Thomas Merton: il poliedro del silenzio

di Andrea Galgano 25 ottobre 2015

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Thomas Merton: il poliedro del silenzio

La poesia di Thomas Merton (1915-1968) significa sfiorare la parola scritta nella modalità, come scrive Bianca Garavelli, «più naturale per esprimere emozione e pensiero» e la vitalità dei suoi versi

«è commovente: davvero trasmettono un profondo amore per la vita, e una gioia nel descriverla, capaci di suscitare ispirazione. Una sorta di contagio benefico che induce ad aprirsi alla bellezza, anche attraverso le realtà più tristi o cupe. Tutte le immagini del mondo sembrano fondersi come onde di un unico mare, ogni istante assume la consistenza preziosa di una gemma, il respiro della creazione diventa musica. […] si intuisce come la poesia di Merton tenda a una fluida dimensione poematica, infusa dalla tradizione dei Salmi: ogni movimento umano, ogni frutto, ogni oggetto (le tonache dei confratelli, una bufera, una quaglia) diventa la nota di una sinfonia perenne, che confluisce in una grande preghiera corale, di cui la poesia è anticipazione. Nella duttile sintesi dei versi, echeggiano le intuizioni di un’anima che nel silenzio e nella solitudine ritrova la pienezza, si abbandona all’abbraccio di Dio».

Pertanto, la poesia rappresenta il movimento di una trasformazione spirituale e propedeutica alla preghiera e agli interrogativi del vivere, in tutta l’ultimità estrema, e come «accesso a una “visione altra” della realtà, la quale supera il materialismo, ma che a un certo punto l’uomo di fede deve superare abbandonandosi all’azione di Dio in lui. Nell’artista, invece, tende a prevalere un atteggiamento più attivo, tipico dell’esercizio della creatività» (Christian Albini): «Segrete / Parole vegetali, / Acqua non scritta, / Zero quotidiano […] O pace, benedici questo luogo folle: / Silenzio che non tramonta / Ama l’inverno quando la pianta tace».
Recentemente Papa Francesco, nel viaggio apostolico negli Stati Uniti, ha ricordato Thomas Merton, nel celebre discorso al Congresso del 24 settembre, assieme a Lincoln, Martin Luther King e Dorothy Day:

«Egli resta una fonte di ispirazione spirituale e una guida per molte persone. Nella sua autobiografia scrisse: «Sono venuto nel mondo. Libero per natura, immagine di Dio, ero tuttavia prigioniero della mia stessa violenza e del mio egoismo, a immagine del mondo in cui ero nato. Quel mondo era il ritratto dell’Inferno, pieno di uomini come me, che amano Dio, eppure lo odiano; nati per amarlo, ma che vivono nella paura di disperati e contraddittori desideri». Merton era anzitutto uomo di preghiera, un pensatore che ha sfidato le certezze di questo tempo e ha aperto nuovi orizzonti per le anime e per la Chiesa. Egli fu anche uomo di dialogo, un promotore di pace tra popoli e religioni».

La parola che sagoma e ricerca, il tempio dell’anima come passaggio e transito verso un respiro che sia cifra d’Eterno e ressa inquieta, destina la sua profondità a ricercare Dio in tutte le sfumature della realtà. Scrive Marco Roncalli:

«Merton è stato soprattutto un monaco inquieto, ma che ha trasformato l’eremo, con la penna, in un pulpito senza confini, e, con la preghiera, in un tabernacolo dove custodire insieme all’Eucarestia ogni fratello; un trappista difensore della vita monastica eremitica e comunitaria, convinto di «tener viva nel mondo moderno l’esperienza contemplativa e mantenere aperta per l’uomo tecnologico dei nostri giorni la possibilità di recuperare l’integrità della sua interiorità più profonda». Sino a trasformare la sua stessa parabola in un racconto incessante della ricerca di Dio, vivendola tra solitudine e comunione, contemplazione e azione».

La tessitura mistica della sua trama poetica diviene l’esito di una stanza interiore che viene ridestata da una vibrazione e da una scoperta che riconcilia. Nato nel 1915 in Francia da genitori artisti, da madre statunitense e padre neozelandese, si trasferisce a Douglaston, vicino New York nel 1916.
Dopo la perdita della madre, ammalatasi e morta di cancro nel 1921, si trasferisce con il padre (morirà nel 1931 di tumore) alle Bermuda e poi di nuovo in Francia, vive la sua esistenza di tormento e inquietudine, pacificandosi dapprima con la conversione nel 1938 al Cattolicesimo e poi nel 1947 pronunciando i voti solenni nell’abbazia trappista di Nostra Signora di Gethsemani, nel Kentucky: «Incominciai a ridere con la bocca nella polvere: senza sapere come e perché, avevo compiuto davvero la cosa giusta, e anche una cosa magnifica».
Nel 19 marzo del 1958, Merton, all’epoca maestro dei novizi del suo monastero, annota nel suo diario: «Fui d’un tratto preso dall’idea che io amavo tutta quella gente, che mi apparteneva come io appartenevo a loro, che non potevamo essere estraniati gli uni dagli altri anche se di razze diverse».
Commenta Enzo Bianchi:

«È lo stupore di scoprirsi appartenente all’unica umanità, senza esenzioni e privilegi, uno stupore che spazza via l’illusione che emettendo i voti religiosi si diventi una creatura di diversa specie, pseudo-angeli, “uomini spirituali”, uomini di vita interiore. […] Ed è lo stupore […] dell’ateo libertino che resta incantato dagli scritti di Etienne Gilson e Jacques Maritain e, dopo pochi mesi di frequentazione della chiesa del Corpus Christi a New York, viene battezzato. È lo stupore del giovane docente universitario che, solo tre anni dopo il battesimo, scopre un’abbazia trappista nel Kentucky rurale e chiede di esservi ammesso come novizio. Sarà ancora lo stupore del monaco provato che cerca un’impossibile conciliazione tra il voto di obbedienza a una comunità cenobitica e il crescente desiderio di una solitudine eremitica. Ma anche lo stupore di chi scopre che, man mano che si ritira dalla frequentazione degli altri – confratelli, amici, frequentatori del monastero – sente crescere in sé una solidarietà cosmica, un farsi carico delle speranze e delle sofferenze della propria generazione».

Il poeta sente vibrare lo stupore, la riconciliazione che assona, la contemplazione che abbraccia il reale come segno, come crittografia sacra che ricerca, senza risparmio e nello spasmo, il compimento, l’abbraccio, il senso nascosto e vitale e la scena in cui il mondo accade dove la terra raccoglie il cielo: «Vento e una quaglia / E il sole pomeridiano. / Cessando di interrogare il sole / Sono divenuto luce, / Uccello e vento. / Le mie foglie cantano. / Sono terra, terra […] Quando avevo un’anima, / quando ardevo / quando questa valle era / Solo aria fresca / Hai pronunciato il mio nome / Chiamando il Tuo silenzio».
Scrive Christian Albini: «Merton contempla i boschi, gli animali, gli uccelli in volo, la notte, ma anche i grattacieli e la vita sfrenata delle città, le guerre, i disordini razziali e sente vibrare in tutte queste realtà il soffio dello Spirito, come presenza o come appello. Invece che metterlo a tacere, cerca di lasciarlo parlare, prestandogli la propria voce».
E questo sentimento inquieto a lasciare, in tutte le sue dieci raccolte di poesia, lo stampo di una Presenza che pervade mito e sogno, il silenzio (Tutti questi alberi / Così trasformati / Stolti / Si chinano adoranti / Le colline dormono / In trapunte ghiacciate / Mi immergo fino al ginocchio nel silenzio / Dove la bufera solleva nubi e punge), il dolore («Poiché tra le macerie del tuo aprile Cristo giace ammazzato, / E piange tra le rovine della mia primavera: / L’oro delle Sue lacrime cadrà / Nella tua mano debole e abbandonata, / E ti riscatterà a questa terra: / Il silenzio delle Sue lacrime cadrà / Come campane sulla tomba straniera. / Ascoltale e vieni: ti reclamano a casa») e le bufere precoci, l’amore prima dell’alba come nascita e emanazione («E quando le loro voci lucenti, linde come l’estate, / Risuonano, come campane di chiesa sul campo, / Cento Luteri polverosi risorgono dai morti, incuranti, / Scrutano l’orizzonte cercando la smorfia sdentata / delle fabbriche, / E annaspano, nel grano verde, / Verso i richiami sonori del treno merci dell’ovest»), la protesta e l’ironia, il disegno delle linee che chiedono respiro al mondo creato e alle particelle che lo compongono: «Quando nessuno ascolta / Gli alberi quieti / Quando nessuno nota / Il sole nella pozza / Dove nessuno sente / La prima goccia di pioggia / O vede l’ultima stella / O accoglie il primo mattino / Di un mondo smisurato / Dove inizia la pace e termina la rabbia: / Un uccello, immobile, / Guarda l’opera di Dio: / Una foglia che vortica, / Due fiori che cadono, / Dieci cerchi nello stagno. / Una nuvola sulla collina, / due ombre nella valle / E la luce colpisce la casa».
Commenta Christian Albini: «In coerenza con la logica dell’incarnazione, la contemplazione, in quanto consapevolezza della vita autentica, può essere raggiunta solo nell’umanità, non estraniandosi da essa. La poesia, perciò, può consentire di vedere il mondo intero e le vicende della vita come sacramenti, segni di Dio e del suo amore all’opera nella nostra esistenza».
I luoghi, allora, diventano corali dipinti, perforano l’aria del monastero che diventa città di Dio in una minuta di destino e compimento, solleva la panoramica di un’appartenenza alla variegata bellezza che circonda ed entra in comunione, in quanto segno intuito e vissuto della mano di Dio.
Il monaco, come Elia, si mette in cammino e l’io si risveglia in tutte le sue urgenze elementari. È la sua stanza il punto di sguardo. Ma è una stanza che pronuncia la sua appartenenza e la sua dipendenza all’infinita Genesi, a Dio che si incarna e tocca ogni infinitesimo umano, che si introduce in modo non prevedibile e non previsto, facendo luce sulla verità di noi stessi: «Il seme, come ho detto, / Si cela nella zolla ghiacciata. / Modellate dai fiumi, le pietre / Non se ne curano né lo sentiranno mai, / E coprono la terra coltivata. / Il seme, per natura, aspetta di crescere e dare / Frutto. Per questo non è solo / Come le pietre, o le cose inanimate: / Voglio dire, solo per natura, / O solo per sempre».
La vera ascesi non è elevazione sulle dinamiche mondane bensì entra in comunione: con l’umano unico e irripetibile. Ed ecco che la poesia diventa umana questione e preghiera, si fa religiosa, perché la realtà lo, lo annuncia ogni giorno qui e ora silenziosamente: «Io sono l’ora stabilita, / L’«adesso» che taglia / Il tempo come lama. / Sono il lampo inatteso / Oltre il «sì», oltre il «no», / Il presagio della Parola di Dio. / Segui la mia strada, ti porterò / Verso soli dai capelli d’oro, / Logos e musica, gioie senza colpa, / Scevre di domande / E al di là delle risposte: / Poiché io, la Solitudine, sono il tuo sé / Io, il Nulla, sono il tuo Tutto. / Io, il Silenzio, sono il tuo Amen!».
Afferma Albini, «Non perché sia uno scrivere riguardante questioni religiose, ma nel senso di essere una scrittura che è in sé un’attività religiosa, dal momento che produce parole mediante le quali Dio agisce, anche indipendentemente dalla consapevolezza e dall’intenzione del poeta. Sono “parole per Dio” nella misura in cui ci liberano dalle prigioni create dalla nostra mente o dalla società, risvegliandoci alla realtà autentica».
Questa poesia costruita nel silenzio compone le sue fiamme di visione, presentendo e vivendo ciò che accade, prefigurando, profeticamente, ogni crollo e apocalisse, come tensione e vertice di ogni genialità: «Come sono state distrutte, come sono crollate / quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’ acciaio / fuse da quale terrore? / […] Quali fuochi, quali luci hanno smembrato, / nella collera bianca della loro accusa / quelle torri d’argento e d’ acciaio/ colpite da un cielo vendicatore? […] Le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo / velando le tue esequie nella loro bruma; e scrivono il tuo epitaffio di braci: / “Questa fu una città/ che si vestiva di biglietti di banca”».

Scrive, infatti, Luigi Giussani:

«Come mai può accadere quell’avvenimento? Come mai possiamo essere provocati dall’urto di quell’incontro – per cui la vita s’incomincia a illuminare, un baluginare sia pur crepuscolare s’insinua nel nostro orizzonte, e insorge un desiderio di capire di più ciò che ci si è fatto incontro, di esserne più profondamente investiti e di seguirlo? Come mai l’avvenimento accade? Poiché non c’è nessun precedente che lo possa far prevedere; ma accade. Se accade, ha una causa. Essa non si lascia tuttavia includere nell’elenco che nostre analisi di accadimenti antecedenti possono formulare: è qualcosa d’altro. Qual è dunque la causa dell’avvenimento, la causa per cui quell’avvenimento diventa un incontro con una presenza eccezionale, che poi riconosceremo coscientemente divina, cui poi diremo: «Tu, Cristo» – poi, non allora? Nel momento dell’incontro essa è infatti una realtà che semplicemente ci colpisce e ci muove per la sua diversità, perché chi da quell’avvenimento è già stato colpito, e partecipa dunque della sua comunicazione nel mondo, ha una faccia con degli aspetti diversi: ha criteri diversi, una emotività e una affettività diversa, un impeto di gratuità ignoto, una capacità di impegno strana («Chi te lo fa fare?» gli si direbbe guardandolo). La causa di quell’avvenimento, di quell’incontro, e del movimento che suscita in noi, si chiama, nel linguaggio cristiano, Spirito Santo. Si dice Spirito l’energia con cui il mistero di Dio opera nel mondo che ha creato, lo plasma e lo piega, come un grande fiume, verso la sua foce – che è il mistero stesso di Dio. Questa energia viene nel mondo e lo penetra infinitamente di più da quando quell’Uomo cui lo Spirito stesso ha dato vita («… concepì per opera dello Spirito Santo») è morto ed è risorto».

E l’avvenimento allora provoca, insorge, destina il sangue a una domanda di eternità non preclusa, e siamo chiamati a sperimentare questa resurrezione discreta, come crepa di dimore intime e cenno pregato, ultimo indizio di una gioia cara che rende puro i cieli come sorgente.

merton
THOMAS MERTON, Che la mia sete diventi sorgente, Àncora, Milano 2015, pp.96, Euro 12,00.

MERTON T., Che la mia sete diventi sorgente, a cura di Christian Albini, traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Àncora, Milano 2015.
AA.VV., The Literary Essays of Thomas Merton, a cura di Patrick Hart, New Directions, New York 1985.
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I collegamenti tra Erich Fromm e Alice Miller

di Marco Bacciagaluppi 18 ottobre 2015

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Questa è la traduzione italiana, fatta dall’autore, di un articolo pubblicato in inglese su Fromm Forum. La pubblicazione della traduzione italiana avviene col permesso del Direttore di Fromm Forum, Rainer Funk. Il copyright della traduzione è dell’autore.

ImmagineAlice Miller era una psicoterapeuta svizzera. Quando morì, il 12 aprile 2010, scrissi una commemorazione in inglese che venne pubblicata su Academy Forum (Bacciagaluppi, 2010). Ora vorrei indicare dei collegamenti tra lei ed Erich Fromm. Entrambi erano autori molto vitali e creativi; entrambi avevano una formazione nelle scienze umane (Fromm in sociologia, la Miller in filosofia); entrambi passarono dalla psicoanalisi freudiana ad una sua contestazione; infine, entrambi si sono occupati di Hitler ed altri capi nazisti. Il primo libro della Miller, Il dramma del bambino dotato, venne pubblicato nel 1979, prima della morte di Fromm nel 1980. Tutti gli altri suoi libri vennero pubblicato successivamente, quindi Fromm non conosceva la sua opera. La Miller, invece, fa riferimento al libro di Fromm del 1973, Anatomia della distruttività umana, nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, dove, nel capitolo su Hitler, cita la definizione che Fromm dà di Hitler come di “una bestia necrofila”. Già all’inizio del capitolo aveva citato Fromm, quando dice che l’essere umano e la bestia non si escludono. Da allora la Miller non ha più citato Fromm. In ciò che segue farò notare altri collegamenti impliciti tra di loro. Questo articolo è un omaggio a due autori che mi sono cari. Nella bibliografia sono elencate tutte le opere della Miller in ordine cronologico. Cito la data dell’edizione originale tedesca, seguita dal titolo e dalla data della traduzione italiana.

La Miller, di professione psicoanalista, si mise ad esprimere la sua creatività nel 1973 con la pittura. Nei suoi dipinti mostrava la verità e la sofferenza della sua infanzia. Un saggio di questa sua attività artistica, con la riproduzione di 66 acquerelli, venne pubblicato nel 1985 col titolo Bilder einer Kindheit (Quadri di un’infanzia). Cinque anni dopo l’inizio della pittura cominciò a scrivere i suoi libri. Nel quarto capitolo del suo terzo libro, Il bambino inascoltato, affermò che le esperienze traumatiche della prima infanzia trovano spesso espressione nelle opere creative di pittori e di scrittori, che poi esaminò in molti altri suoi libri.

Per quanto riguarda il suo allontanamento dalla psicoanalisi freudiana, esso risulta molto evidente dal confronto tra le due edizioni del Dramma. Nella prima edizione, nel titolo del primo saggio parla del disturbo narcisistico dello psicoanalista. Nella seconda edizione, apparsa in Germania nel 1997, parla invece di come si diventa psicoterapeuti. Nella prima edizione dice che i suoi assunti di base sono vicini al lavoro di D.W. Winnicott, di Margaret Mahler e di Heinz Kohut. Nella seconda edizione questi nomi scompaiono. La Miller nomina Winnicott una sola volta, benché rimanga un riferimento implicito a lui nel “vero sé” del titolo inglese del libro. Nella prefazione di La persecuzione del bambino parla della sua seconda analista, Gertrude Boller-Schwing, poi non la nomina più.

Dopo i suoi primi due libri la Miller smise di vedere pazienti e si dedicò a scrivere. Dopo il suo terzo libro, nel 1983 fece una terapia con Konrad Stettbacher, uno psicoterapeuta svizzero, al quale poi rimase sempre grata. Nella sua premessa al libro di Stettbacher, Wenn Leiden einen Sinn haben soll (Se il dolore deve avere un significato), rende omaggio al suo metodo graduale di “un passo alla volta”.

Nel 1988 la Miller si dimise dall’IPA e non volle più essere chiamata psicoanalista. Di conseguenza, gli ortodossi reagirono costruendo attorno a lei il muro del silenzio (che compare nel titolo tedesco del suo settimo libro, tradotto in italiano come La fiducia tradita), così come avevano fatto con altri eretici come Ferenczi e Fromm.

Il suo interesse costante fu rivolto ai traumi infantili, dovuti sia all’incuria che agli abusi. Specialmente in La rivolta del corpo, la Miller fece notare che il corpo manifesta sintomi se il trauma viene esaminato a livello soltanto intellettuale e non anche a quello emotivo.

Un’altra conseguenza della negazione del trauma è la distruttività, trattata da Fromm in Anatomia della distruttività umana, dove in particolare esamina Hitler. La Miller descrive questa situazione ripetutamente nel caso di Hitler, trattato in cinque dei suoi libri (La persecuzione del bambino, Il bambino inascoltato, La chiave accantonata, L’infanzia rimossa, e nel suo ultimo libro, Riprendersi la vita), ma nominato anche in tutti gli altri. Nell’ultimo libro afferma che i seguaci di Hitler erano vittime della loro educazione, ossia che condividevano la medesima struttura caratteriale. Questo è il concetto di Fromm del carattere sociale (Fromm, 1941), secondo il quale la società, attraverso la famiglia, crea nei bambini la struttura di carattere adatta al perpetuarsi della società stessa. In La persecuzione del bambino, la Miller esamina anche altri capi nazisti: Eichmann, Goering, Hess, Himmler e Höss. Fa notare che per tutta la vita essi eseguirono gli ordini senza mai metterne in discussione il contenuto.

Vi sono altri punti di convergenza con Fromm. Fromm tratta di questi argomenti in varie parti della sua opera, e li ricapitola quasi tutti in Anatomia della distruttività umana. Nel Dramma la Miller critica “l’adorazione della normalità”. Nel suo secondo libro, La persecuzione del bambino, nella prefazione all’edizione britannica essa condivide con Fromm la preoccupazione per la guerra atomica, e più avanti critica l’obbedienza come “principio supremo”, così come Fromm nel suo libro postumo su questo argomento (Fromm, 1981). In questo libro essa contesta la pedagogia, non soltanto quella apertamente traumatica del padre di Schreber, vissuta da Schreber in maniera delirante, ma l’idea stessa di pedagogia. Essa sostiene che la pedagogia va incontro ai bisogni dei genitori, non a quelli dei bambini. Tra i bisogni dei genitori essa elenca la “paura della libertà”, che è il titolo dell’edizione britannica del primo libro di Fromm, Fuga dalla libertà (Fromm, 1941). La critica della pedagogia, da parte della Miller, vista come il tentativo degli adulti di estirpare il “male” dai bambini, ricorda la critica da parte di Fromm, in Il linguaggio dimenticato (Fromm, 1951), della visione “agostiniana” di Freud del bambino come piccolo peccatore, spinto da impulsi sessuali ed aggressivi. In La persecuzione del bambino la Miller parla dell’unità narcisistica e simbiotica tra il Führer ed il popolo. Qui, di nuovo, adopera termini spesso usati da Fromm. In Il bambino inascoltato, e in molti altri passi, la Miller parla del potere degli adulti sui bambini, così come Fromm distingue tra “potere su” e “potere di”. Infine, sia Fromm che la Miller si sono occupati delle fiabe, dei sogni e dei miti, ed in particolare di quello di Edipo, Fromm in Il linguaggio dimenticato, e la Miller in Il bambino inascoltato.

Per quanto riguarda i sintomi somatici, in L’infanzia rimossa la Miller esamina due casi estremi: Galileo, che divenne cieco dopo che la Chiesa lo obbligò a rinnegare la verità, e Freud, che manifestò un cancro alla mascella dopo avere rinnegato la teoria della seduzione nel 1897. Bowlby definì questo cambiamento di opinione un “voltafaccia disastroso, in “La violenza nella famiglia”, un articolo del 1983, poi ristampato in Una base sicura, in cui si occupò degli abusi fisici, piuttosto che di quelli sessuali, dopo avere ammesso di avere in precedenza trascurato questo argomento. L’abbandono della teoria della seduzione è anche l’argomento del libro di Masson del 1984, Assalto alla verità. Questa mossa di Freud, da lui annunciata a Fliess nella lettera del 21 settembre 1897, era stata preceduta da due avvenimenti: nel 1896 era morto suo padre, ed in una lettera precedente a Fliess, dell’8 febbraio 1897, Freud aveva parlato della “perversione” di suo padre manifestata nell’abuso sessuale dei suoi figli. Quindi, Freud negò i traumi nelle sue pazienti e li sostituì con le loro fantasie, allo scopo di negare i propri traumi e di proteggere la buona fama del padre. Egli poi impose questa visione a molte generazioni di psicoanalisti. La corrispondenza tra Freud e Fliess era già stata pubblicata nel 1985 quando la Miller scrisse il suo libro nel 1988. Probabilmente non ne era a conoscenza, altrimenti l’avrebbe certamente citata. Essa aveva già trattato più brevemente dell’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud in La persecuzione del bambino.

La manifestazione di gravi sintomi somatici è un concetto della Miller che può essere molto pertinente a Fromm. Nell’introduzione al loro recente libro su Fromm, Funk e McLaughlin (2015) parlano di certi “limiti” di Fromm. Nella sua biografia di Fromm del 1983, Funk riferisce che, quando Fromm ebbe due episodi di tubercolosi negli anni Trenta, Groddeck, il fondatore della medicina psicosomatica, affermò molto decisamente che ciò era dovuto alla difficoltà che Fromm aveva a separarsi da Frieda Reichmann. Questo è molto plausibile, ma solleva il problema del perché Fromm abbia dovuto esprimere questa difficoltà in termini somatici. Qui la Miller è molto pertinente, quando dice che è essenziale raggiungere le emozioni del bambino nell’adulto. Ad un livello intellettuale adulto, Fromm era ben consapevole del fatto che aveva avuto una madre fortemente depressa (Funk, 1983, p. 21) ed un padre ansioso, e che entrambi avevano cercato di tenerlo legato a loro. A livello adulto, e con l’aiuto di modelli alternativi, Fromm si liberò. Tuttavia, se manifestò dei sintomi somatici, ciò significa che non era in contatto con le emozioni del bambino dentro di sé. Frieda Reichmann aveva 10 anni più di lui e, prima di diventare la sua prima moglie, era stata la sua prima analista. Essa era ovviamente una figura materna per lui. La separazione reale da Frieda Reichmann riattivava in Fromm la separazione emotiva dalla madre depressa. La separazione prolungata, come dimostra Bowlby (1973), porta alla rabbia della disperazione. Le emozioni di Fromm da bambino devono essere state, dapprima la rabbia verso la madre depressa, e poi la rabbia verso entrambi i genitori per ciò che Bowlby (1973) chiama l’inversione del rapporto genitore-bambino, che porta ad una duplice frustrazione dei bisogni di base: dapprima il bisogno di un attaccamento sicuro, e poi il bisogno dell’autonomia. Tale rabbia, ritorta su di sé, ha dato origine in Fromm ai sintomi somatici. Beninteso, la tubercolosi comporta la presenza del bacillo di Koch. La componente psicologica consiste nell’indebolimento del sistema immunitario. Fromm stesso, quindi, può essere stato vittima di ciò che egli chiamava “cerebralizzazione”. Come giustamente dice il titolo della traduzione inglese di La rivolta del corpo, The Body Never Lies (il corpo non mente mai). A questo proposito, è pertinente ciò che la Miller dice in Il bambino inascoltato della tubercolosi di Kafka.

Ferenczi, il quale, dopo avere riscoperto il trauma, venne scomunicato dagli ortodossi, e morì a 59 anni di anemia perniciosa, è un altro esempio, più estremo. Non a caso, in La persecuzione del bambino, e da altre parti, la Miller usa l’espressione “identificazione con l’aggressore”, dapprima usata da Ferenczi. Essa mostra la sua affinità con Ferenczi anche nel rivolgersi costantemente al bambino nell’adulto. Eppure, lo nomina brevemente soltanto in L’infanzia rimossa, mentre Fromm lo difese strenuamente a due riprese, sia prima che dopo la guerra.

Un’altra cosa che manca alla Miller, in confronto a Fromm, è la dimensione temporale della preistoria, con la sua dialettica tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Essa attribuisce le esperienze traumatiche dell’infanzia all’osservanza del Quarto (che per molti è il Quinto) Comandamento di onorare i genitori. Ciò può essere vero, ma risale soltanto alla cultura patriarcale dell’Antico Testamento. La Miller non contrappone questa cultura a quella matriarcale, precedente, e ben più antica, come fece invece Fromm, quando nel 1934, in un saggio ristampato nel 1970, trattò di Bachofen, che per primo, nel 1861, descrisse la cultura matriarcale. Eppure la Miller stessa, come Ferenczi, Fromm e Bowlby, appartiene alla cultura matriarcale innata. La cultura patriarcale è troppo recente per essere entrata nel nostro genoma, è soltanto un’espressione dell’evoluzione culturale, e ad ogni generazione si deve imporre con la socializzazione violenta e traumatica dei bambini. Con i suoi riferimenti a Marx e Bachofen, Fromm rivela le radici storiche e preistoriche della nostra società alienata, e verso la fine della sua vita, in Anatomia della distruttività umana, si è impadronito dell’etologia e dell’evoluzionismo, così come ha fatto Bowlby per costruire la teoria dell’attaccamento.

In conclusione, si possono vedere Erich Fromm e Alice Miller come complementari. Il contributo principale della Miller consiste nel rilievo dato alle esperienze traumatiche dell’infanzia, mentre Fromm fornisce il contesto più ampio, preistorico ed evoluzionistico, nel quale porre queste osservazioni.

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Miller, A. (1998). Le vie della vita. Milano: Garzanti, 1998.
Miller, A. (2001). Il risveglio di Eva. Milano: Cortina, 2005.
Miller, A. (2004). La rivolta del corpo. Milano: Cortina: 2005.
Miller, A. (2007). Riprendersi la vita. Torino: Bollati-Boringhieri, 2009.
Miller, A. (2009). From Rage to Courage. Answers to Readers’ Letters. New York: Norton.
Stettbacher, J.K. (1990). Wenn Leiden einen Sinn haben soll. Die heilende Begegnung mit der eigenen Geschichte. Hamburg: Hoffmann und Campe.

Open Day 23 settembre 2015, Perchè diventare psicoanalisti oggi?

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Perché diventare psicoanalisti? Una intervista agli Allievi della Scuola di Specializzazione Erich Fromm lo spiega con un invito all’Open Day
di Sara Ginanneschi

Durante le giornate Open la SPEF, apre le porte ai professionisti per presentare il modello teorico, le tecniche utilizzate, le modalità con cui la psicoanalisi di Erich Fromm trova attuazione ai giorni d’oggi.
Le parole” Psicoanalisi” e “Pratica”, “Tecnica”, o tantomeno “Scienza” non si trovano spesso nella stessa frase! Perché la Scuola di Specializzazione Erich Fromm sarebbe diversa?
Gli incontri di Settembre ed Ottobre, si sono focalizzati sull’illustrazione della triade dei gruppi sul quale l’identità della SPEF si fonda e si sostanzia: i gruppi psicodinamici, lo Psicodramma e i gruppi alla Balint.
Oltre alle lezioni teoriche frontali, fondamentali per acquisire un metodo clinico e scientifico, “gli studenti avvertono sempre più il desiderio di un apprendimento dove sia possibile sporcarsi le mani per imparare l’arte del mestiere” suggerisce Laura, al termine del primo anno di studi ed è andando incontro a questa esigenza che la SPEF offre tre tipi di esperienze gruppali: Gruppi di Psicodramma, Gruppi alla Balint e Gruppi Psicodinamici.
Con lo Psicodramma si acquisisce una vera e propria tecnica di intervento che, vissuta prima “sulla propria pelle” diventerà poi fondamentale strumento terapeutico, unico nel suo genere; gli allievi, alternandosi nei ruoli di paziente e di psicoterapeuta, si calano di volta in volta nei panni dell’altro, imparando ad sviluppare e controllare, l’empatia e la risonanza emotiva, fondamentale per il ruolo di psicoterapeuta che andranno a rivestire.
I gruppi alla Balint si configurano invece come momenti di supervisione e confronto alla pari con i colleghi e permettono agli psicoterapeuti in formazione di migliorare la propria professionalità con il confronto diretto con le esperienze degli altri, andando quindi ad arricchire il bagaglio individuale, con quello portato da tutto il gruppo.
I gruppi psicodinamici sono dei gruppi dove gli studenti “mettono a tema il proprio percorso e vissuto personale per guardarsi con gli occhi dell’altro e capire il proprio percorso”. Racconta Giulia al quarto anno di studi. “La scuola è un luogo dove nascono relazioni che vengono analizzate in senso psicodinamico quindi, oltre che vivere l’esperienza dall’interno si sfrutta la possibilità di analizzare la dinamica di una situazione di gruppo reale.”
Le attività di tirocinio sono strettamente supervisionate e come più volte è stato affermato dai colleghi già iscritti, questa condizione è fondamentale per porre le basi di una più completa professionalità direttamente sul campo; con la sicurezza di non essere abbandonati a se stessi e la fiducia crescente nelle proprie capacità di problem solving.
La scelta di diventare psicoanalista o psicoterapeuta deve assolutamente rispecchiare l’idea di ognuno di noi nel futuro e basarsi su una teoria che rispetti il più possibile la forma mentis originaria della persona pur restando sempre aperta a nuove integrazioni.
La SPEF ed il Polo Psicodinamiche hanno inoltre una Rivista on Line, iscritta al Tribunale di Firenze, che, oltre a offrire materiali di approfondimento scientifico è anche strumento per possibili pubblicazioni.
Abbiamo parlato di modello teorico che di Erich Fromm e dei neo-positivisti, che non va a disconoscere il Positivismo Freudiano e l’impostazione relativa alle pulsioni, ma ne rivaluta e integra il nucleo dell’individuo, non più soggetto a impulsi soltanto interni, ma anche esterni, teoria che, con nomi diversi vediamo sposare dalla maggior parte degli orientamenti psicoterapeutici attuali.
È alla luce di questa similitudine che si può affermare che anche la SPEF offre tecniche psicoanalitiche più chiaramente inquadrabili in un piano didattico; lo stesso Erich Fromm parla di regole nella terapia ed anzi, sostiene che queste andrebbero condivise anche col paziente: “con le sole parole non è mai guarito nessuno” e non è pensabile che il paziente resti passivo nella relazione. L’approccio Center to Center risponde poi al quesito circa che tipo di rapporto interpersonale si vada a creare con il paziente: centro con il centro, non Super Io del terapeuta con Io del paziente!
Perché diventare psicoanalisti dunque? Perché è un modello che gode di un’esperienza storica pur restando attuale e moderno, è supportato da studi di efficacia neurobiologici che ne attestano i risultati terapeutici e trova la sua maggiore forza nella relazione interpersonale; È fondamentale il ruolo svolto dal terapeuta nella stessa relazione: non più in una posizione oggettivistica di fronte al transfert, ma alla sua azione all’interno di un modello interpersonale.