Gli Argini di Andrea Galgano

di Adriana Gloria Marigo 23 dicembre 2014

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431671_10151170974264484_749205361_nAssunto che la parola nel suo aspetto di segno suono significanza riconduce a complessità psichica che governa piani affettivi etici relazionali culturali sia personali sia collettivi, Argini, titolo della raccolta poetica di Andrea Galgano – Lepisma, 2012 -, ci consegna nella immediatezza grafica del lemma l’assunto di cui dicevo: ci troviamo davanti alla demarcazione di un ampio paesaggio interiore ed esteriore e al contempo alla progettualità ad oltrepassare il territorio d’appartenenza per inoltrarsi in uno nuovo, che non nega il precedente ma tiene in conto e amplifica, rimodellando confini orizzonti e tutto quanto si muove entro quelle provenienze prossimità strutture rassicuranti al tempo stesso necessarie di rivisitazione, poiché è chiaro che il percorso verso i luoghi alti della Bellezza – che non si dà senza l’appercezione del suo emergere nella/dalla forma anche vaga – si fonda sulla conoscenza e su un anelito desiderante, sulla tensione leopardiana all’incontro con il piacere “La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo” (Zibaldone) o come in Schopenhauer sulla distonia tra bisogno e appagamento di esso “Ogni volere proviene da un bisogno, cioè da una privazione, cioè da una sofferenza. La sofferenza vi mette un temine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infinito, la soddisfazione è breve e amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni desiderio soddisfatto cede subito il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta” (Il mondo come volontà e rappresentazione) .

Il mettere schopenhauriano “un termine” corrisponde agli “argini” di Andrea Galgano: necessaria misura per contenere il grande flusso della conoscenza socio-affettiva, accompagnarne il percorso limitando il danno di possibile esondare o alluvionare, limite imposto dalla disillusione che rimanda all’infinito fluire desiderante in cui il Tempo – vexata quaestio – apporta i suoi indicibili vestimenti, il suo apparato essenziale all’essersi e all’oggettivarsi, allo sprofondare nella memoria e risalire verso probabili e provvisorie chiarìe: “E di un tempo rimase il tempo / di un tempo di tempo / secondo spogliato di piani // tempi soggioganti / furiosi come cieche fiere / mercati di sale le ore / cavalli sulla rena // quel che rimase / fu affresco d’abito // tempi bambini / giochi indecisi di riviera // tempi d’amore / carichi di voci oranti // vivemmo il tempo / ridotto a saluti sghembi / a una vela che spanna / nuvole improvvise / e questo tempo evanescente scorre / tra i sipari d’adolescenza / lentamente indossato / come il mare scheggia i fiumi.”(pag.13).

Se nella struttura della parola è implicita – come archetipo – la frontiera quale passaggio, superamento di confine che allerta i sensi, provoca il riconoscimento di ciò che resta indietro, destinato all’usura temporale affettiva lessicale e di ciò che è in avanti, all’attesa, pronto alla prossimità, la parola che Galgano sceglie e incide per quell’allerta sensoriale e culturale è parola che arriva da lontano – da un territorio prometeico e per contrasto, quasi a compensare come polarità necessaria al divenire, fluido – e ci consegna termini colmi di materiale immaginale e linguistico: se da una parte convoglia l’ustione della poesia, perché il poeta sente in poesia la sua stessa presenza nell’affaccendarsi del mondo, dall’altra reca la ricerca colta e raffinata del termine che incarni esattamente le immagini che avanzano ed emergono nella struttura dei versi, perché il conto finale è il “nome” che riesca ancora a nominare dichiarare attribuire : “Il respiro dei fortunali / avvolge il giorno annoso / il nettare sparso del petto /apre finisterresco / i pioppi e i salici / e il tuo crinale aureo incide / il lampo delle epoche // Le mani orientano / di avvento la sera / e l’architettura crèmisi / increspa i tuoi narcisi / nell’anatomia teatrale / del tuo madrigale // rinchiudi il sorriso / sul suolo creso / quando ti muovi atlantica / che sparisce lo scenario / ma poi ritorna frequente”(pag.18)

La versificazione di Argini distende dunque nella creazione del paesaggio lirico una topografia e un campo architettonico poetici in cui confluisce – come ramificazioni d’acque e centuriazioni – una misura semantica di alta frequentazione e uso che discende da percorsi tra la grecità classica e la classicità contemporanea attraverso la purezza lirica del petrarchismo così da attribuire al reale connotati di sacre visioni o semplicemente elevarlo dalla densità immanente che mai lo degrada, ma gli conferisce il “ferimento naufrago”, ovvero l’angoscia esistenziale in cui è bene “non rinchiudere la mia pena / in un’abitudine irosa / o nella tempesta ariosa e impudica / di un tremore di solitudini.” poiché “le fronde stormite oranti / come iniziali impastate di nuvole / nei perimetri delle gocce / diseganano il tempo della tua figura // è come il cuore il tuo nome / temporale sonoro di passaggio / ha braccia il tuo nome / dentro la tua nudità semplice / come il sangue / che percorre l’eterno cielo / e nel raccolto delle comete / vortica sigillando.”(pagg. 22-23) e ci portano in presenza di un “tu” femminile idealizzato pur in una identità terrestre che tuttavia elude l’ombra, la materica consistenza della carne, poiché ciò che importa è riconoscere la materia ultima, generativa la forma e che può darsi solo nella “metafisica di pianori”(pag. 67).

Scrive Davide Rondoni nella prefazione ad Argini: “[…] Ci sono – ne ho segnato davvero tanti – i passi, i momenti in cui la voce di Galgano si fa irrefutabile, sua, vivissima.” , talmente irrefutabile che in Kallias trovano testimonianza e l’invenzione immaginale del poeta e gli elementi costitutivi il suo essere poeta, le frequentazioni e ascendenze colte, le elaborazioni dei miti così da attribuire alla costituzione della sua poesia il marchio di parola metafisica, mai però bordeggiando certa maestosità e petrosità liriche, poiché la sua parola è percorsa dalla solidificazione della luce nel colore, negli oggetti, nel paesaggio vegetale aereo terrestre: “ La pioggia genuflessa / lascia il sole al suo regno / sulle messi di nuvole rade // inondazioni di crisalide / litoranea di stelle / e notturno di veglie eretiche // la parusia di stille / esauste e dimenticate / sui lembi / l’apologo di un abbraccio / su erbe intrise / nelle lamelle rigogliose / come il mio liceo che si alligna / nel tuo sferisterio immobile / e richiama / la tua calma chioma / al ritardo della notte che freme.// (pag.28) porgendoci dunque un cosmo di simboli che, sciolti dalla loro frequenza immaginale, ci consegnano nello spessore poetico ed etico della poesia di Andrea Galgano la cifra del suo ascoltare il mondo, crearlo mediante la parola che tramite lavoro di vera Poiesis progetta ontologia.

La luce di Roberto Mussapi

di Andrea Galgano 19 dicembre 2014

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Procede attraverso una eleganza di aliti e rinascite la poesia di Roberto Mussapi (1952), come un mondo di architetture che «dissolve entità separate, personae, eventi ed esperienze – tramonti, temporali, un faro, alberi, continenti, rocce, calura e neve – in una fluida tavolozza di rappresentazione degli elementi: luce, spazio, oscurità, terra e acqua. Impressionista, eppure dinamico nel suo trasmettersi. L’oscurità ambigua di una caverna prende forma – e paradosso – attraverso la graduale coerenza di frammenti di luce, persino nel modo in cui le screziature definiscono la “scurità” di un bicchiere di vino. Tali frammenti di luce, evocativi di illusioni ottiche o cose inafferrabili, divengono gli agenti di trasmissione che portano l’oscurità a fondersi con gli orizzonti, le gallerie, le onde dell’oceano. Lo stesso procedimento informa di sé un viaggio in treno che muove oltre la semplice narrativa o l’evocazione di un incontro per divenire la dimora liminale della memoria, dove la vita e la morte raggiungono una consolante unità, proprio come – dice il poeta – il sonno». (Wole Soyinka).

È una poesia che non preferisce l’erosione ma si apre alla rinascita “grave”, al grido degli accenni, alla tabula itinerante del tempo e alla conoscenza trascendente: «Perché rinascere a quest’ora / perché accendersi ancora in questo vento? / Tutto riposa, adagio / resta un nucleo disperso / roccia silicea e povera, / tempo forato dal tempo, anni / che abbiamo lambito ognuno perso / nel suo grido, perso a un accenno».
Scrive Piero Boitani: «Mi piace pensare a quel nucleo disperso, a quella roccia silicea e povera come al fondo dal quale nasce la poesia, che, germinando da questo fondo lirico inorganico (e metafisico) fiorisce in narrativa e drammatica […]».
La ricostruzione liminale, appunto, assorbe una intonazione potente e indeterminata, recupera il fondo assorbito e disseppellito della materia vivente, ritrova l’epica nascosta del mondo, la sua profondità e il suo scavo che innalza il respiro e lo sostiene: «Poi torna il respiro originario / si chiude il tempo: / eppure niente tra fibra e condanna, / nessuno spazio che giura / niente, il vuoto perso, e l’anima / che oscilla e nasce, il buio».
La mitologia del tempo diviene rappresentazione ed espressione di una attesa primordiale, di una transitoria, eppure concreta, gemma recuperata che sonda la modernità in tutto il suo spazio di figure ed emblemi e in tutto il suo riconoscimento di avvenimenti e declivi di ombre.
Afferma, ancora, Wole Soyinka:

«L’immagine complementare dell’indefinitezza, ugualmente priva di sostanza, sembra rimanere l’ultima nota di consolazione di Mussapi. Forse un appagamento – o quantomeno una riconciliazione – si raggiunge quando, a sua volta, l’io impara a identificarsi con l’anima che pare «fumigare e andarsene dal corpo», l’essere «d’incorporea caligine» o «l’uomo obliato» che «cammina nell’ombra che lo accosta, scarnificato» in una distesa atemporale. Allora, anche l’esperienza più evanescente può essere accettata come un rito di passaggio assolutamente appropriato, che è quanto il viaggio umano in definitiva concede».

L’ordine del viaggio si impossessa del mito, «l’argine aspetta / la notte straniera» mentre «Dietro la tenda di neve / cresce la forma del paesaggio / respira / una disperata serenità» e l’apertura antica del suo tempo arricchisce il gesto di una metafisica serena e archeologica, di un fascino di ombre che indicano la trama eroica dei gesti e della quotidianità.
È un’architettura che sosta sullo «sgocciolio fermato a mezz’aria / un orizzonte di palpebra, liscio […]» che trapassa gli astri: «Il primo vento è il mattino / che porta luce e segue una sua immagine celeste / di sonno, trapassata dall’astro, / quando il suo nome trema e l’insonnia dimentica / le attese sulle terrazze col corpo attraversato dal vento».
Il suo centro trafitto dalla luce insegna pienezze di foce, danze cieche, sogni nuovi dell’inverno, dove appare la vivezza di un canto bianco e la poesia ritroverà le sue cromature e il suo avvenimento, come arcane linfe stremate.
La rivelazione rarefatta si confonde e si fonde con la tradizione, affiora il confine acceso degli aloni dove «tutto entra / e sfascia le porte e appolpa l’ugola ai cani», attraverso una lucidità che è materia che circonda, uscita di senso, tremore impalpabile: «Chi scrive poesia non parla da se stesso, ma attraverso se stesso, e la voce gli appartiene solo nella durata della scrittura. Poi si stacca da lui, e resta nella sua luce di compresenza, tra gli uomini e tra i tempi. Ed è la ragione e il prodotto del tempo presente, del consumarsi in atto del tempo».
La luce frontale (1987/1998) viene dominata da una coltre incantata, in cui i barbagli celesti incontrano la conoscenza di una stupefazione avvinta, e lo sguardo, come sostiene Giancarlo Quiriconi, «implica la fuoriuscita dell’io da se stesso in un luogo-non-luogo dove l’occhio incontra la visione, il segno di qualcosa che in un attimo accade assolutamente e gratuitamente, coinvolgendo e superando insieme gli elementi del reale, i dati possibili della soggettiva biografia. […] Tutto si concentra nell’occhio, origine e approdo, senso dell’esistere – la nascita – e sua sospensione infinita nell’eterno dell’assenza».
La visione è premessa all’avvenimento visivo e mira a «levare gli occhi dagli accidenti della propria specifica condizione per abbracciare con lo sguardo l’intero orizzonte umano. Il che non vuol dire liberarsi dai vincoli della vita vissuta, privarsi delle percezioni, degli affetti, delle gioie o dei dolori che sono, nella scrittura, il solo respiro veramente profondo dello spirito, quanto piuttosto allargare questa esperienza rimasta fondamentale grazie all’esame di ciò che, nella società, nella storia, declina gli avvenimenti dell’esistenza particolare, talvolta perfino suscitandoli. Una poesia in grado di vivere in modo non solo spontaneo, ma anche riflessivo ed esplicito tale identità di universale e di singolare, quale le poesie più autentiche sempre stabiliscono». (Yves Bonnefoy):

«E vide i mossi riflessi nella pozza / (i mossi, i lunghi labbri del soffio che riscuote / le nebbie delle anime, ricordò i pallidi / risvegli dei corpi sciolti nei canneti, / il sospiro di pelle che solleva / le pleure dei muschi aprendo verdi plaghe / stagni gelatinosi dimenticati dalla tempesta)».
L’epifania del mondo abbraccia il magma esistenziale, e il sonno, il risveglio, l’epifenomeno del reale divengono tracciato di immagini e testimonianza mediata, come voce di luce in cui «l’impronta dei tratti si discioglie / trasuda l’aspetto rispecchiato nella vela di fuoco / torpido covo notturno».
Laddove l’io afferma la propulsione del suo sguardo di terre incerte, lo strappo del dono sostiene l’alterità, il rapporto con le cose, il dettato amoroso. L’oggettualità mussapiana non strappa le tele dell’essere ma accarezza gli specchi delle concrete esperienze e presenze, coniuga la misura espressionistica per sollevare le tracce memorative in vigorie semanticamente plurime, come fuochi di transito: «[…] Passerà secoli di viaggio nel cunicolo / buio guardando le ombre transitorie come d’oblio / di chi le ha conosciute ed amate / proverà un brivido strano nella portineria / e guarderà l’amato all’improvviso alle spalle/ chiunque sarà, quel fuoco transitorio / e perenne che un giorno fu in lei / nel fiore di geranio come nei tulipani / di Van Gogh, lei non ricorderà, / lei non saprà, lei tornerà nei cunicoli / tra i fratelli addolorati e ignari, / ma il suo cuore non cambierà più ragione / e i suoi occhi guarderanno per sempre con un altro / inconsapevole, sovrano amore».
La mitopoiesi diviene amore irriducibile, figura che tocca l’esistenza e la morte come fusione e lotta, gesto poetico che coglie il presupposto di diventare «punto di partenza per un viaggio nell’umano teso a scandagliarne le peculiarità più resistenti: una sorta di preliminare accertamento delle radici, dei segni ricorrenti di una antropologia del profondo attraverso cui sia possibile rivolgere uno sguardo più consapevole al presente dell’esistere, coglierne la pienezza evidente e insieme misteriosa anche nei minimi eventi, nei gesti più consueti, nelle figure in apparenze meno significative» (Giancarlo Quiriconi).
Il tempo di Mussapi tocca la traccia immanente del sublime, lo innerva nella dimensione quotidiana, frammentandolo in uno stupore attonito e in un contatto compatto con la realtà vivente, ridisegnando persino la scrittura dickensiana, come archetipo di infanzia, nei volti e nelle maschere condotte e prese dal sogno e dalla visione (Racconto di Natale).
In Gita meridiana (1990) la scena memoriale diviene, come scrisse Geno Pampaloni, «originaria, metafora della nascita; e perciò non precipuamente lirica; piuttosto tesa all’epicità; essendo il mondo e la vita segnati da una ininterrotta creazione, di cui la parola poetica è insieme testimonianza, maieutica, viatico alla morte».
La sua vertigine recupera e percorre l’evidenza sensibile dell’ «alto centro / dell’impervia durata sillabante» dell’orizzontalità del mondo e la sua poesia «finisce per configurarsi, con il suo tono tra profetico e orgiastico, come una sorta di canto civile, canto di tutta una civiltà dell’uomo, recuperata dal buio del tempo e dell’oblio a testimoniare una durata e un senso che non possono essere cancellati. E qui, sulla scorta di una memoria che attiva meccanismi di recupero non elegiaco, immerse nel giro eterno di una dimensione orfica, come scolpite nel basalto le figure assumono il passo e il respiro autentici del mito, di un mito che si forma per propria evidenza paradigmatica, per la propria intrinseca forza di indicazione, per la sua stretta connessione con tutti i dati della vicenda umana ed esistenziale […]».
La gita raccoglie lo zenit di una memoria unica e di una circolarità cosmica, altrimenti perdute. L’aurora antica preannuncia la genesi di un ritorno, la verticalità del nome che sottentra ferite e grumo circolare di affetti, l’oscurità e la nascita immemore iscrivono, fragili e primigenie, passato e presente, come una rivelazione, che nel passaggio de Il Cimitero dei Partigiani, Fenoglio indicherà: «Chi li visterà, i perduti? Scaglie di sole, / brandelli di memoria raggiungeranno il loro silenzio, / come accade ai dormienti, i miei morti / avranno visite incorporee, fuggite dal giorno? […]» (Enea guarda gli accampamenti alla sera).
I paesaggi delle ombre, dalle antiche (Enea, Plinio il Vecchio) ai contemporanei (Scirea, Tardelli), l’incanto percorso delle ore, in cui la mescolanza e la conservazione delle voci riverberano nell’incombenza della sera, il nudo ascolto «nel breve unisono oltre l’attimo», fanno convergere il tempo in una disposta unità di senso e in un dialogo che riempie la memoria udita, immaginata e pensata, in un soggetto non eroso, in una disposizione biografica che si fa esilio e ricordo e indica, ancora una volta, «il nostro unico margine, / confine e fuoco», il positivo proscenio di un’urgenza lucente, «Dove la terra fu inutilmente arata / e i campi fumano ancora, e le ombre / lontane chiamano inascoltate dai passanti / o dove qualcuno si fermò per un istante e poi scomparve, / linea rovente, rasoterra del tempo, / traccia, impronta di vita che comunque fu, / in qualunque ora e in qualunque modo, / lì guardano, e lo chiamano orizzonte, / da cui nasce il tempo, il viaggio, l’avventura / oltre la siepe, il meridiano, il magico / confine dell’atlante».
Il poemetto epico-drammatico Antartide (2000), opera incentrata sulla vicenda della spedizione al Polo Sud di Schackleton con la nave Endurance, sonda la tradizione della modernità, aiutato dalle voci e dagli echi elotiani e danteschi (ma anche pascoliani e luziani), facendo prevalere l’assolutezza del dato metafisico, in un quadro che appartiene non più alla singolarità o alla scompaginata traccia memoriale, ma alla storia dell’uomo.
È epica autentica e teatrale, non solo per i richiami infratestuali, ma per la materia che non si risparmia, si sostiene, attinge all’energia vivida dell’esistere, per ritornare alla traccia dei vivi e al segno risorto e profetico.
La sfida poematica, per Mussapi, come scrive Raffaele La Capria, è partire dal fatto che la poesia pura, «essendosi sempre più rarefatta, sia finita in un cul de sac, proprio come l’ Endurance, stretta dalla morsa dei ghiacci, stritolata, il fasciame che geme e si lamenta con sinistri scricchiolii, nell’immenso universo astratto, bianco e allucinante del Polo Sud. Forse è qui la vera metafora sottesa al racconto di questa agonia. Il bianco che circonda la nave fa pensare più a quello del Gordon Pym di Poe che alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Qui non c’è nessun romanticismo, è il dato metafisico che prevale e tutto assorbe. E anche l’ angoscia di chi si è ficcato in una situazione senza uscita, un’angoscia che noi uomini in questo secolo conosciamo bene. Angoscia mortale, dunque, e allucinazione, e in questo senso in Antartide non c’ è distacco epico, come quello di un poema antico. Si addice più a questo poema e al nostro secolo la registrazione analitica, la concretezza di uno slancio lirico che si attiene ai fatti, e con quelli – come fa Kafka – costruisce la sua architettura metafisica, o se si preferisce, l’ allegoria».
Il ghiaccio rappresenta la genesi di una iniziazione, un’uscita dal repertorio quotidiano per un’appartenenza e un’adesione a qualcosa che scompare, defluisce, ritorna, e infine, trasla lo svelamento poetico, «dove per traslazione si passa dall’idea di una possibile conquista alla prigionia dell’Essere in una glaciazione attenuata, se non spezzata, solo dal calore del possibile ritorno» (Francesco Napoli).
È la possibilità di risurrezione ad affermare la forza di questa poesia dispersa (di prede e notti polari, attese e lanterne, e camere intenebrate), che comunica il vivere inciso della sua terra incerta e della sua rinascita, ad aggiungere, poi, nuovi e antichi richiami coscienti al dramma del tempo e alla stoffa delle cose.
Afferma Bonnefoy, infatti: «Mussapi ascolta il sé profondo, muove perfino, coraggiosamente, verso di lui in pagine che sono come un assopimento, ma per un risveglio in un altrove; ed egli non sa dove. Perché non bisogna credere che questa apertura del sé ai suoi arcani si accompagni in lui all’illusione di poter penetrare i loro sensi ultimi: questo vorrebbe dire censurare la parola incessantemente eruttiva dandole espressione. Non sono questi né il pensiero né gli auspici di questo poeta, anche qui assolutamente moderno, consapevole che la verità è un dislivello senza fine tra il piano del concetto, della rappresentazione, e quello del simbolo, della presenza».
La voce si concede agli eroi, alle piante, agli animali, alle pietre, all’acqua, come traliccio di sogni e dimensioni. Il periglio sottentra al Ritorno. Ed è nel nostos che il poeta vive le sue fonti, il viaggio verso le stanze interiori, appropriandosi di quel «genere di verità che perdiamo sempre di vista, quella che la poesia ricerca per lo più invano, quella stessa che forse la morte rivela, in modo evidente ma incomunicabile, perché giunta troppo tardi: e cioè che l’amore, il semplice amore tra persone, si rivela all’ultimo momento come la sola verità» (Y. Bonnefoy): «Ricordi il buio, la grotta, la paura, / la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata, / e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini? / Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo, / sentendo nella sua corsa la forza del dio? / E come volevamo correre in lui, / e superare la vita, non morire?».
La coralità di passato e presente vive nelle circolarità perenni dei ricordi trasmutati (la madre) e delle rievocazioni (la casa). Nelle effigi egli incastona il dramma del tempo inconsunto, ritrae, archetipicamente, l’anima del tuffatore di Paestum, dipinto su una lastra tombale del V secolo a. C., che si slancia da un trampolino e che, simbolicamente, rappresenta il passaggio all’oltretomba. È il tramite a qualcosa che promette eternità e tempo risorto al tempo filiale: «Io non sono tuo padre ma la sua anima, / non so quello che vivo ma ricordo, / la riva, la piscina, i colori che formano / lo strano disegno della vita mortale. / Vivi in quella ceramica smagliante e attendi / quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio. / Ma ora che dormi come quando in una culla / sembravi cercare i segreti del mondo, / ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli, / ascolta le parole della mia anima: / non so molto di lei – di me stessa – / (è presto, figlio, non conosco abbastanza, / ho appena iniziato, sto nuotando), / non pensare al mio corpo (è tardi, / perle, quelli che furono i miei occhi, e le mie labbra contratte in corallo), / ma ho conoscenza del loro matrimonio, / di quando vivevano all’unisono nel mondo / e io, anima di tuo padre, il tuffatore / ti consegno solo questa esperita certezza / (dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo): / che anche l’uomo può amare eternamente».
Scoprire il linguaggio degli uccelli, dei pesci, scoprire la loro segreta comunicazione dona il fondo di canto e silenzio (l’usignolo che sembra annullarsi quando intona l’infinito o il passero che conosce i pianti e le pene e «cinguetta timido ma indefesso al mattino / portando all’uomo che si sente solo / come in un sogno la vita del giardino»), come «parole mute / che narrano storie lontane e perdute / e il canto degli uccelli, l’inno gioioso / alla vita nel cielo, a quel mondo radioso».
Il capitano del mio mare scopre, invece, il nuovo mondo, racconta l’esito di una stupefatta memoria di un viaggio inaspettato, fatto di gallerie «Buie e improvvise come lunghe scie / che la notte avesse dimenticato/ su quell’asfalto lucido e assolato», di strade nuove, di estati lontane, di limpidezze trasognate e, infine, di una sequela paterna che invita e fa vivere («Mio padre: guidava calmo e sicuro in un percorso tortuoso, si arrampicava sulle montagne fino al mare, e oltre c’era altro mare. Era uno stregone. Giocava col fuoco del camino, con i suoi sortilegi faceva nevicare, portava bene»), come una traccia che resiste ed esplora il mondo.

MUSSAPI R., Le poesie, a cura di Francesco Napoli, prefazione di Wole Soyinka e saggio introduttivo di Yves Bonnefoy, Ponte alle Grazie, Milano 2014.
ID., Luce frontale, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Jaca Book, Milano 1998.
BIGONGIARI P., In gita meridiana nell’età dell’ansia, “La Nazione”, 10 marzo 1990.
BOITANI P., Canto degli eroi, da Enea a Scirea, in “Il Sole24ore”, 7 settembre 2014.
BRIGANTI A., I ricordi d’infanzia di Mussapi, in “La Repubblica”, 19 giugno 2012.
CARIFI R., I segni del nuovo, «Leggere», n.32, giugno 1991.
LA CAPRIA R., Mussapi, odissea nell’inferno dei ghiacci, in “Corriere della Sera”, 21 febbraio 2000.
PAMPALONI G., Ambizioni classiche e libertà fantastiche,“il Giornale”, 9 settembre 1990.
PAGNI F., Roberto Mussapi poeta, edizioni Noubs, Chieti 2004.
QUIRICONI G., Tra canto e profezia: “Gita meridiana”, in Luoghi dell’immaginario contemporaneo, Bulzoni, Roma 1998.
RONDONI D., Due lettere a Roberto Mussapi, in Non una vita soltanto,. Scritti da un’esperienza di poesia, Marietti, Genova 2002.

La violenza sessuale si configura anche con il compimento di atti sessuali repentini

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di Emanuele Mascolo

… Rubrica di Giurisprudenza

4 dicembre 2014

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta stabilendo che “il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti  improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorita’, puo’ trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima” .

In allegato il testo della sentenza.

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 10 novembre 2014, n. 46170

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere

Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato ad (OMISSIS);

avverso la sentenza del 05/02/2014 della Corte di appello di Trento sez. dist. di Bolzano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. D’Ambrosio Vito, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale presso medesima città che aveva condannato, a seguito di giudizio abbreviato, (OMISSIS) alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione per il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., (3 comma), articoli 609 ter, 609 quater e 609 septies c.p., articolo 61 c.p., n. 11 e articolo 81 c.p., per avere, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, costretto con violenza e minaccia la minore (OMISSIS), nata il (OMISSIS), figlia della convivente (OMISSIS), a subire atti sessuali o comunque per avere compiuto atti sessuali con la stessa; in particolare (OMISSIS), nel periodo immediatamente successivo all’ingresso della minore (OMISSIS) nel territorio italiano, quando la stessa frequentava la quarta elementare e risiedeva con lui in (OMISSIS), frequentemente ne palpeggiava in maniera repentina e comunque contro la sua volontà la vagina e le natiche, approfittando degli attimi di momentanea assenza della madre; lo (OMISSIS) reiterava quindi tale condotta di palpeggiamento repentino delle zone erogene della minore (OMISSIS) nel periodo in cui gli stessi, unitamente alla madre della minore, si erano trasferiti da (OMISSIS), in un appartamento sito in (OMISSIS); successivamente all’ulteriore trasferimento del medesimo nucleo familiare in un appartamento sito in (OMISSIS), lo (OMISSIS) instaurava con la minore (OMISSIS) una relazione sentimentale, caratterizzata dalla consumazione consensuale, con cadenza settimanale ed in alcuni casi anche quotidiana, di rapporti sessuali completi sia di tipo orale, sia di tipo vaginale, approfittando dei momenti in cui la madre della minore era assente da casa per motivi lavorativi e non desistendo nemmeno nel periodo del ciclo mestruale della ragazza, in cui si faceva praticare sesso orale; con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di relazioni domestiche, avendo approfittato del rapporto di stabile coabitazione intercorrente con la persona offesa, figlia della propria convivente more uxorio (OMISSIS).

In (OMISSIS).

  1. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza, l’imputato ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione affidando il gravame a cinque motivi.

2.1. Con il primo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 597 c.p.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), per inosservanza del divieto di reformatio in peius della sentenza di appello, non impugnata dal pubblico ministero, relativamente alla qualificazione giuridica del fatto.

Si assume come la Corte di appello, nel rigettare la doglianza relativa alla formulata eccezione circa l’indeterminatezza e la contraddittorietà del capo di imputazione, sia giunta a ritenere non configurabile, in assenza di impugnazione del pubblico ministero, il fatto di minore gravità in relazione all’articolo 609 bis c.p. nonostante la diminuente sia stata ritenuta nel capo di imputazione ed in sentenza, contravvenendo quindi al divieto di reformatio in peius che non riguarda solo l’entità della pena complessiva ma tutti gli elementi che concorrono alla sua determinazione.

2.2. Con il secondo motivo di gravame lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 81 c.p. (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), per errata individuazione del reato di maggiore gravità.

Si sostiene che anche in ordine all’individuazione del reato considerato più grave ai fini della pena la Corte di appello sia incorsa in un grave errore in quanto il primo giudice ha dichiarato più grave il reato di cui all’articolo 609 quater c.p. e ciò sul presupposto che il reato di cui all’articolo 609 bis c.p. fosse attenuato dalla minore gravità.

La questione avrebbe dei rilievi pratici considerato che il reato punito dall’articolo 609 bis c.p. presuppone l’uso della violenza e/o della minaccia mentre il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. presuppone il consenso, per quanto giuridicamente inefficace, della persona offesa.

2.3. Con il terzo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 609 bis c.p. nonchè illogicità e contraddittorietà manifesta della motivazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), ed e) risultante dalla deposizione della stessa parte offesa come riportata nella sentenza di primo grado.

Si deduce che erroneamente la Corte di appello ha convalidato l’approdo cui è giunto il Tribunale di ritenere configurato il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., seppure qualificato dalla minore gravità, sul presupposto che l’imputato avesse toccato le parti intime della vittima con atti repentini ed improvvisi, ravvisando in ciò gli estremi della violenza, laddove l’azione si sarebbe caratterizzata, tenuto anche conto delle dichiarazioni della persona offesa, per essere stata progressiva e non già repentina, suadente e non sorprendente, essendovi già un rapporto di convivenza tra agente e persona offesa, con la conseguenza che, nel caso di specie, difetterebbe l’elemento costitutivo della violenza richiesto dall’articolo 609 bis c.p. per la configurabilità del reato in quanto, secondo la logica e l’esperienza, il contatto in zone verdi è preceduto da contatto in zone lecite e confinanti, per migrare poi gradualmente verso la zona rossa, sempre che non intervenga una reazione contraria. Nessuna violenza dunque vi sarebbe stata, ma la ricerca di un consenso almeno passivo.

La repentinità sarebbe invece tipica di contesti in cui anche il contatto in zone rosse è inopportuno (autobus, contesti lavorativi, luoghi affollati in genere) e ove l’agente ha pochissimo tempo a disposizione e non certo dei minuti o delle ore come nel caso di specie (sul divano o al momento di andare a dormire).

2.4. Con il quarto motivo di gravame lamenta illogicità manifesta della motivazione in relazione alla quantificazione del risarcimento del danno ed omessa motivazione su punti decisivi per il giudizio di quantificazione del danno (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e).

Si assume come il danno sia stato liquidato in maniera eccessiva e senza dare conto dei parametri utilizzati per pervenire alla sua quantificazione.

2.5. Con il quinto ed ultimo motivo, deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 133 c.p. e mancanza di motivazione in ordine alla pena base ed all’aumento per la continuazione (articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera b), ed e).

Si sostiene come con i motivi di appello il ricorrente si sia doluto tanto della determinazione della pena base (otto anni di reclusione) quanto dell’aumento ritenuto per la continuazione (anni tre di reclusione) e come la Corte territoriale, nel rigettare le doglianze, abbia fatto leva sulla gravità del fatto in considerazione dell’abuso di fiducia e dell’abuso di relazione ex articolo 61 c.p., n. 11 valutando erroneamente entrambe le circostanze con riferimento ai medesimi profili ed avendo ciò determinato un aggravamento inammissibile del trattamento sanzionatorio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso è infondato.
  2. Il primo motivo è manifestamente infondato.

Nel respingere il primo motivo d’appello la Corte territoriale ha chiarito come i fatti materiali contestati – sia con riferimento alle condotte (dapprima palpeggiamenti poi rapporti sessuali completi) sia ai luoghi ((OMISSIS)) sia alla frequenza ed alle concrete modalità – fossero stati nella loro specificità storica ammessi dal ricorrente e come sia l’imputazione che la sentenza avessero scisso la sequenza dei fatti in due fasi: la prima fase di palpeggiamenti effettuati in maniera repentina ed insidiosa in momentanea assenza della madre (articolo 609 bis c.p.); la seconda fase di rapporti sessuali completi (vaginali ed orali) inseriti nel contesto di un distorto, almeno sotto il profilo dell’età (23 anni di differenza), rapporto sentimentale.

Sotto tali profili la Corte del merito ha confermato – e non ritenuto per la prima volta aggravando, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, la posizione dell’imputato appellante in assenza di impugnazione del pubblico ministero – l’insussistenza della diminuente della minore gravità per entrambe le ipotesi, posto che sia i reiterati palpeggiamenti in zona genitale di una bambina di appena 10 anni alla ricerca, da poco tempo giunta dal (OMISSIS), di persone adulte di riferimento e ancor più i reiterati rapporti sessuali completi con una bambina non potessero rientrare in nessun caso della nozione di minore gravità .

E’ vero che nel capo di imputazione vi è l’indicazione (errata) del comma 3 con riferimento al reato punito dall’articolo 609 bis c.p. ed è anche vero che nella prima sentenza il Giudice, nel confermare la propria competenza territoriale dopo aver preso atto della rinuncia da parte del procuratore speciale e dell’imputato personalmente ad eccepire l’incompetenza territoriale del Tribunale di Bolzano in favore di quello di Milano luogo ove è stato commesso il primo fatto contestato, ha stimato più grave il reato previsto dall’articolo 609 quater c.p. affermando che quello di cui all’articolo 609 bis c.p. è stato configurato nell’ipotesi attenuata ai sensi del comma 3 e che a mente del disposto dell’articolo 4 c.p.p. nella determinazione della pena non si tiene conto delle circostanze del reato, se non ad effetto speciale .

Va tuttavia ricordato come, in fatto, non sia stata enunciata, nel capo di imputazione, la circostanza della minore gravità del reato di violenza sessuale, con la conseguenza che la mera indicazione nell’epigrafe del capo d’accusa del comma relativo all’articolo di legge violato non radica alcun diritto al riconoscimento dell’attenuante, che invece il Tribunale ha esplicitamente escluso nella sentenza di primo grado (pag. 13) quando ha affermato che tali fatti non possono certamente essere qualificati di minore gravità in considerazione della frequenza dei rapporti sessuali richiesti, delle modalità dell’azione, infilandosi l’imputato nel letto della bambina anche alle 4 del mattino e pretendendo di soddisfare le proprie esigenze prima che la minore sui preparasse per andare a scuola, nonché insegnandole diverse tipologie di rapporto, non desistendo neppure se la (OMISSIS) aveva le mestruazioni, ricorrendo in tal caso a pratiche orali, e tenuto conto dell’età della minore nata il (OMISSIS) .

Al cospetto di tale specifica motivazione circa l’esclusione delle diminuente, che infatti non è stata minimamente considerata nella determinazione della pena, e neppure specificamente censurata con i motivi d’appello, la censura secondo cui la Corte territoriale abbia violato il divieto di reformatio in peius  è destituita di ogni fondamento.

  1. Il secondo ed il terzo motivo di gravame, essendo tra loro collegati possono essere congiuntamente esaminati.

Il ricorrente, ribadendo che la violenza sessuale (articolo 609 bis c.p.) sia stata ritenuta di minore gravità (secondo motivo), assume, anche sul presupposto che sia stato configurato come reato più grave quello di cui all’articolo 609 quater c.p., che il reato di violenza sessuale fosse giuridicamente da escludere mancando il requisito della violenza (secondo e terzo motivo) non potendo ritenersi le condotte dell’imputato repentine ed a sorpresa quanto piuttosto progressive e dirette alla ricerca di un consenso, quantunque invalido ratione aetatis, della vittima.

I rilievi sono privi di fondamento.

I Giudici del merito hanno ritenuto, con logica ed adeguata motivazione, configurabile il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p. sul presupposto, ampiamente accertato in fatto e dunque insindacabile in sede di legittimità, che quando il ricorrente toccava la vittima direttamente nelle zone intime (pube e sedere) eseguiva le azioni in modo rapido e repentino ponendo in essere gli atti improvvisamente ed inaspettatamente, anche per non essere sorpreso dalla compagna mentre la minore non comprendeva quale fosse la reale intenzione dell’agente.

Ne deriva che le azioni vietate sono state eseguite anche quando il luogo di commissione del fatto era condiviso dalla madre della vittima (compagna dell’imputato) e dunque in frangenti nei quali il ricorrente aveva un lasso di tempo estremamente ridotto per eseguire la condotta illecita, che nonostante tutto poneva in essere con rapidità.

Va dunque affermato il principio in base al quale, in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo, oltre a consistere nella violenza fisica in senso stretto o nella intimidazione psicologica in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, si configura anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente all’insaputa della persona destinataria, in modo da poterne prevenire anche la manifestazione di dissenso e comunque prescindendo, nel caso di minori infraquattordicenni, da un consenso, ancorche’ viziato, o dal dissenso comunque manifestabile.

Ed infatti deve ammettersi, in tema di reato sessuale commesso in danno di persona infraquattordicenne, punito dall’articolo 609 quater c.p., comma 1, il concorso materiale con il reato previsto dall’articolo 609 bis c.p., comma 1, nel senso che, in presenza di condotte comportanti violenza, minaccia o abuso di autorità, può trovare applicazione anche la seconda fattispecie criminosa, che non e’ alternativa e neppure incompatibile con la prima.

  1. Anche il quarto motivo è infondato.

4.1. Per rendersene conto occorre brevemente ripercorrere la ratio decidendi del giudice di primo grado pienamente confermata dal Giudice di secondo grado.

Nel quantificare in via equitativa il danno, il Tribunale è partito dalla premessa che la minore, (OMISSIS), è stata inserita in comunità dal (OMISSIS), per rientrarvi nuovamente dal (OMISSIS).

Ha poi registrato, sulla base del patrimonio dichiarativo della minore e delle relazioni dei servizi sociali oltre che degli accertamenti specialistici eseguiti dal tribunale per i minorenni, il difficile rapporto con la madre che, parzialmente ripreso con il ricongiungimento in Italia, si è nuovamente interrotto in conseguenza dei fatti del presente processo.

Ha evidenziato come la madre aspetti un bambino dall’imputato e che, allo stato, non sia in grado di aiutare nè sostenere la figlia. La minore non ha ancora elaborato i traumi vissuti e la conseguente separazione dalla madre, nutrendo nei confronti di questa, che peraltro la colpevolizza, sentimenti contrastanti tanto che il rapporto è apparso irrimediabilmente segnato.

Nella relazione del 23 gennaio 2013 dei servizi sociali di (OMISSIS) così si legge: E’ apparso evidente che la convivenza tra madre e figlia in questo momento è tanto dolorosa, quanto difficoltosa, in quanto la madre non dispone delle risorse adeguate a sostenere la figlia, che sente quindi rinforzato il suo senso di colpa nei confronti della madre .

Il difficile rapporto è stato ribadito nella relazione del 24 gennaio 2013, in cui è evidenziata incomunicabilità verbale ed emotiva tra madre e figlia.

(OMISSIS) è dunque apparsa una ragazza tormentata dai sensi di colpa come argomentato anche dalla richiamata relazione dei servizi sociali del 23 gennaio 2013.

Il Tribunale ha ricordato come, per due anni, la minore abbia subito i progressivi desideri sessuali dell’imputato, che hanno generato in lei lentamente uno stato di malessere, fino a quando il malessere è diventato vera e propria sofferenza.

Da ciò il Tribunale ha tratto il convincimento che (OMISSIS) è ora una ragazza sola, di appena 14 anni, nonostante possa contare sull’affetto e sul sostegno di assistenti sociali ed insegnanti, inserita in una comunità – (OMISSIS).

Come attestato dalla relazione dei servizi sociali, la minore è in carico all’ambulatorio di psichiatria e psicoterapia per l’infanzia.

Nel decreto interlocutorio n. 188/13 nel procedimento sub n. 63/13 V.G. del 13 marzo 2013, con il quale è stato confermato l’affidamento di (OMISSIS) al servizio sociale, il Tribunale per i Minori ha chiaramente descritto la difficile condizione della persona offesa ed è stato prescritto alla madre sostegno psicologico per recuperare il rapporto con la figlia, con la quale ha pochi contatti, fatica a considerarla vittima, ritenendo piuttosto se stessa vittima, concentrandosi quindi sullo propria persona, sul proprio lavoro, sullo stato di gravidanza, poco interessata alla vita di (OMISSIS).

Sulla base di ciò il Tribunale è pervenuto alla conclusione di ritenere ampiamente compromessa la vita della minore spezzata negli affetti e lesa nelle relazioni, nella serenità, nella spensieratezza, nello sviluppo, nella crescita e nella sessualità,  avendo (OMISSIS) sperimentato affetti distorti e conosciuto una sessualità deviata, quando ancora era una bambina di appena dieci anni, quando ancora non poteva ne’ doveva conoscere rapporti sessuali orali, vaginali e, prospettati, anche anali (che in sede di incidente probatorio ha dimostrato di non sapere neppure denominare).

Come ha espressamente dichiarato, non pensava certo che la prima volta sarebbe stato con un padre , avrebbe voluto che fosse con il suo ragazzo e dopo un poco di tempo.

In considerazione di tale devastante quadro, al Tribunale è apparso equo liquidare – per il danno biologico subito, in termini di compromissione della vita familiare ed affettiva, perdita dell’infanzia, pregiudizio di serena crescita e di progressivo sviluppo psicofisico – l’importo di 350.000,00 euro, importo comprensivo del danno morale, oltre interessi legali (tenuto conto che per una invalidità permanente del 70% su soggetto di anni 11 secondo le tabelle di Milano 2011 può essere riconosciuto un risarcimento del donno biologico, incluso il danno morale nel danno patrimoniale, di euro 706.509,00).

4.2. Il ricorrente a ciò obietta che la quantificazione sarebbe ictu oculi del tutto eccessiva; che la quantificazione sarebbe stata  apoditticamente individuata nel grado di invalidità permanente del 70% di un soggetto di 11 anni secondo le tabelle del tribunale di Milano; che sarebbe assente la motivazione su come il Giudice sia pervenuto a ritenere un tale grado di invalidità; che dunque il Tribunale sarebbe partito da una premessa illogica per giungere ad una conclusione illogica; che il giudice avrebbe dovuto liquidare esclusivamente il danno morale per poi rimettere la valutazione del danno patrimoniale al giudice civile innanzi al quale le conseguenze del reato andavano rigorosamente provate; che alla determinazione equitativa del danno il giudice sarebbe giunto in mancanza di qualsiasi accertamento scientifico, medico o psicologico sui danni concreti subiti dalla minore.

4.3. Siccome la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da reato contro la libertà sessuale segue, ai fini della risarcibilità, i medesimi criteri validi per la liquidazione del danno patrimoniale e non patrimoniale in generale (articolo 185 c.p.), va precisato che, in caso di determinazione equitativa del danno morale cagionato dalla commissione di reati sessuali nei confronti di minori d’età il giudice deve tener conto dell’intensità della violazione della libertà morale e fisica nella sfera sessuale, del turbamento psichico cagionato e delle conseguenze sul piano psicologico individuale e dei rapporti intersoggettivi, degli effetti proiettati nel tempo nonchè dell’incidenza del fatto criminoso sulla personalità della vittima (Cass. civ., Sez. 3, 09/03/2011, n. 13686).

Sempre in materia di risarcimento del danno da atti sessuali commessi nei confronti di minori, è stato anche affermato che il giudice deve procedere ad una valutazione ponderale analitica che tenga conto del diverso peso dei beni della vita compromessi, e segnatamente della libertà e della dignità umana, pregiudicati da atti di corruzione posti in essere da un adulto con dolo ed in circostanze di minorata difesa, nonchè della salute psichica, gravemente pregiudicata in una fase fondamentale della crescita umana e della formazione del carattere e della disponibilità a relazionarsi nella vita sociale, non potendo attribuirsi a priori un maggior rilievo al danno biologico rispetto al danno morale, il quale non si configura esclusivamente come pretium doloris , ma anche come risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (Cass. civ., sez. 3, sent. 11/06/2009 n. 13530).

A tale scrutinio non si sono affatto sottratti i Giudici del merito e, nella liquidazione della somma per il risarcimento del danno conseguente dal reato sub iudice, il danno biologico, come componente di quello morale, non è stato (nè deve necessariamente essere) valutato in base ai parametri tabellari utilizzati dalla giurisprudenza civile, proprio perchè la natura non patrimoniale di questo tipo di danno consente di ricorrere anche a criteri equitativi.

Se poi è vero che il danno biologico consegue, di regola, ad una valutazione di tipo medico legale, trasfusa in una perizia o in una consulenza tecnica indicativa anche della percentuale di invalidità, è altrettanto vero che, qualora una valutazione del genere, pur in assenza di precisi indicatori della percentuale di invalidità, sia comunque acquisita agli atti sulla base, come nella specie, di accertamenti medici e psicologici, richiamati espressamente dal Giudice di merito nella motivazione della sentenza e in alcun modo censurati (v. sub 4.1. del considerato in diritto), sia l’inquadramento giuridico nelle varie categorie risarcibili che il parametro utilizzato per determinare, in via equitativa, la posta risarcitoria rientrano nei compiti attribuiti al giudice di merito.

Il ricorrente, a torto, postula che il danno patrimoniale e non patrimoniale sia stato liquidato secondo una percentuale di invalidità parametrata sul 70% e ricavata dalle tabelle adottate dal tribunale di Milano, tabella e parametro citati in sentenza a titolo meramente esemplificativo, ma se l’esito della liquidazione fosse nel senso censurato dal ricorrente, il Giudice avrebbe  dovuto rispettare quel parametro di riferimento assestandosi sulla determinazione di una somma prossima a 706.509,00 euro, laddove la liquidazione (equitativa) si è assestata sull’importo, facidiato della età, nettamente inferiore di 350.000,00 euro.

Del resto la devastante compromissione delle aspettative di vita futura della persona offesa dal punto vista psicofisico non è neppure trascurata, anzi espressamente considerata, dal ricorrente sicchè la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità perchè sorretta da congrua motivazione che, avuto riguardo all’età ed alla durata degli abusi, ha tenuto conto delle lesioni cagionate agli affetti, alle relazioni, alla serenità, allo sviluppo, alla crescita, alla sessualità della vittima.

E’ pacifico che la valutazione equitativa dei danni non patrimoniali e’ rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e non e’ sindacabile in sede di legittimita’, qualora abbia soddisfatto l’esigenza di ragionevole correlazione tra gravita’ effettiva del danno e ammontare dell’indennizzo, correlazione motivata attraverso i concreti elementi che possono concorrere al processo di formazione del libero convincimento (Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, Avenati ed altri, Rv. 235024).

Quanto poi al danno patrimoniale, e’ di tutta evidenza come al cospetto di una vittima dell’eta’ di 10 – 12 anni non sia possibile una determinazione di esso nel suo preciso ammontare, sicche’ trova applicazione, anche in siffatto caso, la valutazione equitativa del giudice (articoli 2056, 1223, 1226 c.c.) e tale valutazione si risolve in una quaestio facti, la quale non puo’ essere oggetto di censura in sede di controllo di legittimita’, a meno che non si contesti (ma non e’ questo il caso mancando qualsiasi specifica contestazione in proposito) la legittimita’ del ricorso al criterio equitativo.

Ne consegue l’infondatezza del motivo.

  1. E’ manifestamente infondato il quinto motivo di gravame.

Posto che e’ stata contestata un’unica circostanza aggravante (articolo 61 c.p., n. 11) elisa per effetto del giudizio di comparazione con le concesse attenuanti generiche, stimate equivalenti all’aggravante contestata, va precisato che l’approfitta mento della relazione domestica da parte dell’imputato radica indubbiamente la sussistenza dell’aggravante in considerazione della stabile presenza dell’agente nella dimora familiare, essendosi l’agente stesso avvantaggiato del rapporto di convivenza con la madre della minore abusata e ponendo in essere atti lesivi della sfera sessuale della minore stessa, configurando cio’ l’aggravante dell’abuso di relazioni domestiche.

Quanto alla doglianza in punto di commisurazione della pena, la Corte territoriale ha precisato come il G.U.P., nelle operazioni di calcolo, sia partito dalla pena di anni otto di reclusione (articolo 609 bis c.p.), aumentata ex articolo 81 cpv. c.p. di tre anni di reclusione e quindi ridotta per il rito ad anni sette mesi quattro di reclusione, evidenziandone la congruita’ sul rilievo che i palpeggiamenti sono avvenuti in ambito domestico-familiare e che i rapporti sessuali completi si sono verificati nel contesto di un distorto rapporto sentimentale tra una bambina di 10-11 anni ed un adulto di 34-35 anni per di piu’ compagno della madre della bambina e dalla bambina percepito anche quale figura potenzialmente paterna, con la conseguente pesante lesione del rapporto di fiducia avendo i fatti criminosi prodotto danni psichici incalcolabili ma comunque gravissimi sicche’, pur considerando la resipiscenza post delictum del ricorrente, tali circostanze hanno indotto la Corte del merito a ritenere congrua sia la pena base (otto anni) e sia l’aumento per la continuazione (tre anni).

Al cospetto di un apparato motivazionale logicamente ed adeguatamente motivato, la censura sulla dosimetria della pena sfugge al sindacato di legittimita’ avendo il giudice del merito fatto corretto uso del potere discrezionale conferitogli dagli articoli 132 e 133 c.p..

Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52, in quanto imposto dalla legge.