Il dettato amoroso di Edmund Spenser

di Andrea Galgano                                         20 ottobre 2013

Poesia moderna

pdf 96 (23) 20 10 2013 IL DETTATO AMOROSO DI EDMUND SPENSER

edspenser

 

 

 

 

 

 

 

Edmund Spenser (1552-1599) rappresenta una traccia ambiziosa nell’epoca elisabettiana. Di lui si è detto che fosse “il nuovo poeta” o “il poeta dei poeti”, secondo le definizioni di epoca romantica, ma, sicuramente, fu colui che meglio incarnò lo spirito della sua epoca e che riuscì a fondere le diverse anime della letteratura a lui coeva, nell’alto esempio di scrittura, nel fitto fondo petrarchesco e nel suo discorso d’amore che si attesta sulle prossimità ultime.

Nonostante la controversa, per molti aspetti, carriera politica, segnata dalla fedeltà al trono d’Inghilterra e dalla vicinanza a lord Arthur Gray, responsabile dell’eccidio di seimila cattolici, la sua vocazione fu preminentemente poetica, al servizio della forma e dell’espressione. Essere “poeta dei poeti” significa percorrere non solo la tradizione (Chaucer e le sue possibilità dialogiche, oltre che Petrarca), ma anche definire la soglia di visione di autori che a lui e alle sue famose stanze (un’ottava ariostesca con un alessandrino finale) hanno guardato, come Keats, Shelley, Byron, fino a Tennyson.

La sua Faerie Queene rappresenta la prima visione epica che l’Inghilterra abbia avuto, come programmatica, visionaria e irriducibile celebrazione della Vergine che veglia sull’Impero britannico, e un omaggio eroico alla Corona sulla scorta dell’Eneide. «è un poema cavalleresco», scrive Luca Manini, perché i suoi protagonisti sono cavalieri erranti che si muovono in un territorio indefinito, a tratti coincidente con l’antica Bretagna, e in cui il tempo e lo spazio rispondono a istanze fantastiche».

Doveva includere dodici libri, ma ne riuscì a scrivere solo sei e un settimo incompiuto. Dodici come le virtù aristoteliche (Santità, Temperanza, Castità, Amicizia, Giustizia, Cortesia), canonizzate cristianamente da San Tommaso d’Aquino. Ogni libro è suddiviso in dodici canti e, recuperando l’impianto virgiliano attraverso l’exemplum e l’iniziazione di un gentiluomo alla gentile disciplina, testimonia l’ascensione al trono della regina. Protagoniste, pertanto sono, una principessa cristiana che si chiama Una e la sua avversaria, Duessa. Attorno a loro una schiera di più di duecento personaggi, sotto il comando, da una parte del negromante Arcimago e dall’altra, del Cavaliere della Rossa Croce che affronta e sconfigge Errore, dalle cui viscere oltre a «rane ributtanti e rospi senza occhi», contiene anche libri e documenti. In alto, la regina Gloriana, sovrana di virtù e specchio morale, che abita nella Terra Fatata e che si aggira nel poema come una sorta di sfondo menzionato in dissolvenza.

E, infatti, lo scopo del poema, come scrive Spenser, è quello di «formare un gentiluomo o una persona nobile nella disciplina della virtù», come forma in divenire, come erranza di un mondo caduto inafferrabile e ininterpretabile, come, ad esempio, avviene nell’immagine di Arthegall: «E subito le fu porto allo sguardo un bel cavaliere, armato di tutto punto, con la scintillante visiera sollevata, sotto la quale appariva un volto virile, che faceva tremare i nemici e invitava gli amici a stringere con lui tranquille tregue; era pari al volto di Febo quando questi, ad oriente, si leva tra due ombrose montagne; era pieno di dignità nella persona, e ancor di più lo pareva per la grazia eroica e il portamento fiero. Sul cimiero aveva un segugio accucciato, e l’armatura sembrava di foggia antica, straordinariamente solida e massiccia, tutta tempestata d’oro; v’era scritto, in lettere antiche: Le armi di Achille che Arthegall a sé vinse. Sullo scudo dai sette strati portava un piccolo ermellino incoronato, che, con la candida pelliccia, risaltava sul campo azzurro».

La descrizione delle scene, filtrate attraverso la finzione storica e il riflesso, come in questo caso, porta al dettato poetico una struttura armonica e musicale di realtà e di ombra, che fa di quest’opera un grande orizzonte epico, in un flusso senza fine e in una prospettiva di meraviglia e varietà. Basti pensare alle storie meravigliose di Belfebe e di Amoretta, all’amore di Florimell per Marinell o ancora al matrimonio del Tamigi e del Medway.

Afferma Thomas P. Roche, jr: «è mia congettura che Spenser vide nelle oscillazioni della storia tra Elisabetta e Leicester la possibilità di un poema epico inglese che ancora non era stato scritto, con Elisabetta come Gloriana e Leicester come Artù. Sarebbe stata un’ottima mossa politica ed economica, e sarebbe stato completato prima che Elisabetta e Leicester fossero regina e re. Ma, naturalmente, le cose non andarono così».

Il passato mitico e il presente tendono ad unirsi in una unità fiabesca che mira a una funzione storica, per accreditare la piena veridicità della vicenda arturiana. Gli autori che lo hanno preceduto condensano, nella loro arte, la storia e la via di Spenser, attraverso le deviazioni, e il complesso impianto strutturale, il gesto sovraccarico di emblemi e arazzi, si spinge alla creazione di un poema cavalleresco, in cui i cavalieri, britannici e fatati, abitano il tempo irreale e immaginifico dello spazio, come epica trasmutata, percussione eroica e cristiana e lotta.

Scrive Luca Manini: «Spenser è l’osservatore consapevole della varietà infinita delle vicende umane, della natura come inesausta generatrice, del passaggio inevitabile, e irrefrenabile, dalla generazione al decadimento e alla sparizione; è il poeta della transitorietà delle umane cose, delle virgiliane lacrimae rerum, dell’incerto confine tra essere e apparire, della maschera e della metamorfosi; è l’artista sorretto da un mai esaurito anelito alla stabilità delle cose, stabilità impossibile qui, sulla terra,e possibile solo in una dimensione ultraterrena; e se passiamo a chiederci cosa affascinò Spenser nei poemi di Ariosto e Tasso, dobbiamo dare risposte diverse […]».

Il finto disordine ariostesco, se da un lato non permette una unidirezionalità di visione, dall’altro impone una netta partecipazione alla creaturalità, al suo limite indicibile, all’inseguimento del suo compimento e allo spostamento della piena realizzazione della sua sfuggente e inafferrabile felicità.

La precarietà umana abita il mondo ariostesco come tematica di rapporto e acuto stridore di stabilità, dai comportamenti, ai gesti, ai codici, fino alla frattura e al contrasto dell’ideale e perfetto mondo cavalleresco e la realtà mutevole del presente.

Il pieno ordine tassiano richiamava, invece, alla «storia della nascita dell’unità» (specie nel rapporto conflittuale tra l’Uno, Sommo Bene, e la mutevolezza del creato, in Spenser quasi una ferita), alla discreta ed evidente linea narrativa, con le strutture logiche, teleologiche e, non ultime, teologiche, la coincidentia oppositorum, e la fede come riconoscimento di una presenza che svela e “fa” il mondo: il Cavaliere della Rossa Croce (san Giorgio d’Inghilterra) che, come Goffredo combatte per liberare Gerusalemme, si muove per liberare la terra di Una da un drago demoniaco, finendo, dopo incidenti erranze, per liberare i genitori di Una o Sir Guyon che tenta di distruggere il Giardino del Piacere, quasi alciniano archetipo di Circe, dove vive Acrasia, la maga lussuriosa contenuta nel fato potente della sua bellezza e simbolo dell’intemperanza o Arthegall che libera il regno di Irena dal gigante Grantorto, compongono il sentiero di una redenta e finale meta, approdo che disegna ed è funzionale al disegno simbolico, narrativo ed allegorico del poema.

L’allegoria continua che permane, come accostamento di temi e di stile, e la volontà di rendere esemplare ogni episodio, invita il lettore a prender coscienza di un atto poetico che possa formare, educare e infine scuotere nell’intimo: «Io sono l’uomo la cui Musa, un tempo, indossò, come il momento le dettava, le umili vesti di un pastore, e al quale ora è imposto un compito che non sento mio: mutare le zampogne in trombe severe e cantare le nobili gesta di cavalieri e dame; troppo a lungo, nel silenzio, ha dormito la loro fama, e ora la sacra Musa invita me, che non ne sono degno, a diffonderla tra i suoi seguaci; guerre feroci e fedeli amori saranno materia e esempio del mio canto».

Commenta Manini: «Come in Ariosto, Spenser unisce le lezioni marziali del ciclo carolingio con l’amore del ciclo arturiano, ma egli qualifica gli amori di cui canterà con l’aggettivo “fedeli”,e, nel nono verso che aggiunge all’ottava italiana, usa il verbo moralize, ovvero rendere morale ed esemplare le storie che narrerà, introducendo un piano assente in Ariosto, e sottolineando la propria volontà di trasmettere, mediante la composizione del poema, un messaggio chiaramente diretto all’educazione del lettore».

L’erranza dei cavalieri, i quali deviano la loro rotta in spazi angusti e labirintici (foreste, imi, caverne, spelonche) e vittime di peccati ed errori, tende sempre a una finale ricostituzione unitaria e singola di redenzione ed elezione, in una lotta strenua ed estrema che unisce integrità fisica e integrità morale.

Nel canto III del libro VI, il protagonista Calidore, modello di cortesia, finisce per trovarsi in un luogo pastorale, deviando dal suo compito che è quello di distruggere la Bestia Berciante (Blatant Beast), vera allegoria della calunnia, che un giorno si libererà, pervertendo di nuovo la verità, creando, nuovamente, disordine, disomogeneità e degenerazione. Nella contrapposizione e caratterizzazione positive e negative di vita attiva e contemplativa, egli si arrampica sul monte Acidale, sacro a Venere, dove assiste, non visto, alla danza delle ninfe accompagnate dal pifferaio Colin Clout, (controfigura e alter ego di Spenser). Appena uscito dal nascondiglio, Calidore interrompe l’incantesimo, mettendo in fuga le damigelle.

Colina dice all’eroe che le tre donne che compongono il cerchio, circondate dalle fanciulle, sono le tre Grazie, le quali porgono doni per il corpo e la mente (offrire, accettare e infine restituire i benefici), mentre la donna al centro del cerchio simboleggia l’Amore, in una sorta di quadratura armonica e cosmica, richiamata dalla poesia. Ecco la trama di Spenser che riluce nei contrasti: il dicibile e l’indicibile, l’informe o il difforme che alla forma piena, lo smisurato alla contorsione malvagia.

L’uomo ha il compito, pertanto, di leggere il mondo, osservarlo, guardarlo, indagarlo e rivelando la propria lettura, può giudicarlo. Ogni evento, stratificato e complesso, ama svelarsi in una fantasia data, impastata con il reale, fucinata in forme sempre nuove.

In Spenser, sembra non affermarsi l’ironia ariostesca, anzi, la precisa linearità della sua espressione conferisce una serietà continuata e dottrinaria e una moralizzazione estesa.

La sequela ad Ariosto e Tasso permette di affermare, con maggiore vigoria, l’impeto dell’ambiguità immaginifica. L’immagine è lo specchio della sua anima, apparentemente artificiosa, ma intimo richiamo e sentiero di una tensione che non si risolve nel concetto, ma lo amplia e lo fa vivere, mettendosi al suo servizio, come colore della parola e delizia di stanza, evocatrici di emblemi e simboli. L’inganno di Duessa ai danni del Cavaliere della Rossa Croce si incastona in un groviglio di dubbi, spiriti e false immagini, come quando egli si imbatte in un albero nel quale vive lo spirito di Fradubbio, il quale narra del suo abbaglio dinanzi all’apparenza splendente della maga e di come lei lo abbia poi tramutato in albero, dopo essersi reso conto della verità. Il cavaliere segue il racconto di Fradubbio e Duessa, come signum della sua erranza cieca, del suo asservimento sensuale e della mancata distinzione, mescolata e non cosciente, tra falso e reale, dal momento in cui egli ha abbandonato Una, la Verità, e si è abbandonato ai piaceri di una donna duplice.

Ma la salvezza non appartiene alla singola volontà dei personaggi, bensì a qualcosa di superiore che è in grado di ridare vita e fortezza di spirito, come purificazione redentrice e nuovo battesimo.

In aggiunta alla formidabile proliferazione di vicende e intrico di personaggi fanno la loro comparsa i Mutability Cantos (1609), i canti della fuggevole e negativa Mutevolezza «che esige d’esser sovrana degli dei e degli uomini», ma alla quale non appartiene la consistenza ontologica, costretta ad appoggiarsi al suo contrario come presupposto.

Luca Manini, facendo riferimento al passaggio della Mutevolezza e all’episodio di Una che cavalca assieme al cavaliere della Rossa Croce (Asinus portans mysteria), scorge una stretta vicinanza alla Cabala del cavallo pegaseo di Giordano Bruno e afferma che però: «Al di là di queste suggestioni, però, ampio resta il divario tra la visione cosmologica e teleologica di Bruno e di Spenser, né Spenser avrebbe potuto fare propria l’idea di una natura e di un universo che fossero uno e infinito; per lui, la visione del mondo naturale della caducità e della peribilità si accompagna alla credenza di un perfetto e immobile (e distinto) mondo divino, meta finale dell’uomo».

Nel transito e nelle soste dei canti, Spenser compone la sua umanità in cerca di verità. Mai arresa impara a convivere con il limite, la caduta, il peccato e l’errore, ridisegnando, nella prospettiva del mondo incaduto, la sua coltre immobile che sosta, in una eterna attesa e promessa, fino alla visione dell’eterno bene.

Gli Amoretti, una raccolta di 89 sonetti dedicati a Elizabeth Boyle sua seconda moglie, rappresentano un canzoniere cristallino e netto allo stesso tempo, che vive di giustapposizioni ed echi precisi, non solo nella dicitura del nome Elizabeth, facilmente sovrapponibile, ma anche nella ipostasi amorosa, vista nella parabola non finita e cadenzata del ritmo delle stagioni.

Il dettato amoroso di Spenser, tende ad allontanarsi dalla secreta ironia di Astrophil and Stella di Sidney, giungendo, attraverso i suoi cupidi verbali, a una liquidità armonica e corposa, attraverso un personale intreccio di sostanza vissuta e trama del mondo («the lesson that the Lord us taught») e fusione di agape ed eros.

La caducità delle cose non tocca l’amore e la fama, perché esse sembrano proporre una meta immortale ed infinita. L’amore che guarda l’intensità del suo teatro, che nella sua innata fragilità sospesa, come l’arte, si fa terreno quando aspira al cielo, come unione acuta e imperitura.

Elizabeth rappresenta l’esito di una fusione ideale e carnale, come Stella polare di una firmamento acceso, in cui egli «parla di lei non a lei» (Giorgio Melchiori) e molto vicina all’eco del Cantico dei Cantici, si appropria del passaggio sensuale della verità, come fulgore e risveglio del tempo: «Venendo a baciare le sue labbra (tale grazia ho trovato) / mi sembrava di sentire l’odore di un giardino di dolci fiori».

Il suo io vive attraverso la voce dell’amata, in un dialogo di anime che si impregnano del verso fluido e armonioso dell’esistenza, come incanto e la delizia, marriage poem che abbraccia la realtà e che passa nella cruna del frammento e della riconciliazione. L’io si salva perché ama e anticipa l’eternità, con il suo movimento di archi sottesi: «Io scrissi, un giorno, il suo nome sulla spiaggia / ma vennero le onde a cancellarlo; / lo scrissi di nuovo, con l’altra mano; / ma vanne la marea a depredare le mie fatiche. “Uomo sciocco – mi disse Lei – che tenti invano / d’immortalare una cosa mortale: / poiché io stessa perirò allo stesso modo, / e persino il mio nome sarà cancellato”. “No – risposi – lascia che siano le cose meschine / a morire e farsi polvere; tu che invece vivrai nella gloria: / i miei versi terneranno le tue rare virtù / e scriveranno nei cieli il tuo nome glorioso. / E nei cieli, mentre la morte abbatterà il mondo intero, / vivrà il nostro amore, rinnovano un’altra vita».

Il canzoniere ha calma torrenziale e intimo prodigio. Conosce la bellezza sovrana e la rapsodia delle figure, la pace e la pena di un unico sospiro, di un unico bisbiglio donato alle porte del tempo.

 

spenser e., La regina delle fate, a cura di Luca Mainini, Bompiani, Milano 2012.

id., Amoretti, La Vita Felice, Milano 2003.

bertinetti p., Storia della Letteratura inglese. Dalle origini al Settecento, vol.I, Einaudi, Torino 2000.

manini l., Dal caos al cosmos: il canzoniere di Edmund Spenser, Bulzoni, Roma 2006.

© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P. IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta®

www.polopsicodinamiche.com  www.polimniaprofessioni.com

Andrea Galgano 20-10-2013 Il dettato amoroso di Edmund Spenser

Nozione e tipologie di stalking: da una recente sentenza della Corte di Cassazione

stalking_162532di Emanuele Mascolo   18 ottobre 2013

Lo stalking, ovvero gli atti persecutori di un soggetto verso altri, che causano la compromissione della vita quotidiana, sono penalmente rilevanti nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 612bis, c.p.

Questo reato è stato con D.L. 23/02/2009, n.11, convertito in L. 23 aprile 23/04/2009, n. 38.

La littera legis dell’art. 612bis, c.p., è la seguente: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico ovvero da determinare un giustificato timore per la sicurezza personale propria o di una persona vicina o comunque da pregiudicare in maniera rilevante il suo modo di vivere, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione da sei mesi a quattro anni”.

Ma quante tipologie di stalking ci sono?

In base ad una statistica comportamentale dello stolker possiamo distinguere:

1)                 il “risentito“: si tratta di solito di un ex-partner che desidera vendicarsi per la rottura della relazione sentimentale causata, a suo avviso, da motivi ingiusti;

2)                 il “bisognoso d’affetto”: agisce soprattutto nell’ambito di rapporti professionali particolarmente stretti come quello tra il paziente e lo psicoterapeuta. In questi casi i molestatori fraintendono l’empatia e l’offerta di aiuto come segno di un interesse sentimentale. Spesso il rifiuto dell’altro viene negato e reinterpretato sviluppando la convinzione che egli abbia bisogno di superare qualche difficoltà psicologica o concreta e che prima o poi riconoscerà l’inevitabilità del rapporto amoroso proposto;

3)                 è il “corteggiatore incompetente” che manifesta una condotta basata su una scarsa abilità relazionale e si traduce in comportamenti opprimenti ed esplicitamente invadenti.;

4)                 il “respinto” che manifesta comportamenti persecutori in reazione ad un rifiuto. Questo tipo di stalker è ambivalente perché oscilla tra due desideri contrapposti: da una parte desidera ristabilire la relazione mentre dall’altra vuole solo vendicarsi per l’abbandono subito.

5)                 il “predatore” è uno stalker  che ambisce ad avere rapporti sessuali con una vittima che può essere pedinata, inseguita e spaventata. La paura, infatti, eccita questo tipo di molestatore che prova un senso di potere nel pianificare la caccia alla “preda”. Questo genere di stalking può colpire anche bambini e può essere agito anche da persone con disturbi psicopatologici di tipo sessuale come pedofili o feticisti.

Il reato previsto dall’art. 612bis del codice penale viene punito a querela della persona offesa, con termine per la proposizione della querela di 6 mesi. Può, tuttavia, procedersi d’ufficio, quando il fatto viene commesso nei confronti di un minore di età oppure di una persona con disabilità (L. n. 104/1992) nonché quando il fatto viene connesso con altro delitto per cui debba procedersi d’ufficio.

È, altresì, procedibile d’ufficio quando il soggetto sia stato ammonito ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 8 del D.L. n. 11/2009, convertito in L. n. 38/2009, secondo cui fino a quando non viene proposta querela per il reato di stalking la persona offesa ha facoltà di esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta.

Affinchè sussista lo stolking, il soggetto che mette in atto tali condotte (detto stalker) deve farlo in modo ripetuto, – chiunque reiteratamente – sostiene la norma, ciò però secondo la Giurisprudenza ormai consolidata, non coincide necessariamente con l’abitudine a compiere determinati atti e quindi l’abitualità non sempre configura la reiterazione del reato.

Infatti, una recente sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V penale, n. 20993/2013 sostiene che si deve “ intendere per alterazione delle proprie abitudini di vita, ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana, indotto nella vittima, come nel caso in esame, dalla condotta persecutoria altrui (quali la utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni et similia), finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore. Trattandosi di reato abituale di evento, è sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo il dolo generico, quindi la volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l’integrazione della fattispecie legale e delle conseguenze che ne sono derivate sullo stile di vita della persona offesa.

Invece, come affermato da una dottrina condivisibile non occorre una rappresentazione anticipata del risultato finale, ma, piuttosto, la costante consapevolezza, nello sviluppo progressivo della situazione, dei precedenti attacchi e dell’apporto che ciascuno di essi arreca all’interesse protetto, insita nella perdurante aggressione da parte del ricorrente della sfera privata della persona offesa.

Lo stalking è punito anche se commesso tramite i mezzi di comunicazione all’avanguardia come sms,email, facebook: sono i così detti cyberstalking. Se tali attività comportano una molestia rientrano nella fattispecie dell’art. 612bis c.p.

21b9693e-2f1b-43a9-b65a-a9e7bf10ee05

Lo stalking si configura anche in caso di reciproche moleste tra vittima e reo.

7 gennaio 2013

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 45648 del 14 novembre 2013, rifacendosi ad un precedente giurisprudenziale, ha chiarito come “ la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tale ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita.”

Inoltre ha chiarito che,  alla base di tale decisione milita la considerazione che il reato di cui si discute prevede eventi alternativi la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo: deve trattarsi di un comportamento reiteratamente minaccioso o, comunque, molesto dell’agente dal quale derivi per il destinatario della molestia o minaccia (reiterata), quale ulteriore evento dannoso, un perdurante stato d’ansia o di paura, oppure un fondato timore dello stesso per l’incolumità propria o di soggetti vicini, oppure, ancora, il mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. Ciò comporta la necessità di una indagine approfondita volta ad accertare in quali termini tali condotte “persecutorie” vengano poste in essere ed in quale contesto esse originino e si sviluppino: di guisa che se tali condotte maturino in un ambito di litigiosità tra due soggetti che evoca una posizione di sostanziale parità, non può parlarsi di condotta persecutoria nei termini richiesti dalla fattispecie astratta la quale si riferisce invece ad una posizione sbilanciata della vittima rispetto all’autore dei comportamenti intimidatori o vessatori.

Il termine reciprocità – secondo la Corte di Cassazione -, non vale, dunque, ad escludere in radice la possibilità della rilevanza penale delle condotte come persecutorie ex art. 612 bis c.p., occorrendo che venga valutato con maggiore attenzione ed oculatezza, quale conseguenza del comportamento di ciascuno, lo stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, o il suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a lei vicine o la necessità del mutamento delle abitudini di vita. Deve, in ultima analisi, verificarsi se, nel caso della reciprocità degli atti minacciosi, vi sia una posizione di ingiustificata predominanza di uno dei due contendenti, tale da consentire di qualificarne le iniziative minacciose e moleste come atti di natura persecutoria e le reazioni della vittima come esplicazione di un meccanismo di difesa volto a sopraffare la paura. Né può dirsi che la reazione della vittima comporti, comunque, l’assenza dell’evento richiesto dalla norma incriminatrice, non potendosi accettare l’idea di una vittima inerme alla merce del suo molestatore ed incapace di reagire. Anzi non è neanche da escludere che una situazione di stress o ansia possa generare reazioni incontrollate della vittima anche nei riguardi del proprio aggressore. Il reato in parola si configura come reato di evento in contrapposizione al reato di minaccia di cui all’art. 612 cod. pen. qualificato come reato di pericolo, pur costituendo la minaccia elemento costitutivo comune ad entrambe le fattispecie.”