Lo psicodramma psicodinamico: il volto emotivo della formazione

Baldassare PERUZZI, “Apollon et les Muses”, (1514-23), Galleria Palatina (Palazzo Pitti), Firenze

Intervista di Sara Ginanneschi, Ufficio Stampa Polo Psicodinamiche
Ai Docenti e agli Allievi della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm
Open Day – Prato, Mercoledì 24 Giugno 2015

leggi l’intervista in pdf PSICODRAMMA OPENDAY 24.6.2015

Durante la presentazione della Scuola, Ezio Benelli, Direttore e docente e Giuseppe Rombolà Corsini, Vice-Direttore e docente, hanno presentato l’offerta formativa attraverso un excursus professionale e personale, farcito di aneddoti personali non necessariamente autocelebrativi, piuttosto sottolineando lo sforzo e la dedizione di creare un Centro di Psicoterapia che destinasse una proposta formativa all’avanguardia, pur rispettando i principi della Psicoanalisi di Erich Fromm.

Il valore aggiunto della presentazione è certamente dato dal vissuto diretto degli studenti in corso i quali hanno saputo ampiamente argomentare il loro percorso verso la psicoterapia, dove l’individuazione e l’emancipazione dal docente vengono vissute con una doppia gradualità: quella che deriva dall’apprendimento teorico e quella che si matura con un percorso emotivo personale.

Non si è mai soli; terapia personale, supervisione, gruppi…c’è sempre la possibilità di avere uno scambio; sei da solo, ma insieme al gruppo” dice il Dr. Lino Arnone, medico e specializzando presso la SPEF.
La Dr.ssa Giuditta Perri invece, riporta delle proprie esperienze durante il tirocinio e sottolinea l’importanza di aver imparato a gestire le proprie emozioni, contemporaneamente alle tecniche terapeutiche del paziente: “una formazione di questo tipo, permette che non prevalga la paura del terapeuta nel momento in cui deve essere più presente al proprio paziente”.
Poiché è da Fromm che si parte, nel documentario-intervista mostrato in sala, vediamo che l’approccio center-to-center, da uomo a uomo, è uno dei presupposti fondamentali della SPEF; il terapeuta non è il Super Io del paziente, come Rombolà Corsini sottolinea, abbiamo già avuto un padre che ci ha detto cosa fare, non abbiamo bisogno di un terapeuta che faccia lo stesso; il terapeuta è una persona che ha fatto il proprio cammino ed in quanto tale, conosce quello che il paziente sta provando e con la dovuta preparazione tecnica, lo sostiene nel suo percorso terapeutico.
Lo stesso Erich Fromm si definisce un nevrotico, cresciuto in una famiglia nevrotica con padre ossessivo e madre ambivalente: se si comportava correttamente era un Krause [nome da nubile della madre], se invece avesse avuto una condotta non consona ai precetti materni era un Fromm.
È grazie a questa esperienza “universale” di essere uomo che viene inquadrato il futuro terapeuta.

L’Open Day della SPEF ha poi esplorato brevemente i temi principali della teoria di base: l’amore, come forza che unisce tutto; la fuga dalla libertà; il tema dell’autorità.

L’esperienza formativa è esperienza in senso stretto, con attività non soltanto didattiche frontali, ma simulate di casi, role playing, tirocini, esperienze di gruppi dinamici dove, Benelli dice: “si elaborano e si esprimono i propri vissuti fino a sviluppare la capacità di cogliere i segni che l’inconscio dei futuri terapeuti manda loro durante il lavoro sul campo.” La SPEF offre Gruppi di Supervisione alla Balint, Gruppi Psicodinamici e Gruppi di Psicodramma; di quest’ultimo dopo lapresentazione della Scuola, Corsini Rombolà, con l’aiuto degli studenti al terzo e quarto anno ha “messo in scena” lo psicodramma, facendo vivere un’esperienza intensa, seppur solo come rappresentazione e non momento di terapia.
Sullo Psicodramma, la Dr.ssa Linda Gargelli, una delle persone che ha partecipato attivamente alla dimostrazione pratica dice: “Lo psicodramma psicodinamico è un processo naturale, tutti hanno in testa un dramma che necessita di diventare storia. I conflitti intrapsichici, che vengono verbalizzati nelle sedute con il proprio terapeuta, possono nella scena psicodrammatica prendere forma e sostanza. Accade così che le persone del gruppo, tramiti meccanismi proiettivi (ma non solo), possono diventare i personaggi della propria storia interiore, una madre o un padre simbolici ai quale si può dire finalmente tutto. Lo psicodramma che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso formativo, grazie ai miei maestri, il Dott. Giuseppe Rombolà Corsini e il Dott. Ezio Benelli, è un metodo per entrare in contatto con i propri nuclei emotivi in un contesto protetto e altamente contenitivo“.
Chiediamo a Irene Battaglini, CEO di Polo Psicodinamiche, qual era la sua idea formativa e come è riuscita a svilupparla:
Il mio compito è coagulare ogni giorno le energie del team di didatti, docenti e allievi affinché si raggiungano gli obiettivi formativi a breve e medio periodo. Le strategie devono contemplare traiettorie molto più estese: l’orizzonte di ciascun professionista non si esaurisce in quattro anni, e la scuola rappresenta un investimento che darà frutti lungo tutto l’arco della vita, con ricadute a cascata nella vita dei pazienti e delle loro famiglie. Dunque è una grossa responsabilità. Se gli obiettivi sono suggeriti dall’analisi della domanda, la strategia di approccio alla psicoterapia – parafrasando Nietzsche nella Gaia scienza – deve tenere accesa una fiaccola, come nel passaggio della torcia olimpica, traendo il fuoco da un incendio che fu acceso da Freud, Jung, Adler, Fromm, Ferenczi, e molti altri grandi psicoanalisti, ormai più di un secolo fa, i quali lo hanno tratto a propria volta dalla psicologia, dalla medicina, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’arte e dalle scienze naturali. Questo non è un compito, bensì una chiamata: il mio ruolo è promuovere una strategia che contribuisca a tenere viva questa energia“.
Conclude così Irene Battaglini: “La sfida, oggi, è mantenere credibile la luce di questa storia bellissima, che molti di noi hanno dimenticato precipitando in una diatriba tra metafisica e neopositivismo. Noi abbiamo una storia vera da raccontare, ma anche da vivere e trasmettere alle successive generazioni: questo è necessario trasmettere agli allievi e ai docenti, questa forma di amore“.
Relativamente ai Gruppi di Supervisione alla Balint, la Scuola offre un altro Open Day gratuito Mercoledì 1 Luglio 2015
L’Open Day alla SPEF è stato Open in tutti i sensi, mostrando i locali, l’offerta formativa, i metodi, i docenti ed i colleghi specializzandi per quello che sono nella realtà dei fatti.
Quello che certamente si respira entrando alla SPEF è un clima di reciprocità e rispetto, ma ancor prima di quello dovuto come colleghi, indipendentemente dal ruolo o dal grado di preparazione che ognuno riveste, si coglie la sincera attenzione verso la persona, ciascuna con la propria storia di vita.

Sara Ginanneschi

I sentieri remoti di Umberto Piersanti

di Andrea Galgano 9 giugno 2015

leggi in pdf I sentieri remoti di Umberto Piersanti

l’articolo sul sito di Marcos y Marcos editore

umbertopiersantiLa nuova raccolta poetica di Umberto Piersanti (1941), Nel folto dei sentieri, edita da Marcos y Marcos, conferma la sua mitografica percezione immaginativa che cadenza radici e sconfina in una panoramica visionaria intensa e suggestiva. È la tela memoriale che cede al sogno, imporpora i luoghi e lo spazio, nomina la realtà con visione e antichità solenne quasi cadenzata e protetta.
La dimensione temporale acquista, pertanto, un fondo e un folto, come in questo caso, in cui l’incanto, la scoscesa e terribile sua permanenza non si appropria di una remota e perduta affiliazione, ma diventa memoria incandescente in cui, come scrive Alessandro Moscè «[….] le Cesane, gli altipiani a sud di Urbino, le mura cittadine rinascimentali della città ducale del Montefeltro, i fossi, le erbe e il grano scheggiato dai colori dorati, confluiscono nella poetica di Piersanti, che include sempre un tempo remoto che domina la sua valle. Il mondo è animato da storie in cui non si distingue più, volontariamente, la realtà dal sogno, la dimensione per lo più domestica dalla memoria fenomenologica».
Accostandosi e decentrandosi rispetto alla rigogliosa ferialità di Bertolucci, come dice giustamente Moscè, la poesia di Piersanti concentra la rammemorazione labirintica, da un lato, nelle asperità e nel ricolmo dei paesaggi, dall’altro si avvicina a una dimensione di aperta sospensione e mistero aurorale: «e quella forma immensa / di bruno metallo o altro, / materia che trapassa le nubi / e cielo, verso il quadrante / scuro dove s’arresta l’aria / ed ogni luce ha fine, / come sospesi gli alberi / fermi nel lungo volo, / ma sono vere l’erbe / dentro perfette aiuole / che il compasso disegna / senza terra e radici, / senza linfa e sangue».
La poesia conosce la maturazione del tempo in tutte le sue forme, l’eco flebile e tenace di luoghi «che nel tempo assumono un rilievo antropomorfico nelle scene descritte, spesso notturne. Il microcosmo struggente non è mai appesantito da una pena, da una sopportazione. Se la vicina, “odiosamata” Recanati si muove intorno a soggetti e oggetti avviluppanti, Piersanti ama la memoria inviolata e ritrovata come spazio e risonanza. Opera su di sé un’aspra immedesimazione che brulica intorno, non solo raffigurata nella vegetazione, ma vagante nella nebbia di un alterno destino. Questa poetica si dipana dunque da una civiltà e dalla sua conservazione» (Alessandro Moscè).
Questa memoria inviolata diventa il poemetto che matura le pagine, raccoglie l’epica della folgorazione come novità di diario di bordo, dove la genga (l’argilla) racchiude la radura delle colline intorno a Urbino, e la viola d’inverno sgomenta «in questo stesso greppo / stento e scorticato, / un cespo di ciclamini, / il più tenace, riluceva nel gelo / fino a dicembre» e «il dono della nascita permane», scheggiando il non-tempo.
Esiste una invincibilità sotterranea dell’essere in questi panorami di visione assisi e trasognati, laddove l’esattezza luminosa è uno dei mezzi con cui toccare i lembi della realtà e delle stagioni, come improvvisa e felice intrusione: «lì, nella piana immensa / l’acqua affiora ovunque / tra le canne e l’erba, / nel mais fitto / e uguale passi lento, / nessuno nel cammino, / nemmeno un’ombra, / ma il canto delle rane / invade il cielo / e alla terra lo serra / e lo confonde, / di rado, molto di rado, / la voce dei non umani / è la più forte».
Ma ecco che la vita che si richiama e si riaffaccia in tutta la sua lucente povertà splendida: «la vita si riaffaccia, / quella umana, / passa una nave lunga, / con le luci, / e suoni e canti / e voci, tante voci, / ma tu non scorgi i volti / e le vicende, / nascoste le loro vite / osservi, anche tu nascosto / e riparato / già dorme al tuo ritorno / nel castello quella tenera / coppia che t’accolto, / lente le ore / passano precise, / dopo la marmellata con il burro / al grande parco scendi / sopra i muri, / tra i meli e le rose / passi e respiri».
L’impronta colma e irremissibile che tocca le sue vertigini ha cadenze epiche e magia rivelata. Osservazione che partecipa, sfiora la nascosta bellezza del mondo e la sua forza riparata e silente che chiama l’io a comporsi, a destarsi e a dirsi, come scrive Davide Rondoni: «I sentieri conducono tra memoria e futuro in un “aperto” (termine caro ai filosofi delle radure e dei boschi – certo, Heidegger ma qui occorre forse tenersi vicina la Zambrano) in cui la vita ci sgomenta e ridice la propria dura verità. La dice e ridice nell’animale che ghermito dall’aquila, «su per le gole del Furlo», «soffriva sgomento / e moriva in mezzo al cielo». Lo dice la figura del figlio, bloccato in un altro tempo, in sentieri che sembrano non andare da nessuna parte, Jacopo. Lo dicono certe sospensioni analoghe a momenti di grazia delle poesie di Carver, ad esempio, quando i tre, padre madre e figlio così irrefrenabile si fermano un istante intorno a un vaso con dei fiori ed è sera. Il vero della vita, il giusto della vita la poesia lo dice, con voce amara ma piena di incanti, in un Aperto minacciato dall’Assoluto, e in colloquio naturale mai esibito con i poeti che nella lettura del gran mistero della natura hanno messo a fuoco e affinato la loro voce, da Leopardi a Luzi».
La poesia di Piersanti ha l’incantagione solenne di un tempo maturato, solo apparentemente dissolto nel tempo che precede, forse un punto «dove tutto s’imbianca / e trascolora, / è un vento che non sai / da dove viene / e cancella e porta via / ogni figura, / anche il respiro / di quei forti buoi / che entra dentro l’aria e si dissolve / forse c’è un luogo / dove il vento le posa, / dove rimane incisa / ogni figura, / dove non c’’è gesto / e respiro che si perda, / un luogo che sia sbarrato / il tempo per l’eterno / di carne e d’erbe / lo vorrei impastato, / ma sono solo d’aria / le figure / e solo l’aria il tempo non dissolve» e in cui «la morbida estate / dentro noi resta, occhi e mani / riscalda, / il sangue e il cuore».
La geografia definita e nominata, la storia che lascia tracce, la memoria come conato d’essere, impiantano i residui originari dell’io nella contemplazione, nella novità, nelle pagine del passato fattesi abbaglio di sipari insostituibili che preannunciano metamorfosi: «ad altri, remoti / anni, questo muschio / lucente ci riporta, / all’età dei padri, / delle teneri madri / tra gli addobbi azzurri / delle feste, / uno ad uno caduti / lungo gli anni, / ora sono ombre / così spesse e vere, / figure dentro il sangue / che trasale».
La poesia avvicina la frastagliata voce della ferita, le stagioni dissonanti, la scia frantumata del silenzio, in cui la mitezza e la chiarezza del sacro appaiono come limine destinale: «quanta gioia ostinata / dentro ogni bruma, / infanzia tu sei / eterna epifania, / se spesso poi ti punge / con lunga spina / quei fuochi ancora illuminano / la strada».
E poi la figura del figlio Jacopo che alza la delicatezza stremata della sua presenza lieve, in cui «è senza requie il grido / che attraversa queste stanze / nuove / per te disposte / attorno alla tenera erba / chè ti consoli, / ma neppure la guardi e mai ti distendi […]» e «neanche l’acqua / la più chiara e fonda, / le pieghe non allevia / del tuo viso / così perfetto e disegnato / che il tuo male offende ma non piega».
Egli è sulla pista e cammina piano «poi corre, si ferma, / barcolla un poco, / segue la brioche / che hai nella mano, / è il suo vessillo unico e imperioso, / più del suo pianto / è il riso che t’inquieta, / stridulo e assurdo / nessuno lo decifra».
La perdita e l’inaugurazione memoriale si appropriano delle fedeltà alla parola vivente come rivelazione ancestrale (Aspettando l’inverno (su per la gola del Furlo)). Vi è una stanza memoriale segreta e ostinata che non cede, non permane nelle bruciature remote e, ancora una volta, come sospensione lirica di tutta la sua poesia, una estrema epifania che rivela e dischiude: «sì, mi restano / la casa e le figure / nella mia macchia persa / la più lontana, / quell’odore dell’acqua, / di muschio e raganella / verde e bagnato, / l’antico scalzo e biondo / che lento s’incammina / verso le nubi / dopo il ricordo cede, / i fotogrammi tutti / sono bruciati, / ma qualche brano resta […] oggi c’è molta luce / nella macchia, / vengono fuori bisce / al primo raggio, / tra le foglie cammino / intorpidito / come quella lumaca / dentro l’erbe / che il ragazzo toglie / da una scatola buia / e ripenso a quel giorno, / un giorno non come un altro / della vita».
Tutto il diorama di Piersanti possiede la pienezza elementare, in quanto gioia ombrata di elementi. Sono luoghi decifrati che spaziano, paesaggi e quadri in cui «oggi / in questi prati passo con una donna e un figlio, / un figlio che non guarda / e non t’ascolta, / a queste luci e rami / indifferente / abita una contrada senza erbe e fiori / e non c’è nessun altro nella sua strada / ma lui avverte gli evi i più lontani / il tempo che precede alberi e pietre».
Lo stupore del mondo, che crepita nelle erbe, permane e induce trasformazioni, si addentra nell’amore sperduto e adolescente («remota primavera / fatta eterna, / nella corsa degli anni / persa e oscurata, / ma poi ritorna, / a tratti, / e non sai come»), scavato nella dissolta fuga degli anni, nella ricerca del volto eterno, il più fragile e fugace incontro lungo il crepuscolo che si spegne e fa trasalire il sangue: «nel buio che s’annuncia / conviene perdersi, / i sentieri tra i campi / sono infiniti, / la fonte sta ovunque / o in nessun luogo / scendono per i greppi / le rane a balzi, / forse non hanno meta / forse è smarrita, / tu le guardi, / pensi / quant’è dolce / perdere la strada».
Piersanti descrive la sua terra in ogni minuzia lucente e in ogni nomenclatura: la terra appenninica, Urbino, il mare Adriatico rischiarano la loro bellezza interminabile e la loro rigogliosa pienezza. Sono linee di luoghi reinventati e barlumi poematici che spingono arcaicità ancestrali e ritornano alla fonte e dove, le Cesane, luogo-segno vicino a Urbino, riscrivono in ogni istante il loro tempo di stelle rischiarate e mute come tratto di genesi.
L’io che si confonde nella tonalità delle sue figure (padre-figlio-poeta) viene rappresentato nella descrizione del sogno del cavaliere che recupera la scena di un quadro di Raffaello del 1503-1504, il Sogno del cavaliere.
Il cavaliere che sogna, addormentato sullo scudo e vegliato da Virtù e Piacere, «sospeso sugli arcioni / s’allontana / in quella strada bianca / e infinita / tra verdissimi colli, / rade case / e d’umani mattoni / le antiche logge» deve affrontare il proprio cammino: è l’uomo-padre-poeta «nell’Aperto che mi cerchia» che riconosce le sue colline che «salgono in fitta cerchia / fino al Petrano» e un cigno, fugace e chiaro, rimane negli occhi sospeso e fermo «su quella riga / che non passa / dove accende la luce / aria e foglie, / e dietro il promontorio / mai s’avvia».
In quel punto preciso c’è un luogo che attende, come un segnale, la realtà che chiama, come una patria che sta sempre oltre il confine: «ma questa è un’illusione, / la più tenace / che per tante stagioni / t’ha accompagnato, / e sogna il cavaliere / la bianca strada, / un luogo non l’attende, / il suo cammino / un cammino eterno e infinito».

Nel-folto-dei-sentieri_prima-300x480-187x300UMBERTO PIERSANTI, Nel folto dei sentieri, Marcos y Marcos, Milano 2015, pp. 240, euro 17.

PIERSANTI U., Nel folto dei sentieri, Marcos Y Marcos, Milano 2015.
BUTRINI N., Nel folto dei sentieri, camminando nel tempo, in “Il Tempo”, 10 aprile 2015.
DEMI C., Poesia con Umberto Piersanti: nel folto dei sentieri (http://www.altritaliani.net/spip.php?page=article&id_article=2256).
MOSCÈ A., Umberto Piersanti e le selvatiche visioni, (http://poesia.blog.rainews.it/2015/05/05/umberto-piersanti-nel-folto-dei-sentieri/) 5 maggio 2015.
NICCOLINI L., Il poeta Umberto Piersanti presenta “Nel folto dei sentieri”,(http://www.corriereadriatico.it/SPETTACOLI/poeta_umberto_piersanti_libro_nel_folto_dei_sentieri/notizie/1388754.shtml), 2 giugno 2015.
PAZZI R., La formula lirica di Piersanti, in “Il Resto del Carlino”, 10 maggio 2015.
RONDONI D., Fra realtà e visioni la lirica della vita nei versi di Piersanti, in “Avvenire”, 15 maggio 2015.

Il ritardo mentale e gli atti sessuali

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

5 giugno 2015

La questione che tratteremo, riguarda il caso in cui un soggetto affetto da ritardo mentale possa compiere atti sessuali validi. Prenderemo in considerazione, per rispondere, a tale questione la recente Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, numero 18513 del 5 maggio 2015, la quale ha ritenuto che “trarre esclusivamente dalle modalità con cui è stato consumato l’atto sessuale la prova dell’induzione abusiva all’atto stesso sconta il rischio, che la stessa norma vuole evitare, che si possa identificare la condotta di induzione (mediante abuso della condizione di inferiorità fisica o psichica) con l’atto sessuale che ne è il risultato, con la conseguenza di impoverire l’indagine in ordine alla minorata capacità del partner ad autodeterminarsi all’atto sessuale e di svalutare, in ultima analisi, ogni aspetto che possa concorrere a ricostruire in modo approfondito la dinamica che precede l’azione e a comprendere se davvero abuso v’è stato.”
Dal punto di vista giurisprudenziale, che è ciò che più rileva in questa sede, quando si discute del ritardo mentale, si fa spesso il confronto tra disturbo di personalità e imputabilità.
Ciò discende anche da recenti interventi giurisprudenziali. Infatti, la Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato che “anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di ” infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità”. Non può pertanto affermarsi in termini assolutistici che il disturbo di personalità ex sé sia inidoneo ad integrare l’ipotesi della incapacità di intendere e di volere: l’esclusione di tale status, se non accompagnata da una vera propria patologia o infermità, abbisogna di una specificazione in merito alla portata di quella infermità che non necessariamente deve consistere in una patologia di tipo mentale o intellettivo – cognitivo, potendo discendere anche da altre forme morbose che possono incidere sul piano della capacità di intendere e di volere. Ne deriva la necessità, per il giudice di merito, laddove investito di una questione che involge comunque un disturbo caratteriale o relazionale di una determinata persona imputata (o imputabile) di accertare funditus se tale anomalia abbia un qualche collegamento con una situazione di malattia tale da compromettere la capacità intellettiva e volitiva del soggetto: esigenza tanto più insopprimibile, se riscontrata da dati clinici ricavabili ex actis o, comunque, da elementi tali da determinare una necessità di approfondimento specifico.1”
L’articolo 97 del codice penale, richiama l’imputabilità di “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” seppur ciò, stando ad alcune tesi giurisprudenziali, “non esclude necessariamente la sua maturità psichica ed intellettiva.2”
Il successivo articolo 98 del codice penale, stabilisce invece che “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere”, tralasciando il conteggio dell’eventuale pena.
Alla luce di quanto esposto, va rilevato come la Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, dalla quale ha preso spunto il nostro discorso, ha sostenuto che, “la consapevolezza dello stato di inferiorità psichica non esaurisce le condizioni che la norma prevede per la punibilità della condotta descritta dall’articolo 609 bis c.p., comma 2, n. 1, essendo necessario che a tale consapevolezza si accompagni l’abuso della minorata condizione per indurre la persona offesa al compimento di atti sessuali frutto di un consenso viziato.3”
L’articolo 609 bis del codice penale, richiamato dalla sentenza, prevede – lo si riporta per chiarezza espositiva – che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
Nel caso di specie al quale la Sentenza della Corte di Cassazione numero 1815 del 2015 si riferisce, emerge il riscontro da parte di medici, di un lieve ritardo mentale nella vittima.
Alla stregua di ciò la Cassazione, ha ritenuto di rifarsi al principio di diritto secondo cui, “ in tema di atti sessuali commessi con persona in stato di inferiorità fisica o psichica, perchè sussista il reato di cui all’articolo 609 c.p., comma 2, n. 1, e’ necessario accertare che: 1) la condizione di inferiorità sussista al momento del fatto; 2) il consenso all’atto sia viziato dalla condizione di inferiorità; 3) il vizio sia accertato caso per caso e non può essere presunto, né desunto esclusivamente dalla condizione patologica in cui si trovi la persona quando non sia di per sé tale da escludere radicalmente, in base ad un accertamento se necessario fondato su basi scientifiche, la capacità stessa di autodeterminarsi; 4) il consenso sia frutto dell’induzione; 5) l’induzione, a sua volta, sia stata posta in essere al fine di sfruttare la (e approfittare della) condizione di inferiorità per carpire un consenso che altrimenti non sarebbe stato dato; 6) l’induzione e la sua natura abusiva non si identifichino con l’atto sessuale, ma lo precedono”, pertanto, ha annullato l’ordinanza impugnata, disponendo il rinvio al Tribunale di Padova, che riesaminando il caso, dovrà prendere il considerazione tale principio di diritto.

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1 Cass. Sez. Un. n. 9163/2005, Raso, Rv. 230317
2 Cass. n. 15523/1989; Cass. n. 49863/2009.
3 C. Cass., n.18513/2015.