2017, pp. 288, Euro 15.

 

Seferis G., Le poesie, traduzione di Nicola Crocetti, introduzione di Nicola Gardini, Crocetti, Milano 2017.

Cazzulo M., Giorgio Seferis. La Grecità come simbolo del destino umano, in «Poesia», dicembre 2000.

Galaverni R., Dalla patria e dagli antichi. Il doppio esilio di Seferis, in “Corriere della Sera – La Lettura”, 16 luglio 2017.

Vitti M., Giorgio Seferis. La casa vicino al mare, in «Poesia», gennaio 1990.

  • Ghiorgos Seferis. Una lunga strada di rovine, in «Poesia», novembre 1996.

 

Frontiera di Pagine Volume II di Andrea Galgano e Irene Battaglini

di Diego Baldassarre 23 settembre 2017

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17793423_10212351437891026_650412216_nIl libro Frontiera di pagine II (Aracne editrice-2017) è un contributo critico di due autori e docenti della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm del Polo Psicodinamiche di Prato, Irene Battaglini e Andrea Galgano. Il volume raccoglie gli articoli, le recensioni e i saggi scritti dai due autori tra il 2013 e il 2016.

Una raccolta di saggi critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura che fa seguito al primo volume pubblicato nel 2013.

Il Testo si suddivide in cinque sezioni.

Le prime due sezioni, strettamente collegate all’arte figurativa, sono curate dalla Professoressa Irene Battaglini.

La prima sezione “L’IMMAGINALE” raccoglie tributi critici ai maestri della pittura in un viaggio di colori attentamente analizzati per lo più da Irene Battaglini ( e in minima parte da Andrea Galgano) con la lente dell’analisi psicoanalitica. Si alternano i miti della pittura come Rembrandt, Picasso, Paul Klee, Boldini, Magritte, con saggi strettamente psicoanalitici che offrono uno sguardo non comune a problematiche contemporanee come lo stalking .

La seconda sezione IL NARCISISMO NELL’ARTE CONTEMPORANEA affronta invece il rapporto tra il mito di Narciso e la pittura. Vi troviamo Andy Warhol, Francis Bacon, Lucio Fontana e altri pittori contemporanei.

Come sostiene l’autrice nell’articolo introduttivo “ Il mito di narciso e il conflitto estetico”( Pag. 163)

la psicoanalisi e tutta la psicologia moderna, senza dimenticare il contributo della sociologia e dell’antropologia, mettono a disposizione teorie e opere interamente spese a favore di una indagine il più possibile ampia e accurata del mitologema celebrato da Ovidio nella “Metamorfosi”.

L’approccio scientifico – psicoanalitico diventa quindi fondamentale per approfondire e comprendere meglio autori che hanno profondamente influenzato l’arte pittorica moderna.

Infatti, in un passaggio efficace, Irene Battaglini sostiene che

Narciso possiede l’immagine di sé come unica via della conoscenza. Egli spicca la melagrana infetta di un doloroso desiderio non di amore, ma di una gnosi della morte e della vita: dell’estremo sacrificio di sé. Guardarsi da fuori, come fosse estraneo a se stesso, o vivere nella limitazione dell’amore che è conoscenza dell’altro come condizione di conoscenza di sé attraverso l’altro? Fa ammenda della possibilità di raffigurare con religiosa aderenza al Vero, al Dio, al Mondo e all’Uomo per restare nel gioco di rimandi della rappresentazione illusoria che è, in definitiva, la sua unica “visione”: il suo orizzonte multiplo, che si moltiplica ad ogni gesto, ad ogni battito di ciglia. E il suo dolore sta nel doversi rapportare a questo orizzonte nel tentativo di scalfirlo e guardarvi dentro come uno scenario di forze anatomiche nel tentativo estremo di restituire sulla tela il mistero che sta dentro la realtà (Bacon); placarne la silenziosa inutilità resa dagli oggetti sviliti del quotidiano e celebrati nella loro immortalità (Warhol), ferire il campo proiettivo come una tela tesa e chiusa (Fontana), combattere contro quella figura che è simulacro e immagine di sé agitandone e sfocandone i contorni come un allievo privo di maestro (Twombly), ma non mai sfiorando la veste degli dei e di una qualche verità esperienziale, oltrepassando la logica della percezione e della sensazione, in un gioco di forze che stanca, che invita al “senza titolo”.

Le sezioni successive sono curate dal Professor Andrea Galgano.

La sensazione che si prova nel leggerle è molto simile a quanto riportato dall’autore in un passaggio del libro

D. Thoreau scrisse che Walt Whitman (1819-1892) «con il suo vigore e con il grande respiro dei suoi versi, mi mette in uno stato mentale di libertà, pronto a vedere meraviglie; mi porta, per così dire, in cima a una collina o al centro di una piana; mi scuote e poi mi getta addosso migliaia di mattoni »(pag. 587).

Andrea Galgano oltre ad essere un eccellente critico letterario è anche un poeta (molto apprezzata  la sua silloge Downtown, pubblicata da Aracne editore nel 2015, impreziosita dalle tavole pittoriche di Irene Battaglini). Di conseguenza questo libro è anche una ricerca di se stesso da parte dell’autore, attraverso  punti di riferimento letterari che sicuramente hanno influenzato il suo modo di scrivere e di concepire la letteratura. Non è solo una attenta analisi degli scrittori proposti ma uno slancio pieno di passione. Che colpisce il lettore invitandolo a leggere gli autori meno conosciuti e ad approfondire quelli più noti. Sono mattoni, appunto, lanciati da ogni lato che colpiscono la nostra immaginazione e il nostro intelletto.

Per comprendere quanto sia compartecipata l’analisi critica di Andrea Galgano,  a titolo esemplificativo, si potrebbe leggere il passaggio tratto da “John Keats. L’ultimo canto dell’Usignolo“ ( Pag. 695):

L’assedio delle immagini di Keats compie l’entusiasmo del suo miracolo di incanti verbali, di giochi di fantasia espressiva e di placide invocazioni alle divinità, alle quali porge il suo desiderio e i suoi simboli, e le esperienze diventano intimità fisiche e gesti creati dal tempo sensibile: gli steli affusolati sollevano i diademi delle stelle, tra le ombre inclinate nelle lontananze di cristallo e i sentieri interminabili dei boschi, il «suono senza suono» che scivola tra le foglie, le campanule e le calendule, le rugiade e i ruscelli, la gloria delle fonti e la carne della frescura del destino che enumera ogni infinità cosmica (Ero in piedi, sulla vetta sottile d’un colle)”.

Come si vede il taglio degli articoli, tutt’altro che professorale, è una analisi attenta di ogni autore attraverso la lente dello studioso che non vuole solo spiegare ma anche capire e che guida il lettore in questo percorso di conoscenza.

Le sezioni curate da Galgano partono dalla ”PARTE III, IL FUOCO DELLA CONTEMPORANEITÀ”

E già qui troviamo un mosaico di autori che chiunque ami la poesia non può non conoscere e non amare.

Si inizia con Clemente Rebora e la sua poetica espressionista; si procede con Ausonio, Claudiano, Rutilio Namaziano dell’epoca Latina legata alle corti imperiali del IV secolo; si va avanti con salti temporali (che potrebbero creare sconcerto ma che in realtà fanno sì che il lettore non si annoi come se fosse di fronte ad una antologia scolastica), per approdare a Vittorio Sereni con il suo ermetismo sui generis; poi Giovanni Giudici, Roberto Mussapi, Dario Bellezza, Franco Fortini, Giancarlo Pontiggia, Umberto Piersanti, Giorgio Orelli, Italo Svevo, per concludere con un omaggio a Mango, il cantautore recentemente scomparso.

Il tutto per dimostrare che la letteratura è un flusso continuo che attraversa la poesia, la prosa e la canzone senza spazio temporale o di genere

Ogni autore è attentamente analizzato con rimandi a note esplicative di altri critici letterari, a estratti poetici o letterari degli autori stessi, ai rapporti epistolari , a intuizioni dello stesso autore. Il risultato è un profilo completo di ogni scrittore. E proprio perché tale profilo risulta così ben espresso spinge il lettore alla curiosità di approfondire ulteriormente le opere degli scrittori e dei poeti citati.

La parte IV, “CONTINENTI”, è indubbiamente quella più ponderosa. Uno splendido viaggio tra Europa ( comprendendo in essa anche la Russia), America Latina e , soprattutto, Nord America.

Un viaggio che non è solo culturale, ma che dimostra come la letteratura sia interconnessa pur nelle differenze. Splendido il triangolo che si viene a formare tra  Anne Sexton,  Sylvia Plath e Ted Hughes incrociando i testi di Andrea Galgano relativi ad ogni autore.

Illuminanti le differenze che si colgono tra gli autori Europei strettamente legati alla loro plurimillenaria storia  e quelli Americani votati al futuro. E’ esemplare un verso di  Billy Collins (classe 1941) che sfacciatamente si pone in rottura con la poesia europea : “Qui non ci sono abbazie né affreschi che si sbriciolano o cupole / famose, e non c’è bisogno di mandare a memoria una successione di re”.

Quasi tutti gli autori, forse non è un caso, vivono in periodi storici di confine. A partire da Alexander Blok (1880-1921) che vive sulla  propria pelle il trapasso dal regime zarista a quello della rivoluzione d’Ottobre, o quello di John Steinbeck (1902-1968) e William Faulkner (1897-1962) che subiscono e descrivono la spaventosa crisi del ’29; Miguel Hernández (1910-1942), combattente antifranchista e vittima del regime; o gli autori dell’esilio come il poeta  Hans Sahl (1902-1993) costretto a vagabondare tra Praga, Zurigo, Parigi e New York a causa delle persecuzioni della Germania Nazista; la poetessa Hilde Domin (1909-2006), pseudonimo di Hilde Löwenstein, poetessa ebrea rifugiatasi, sempre durante il periodo nazista, nella repubblica Domenicana ( da qui lo pseudonimo); o i poeti “viaggiatori”, come il premio nobel Octavio Paz.

Come se Andrea Galgano volesse sostenere implicitamente che l’arte, quella che fa la storia, deve nascere dalla rottura, dal tormento non solo interiore ma anche del corso degli eventi. E che la frontiera non ferma la parola, così come non la ferma la repressione.

L’ultima sezione (“PARTE V:SOSTE”) rappresenta un momento di riposo. Dopo il sudore della ricerca, finalmente Andrea Galgano può sedersi in poltrona e rilassarsi. Gli articoli che fanno parte di questa sezione conclusiva sono meno perfusi di rimandi bibliografici. Rinviano ad una lettura di puro piacere.

Così troviamo il poeta e critico letterario Davide Rondoni;  la recensione del romanzo The touch di Randall Wallace (già sceneggiatore di Braveheart (1995) e Pearl Harbor (2001) oltre che regista della La maschera di Ferro con Leonardo Di Caprio e We were Soldiers con Mel Gibson); l’articolo sul libro Poesie 1986-2014 del poeta “metropolitano” Umberto Fiori, edito da Mondadori; una attenta analisi della silloge Il posto (Mondadori 2014) della poetessa e Premio Pulitzer Jorie Graham; l’articolo su Leif Enger ( romanziere del Minesota , classe 1961), all’interno del quale troviamo riportata una splendida intervista rilasciata ad Andrea Monda su “L’Osservatore Romano” che tratta dello “scrivere” e di cui si consiglia caldamente la lettura; la recensione al libro Tersa morte del poeta Mario Benedetti, edita da Mondadori, tutta incentrata sulla memoria; la nota critica alla raccolta  poetica di Valerio Magrelli “Il sangue amaro”, al cui interno troviamo richiami della grande poetessa contemporanea Maria Grazia Calandrone e del giornalista del “sole  24 ore “ Gabriele Pedullà che, assieme al contributo dell’autore, aiutano a comprendere a pieno la silloge.

Pregevolissimo l’omaggio al critico letterario e poeta Giuseppe Panella, peraltro spesso utilizzato da Galgano a supporto di molti suoi scritti critici; e poi gli articoli sui poeti Thomas Merton e Michel Houellebecq che meritano una lettura attenta in quanto “poeti del silenzio”. E cosa si intenda per “poeti del silenzio” trova in questo testo una spiegazione mirabile.

Verso la fine di questo lungo viaggio letterario troviamo un articolo su Francesca Serragnoli e il suo ultimo libro Aprile di là edito da Lietocolle. Questo testo, come si comprende fin dall’inizio,  è una vera e propria dichiarazione di amore letterario:

 La nuova silloge di Francesca Serragnoli (1972), tra le più importanti poetesse italiane, Aprile di là, edita da Lietocolle, nella preziosa collana curata da Gian Mario Villalta  , apre la conoscenza del tempo in una accensione vitale e scoperta. È incontro,tessuto, vita che scorre, dolore che apre le vene, grazia che incombe, terrena partecipazione alla realtà ma anche librata trascendenza di forma.

Il ponderoso lavoro di Andrea Galgano si conclude con l’articolo sul libro di poesie “Sinopie smarrite” di Diego Baldassarre edito da Lietocolle ( pag. 867). Ringrazio infinitamente l’autore di avermi posto come sua ultima sosta. L’attenta analisi del libro è per me motivo di grande orgoglio.

A conclusione di questa breve nota, che mi auguro serva comunque da invito a leggere un così importante lavoro critico, vorrei riportare un passaggio citato nell’articolo relativo a Leif Enger  ( Pag. 805) affinché possa essere di augurio per un nuovo lavoro: «è strano, quando raggiungi la tua meta: pensavi di arrivare lì, fare quello che ti proponevi e andare via soddisfatto. Invece, quando ci sei, ti accorgi che c’è ancora altra strada da fare».