Il gesto in piena di Cy Twombly

di Irene Battaglini

Prato, 30 settembre 2013

Cy Twombly

 

«Art is the triumph over chaos». John Cheever,  The Stories of John Cheever (1978)

articolo in pdf  IL GESTO IN PIENA DI CY TWOMBLY

 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 2The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 3The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

The Four Seasons, Spring, Summer, Autumn and Winter, 1993-1994, Cy Twombly 4

The Four Seasons: Spring, Summer, Autumn, and Winter. 1993-94, Synthetic polymer paint, oil, house paint, pencil and crayon on four canvases

L’arte di Cy Twombly è un grido sull’America. Un richiamo di sangue e di cieli densi di fiori che si rompono in un boato crespo di farfalle contaminate. La sua pittura è un fiotto che rompe gli argini dell’armonia, è un soffio che imprime voli per mete non raggiunte, non possibili. La pittura di Twombly (Virginia, 1928-Italia 2011), esprime il fallimento delle utopie moderniste. Illeggibile, incoerente, improbabile. Eppure è vera e bellissima. Bisogna capire come sia stato possibile creare questa unione violenta e irreversibile, come un aereo in velocissima precipitazione che prende fuoco sulla coda, e nell’atto di avvolgersi su di sé diventa una stella cometa. Quadri di una straordinaria epifania cromatica, di luce che esplode. In cui segni, colori e forme sono gli strumenti dell’agrimensore in un pianeta desertico di cui scongiura l’imminente deflagrazione. Sono il canto e la preghiera di un ultimo uomo verso Dio i cui occhi, che per dirla con McCarthy, un altro americano dignitario della più alta contemporaneità, «tradivano non disperazione, ma soltanto quell’insondabile, profonda solitudine che è l’impronta più tipica di questo mondo». (da Oltre il confine)

Tutta l’arte di Cy Twombly (pittore, incisore, disegnatore, scultore) è notte inoltrata che deflagra nell’aurora, è il “linguaggio dimenticato” di Erich Fromm su una lavagna stridente, è ardesia che si sbriciola a creare forme improbabili, è gemmazione di scarabocchi di luce bruciante dalle forme svelte, come le braccia di un nuotatore esperto che farfugliano nell’abisso e che nell’inconscio tumulto non smarriscono – nello smarrirsi – l’eleganza di quanto hanno appreso.

Il “quadro” deciso da Cy Twombly è una forma concreta di non-pittura, è una decisione spasmodica di andare verso la crisi linguistica e di immergersi in questo spasmo come all’imbocco della neoplasia che ha corroso velocemente l’universo percettivo del cui declino siamo attori, costretti alla visione monoculare della realtà dell’emarginazione o alla confusione conglobante e regressiva dei social-network. È una pittura di voci che si affollano ad un crocevia, dove è obbligato a stare l’artista contemporaneo che deve organizzare e riorganizzare continuamente immagini, metafore e rappresentazioni nella stanza della propria coscienza, che si affligge del proprio paradosso esistenziale, per dover essere nello stesso tempo figlio e dio, creatura e creatore.

Cy Twombly sembra aderire, per far fronte allo stress della devastante mitologia unilaterale del mondo contemporaneo, ad una tradizione “anticreativa”, come se il suo atelier fosse una prestigiosa accademia in cui lo scranno più alto è perennemente disabitato. La sua originalità è così potente che deve per forza nascondersi a se stesso, per capire qualche cosa della sua stessa talentuosa e indisciplinata arte del segno. La tecnica che lo vuole maestro nello sfocare la linea del contorno dal disegno è l’espressione di una strategia di attacco ai fianchi dell’ortodossia, è un modo per dire che l’infante è più indipendente del dio e più arrogante, più violento, più demoniaco. Del resto, il desiderio di unione deve essere spostato in una fuga in avanti verso la dimora della perfezione, verso la quale il puer muove con incessanti cadute e inappagato desiderio.

La proiezione sul futuro, su quello che sarebbe stato un disegno di Cy Twombly se egli ci avesse donato le forme belle del suo immane talento pittorico a detrimento della sua scelta di uomo autentico che decide di farsi scenario del mito della luce del mondo post-industriale, comincia già a costellarsi nel controverso ambiente del ventre materno dell’espressionismo, in cui nascono le sue prime opere, non in ordine ad una casualità, ma ad un divenire in prospettiva mitica del dramma della propria vita lacerata in cui segno e disegno, contorno e ombra, sono scissi eppure appaiati in un affiancamento in cui sembrano alloggiare danzatori solitari. Dice Adolf Guggenbühl-Craig nel libro Il bene del male. Paradossi del senso comune (Moretti&Vitali, 1998, pp. 27 e 28):

«Abbiamo [quindi] a che fare con due tradizioni: da un lato la creatività viene fatta oggetto di ammirazione, dall’altra essa viene ritenuta un attributo esclusivo di Dio e, per quanto riguarda gli uomini, la si considera soltanto una forma di hybris, di tracotanza. Sia quel che sia, con la creatività noi giungiamo faccia a faccia con Dio. E che cosa succede con l’indipedenza? Sicuramente possiamo ritenere che l’unico essere davvero indipendente in questo mondo sia Dio. Per definizione Dio è indipendente da tutto e da tutti, e tutto è dipendente da lui. Egli è l’inizio e la fine, alfa e omega del creato; […]. Noi stessi cerchiamo di raggiungere questo tipo di divinità, cadiamo vittima del complesso di Dio».

La prospettiva mitica fu, per Twombly, forza e sembianza, significato e bellezza. Il pittore amava nutrirsene, e fare dei suoi disegni “veicoli per contenuti letterari”,[i] dai quali cercava di liberare le figure.

L’opera di Twombly, se fosse tutta ordinata su piani paralleli, mostrerebbe una morfologia simile ad una stratificazione geologica intra-psichica in cui sembrano essersi fissati i marcatori del processo alchemico. Gli esordi, agli inizi degli anni ’50, sono connotati dall’influenza di Kline e Paul Klee, e sono prevalentemente pennellate gestuali-espressioniste, in un originale e morbido intreccio di tratti, parole, numeri e porzioni (“frazioni”) di oggetti. È molto attratto dall’Italia, dove si stabilisce definitivamente nel 1960, anno in cui allestisce la prima mostra alla Galleria di Leo Castelli.

Leda and the Swan, 1962, Cy TwomblyGli anni ’60 sono caratterizzati dai cosiddetti “Quadri della Lavagna”, opere di grande dimensioni in cui usava la tecnica calligrafica dei graffiti su sfondi solidi di colore grigio, marrone o bianco (una tecnica a metà tra la pittura e l’incisione), in cui la scrittura viene svestita del suo ruolo comunicativo e trasferita nel campo semantico del gesto, fino a costellare appieno l’action painting, ricco di citazioni come Leda e il cigno (1962, fig.1) o la famosa battaglia di Lepanto. In questo periodo, che è estremamente proficuo, comincia a creare le sue prime sculture astratte, le quali, sebbene varie nella forma e nel materiale, erano sempre ricoperte di pittura bianca. Twombly utilizzerà (e sarà scultore di quest’arte povera per tutta la vita) materiale preso a prestito dal fabbro, dal maniscalco, dal falegname, per dare altezza a forme semplici dalla struttura assemblata, a ricordare l’arte dei mastri antichi nel forgiare gli strumenti del lavoro: un omaggio alle cose, che si liberano della condizione di oggetti utili (come le lettere e la parola scritta) per diventare il simbolo del proprio servilismo: l’oggetto svilito dalla sua destinazione strumentale diventa un soggetto di bellezza silenziosa e perenne, come  in un processo di mummificazione, in cui gesso, vernice, legno, cartone, metallo, carta, stoffa, spago, matite, diventano elementi del lavoro manuale che, ricoperti di vernice bianca e opaca, subiscono l’ultimo trattamento immortale.

Nella metà degli anni ’70 Twombly realizza opere “multistrato”, vere e proprie creature che rappresentano la piena realizzazione del suo repertorio anticonvenzionale, costruite assemblando il collage di fogli ad altri media pittorici.

Gli spazi “vuoti” sono il collante necessario al dipanarsi di una creatività splendente, che attinge spietatamente alla linguistica, piratandone i sistemi di base. Il segno diventa “lemma” e spesso è contratto in un calco filologico: come se un bambino geniale avesse la capacità improvvisa di comunicare attraverso un linguaggio in cui verbo e immagine convergono in una bocca vulcanica fatta di meraviglie e di delicatezze, che vengono alla luce con estrema cura, a  volte con riferimenti geografici, come la serie dei quadri Bolsena (il lago vulcanico vicino a Viterbo).

Apollodoro from the portfolio Six Latin Writers and Poets, 1976-76, Cy TwomblyIn questi lavori, gli elementi grafici si fondono con forza tecnica sempre più rilevante in una sorta di dissoluzione vorticosa, di totale imprendibilità, ma sono talvolta caratterizzati da un nitore fantasmatico, come una sorta di alfabeto decifrabile dalla perizia di pochi eletti, come ad esempio in Apollodoro, (fig. 2), fino a raggiungere negli anni ’90 l’acme estetico di eleganti esemplari floreali che in qualche modo lo ricongiungono, in una sorta di re-unione con il principio, ai Fauve che ne connotarono gli inizi del percorso mezzo secolo prima, nel periodo americano, in cui fu della scuola dei grandi Robert Rauschenberg e Jasper Johns.

Un esempio folgorante è quello delle Quattro Stagioni, giganteschi pannelli che sembrano dimorare tra lo spazio scenico e quello architettonico, in una sorta di danza dei colori che si raccordano in chiazze in perenne tentativo di scendere verso il basso, trattenute contro la tela da invisibili fili, come mani che tentano di mitigare l’urlo di una dea di bellezza arcaica, maestra delle pitture rupestri.

L’ interno delle tavole è carico di una fortissima tensione, di una conflittualità invadente e di una cripticità linguistica che rimanda alla costante alternanza tra violenza e silenzio, tra sessualità e gioco, tra luce e fondale, in un rapporto emotivamente coinvolgente con lo spettatore: al quale non è difficile desiderare di balzare dentro il quadro e affondare gli occhi in quel coacervo di colore.

I fiori sono, in alcuni lavori, vere e proprie esplosioni e non è un caso se appartengono all’ultima parte del viaggio pittorico di Twombly. Artista ricchissimo e avido, così viene descritto, non fu mai collocato dalla critica americana nella Pop Art; questa sua ostinata originalità stilistica fu la sua fortuna: i suoi quadri sono valutati milioni di dollari e ambiti dai maggiori galleristi.

Non essendo “schematico”, si può solo ripercorrere a ritroso il suo progetto e intercettarne alcune coordinate, con una visione dall’interno, che sembra l’unica via percorribile, proprio come farebbe quello spettatore curioso e invadente. E tornando a quel processo alchemico stigmatizzato nella geologia delle opere, non è difficile individuare un alternarsi di strati di bianco, di rosso, di nero. La qualità dinamica dell’opera di Twombly si interseca con quella statica di depositaria del messaggio, è quindi un’opera magistrale che separa l’oro dal fango, e aggiunge un’aura di mistero e di sapienza, per quella inusuale competenza del maestro a rendere coscienti e ricchi sia il nero che il rosso l’uno dell’altro, stretti al confine tra il simbolico e l’astratto, uniti dall’invisibile catena dell’espressione del colore in piena luce, che sembra poter dire tutto, ma che di fatto rimanda sempre ad altro in un infinito specchio di rappresentazioni.

La catalogazione in “espressionismo”, infatti, è sempre relativizzante, perché non fa altro che dire continuamente che sotto l’espressione c’è una volontà di manifestare, di dire, di esprimere. Il messaggio “espresso” da Twombly è ancora totalmente indecifrato. Un’idea, un desiderio, di destituire il mito restituendo al sogno gli eroi e le anfore di un tempo passato.


 

 

 

Lo spasmo di Alexandr Blok

di Andrea Galgano                                         26 settembre 2013

Poesia Contemporanea

pdf Lo spasmo di  Alexandr Blok

blok 2

 

 

 

 

 

 

«Aleksàndr Aleksàandrovič Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti» (Angelo M. Ripellino).

La poesia di Alexandr Blok (1880-1921) è uno spasmo sottile di confine, come un sisma che si impossessa dell’aura mistica e della profezia. La smania che condensa gli anni febbrili di San Pietroburgo attesta, sin da subito, la sua fascinazione, come avverrà ne i Ricordi di Alexandr Blok, scritti da Andrèj Bèlyj, altro grande emarginato della letteratura di quel tempo.

C’è una sorta di veggenza viandante e rivelatrice nella sua persona, un abbaglio di coltre che promana dalla sua vertigine, come annota Massimo Barili, in un articolo tratto dalla rivista «Il Club degli Autori» del febbraio 2012: «La stessa opera di Aleksandr Blok rappresenta, in fin dei conti, una sorta di diario lirico che diventa specchio fedele delle sue visioni, delle sofferte e tumultuose metamorfosi, dei suoi mutamenti esistenziali e del dramma interiore dopo l’accertamento del crollo della figura della mistica amante, della donna che poi aveva sposato, e della successiva presa d’atto dell’assenza della Bellissima Dama, che aveva ispirato le sue prime poesie, sostituendola con l’immagine terrena e tremendamente mondana della figura di una donna “sconosciuta”, che si aggira nei locali tra gli ubriachi, pronta a offrire anche lei una “rivelazione mistica-estatica” ma di tutt’altro genere. E, poi, nell’ultima stagione della sua vita, anche la figura della “sconosciuta” verrà sostituita con l’amore per la propria Terra, per la Madre Russia, che vivrà il periodo drammatico e sanguinoso della rivoluzione».

L’inizio patriarcale e sereno delle sue prime liriche, raccolte in Ante lucem (1898-1900), afferma la potenza dell’infanzia trascorsa a San Pietroburgo e tra i tigli e le iridi di Ŝachmatovo, dove l’inizio di quella visione nel cielo di geroglifici, intagliava brume, profilava scenari boreali, languiva nei paesaggi, come scrive Pasternak:

«[…] E quando in questo regno dell’artificiosità ormai solidamente affermata, ma di cui nessuno più si accorge, qualcuno apre la bocca non per inclinazione alle belle lettere, ma perché sa e vuole dire qualcosa, questo fatto produce l’impressione di un mutamento improvviso, come se i portoni si spalancassero di colpo e irrompesse il frastuono della vita che si svolge di fuori, come se non fosse un uomo a dar notizia di ciò che avviene nella città, ma la città stessa parlasse di sé per bocca di un uomo. Così, per Blok, tale fu la sua parola, solitaria, pura, come di fanciullo, tale la forza della sua creazione. Sembrava che la novità stessa, spontaneamente, da sé si fosse disposta sul foglio stampato, e che i versi non fossero stati scritti e composti da nessuno. Sembrava che la pagina non fosse rigata dai versi sul vento e sulle pozzanghere, sui fanali e sulle stelle, ma che fanali e pozzanghere fossero loro a increspare, come bava di vento, la superficie della rivista e solcarla di umide, possenti tracce».

La membrana dell’orizzonte impalpabile compone la distesa sonnolenta e fluttuante del paesaggio, un fruscio di fronde mitiche, una burla inseminata di terra: «Penso che, se la voce si tacesse, / mi sarebbe difficile il respiro, / e il cavallo, sbuffando, crollerebbe / sulla strada, e non potrei arrivare! / Pigre e pesanti nuotano le nuvole, / e la foresta languida mi attornia. / Il mio cammino è lungo, faticoso, / ma la canzone amica mi accompagna».

Le visioni cerulee condensano lo sguardo in una sorta di erotismo mistico, una speranza messianica che incontra l’Eterno femminino, in una gracile attesa di sogno veemente, in una vivezza di invocazione e richiamo.

La bianca foresta dei simboli è il bagliore dell’arte che «vede l’incendio rovinoso della vita», come un argonauta di chimere lontane e voce sparsa nel vento dell’inverno o nel crepuscolo delle primavere, nell’alba che «spilla come un rosso fantasma».

Il baluginio della Bellissima Dama che scintilla di rosse lampade diviene il soggetto di una litania densa e stratificata. Assomiglia alle nebbie fugaci e perenni di una ingemmata fiaba antica che indizia il suo avvento, scrive l’amore nei diari, fa esplodere le sue fiamme.

Scrive ancora Barile: «Blok si muove, all’inizio del suo cammino, come a ricercare l’estasi rivelatrice in un mondo irrisolto, in una vita che può essere oscura e pericolosa, in una dimensione nella quale immergersi e avvertire l’approssimarsi della tempesta. Nel flusso della realtà, cosparsa di mistero e tragicità, si può aprire una porta invisibile che conduce alla sostanza stessa dell’esistere, cercando di possederla attraverso una mistica visione, grazie ad un incanto metafisico. Il vortice dell’esistenza vede dissolvere la patina superficiale che vela ogni cosa e tutto ciò permette, come fosse iniziazione dei misteri, di penetrare nelle zone più segrete ed inconoscibili. L’illuminazione lirica, nella sua forma estatica, elimina la banalità della superficialità quotidiana e introduce alla radice dell’esistenza pura, come a vivere l’ebbrezza suprema».

L’ineffabile percezione dell’esperienza, la vaghezza e indefinitezza dei passaggi, trova in Blok, la fiamma dell’ornato indefinibile, del folclore, della linea che ripercorre le strade, i boschi, le chiese, i campi.

L’accenno preciso del colore, fa risultare, pertanto, «un universo largo e ipnotico, una creazione contrattile e senza contorni, che palpita in ogni sua fibra per la spasmodica attesa di impossibili eventi» (Angelo M. Ripellino).

L’anima atemporale di Ljuba-femminino è un vortice di austerità patriarcale, un nastro che compone l’universo e si fa incontro impenetrabile. Ma gli occhi randagi di Blok hanno già solcato lo sperdimento della città, gli umiliati e offesi che la abitano, la notte nei buchi e le tenebre di luce. La lacerazione e la frattura iniziano a propagare nell’anima.

Blok frequenta i salotti letterari, da quello di Zinaida Gippius fino a quello di Ivànov e Gorodeckij descrive il poeta prima della declamazione: «Nella sua lunga prefettizia, con la morbida cravatta annodata in maniera raffinatamente negligente, con l’aureola dei capelli oro cinerino, egli era romanticamente bello allora, nell’anno 1906-07. Si avvicinava lentamente al tavolino con le candele, sfiorava tutti con occhi di pietra ed egli stesso si faceva di pietra, finché il silenzio non diventava assoluto. E si metteva a recitare, tenendo la strofa tormentosamente bene e rallentando appena il tempo nelle rime. Egli incantava con la sua lettura e quando terminava la poesia, senza cambiare voce, improvvisamente, sembrava sempre che il godimento fosse terminato troppo presto e fosse necessario ascoltare ancora».

Il travaglio di un’epoca, l’illusoria liberazione nei fumi dell’alcool, sostengono lo spaesamento di una congiunzione di esilio.

La nuova figura femminile che compare all’orizzonte ha tratti netti ed è tempesta di giorni febbrili. Dal suo occhio, radicato e suburbano, Blok delinea nuovi contorni:

 «Si è dunque compiuto: il mio mondo magico è diventato l’arena delle mie azioni personali, il mio “teatro anatomico” o teatro dei burattini, dove io stesso svolgo un ruolo insieme alle mie mirabili marionette (ecce homo!). La spada d’oro si è spenta, i mondi color lilla mi hanno irrorato il cuore. Il mio cuore è un oceano, tutto in esso è ugualmente magico: non distinguo la vita, il sogno e la morte, questo mondo e gli altri mondi (attimo, fermati!). […] La vita è diventata arte, ho fatto gli esorcismi e dinnanzi a me è sorto infine ciò che io (personalmente) chiamo la “Sconosciuta”: una bellezza-marionetta, uno spettro azzurro, un prodigio terrestre. Questo è il coronamento dell’antitesi. E dura a lungo la leggiadra,  alata meraviglia dinnanzi alla mia creazione. I violini la glorificano nel loro linguaggio. La Sconosciuta. Non è affatto semplicemente una dama in una veste nera con piume di struzzo sul cappello. È una lega diabolica di molti mondi, principalmente azzurri e lilla. […] È una creazione dell’arte. Per me è un fatto compiuto. Sto dinnanzi alla creazione della mia arte e non so cosa fare. Detto diversamente, cosa fare con questi mondi, cosa fare della propria vita, che d’ora in poi è diventata arte, perché accanto a me vive la mia creazione – né viva, né mor-ta, uno spettro azzurro. Vedo chiaramente “il lampo fra le sopracciglia delle nubi” di Bacco (“Eros” di VjaC. Ivanov), chiaramente distinguo la madreperla delle ali (Vrubel’ — “Il demone”, “La principessa-cigno”) o sento il fruscio delle sete (“La sconosciuta”). Ma tutto è uno spettro».

È il solco inguainato di azzurro, una voragine di tempi lontani. Inizia persino a comparire l’’immagine paludosa, principio di colore viola, letargo di guerrieri e fiammelle palustri.

Il sogno-grido dell’azzurro è violino sbandato di una stella caduta. La Sconosciuta diviene il ponte di un abbaglio che inclina e oscilla.

Commenta Angelo M. Ripellino: «la Violetta Notturna è la Bellissima Dama, non più miraggio di teologali lontananze, ma fantasma ipnotico che germina dalle paludi; il giovane scaldo, irrigidito in una torpida adorazione, è un sosia, un riflesso del poeta ingolfato in un culto sterile e ozioso; e i guerrieri del seguito arieggiano agli “Argonauti”».

Il pianto e il grido addosso, cullati nel vento dell’alba, dei tripudi dell’esilio confuso e impalpabile, intuisce un doppio mondo che evoca e adombra specchiamenti e riflessi.

L’altrove lontano e negato risuona il suo fondo catturato. Da ora in poi la coltre cittadina di Blok è rappresentata dai postriboli, dalle bettole, dallo spolvero delle nebbie, dove le prostitute raccontano l’aura della loro parabola.

Pietroburgo è rossastra, striata di sangue e vermiglia: «La nostra realtà trascorre in un rosso chiarore. I giorni son sempre più rumorosi di gridi, di rosse bandiere sventolanti; a sera la città, assopitasi un attimo, è insanguinata dal crepuscolo. Di notte il rosso canta sugli abiti, sulle guance, sulle labbra delle donne da conio. Solo la pallida mattina scaccia l’ultima tinta dai volti emaciati» (Tempi calamitosi, 1906).

I rossi crepuscoli sfuggono nelle notti bianche, nelle raffiche inondate della Nevà, come atmosfera palustre, singhiozzo di alberi e goccia sui contorni.

Anche l’impegno nel teatro (La baracca dei saltimbanchi, I dodici) testimonia uno sguardo che accarezza i precipizi, nel racconto di un drappello di dodici guardie rosse che pattugliano la città, prima dell’arrivo di Cristo.

La durezza della rivoluzione raccoglie una voragine di giostre che sfarina voli,colora veleni e distrugge: «Striscia da me come serpe strisciante, / assordami nella sorda mezzanotte, / con le labbra languide tormentami, / soffocami con la treccia nera».

Scrive Ripellino: «L’umor nero di Blok non è una propensione letteraria, un abito esteriore, ma il basso continuo, la fosca filigrana della sua vita, giorni e notti, giorni e notti. Incalzato dall’ansia di ramingare, di perdersi negli angoli abietti e remoti della periferia cittadina, egli va alla ventura, girando per le squallide strade fiancheggiate da lerci abituri, alla luce di lampioni che vacillano nella nebbia».

La luce è raminga come lo spasmo. Una metafisica del non essere che racchiude un universo oscuro senza fanali, in cui lo sguardo scorre nel mondo terribile e randagio, come il vischio di una genesi rifiutata. Rende spazio al gioiello scuro di una creaturalità dolente, sconsolata e magmatica, in cui il singhiozzo del tempo si addensa, laddove il deserto rapina la sua figura malferma.

È nella linea malferma che egli scova il fondale dell’esistere, la caligine nel vuoto, il velo evaso della nebbia che termina nel tormento.

blok a., Poesie, introduzione di Angelo M. Ripellino, Guanda, Milano 2000.

id., I dodici, Marsilio, Venezia 1995.

bazzarelli e., Invito alla lettura di Aleksandr Blok, Mursia, Milano, 1986

berberova n., Un figlio degli anni terribili. Vita di Aleksandr Blok, Guanda, Milano 2004.

böhmig m., Analisi di una poesia: Neznakomka di Alexandr Blok, in «Europa Orientalis», 10, 1991.

etkind e., La poetica di Blok, in Storia della letteratura russa, III. Il Novecento. I. Dal decadentismo all’avanguardia, Einaudi, Torino 1989.

tynjanov j., Blok, in j.tynjanov, Avanguardia e tradizione, Laterza, Bari 1968.

L’epica di John Steinbeck

di Andrea Galgano                                         21 settembre 2013

Letteratura Contemporanea

pdf L’epica di John Steinbeck

Steinbeck J.

La lettura di John Steinbeck (1902-1968), nel nostro Paese, è passata dalle mani di Cesare Pavese che tradusse nel 1938, Uomini e topi, uscito in America un anno prima, Elio Vittorini con Pian della Tortilla (1935) nel 1940, e come commenta Fernanda Pivano:

«sono stati questi i due libri a rappresentare la Narrativa Proletaria o della Depressione proposta da Franklin Delano Roosevelt come un modello di scrittura comprensibile alle masse e come una scelta di tematiche ispirate alla tragedia economica degli anni Trenta e alla sua umanità disperata. Proprio il contrario dell’ umanità proposta dal trionfalismo fascista, con diffidenza di chi a quel trionfalismo non credeva. I due libri erano arrivati in un’ Italia dominata dalla prosa d’ arte di allora, totalmente ignara della Narrativa Proletaria, e avevano accostato alcuni di noi a quelle tematiche e soprattutto a quel linguaggio. Era prevedibile che venissero disprezzati dai nostri critici come «picareschi e folkloristici» e che le nostre autorità governative li permettessero perché davano dell’ America un ritratto di devastazione utile per la loro propaganda. Così Uomini e topi era diventato per alcuni di noi una specie di metafora; del suo valore letterario aveva parlato prima la Francia quando Maurice Coindreau aveva indicato il libro come “modello di virtuosismo nel dosaggio delle sue componenti”». (da “Corriere della Sera” 24 febbraio 2002).

La scrittura iniziale di Uomini e topi era stata, per Steinbeck, un tentativo (e un esperimento) di scrivere un libro per bambini, come testimonia questa lettera del febbraio 1936: «Voglio ricreare un mondo infantile, non di fate e di giganti, ma di colori più chiari di quanto lo siano per gli adulti, di sapori più acuti, e degli strani sensi di angoscia che a momenti sopraffanno i bambini. Bisogna essere molto onesti e molto umili per scrivere per i bambini».

La scenografia rada delle battute, in un linguaggio che tocca la solitudine frustrata degli uomini, conquista la parabola dei rapporti nomadi tra George Milton e il gigante Small ritardato mentale. Entrambi sognano un luogo che non sia viaggio nomade di braccianti: un ranch dove poter allevare conigli.

È un luogo-sogno che diventa quasi rattrappito, nell’immagine di un destino sostanzialmente negativo che proclama la sua irrealizzabile tensione alla felicità. Quando scoppia la tragedia (il gigante Small uccide la moglie di un suo compagno di lavoro) e George, per salvarlo lo uccide:

«La violenza di queste morti fa risultare ironico l’ambiente pastorale del libro e suggerisce anche l’ immagine della “violenza che nasce dalla violenza” esplosa nelle coscienze molti decenni dopo e proposta qui con grande anticipo sui tempi. Il suo contenuto e il suo linguaggio erano già innovativi in America […] Il fascino era alimentato anche dal populismo insito nel New Deal del presidente Roosevelt che ispirava le denunce di ingiustizie sociali e invece esaltava la vita semplice, l’ansia per un’esistenza libera fino a essere nomade, le speranze nate con i primi scioperi. Gli scrittori americani del clima di Roosevelt costituivano dunque l’ antitesi alla nostra autarchia culturale e alla nostra cultura ufficiale; a volte i nostri giovani cercavano ingenuamente in quegli scrittori gli aspetti di un’ energia «primitiva» tale da evadere da una civiltà corrotta, tale da proporre un ritorno all’ innocenza» (Fernanda Pivano).

La solitudine, l’incomunicabilità, la legge del più forte caratterizzano un ambiente che non ha la pietas, come cardine di vita, come sostiene giustamente Massimo Migliorati. La violenza che richiama la violenza ha la scintilla del contatto fisico, che provoca una sorta di reazione a catena.

L’introduzione del male nella scena, scrive Massimo Migliorati: «viene sottilmente introdotto dall’autore anche attraverso la presenza, debolmente occultata, di un animale, il serpente, icona classica dei valori negativi di chiara provenienza giudaico-biblica. Sia nella prima che nella sesta parte infatti una biscia scivola nell’acqua dell’ansa del fiume. Il male è dunque intorno a noi, celato anche nell’ingenuità apparente della natura. Anche questo sembra essere un messaggio codificato dall’autore».

La tendenza di Steinbeck alla simbologia archetipica, dapprima il ciclo arturiano, poi le coincidenze religiose (una accennata insistenza sulla vita di Cristo come sfondo simbolico dei personaggi) e bibliche (Al Dio sconosciuto), come afferma Peter Lisca, sottolineando delle forti coincidenze, in Furore, tra la vicenda dei Joad e l’esodo ebreo in Egitto.

John Fontenrose approfondisce questi passaggi rapportando le vicende narrate nel romanzo con gli echi dell’Antico e del Nuovo Testamento e con le vicende dell’Esodo, e persino La valle dell’Eden presenterebbe lo scontro tra due fratelli, sul calco di Caino e Abele, reinterpretato psicoanaliticamente:

«The Oklahoma land company is at once monster, Leviathan, and Pharaoh oppressing the tenant farmers, who are equally monster’s prey and Israelites. The California land companies are Canaanites, Pharisees, Roman government, and the dominant organism of an ecological community. The family organism are forced to join together into a larger collective organism; the Hebrews’ immigration and sufferings weld them into a united nation; the poor and oppressed receive a Messiah, who teaches them a unity in the Oversoul. The Joads are equally a family unit, the twelve tribes of Israel, and the twelve disciples. Casy and Tom are both Moses and Jesus as leaders of the people and guiding organs in the new collective organism».

The Grapes of Wrath (1939) tradotto in italiano con Furore, ma letteralmente I grappoli dell’ira o forse I frutti dell’ira, rappresenta, nella scrittura di Steinbeck, una dilatata prospettiva a cogliere la vita, gli usi e i costumi della California rurale, quella che egli ha vissuto e toccato sin dalla sua infanzia a Salinas e Monterrey.

La terribile e dolorosa migrazione dei cosiddetti “Okies”, i contadini dell’Oklahoma, i quali vengono cacciati dalle loro terre e dalle forze unite alla crisi, come le banche, la siccità e l’agricoltura divenuta meccanizzata: le trattrici sostituiscono il lavoro dell’uomo, la miseria viene sfruttata poi dalle banche che non concedono prestiti e confiscano i terreni:

«Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a essere comprati e venduti prima delle semine. E allora le annate cattive, la siccità, le inondazioni, non furono più considerate come catastrofe, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si disintegrò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti, perdettero i loro poderi che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, col passare del tempo, i poderi passarono tutti in mano ad uomini d’affari, e andarono aumentando sempre di proporzioni, ma diminuendo di numero».

La Route 66 diviene, pertanto, la traccia di un avvicinamento frastagliato di carovane verso il «il paese del latte e del miele» in cerca non solo di vita, ma di un modo per vivere, e dove si narra di distese infinite di piante da frutto rigogliose e possibilità di lavoro, come un miraggio e un confine di oasi: «E finalmente apparvero all’orizzonte le guglie frastagliate del muro occidentale dell’ Arizona […] e quando venne il giorno, i Joad videro finalmente, nella sottostante pianura, il fiume Colorado […] Il babbo esclamò: “Eccoci! Ci siamo! Siamo in California!”. Tutti si voltarono indietro per guardare i maestosi bastioni dell’Arizona che si lasciavano alle spalle».

La tensione dinamica della famiglia non conosce stasi. Anzi è percorsa da un incessante nomadismo, un vagabondaggio ai margini, dalle disgrazie e dagli incidenti, quali, dapprima, la scomparsa dei nonni assorbiti dalla stanchezza e dall’amarezza, poi dal babbo e dall’apatico sbruffone John.

Ma anche su Al, fratello di Tom, Rosa Tea incinta e in viaggio con il marito inaffidabile Connie e i due bambini pestiferi, Ruth e Winfield, la storia sconvolgerà i segni, sorretti solo dal calore-quercia della madre.

L’unione del sangue accompagna la lealtà e la solidarietà verso gli altri migranti. L’indizio dell’esistenza familiare, permeato dalla impotenza e dal disprezzo degli uomini del posto, trova salvezza solo nella condizione evoluta di una famiglia umana allargata, segnata da rabbia, rassegnazione e furore, e costituita da una profonda e radicata forza morale e dalla dignità.

La sconfitta di una famiglia non conclude una rinascita. La coscienza del libro è nella amicizia dello scrittore con Tom Collins, l’uomo che gli aveva rivelato la sottotraccia del mondo agricolo, con i braccianti lavoratori a giornata, organizzati dalla Resettlement Administration.

Scriverà Steinbeck, che «senza Tom, non avrei potuto cogliere tutti i particolari, e i particolari sono tutto» e senza sua moglie Carol che ne diteggerà le battute, il romanzo sarebbe stato impossibile.

Il pensiero non teleologico (is-thinking) che si dipana nelle domande «come?» o «cosa?» e non «perché?» non sfocia nel nonsense, ma svapora l’onniscienza per celebrare dialoghi minimi, ridurre differenze e spostare le rotte:«Mamma non hai dei brutti presentimenti? Non ti fa paura, andare in un posto che non conosci?” Gli occhi della mamma si fecero pensosi ma dolci. “Paura? Un poco. Ma poco. Non voglio pensare, preferisco aspettare. Quel che ci sarà da fare lo farò”».

Se i paisanos di Pian della Tortilla (1935) e di Vicolo Cannery (1945) hanno conosciuto il ritmo picaresco e drammatico delle loro azioni («La parola è un simbolo e un piacere che succhia uomini e scene, piante, fabbriche e cani pechinesi. Allora la Cosa diventa la Parola e poi ritorna la Cosa, ma ordita e intessuta fino a formare un fantastico disegno. La Parola succhia il Vicolo Cannery, lo digerisce e lo espelle, e il Vicolo ha assunto lo scintillio del verde mondo e dei mari che riflettono il cielo»), come sagome estreme, l’odissea raminga della famiglia Joad, su un camion sgangherato alla ricerca di uno spazio, un gancio o un appiglio dove poter vivere, rappresenta la ripetizione delle antiche migrazioni dei pionieri verso i territori della frontiera.

Lo sgretolamento familiare che man mano si volge allo «sfacelo» concorre al dispiegamento del paesaggio, muto e desolato, degli scorci.

Furore è una tragica scena teatrale, dove i tendaggi del sipario, offerti dai passaggi di stato (Arkansas, Texas, New Mexico, Arizona), servono a introdurre, solcare e, infine, scavare l’atmosfera fragile dei personaggi, come ha sostenuto la studiosa francese Claude-Edmonde Magny, avvalorando l’ipotesi di uno stretto avvicinamento della pagina alla macchina da presa.

I personaggi emergono nella loro dura fertilità epica e vengono messi a fuoco da Steinbeck, come catalizzatori di una tensione di lotta (I pascoli del cielo) in cui la polifonica coralità acquista segno e vigore. L’esilio nomade segna la vita anche quando la felicità viene sfiorata, anche quando il suo progressivo avvenimento pare collocarsi nelle vicende umane.

L’epilogo del romanzo  è drammatico: la meta agognata e brulicante, il sogno, pieno di riscatto, di una vita migliore, si infrange senza requie: Tom uccide, durante uno sciopero, il poliziotto che aveva ucciso Casy, un’inondazione inghiotte ogni cosa e infine, Rosa Tea, abbandonata dal marito, partorisce un bimbo morto, finendo per allattare, dopo il parto, un uomo sfinito dalla fame: «Per un minuto Rosa Tea continuò a sedere nel silenzio frusciante del fienile. Poi si alzò faticosamente in piedi aggiustandosi la coperta attorno al corpo, si diresse a passi lenti verso l’angolo e stette qualche secondo a contemplare la faccia smunta e gli occhi fissi, allucinati. Poi lentamente si sdraiò accanto a lui. L’uomo scosse lentamente la testa in segno di rifiuto. Rosa Tea sollevò un lembo della coperta e si denudò il petto. “Su, prendete” disse. Gli si fece più vicino e gli passò una mano sotto la testa. “Qui, qui, così”. Con la mano gli sosteneva la testa e le sue dita lo carezzavano delicatamente tra i capelli. Ella si guardava attorno, e le sue labbra sorridevano, misteriosamente».

La fuga è il giaciglio di occhi stanchi, la deriva che pur avendo una meta precisa, e densa di attese, cade nella miseria, ma non pone fine a un cerchio inconcludente, bensì, come la linea retta della Route 66, compie il suo sforzo fino all’ultimo.

Nel suo romanzo Steinbeck dà voce al disorientamento e alla sfiducia che segnarono profondamente la coscienza americana dopo la Crisi del ‘29: la fine dell’ “american dream”, del cieco ottimismo nel futuro e nell’opportunità per chiunque di raggiungere il benessere e la felicità.

Lo scontento totale ed estremo che permea ogni personaggio di Steinbeck, non ha però linee di nichilismo o rassegnata solidificazione del nulla.

La narrativa militante,come specchio della sua produzione, scritta nel pieno dell’epoca del New Deal, non ha nella propaganda il suo punto di forza, ma solo nel valore lucente della dignità, nella lotta per il bene comune, essa riluce.

Quando scriverà L’inverno del nostro scontento (1961), la nitidezza limpida di Ethan Allen Hawley, uomo del Long Island, che cerca di vivere con l’altezza dei suoi valori, finendo poi per soccombere alle pressioni esterne, fino a compiere dei reati, in nome del guadagno, soggiace all’estremità di una disumanità opulenta.

I raggiri, le trame nascoste e le deviazioni umane per impossessarsi di un terreno, secondo il nuovo piano urbanistico, e accrescere le sue ricchezze, sono portati al massimo.

Il degrado morale, l’estremizzazione del capitalismo, rappresentato da un commesso che cerca di impossessarsi della terra, sconvolge la lucidità che era stata di Furore, accompagnando la discesa verso un dis-valore che diventa connotativo. L’onestà e la pace di un commesso vengono sconvolte da un elemento perturbatore che induce a un edonistico soddisfacimento, come accade in questo brusco passaggio de I Pascoli del Cielo: «Una lunga valle si stendeva entro un anello di colline che la proteggevano dalla nebbia e dai venti. Disseminata di querce, era coperta di verde pastura e formicolava di cervi. Al cospetto di tanta bellezza il caporale si sentì commosso […] “Madre di Dio!” mormorò. “Questi sono i verdi pascoli del Cielo ai quali il Signore ci conduce!” Poco dopo, vicino alle venti famiglie con dieci piccole fattorie, che vivevano in pace, si trovava la fattoria Battle, disgraziata e incolta e sulla quale pareva esserci una sorta di maledizione «dicevano che la fattoria Battle era maledetta e i loro bambini dicevano che era stregata».

Storie di fattorie stregate e di bambini che vogliono distruggerle, di famiglie che tentano di abitarle, fronteggiando ogni maledizione, per rivivere e rigenerasi assieme, come impastati dall’arsura dei luoghi, di sacerdoti che sognano una casa nella Valle e di polvere sui mercanti bricconi, come Edward Wicks detto lo Scroccone, mandati finalmente a vivere dignitosamente altrove, dopo aver portato il peso e lo spavento di una figlia bellissima e tragica.

La diversità che compone il mosaico di un sogno infranto, l’anima di una terra senza frutto, il sentiero di un grumo di ossessione di sopravvivenza, vivono l’acuto sentimento perenne di un solco umbratile che impone la vita: «Nell’Ovest, se una famiglia è vissuta per due generazioni in una casa, viene considerata come una famiglia di pionieri. Al rispetto che si ha per essa si accompagna un certo disprezzo per la vecchia casa. Ma poche case vecchie esistono nell’Ovest. Gli americani non riescono a star fermi molto a lungo in un posto. Presto o tardi bisogna bene che cambino».

Il piccolo Tularecito, ritrovato tra i cespugli da Pancho, bracciante di Franklin Gomez, dopo le sbronze di Monterey, che è solito disegnare figure di animali sull’arenaria, da tutti considerato un piccolo diavolo, impossibilitato a integrarsi a scuola e nel tessuto sociale, finirà per essere consegnato al manicomio criminale di Napa, o, ancora, la storia di donne belle e tragiche come Helen van Deventer, orfana a quindici anni, vedova a venticinque, madre di una figlia ribelle, la cui vita «si svolgeva sotto il peso di un sentimento acuto e perenne di tragedia.[…] Sembrava ch’essa avesse bisogno di tragedia per vivere e il destino non la lasciava insoddisfatta, gliene procurava».

Figure come Junius Maltby e di suo figlio Robert Louis, detto Robbie, i quali vivono in una sorta di imperturbabile universo, salvo poi fuggire da San Francisco e dalla vita impiegatizia per ritrovare la pace nei Pascoli, nonostante il suo matrimonio poco felice, l’ozio e la crescita, sotto l’ossessione di Stevenson, del suo bambino.

Uomini in fuga, scontenti e affranti, vittime della loro diversità, scolpita nelle porte del tempo, della loro terra promessa di sogno e giustizia, della loro pace sconvolta dall’esilio, dal randagismo, dall’anima inquieta della loro vita.

Il realismo epico di Steinbeck soggiorna in questa quotidianità vissuta e sofferta, penetrata nella piccolezza immensa dell’uomo, in un repertorio in cui anche il più minuto dettaglio contribuisce alla storia universale. L’umanità oppressa, marginale e sconfitta, trova attenzione in un appassionante affresco, con le vene delle mani, aperte.

 

steinbeck j., Furore, Bompiani, Milano 2001.

id., Uomini e topi, Bompiani, Milano 2012.

id., L’inverno del nostro scontento, Bompiani, Milano 2011.

id., I pascoli del cielo, Bompiani, Milano 2011.

id., Al Dio sconosciuto, Bompiani, Milano 2011.

id., Vicolo Cannery, Bompiani, Milano 2012.

fontenrose j., John Steinbeck. An introduction and interpretation, Holt Rinehart and Wiston, New York 1963.

garnero f., Invito alla lettura di Steinbeck, Mursia, Milano 1999. 

magny c.e., Steinbeck, or the Limits of the Impersonal Novel, Ungar, New York 1972.

migliorati m., “Uomini e topi” di John Steinbeck o dell’impossibile redenzione, in piras t. (a cura di), Gli scrittori italiani e la Bibbia. Atti del convegno di Portogruaro, 21-22 ottobre 2009, EUT Edizioni Università di Trieste, Trieste 2011, pp. 231-241.

 

Psicodinamica del Sé nelle relazioni interpersonali Ricerca, patologia, intervento, a cura di Irene Battaglini

Recensione di Maria Assunta Parsani

9788854851979

In questo volume sono raccolti i contributi, tratti dalle relazioni degli italiani che hanno partecipato al 16° Congresso Internazionale della World Association for Dynamic Psychiatry, congiuntamente al 19° Simposio Internazionale della Deutschen Akademie fur Psychoanalyse presso l’Ospedale psichiatrico della Ludwig-Maximilians-Universitat a Monaco dal 21 al 25 marzo 2011. 

Ne è scaturita una linea di pensiero frutto di orientamenti terapeutici e teorici diversi quali quello psicoanalitico e cognitivo, psicofisiologico e neuropsicologico, fino alla psicologia analitica attraverso l’espressione di un linguaggio immaginale della Firenze del ‘300, che è andata a comporre un’immagine del Sé variegata e poliedrica, ma soprattutto una espressione della formazione dell’identità individuale data dall’ ”Essere” in movimento nell’universo della psiche.

Si delinea ad apertura della raccolta, nell’intervento di ALFREDO ANANIA, la ricerca dell’identità culturale legata al Sé storico, all’inconscio collettivo contemporaneo, al senso della Polis e allo spirito loci, che rintraccia le origini del Sé individuale non solo nell’origine psico-ontogenetica, dalle sue matrici relazionali, ma anche psico-filogenetica derivante dalle matrici culturali che sono inconsciamente presenti in tutte le persone. La trasmissioni culturale delle proprie produzioni simboliche consente, attraverso l’impulso alla libera interpretazione, di trascendere la realtà materiale ed essere investita dal senso oscuro, ma universalmente significativo, che ci conduce alla ideazione di modelli di ricerca originali e all’incontro e allo studio reciproco tra diverse appartenenze culturali. L’inconscio si configura come una macchina del tempo che, ogni volta dà luogo a un qualcosa di nuovo, mai ripetitivo.

Proprio attraverso l’utilizzo della macchina del tempo IRENE BATTAGLINI ed EZIO BENELLI, tracciano le linee guida dell’esperienza del Sé attraverso il pensiero immaginale, focalizzando il tema centrale dell’ermeneutica delle immagini sulla soggettività che richiama alla centralità autonoma del Sé nel linguaggio dell’arte, in un moto dialettico con il Sé di chi fruisce. La soggettività all’interno dell’intersoggettività diviene un luogo non concluso tra due soggettività e a esse solo appartiene, come la fiamma blu – nera, descritta da Hillman, attira le cose e le consuma, mentre il biancore continua a fiammeggiare al di sopra. Da ciò scaturiscono la relazione profonda e il contatto ctonio con il mondo e il legame con il numinoso, l’opus alchemico che mira all’integrazione, per giungere alla realizzazione del Sé che si manifesta nella meta ideale del percorso ideativo. Il processo circolare di relazione che va dal tutto alle parti e viceversa, conduce a un continuo scambio tra le cose che modificano il complesso del sapere. Si traccia attraverso il pensiero di Jung, la declinazione numinosa del Sé e diviene guida sulle interrogazioni rivolte alle prime immagini che hanno ispirato Giotto di Bondone e Dante Alighieri con la codifica di linguaggi generativi di storia e di civiltà. Gli autori individuano nella ricerca, un viaggio verso gli inferi che deve prevedere sia una mappa, sia un’ipotesi di ritorno e di salvezza. La mente immaginale determina un confronto ed anche una sovrapposizione tra l’immagine originale e la risultante del lavoro immaginale, per cui ne deriva non solo la formazione di un nuovo mosaico, ma molto più probabilmente la ricostruzione di un mosaico danneggiato, che attraverso uno sguardo affinato reca alla luce frammenti dispersi e nascosti. Scaturisce da queste riflessioni il perché della Psicologia e dell’arte insieme. L’arte come strumento per una più diretta connessione con ciò che non conosciamo a livello razionale, in cui si fa spazio la domanda di come l’ermeneutica del mondo immaginale possa essere d’aiuto alla comprensione dell’opera d’arte. Gli autori, seguendo Hillman nella sua apertura al mondo immaginale, tracciano il legame con Firenze e l’Italia, la nascita della prima conferenza di Eranos, il primo commento della favola di Amore e Psiche, in cui la tensione genera una psicologia dell’arte che diventa parola dell’anima. Lo studio psicologico è l’umile tramite tra il mondo interno dell’analizzando e il mondo interno del mondo. E all’anima è assegnata la funzione di “intermedio” di tutte le cose, senza essere né corporea né visibile, essa è dominatrice dei corpi.

Ricorrendo ancora all’arte e alle sue possibilità esplicative, VITTORIO BIOTTI individua nella Trilogia di Bion un progetto teatrale che richiede un confronto sui grandi temi dell’individualità, la sua formazione, le sue dinamiche, cercando risposte nei grandi lavori del periodo classico e nel contrappunto del periodo americano. In Bion, citando F. Di Paola, si ritrova la necessità e l’anticipazione della necessità di porsi di fronte ad una nuova nascita.             

Attraverso l’analisi delle varie teorie ad approccio biologico, evoluzionistico, psicosociale, cognitivo DAVIDE DETTORE evidenzia come alla costituzione dell’identità di genere contribuiscano sia i fattori biologici, ma anche le componenti sociali, culturali e cognitive. Questi fattori insieme concorrono a strutturare un complesso di elementi schematici che sono alla base del concetto di identità di genere, non necessariamente  limitato alle categorie dicotomiche di maschio e femmina. Emerge ancora una volta prepotente il Sistema del Sé, nel modello evolutivo concettualizzato nell’ottica cognitivista di Doorn e coll. in cui i concetti di identità di genere sarebbero compresi e più validamente comprensibili. Secondo tale impostazione, il Sé può essere considerato come un sistema cognitivo di controllo composto da un sistema dominante  (“master self”) che si mantiene in relazione e in comunicazione con una serie di sottosistemi subordinati, operanti ciascuno in parallelo rispetto agli altri e quindi autonomi, indipendenti e influenzati dal sistema del Sé che a sua volta li influenza. L’espressione dell’identità di genere di un individuo sarebbe in stretta connessione con la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, ma anche con l’intensità, con la frequenza e con le occasioni in cui l’uno o l’altro si esprime. Si costituisce una visione del Sé relazionale, multiplo e discontinuo, organizzato differentemente dalla versione del Sé dominate. Il complesso modello è paragonato dall’autore alla teoria di Liben e Bigler, evidenziando le differenze individuali strettamente connesse al “modello di vita personale” e alla storia dell’individuo, nella costituzione dello specifico dell’identità di genere che amplia lo stereotipo culturale.

Partendo dalla considerazione che la psicoterapia rappresenta un trattamento di prima scelta per i disturbi mentali gravi, inclusi i disturbi di personalità, ROBERTO DI RUBBO, ELENA SOGARO e SEFANO PALLANTI presentano un case report relativo alla Psicoterapia psicodinamica Comunicativa Evolutiva di Gruppo (PPCE-G) in cui viene illustrato il Modello Comunicativo Evolutivo, basato sulla teoria della complessità per la terapia di pazienti con disturbo mentale grave in un setting ambulatoriale. La Psicoterapia illustrata mantiene al centro dell’impostazione le libere associazioni e le dinamiche mentali inconsce, mentre i terapeuti focalizzano l’attenzione su tutti i processi connessi con l’esperienza delle difficoltà nelle relazioni e nelle patologie di personalità del paziente. Nell’analisi dell’iter terapeutico si evidenzia come il cambiamento dei sintomi sia strettamente legato ai cambiamenti del senso dell’identità personale e delle dinamiche interpersonali dell’identità, ponendo l’accento sulla funzione della struttura inconscia della “Frontiera Personale” che deriva dall’acquisizione dei principi relazionali di organizzazione più adattivi. Quest’ultima essendo inconscia cattura l’attenzione del terapeuta, il quale a sua volta si esprime attraverso un comportamento inconscio e l’approccio comunicativo evolutivo stimola il terapeuta a prestare attenzione alla narrazione dei pazienti e a rimanere nella posizione di Condizione Necessaria e non usurpare la posizione dei protagonisti. Ciò stimola la creazione di compliance. Il PPCE-G sembra fornire nel feed back interpersonale benefici sia per l’alleanza terapeutica sia per il senso d’identità personale.

MARIA FEDI sceglie, invece, di seguire il percorso degli eroi Edipo e Ulisse, nei quali s’intravede la ricerca del Sé che ci appartiene perché, afferma Freud: ” Deve esistere nel nostro intimo una voce pronta a riconoscere la forza coattiva del destino di Edipo ”e attraverso un parallelismo che conduce tramite il mito all’archetipo e alla forza dell’anima disvela, come nelle parole di Hillman la nostra psicologia del profondo in vesti antiche. Nel viaggio psicoanalitico, attraverso il metodo l’uomo si rivela, racconta la propria storia e attraverso l’incontro con l’anima e nel fare anima consente al molteplice di divenire materia psichica, di entrare nell’universo personale dove è possibile la formazione del simbolo. L’incontro con l’anima, afferma l’autrice, come avvenne per gli antichi eroi, ci guida alla scoperta di una dimensione interiore, riconoscendo la storia dei molti e dei molti nella nostra storia.

Come in un’oasi poetica che tanto si addice al fare anima, ANDREA GALGANO, traccia alcune linee del divenire nella poesia di Eugenio Montale: la morte della sorella Marianna, l’incontro con Anna degli Uberti e successivamente a Firenze Drusilla Tanzi che diverrà sua moglie. In queste figure femminili descritte nei versi del poeta, l’autore ravvisa la luminosità della memoria, il suo riflesso nel tempo. E ancora, dopo l’incontro con Irma Brandeis il divenire prigioniero del complesso di Edipo, rende il poeta “vile e contraddittorio”, mentre nei versi a lei dedicati trasluce la miracolosità dell’istante e sulle tracce del mito Ovidiano si intravede la figura di Clizia, la quale persa la speranza di poter riconquistare l’amore si trasformò in girasole. Fino a giungere all’incontro con Maria Luisa Spaziani, anch’essa sua ispiratrice che conduce Montale a vivere nel limbo di ciò che è a-sessuato, nella paura del vissuto. L’amore platonico che contraddistingue il rapporto del poeta con Laura Papi connota la stagione di buio di un individuo, che afferma l’autore, non si innesta nel vivere. Si dipingono così la ricerca dell’eros nell’eterno femminino e l’impossibilità di sublimarlo.             

Di eros si occupa anche LINA ISARDI, partendo dalle origini della sessuologia, con i suoi autori, fino alla storia più recente in cui la salute sessuale è vista come un’integrazione di aspetti somatici, intellettivi, motivazionali e sociali. Il formarsi dell’”identità sessuale”, costrutto multidimensionale composto dal sesso biologico, dall’identità di genere, dal ruolo di genere e dall’orientamento sessuale è un processo nel quale il sesso biologico, i valori culturali e quelli personali annessi alla sessualità influenzano la percezione di sé e i comportamenti del bambino, che come individuo prende coscienza della propria identità sessuale tra i diciotto mesi e i tre anni. L’autrice evidenzia la sessualità come elemento fondamentale della vita i cui disturbi coinvolgono tre aspetti: l’atto sessuale, l’identità che ci riconosciamo, le nostre fantasie sessuali e il viverla in modo soddisfacente è essenziale per mantenere una buona salute mentale. I disturbi sessuali sono fonte di sofferenza, ma esiste la possibilità di curarli. L’autrice presenta un caso clinico che partendo da un presunto conflitto d’identità risulta essere, dopo il trattamento, ansia da prestazione e si risolve positivamente.

La tesi centrale di ANNA MARIA LOIACONO tende a sottrarre il concetto di personalità “come se” alla psicopatologia, nell’ambito della quale H. Deutsch lo sviluppa, portandolo nell’ambito della normalità e sulla scia concettualmente di Paul Roazen, arriva nel cuore del lavoro analitico. Ivi scorge analisti esperti spesso portatori di valori conformisti e si domanda: “In che misura il conformismo psicoanalitico è “il come sé” collettivo del nostro mestiere?” Non possedendo una risposta, sulle orme di Fromm, dichiara che pur non sapendo cosa fare ha molte certezze su quello che la nostra storia ci ha insegnato a non fare, per non riprodurre storie senza memoria.

VOLFANGO LUSETTI esamina l’uomo e l’utilizzo di tre forze fondamentali: la nutrizione-predazione, la socialità- comunicazione e infine la riproduzione di tipo sessuato. La predazione è neutralizzata dapprima dalla sessualità e poi dalla socialità e sembra svolgere un ruolo di motore sociale. Tre aspetti sono individuati circa le radici biologiche della violenza umana: il primo tema riguarda il conflitto morale e insanabile, che sembra intercorrere tra le generazioni e in particolare tra padri e figli. Un secondo tema sulla radice della violenza è quello inerente alla natura degli strumenti antipredatori (la sessualità perenne e i codici simbolici di base). Il terzo tema ha per oggetto il fallimento degli strumenti antipredatori che come un campanello d’allarme, afferma l’autore, richiama l’attenzione all’albero della vita da cui proveniamo, cioè alle radici del male cannibalico-predatorio che ci tormenta perché proprio esso è ciò che ha formato la nostra vita.

L’analisi della costruzione della realtà, a partire da William James, per proseguire con C.H. Cooley, G.H. Mead, fino a Fromm è analizzata da CATERINA MARTELLI E LORENZA TOSARELLI, sottolineando in quest’ultimo la convergenza tra il sociale e lo psicologico, descrivendone le interazioni che sono alla base della costruzione della personalità. Passando da Matte Blanco e il suo inconscio strutturale, fino all’inconscio implicito, agente attivo nella formazione dell’Identità, si delinea la presenza di strutture inconsce nella nostra mente non conciliabili, ma responsabili della vita emotiva. La psicoterapia, affermano le autrici, è in grado di modificare il substrato neurobiologico e attraverso interrogativi, quale la modalità di contattare l’inconscio implicito e il ruolo del Corpo nel processo di cura, cercano nella modalità terapeutica l’essenza della conoscenza implicita, dirigendo la loro attenzione sull’Expression Primitive, che propone una semplicità espressiva in relazione con l’altro. Si apre in tal modo uno spazio vitale dell’Identità, non bloccato dall’angoscia e dai sentimenti di disregolazione, che consente una maggiore espressione di Sé.

GIOVANNA NICASO, esamina la problematica concernente, i pazienti affetti da DP e in particolare evidenzia la prevalenza di DBP nelle persone giovani e la dis-regolazione emotiva che produrrebbe le difficoltà manifestate nel funzionamento interpersonale e nello sviluppo di uno stabile senso di sé. In quest’ambito di osservazione clinica riporta l’esperienza di ricerca-azione nell’ambito dell’ASL di Grosseto, che ha proposto la realizzazione di un gruppo di supervisione sistematica dei casi clinici in trattamento esaminando venticinque casi di DBP, di cui tre casi sono stati dei drop-out, tre casi hanno avuto un esito negativo, non ci sono stati casi di suicidio. In conclusione i 4/5 dei risultati del campione non sono ritenuti disprezzabile  e ciò apre le porte alla speranza di poter realizzare l’estensione del modello ad altri  soggetti in trattamento.

Con un taglio decisamente spirituale IRENE NOTARBARTOLO, richiama l’esigenza di approfondire una nuova dimensione nelle relazioni interpersonali vissute dall’uomo nel formarsi dell’identità. Considera la dimensione spirituale altrettanto sostanziale rispetto ad altre quali quelle corporee, fisiche e mentali, rilevando come la psiconeuroendocrinologia (PNEI), abbia recentemente rivolto a tale dimensione la sua attenzione e nel parallelismo con il network evidenzi nel sistema uomo la possibilità di azione terapeutica tramite tecniche spirituali.  L’autrice integra il pensiero di Fromm indicando come più proficuo un modello di uomo in quattro dimensioni (corporea, psichica, intellettiva e infine spirituale), attraverso di esso sarebbe infatti possibile una migliore comprensione delle relazioni, che spesso frenata da interpretazioni riduttive attua una vera e propria “fuga dalla libertà” del pensiero contemporaneo.

GIUSEPPE ROMBOLA’ CORSINI e ALESSIO BARABUFFI pongono l’accento sula necessità che lo psicologo dello sport non debba necessariamente essere uno psicoanalista, bensì un esperto in psicologia dinamica. Attraverso l’analisi della domanda, gli autori evidenziano la richiesta iniziale di un intervento focale dettato dall’esigenza dello sportivo di ottenere una produttività immediata, che talvolta muta in richiesta d’intervento analitico, tramite cui emerge il formarsi della pratica dello sport come forma privilegiata del manifestarsi del mondo interno. Queste osservazioni sono utilizzate al fine di ricostruire la storia e l’elaborazione dell’agire sportivo collettivo, rintracciando in esso l’elaborazione del conflitto psichico a partire dalle origini mitico-rituali e sacro-sacrificali. L’evoluzione di questo passaggio è tracciata dall’esperienza traumatica originaria sublimata nello sport, in cui gli oggetti-meta delle pulsioni aggressive, sono sostituiti con oggetti-meta socialmente accettati e di conseguenza conducendo all’elaborazione del trauma. Mentre l’aggressivo cerca la vendetta rispetto al proprio passato insoddisfacente, il combattente lotta per il futuro e il vero sportivo allontana l’aggressività volendo essere un combattente. Percorrendo un lungo tragitto, l’atleta neutralizza, tramite le regole, gli impulsi aggressivi e giunge attraverso un processo dinamico a una sublimazione che si plasma nell’interazione con l’ambiente. Si esalta l’importanza dello sport per l’elaborazione del conflitto psichico mettendo in luce il valore delle conoscenze di psicologia dinamica per chi opera all’interno di questo contesto.    

Il caso clinico presentato da DANIELA ROSSETTI esamina il percorso compiuto da una donna, che dopo aver perso, la madre attraversa una fase di congelamento e di coartazione affettiva. Lo scongelamento che nel processo terapeutico avviene, consente la ripresa di un cammino alla ricerca della propria identità personale. Partendo dalla premessa che non è possibile in  alcun  modo cambiare il nostro passato, l’autrice ci indica la strada compiuta per un cambiamento di noi stessi, per “riparare i guasti” e riacquisire la nostra integrità perduta. Con lo sguardo che conduce alla conoscenza ravvicinata del nostro passato memorizzato nel nostro corpo, avviene l’accostamento alla coscienza. Al fine di avviare la trasformazione che muta le vittime inconsapevoli in individui responsabili e la conoscenza della propria storia guida alla convivenza con essa.

L’importanza del nesso tra emozione e memoria è evidenziata da MARIA PIA VIGGIANO, TESSA MARZI e STEFANIA RIGHI. Attraverso una migliore comprensione dei fenomeni che legano le emozioni ai processi di codifica della memoria, le autrici evidenziano la possibilità di una miglior comprensione di disturbi quali l’ansia, la depressione, e il disturbo post traumatico da stress, in cui un’eccessiva sensibilità dell’amigdala crea uno squilibrio nella regolazione  delle emozioni. Il lavoro approfondisce la definizione a livello temporale dei processi sottostanti al riconoscimento di un volto che durate la fase di codifica della memoria, manifesta una determinata emozione. L’interazione tra emozione, percezione e memoria è sottolineata al fine di porre in risalto quando le emozioni rese manifeste dalle espressioni hanno un ruolo chiave nei processi cognitivi, per giungere alla comprensione dell’esatto decorso del processo temporale utilizzato dai processi di codifica delle emozioni e alle implicazioni nell’ambito della sfera emozionale affettiva. L’utilizzo della tecnica degli ERP pone in risalto in che misura il processo di memoria possa essere influenzato dall’emotività espressa dal volto ed esamina come la particolare espressione emotiva influenza i processi di recupero, a partire dagli stati più precoci dell’elaborazione, nella ricerca che alcuni stimoli hanno nell’adattamento all’ambiente. I volti che esprimono paura elicitano risposte elettrofisiologiche più ampie e più rapide. Il significato funzionale di questa differenza potrebbe essere rintracciato, secondo le autrici, nel fatto che una situazione di pericolo richiede una risposta più immediata.

Come afferma Irene Battaglini: ”La posizione centrale del Sé in tutta la psicologia trova in questo volume lo spazio per un respiro ampio che intende sfiorare il tempo di un Umanesimo mai estinto”.

Maria Assunta Parsani

AA.VV. Psicodinamica   del  Sé nelle  relazioni  interpersonali

Ricerca, patologia, intervento

Atti del XVI Congresso mondiale di Psichiatria Dinamica (Monaco di Baviera, 21-25 marzo 2011)

A cura di Irene Battaglini, Aracne, Roma 2012.

La Scuola secondo Franco Bruschi, psicologo

Recensione di Gabriele Anastasio

La psicologia della scuola, di Franco BruschiLa Psicologia a Scuola, di Franco Bruschi

Il mondo della scuola è stato oggetto, negli ultimi anni, di profonde trasformazioni. Più di altri ambienti ha risentito dei cambiamenti sociali, di politiche inadeguate, di tagli di risorse che ne hanno stravolto il senso e l’organizzazione. La scuola, oggi, non è più solo un luogo di insegnamento e di educazione, ma è divenuta luogo di accoglienza, di integrazione, di sostegno sociale e, nello stesso tempo, è stata oggetto di attacchi principalmente politici ed economici che ne hanno minato la validità e l’efficacia.

In questo contesto, prima ancora che luogo di insegnamento, la scuola è il punto di incontro tra bambini sempre più relegati in mondi virtuali, genitori che, in molti casi, non sanno o non hanno la possibilità di svolgere adeguatamente il loro ruolo, e insegnanti e personale ausiliario gravati di mille compiti che ne limitano il compito di educatori. È facile capire come, in un contesto del genere, la figura dello psicologo possa rivestire un ruolo importante di aiuto e, infatti, molte scuole hanno previsto la presenza di tale professionalità al loro interno, ma con modi e risorse molto diverse da contesto a contesto. Anche per gli psicologi non è semplice entrare in questo mondo, per vari motivi.

Esce, finalmente, nella collana L’Immaginale della casa editrice Aracne, il libro La psicologia a scuola, scritto dal dott. Franco Bruschi con il contributo di Paola Carboncini e Eloisa Tonci. Si tratta di un libro importante, nato dall’esperienza trentennale dell’autore nelle scuole.

I pregi del volume sono, a nostro avviso, molteplici.

Innanzitutto viene fatto chiarezza sui compiti e le funzioni dello psicologo all’interno della scuola. Non è una cosa da poco, perché, sebbene da molti anni, come detto, lo psicologo scolastico esista nei fatti, ufficialmente non esiste una figura specialistica riconosciuta. Questo comporta che spesso il professionista che si trova ad operare in questo ambito non ha riferimenti precisi su come muoversi; da qui deriva una grande disparità di interventi nei vari istituti scolastici che, a loro volta, si preoccupano di organizzare un servizio di cui non sempre conoscono le effettive potenzialità, e finiscono per sfruttarlo male o, addirittura, rischiano di creare le condizioni che ne impediscono il funzionamento. Anche i ragazzi e le famiglie, inoltre, non sempre sono adeguatamente informati e tendono così a non rivolgersi ad uno specialista che potrebbe fornire loro un aiuto importante.

Con un linguaggio chiaro, il volume del dott. Bruschi precisa le competenze, le funzioni e anche i limiti che lo psicologo deve osservare nel suo lavoro all’interno di una scuola. Allo stesso modo, con uno sguardo a tutto tondo, indica quali sono le condizioni necessarie perché l’intervento dello psicologo abbia efficacia, non solo relativamente alle capacità di chi svolge questo ruolo, ma anche relativamente agli spazi, alle risorse e ai contributi della scuola stessa e delle famiglie.

L’altro grande pregio del libro è quello di partire dalla pratica. L’autore accompagna il lettore a scoprire l’opera dello psicologo scolastico attraverso la presentazione di situazioni reali, analizzando, di volta in volta, il problema, il contesto e il piano di intervento. Anche le indicazioni teoriche, con importanti riferimenti alla teoria psicoanalitica, nascono come conseguenza dei casi trattati, facendo capire come la pratica sia il punto di partenza che pone le domande a cui la teoria deve trovare le risposte e non il contrario, come purtroppo spesso accade.

Consigliamo vivamente la lettura di questo libro, non solo agli psicologi che intendono lavorare (o che già lavorano) nella scuola; ma anche agli insegnanti, agli educatori, ai dirigenti, ai genitori e a tutti coloro che, a vario titolo, frequentano questo mondo caotico e meraviglioso. Fornirà loro una guida preziosa per comprendere fino in fondo quali possano essere gli effettivi vantaggi di un servizio che operi in piena sinergia con il contesto che lo ospita.

Gabriele Anastasio

Clemente Rebora. il grido e la tensione

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

di Andrea Galgano                                         11 settembre 2013

Clemente Rebora. Il grido e la tensione

Poesia Contemporanea

ReboraClemente-02

 

 

 

 

 

 

«Qualunque cosa tu dica o faccia / c’è un grido dentro: / non è per questo, non è per questo!».

In Clemente Rebora (1885–1957), non esiste evento o circostanza o scheggia di dettaglio, ricolmo di gioia o doloroso, che non sia assedio della realtà, che non sia soggetto a provocazione o destinazione ultima, dove la natura non prenda coscienza di sé. È, quindi, nell’uomo che si innerva la caducità, la contingenza delle cose, tra il tentativo di aggrapparsi al possesso precario, agli idoli, e l’esigenza di compimento che porta in grembo il suo grido, con una segreta domanda.

Tutta la scrittura nasce da questo avvertimento e da questa urgenza, come annota Emilio Cecchi: «far l’elogio di questa posizione spirituale autenticarlo col raffronto di tanta viltà e scioccheria nella nostra letteratura odierna, equivarrebbe a offendere lo scrittore».

«Rebora», aggiunge Elio Gioanola, «è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità, disperazione e speranza, rifiuto dell’esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca».

La totale esattezza spericolata, unita a una dissonante, quasi sfrangiata, musicalità si impongono in una «fonte viva; qui c’è un’anima e un uomo», come scrisse Giovanni Boine.

Sergio Pautasso, analizzando il rapporto di Rebora con i contemporanei, afferma: «La presenza di Rebora nel Novecento risulta sconvolgente perché spariglia le carte degli ormai consolidati schemi della storiografia letteraria; non solo, ma con la sua poesia egli ha rimesso nematicamente e linguisticamente in discussione il rapporto con le poetiche novecentesche, dimostrando che con esse aveva poco a che fare perché, in effetti, mirava ad un diverso risultato. Di qui deriva, e si spiega, l’inadattabilità dei versi reboriani alle regole della lettura critica della poesia novecentesca. Il che non significa che la critica non si sia occupata di lui, anzi. Ma si vuole dire che la lettura reboriana è stata, diciamo, più difficoltosa, per reali ragioni oggettive».

Egli stesso, il 13 ottobre 1956, sostando, per così dire, sull’essenza del classico, annotò: « Ogni vero poeta (e pochissimi sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale – e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente – lo fa diventare un classico».

Il racconto e la sorpresa della lievità degli istanti, quando corrono «per l’aria immagini di bene / con riso di speranza», si accompagna allo sgomento «del sogno disperso / dell’orgia senza piacere / dell’ebbra fantasia», all’incanto del pieno respiro, alle stelle-ragazze che danno «bàttiti di ciglia / divini».

Rebora canta lo spazio della «realtà segreta», la tensione sulla positività ultima della realtà, quando una illogica allegria investe un indizio di ringraziamento: «e quasi sento un caldo àlito umano / sul viso e dietro il collo un far di baci / e tra’capelli morbida la mano / d’amante donna in carezze fugaci» o inseguimento con balzo fulgido dietro all’ «amor che nel nostro cammino accende / l’inconsapevol brama triste o lieta», per godere delle cose così come sono: «quando si nutre il cuore / un nulla è riso pieno, / quando si accende il cuore / un nulla è ciel sereno: / quando s’eleva il cuore / all’amoroso dono, / non più s’inventan gli uomini, ma sono».

Annota Gianni Mussini: «In Rebora, anche nel primo Rebora, non esiste una vera “autonomia del significante”. Per lui la poesia è invece sempre eteronoma: non vale in sé, ma in quanto espressione di un altro e di un oltre. Cioè, di una verità che sempre la supera: una verità prima angosciosamente cercata e, quindi, forse altrettanto angosciosamente trovata. In fondo, la poesia reboriana non è che la trascrizione fedele di questa ricerca: essa rappresenta tutta un’esperienza, tutta una vita».

La poesia che non sovrascrive la vita, ma è più necessaria della vita stessa ha il gemito di un’urgenza, in cui il battito dell’ora e del tempo crescono, innestandosi nell’eterno: «Vorrei palesasse il mio cuore / Nel suo ritmo l’umano destino».

I Frammenti lirici del 1913, pubblicati dalla Libreria della Voce, sono «la grande avventura di un giovane che vuole misurarsi con il mondo delle idee, delle parole, dei suoni e tutto fondere a tentare una verità percepibile ma non sempre rivelabile» (Gianni Mussini).

Umberto Muratore annota che nella dedica del testo, egli «esprimeva il desiderio, definito poi meglio nei Canti anonimi, di non trovarsi a cantare il proprio io, bensì l’io comune, di farsi interprete delle ansie e delle aspirazioni comuni del tempo», nell’ «accettazione spontanea, mistica, del proprio dolore e della propria nullità, purchè da tale stato di svuotamento individuale nascano semi di vita per gli altri».

La frammentazione di un’epoca, la vicinanza (nel titolo), petrarchesca, propongono un bivio: distruggersi nello strazio della guerra (definita «tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu» dove tutto è «mari di fango e bora freddissima» ed egli si sente «fatto aguzzino carnefice»), nella sconfitta frustrata di un «forsennato voler che a libertà / si lancia e ricade […] e fatica e rimorso e vano intendere: / e rigirio sul luogo come cane» e nell’annientamento totale, oppure invocare una segreta domanda, rischiando l’immagine salvifica intravista e sfuggente: «il mio volto s’alza a chiedere / la verità alla vita, / che l’attimo contrasta / e il dolor solo accoglie», ma «il dolore non basta / e l’amore non viene».

«La poesia di Rebora», sostiene Elio Gioanola, «appare lacerata da un’inquietudine profonda, dal senso di un’inadeguatezza radicale rispetto al mondo com’è agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere».

La sproporzione evolve la martellatura dell’istante in domanda di totalità, come egli stesso ricorderà nel Curriculum vitae: «Un lutto orlava ogni mio gioire: / l’infinito anelando, udivo intorno / nel traffico e nel chiasso, un dire furbo: / quando c’è la salute c’è tutto, / e intendevan le guance paffute, / nel girotondo di questo mondo».

Al cuore non basta l’effervescenza dello spirito, il lievito del buon senso. Tutto deve richiamare a una Salvezza ricercata e presente, a un Senso ultimo che passi dalla datità concreta e rechi in grembo una domanda elementare: «Tutto ascendeva, / congiunto, discosto, / i monti e la sera, / presenza del cuore nascosto, / lontananza del fior sullo stelo. / Al varco dell’ombra e del cielo / Scoprivo lo spazio alle cime, / che hanno confine/ ov’è l’inizio più vero» (Ca’ delle sorgenti).

Mancava questo al giovane Rebora, «ammiccando l’enigma del finito sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuori scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo».

Commenta Pautasso: «In lui agiva una tendenza alla religiosità, ma che non coincideva ancora con una scelta, benché inconsciamente la sua scelta egli l’avesse già fatta, almeno con la poesia».

L’oscillazione tra eterno e transitorio ama la piena dell’indicibile, nata dal dissidio interiore di una contraddizione non risolta che possa germinare di vividezza: «vorrei, maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto».

Scrive Gianfranco Lauretano: «La poesia di Rebora imita invece non tanto la vita materiale, ma il movimento interiore, l’anima che, comprendendo se stessa e il mondo, avanza sbattendo in contraddizioni, complessità, mistero».

L’infinita densità del tutto è l’incisione di una affinità che non conosce esclusione di dettaglio o innesti una grande aspirazione «mar che ti volgi è riva e chiami, / cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami».

La commistione dell’umana tensione con la percezione del limite, come se germogliasse dalla sconfitta un’attesa, forte più di ogni calcolo, impone una vigile veglia «solida e coerente» (Gianfranco Contini), come testimoniano i passaggi del Frammento V, che Luigi Giussani commenta così: «Quanto più mi sento nella morsa delle cose che mi impediscono di identificarmi coi sogni, coi desideri, tanto più vorrei che questa morsa che stringe mi facesse ardente nella dedizione della mia energia. Bellissimo paragone della barca a vela, del fermaglio e della scotta; quanto più si stringe tanto più il vento che vi soffia dentro fa volare la barca […] è talmente forte il senso della positività ultima del mistero che l’alienazione e il limite non diventano, o non restano, obiezione, ma diventano addirittura l’opposto, un urto che più spinge a dare. Si tratta di una lotta, di una partecipazione nella lotta dentro la storia, per il mondo concreto».

Questa drammatica dinamica agonistica trova la sua espressività in un componimento Il pioppo, scritta dal suo letto di dolore, dove visse la sua malattia e dove davanti alla finestra vide «il pioppo severo»: «Vibra nel vento con tutte le sue foglie / il pioppo severo; spasima l’aria in tutte le sue doglie / nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime / tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero, e il tronco s’inabissa ov’è più vero».

Tutta la realtà proclama un oltre, lo afferma, e chiede all’uomo di tendere verso questa nuova incommensurabile scena, o meglio di attenderla nella sua domanda elementare. Egli fatto per il cielo, ma concatenato alla terra, come tanti suoi simili legati alla sua condizione, come scrive Roberto Filippetti: «Questa «domanda di vita» attraversa da un capo all’altro l’opera prima: frammenti gremiti di una domanda di totalità».

Nei Canti anonimi, secondo libro di Rebora, «si accentua la sua tendenza a scomparire come io per farsi voce, anonima appunto, di una situazione comune, quella della pena nella città moderna sempre più priva di umanità, e dell’ansia amorosa per qualcosa di diverso e più alto» (E.Gioanola). L’acme poetico di Rebora si respira nella vibrante Dall’immagine tesa, definita come una delle più alte espressioni poetiche e, allo stesso tempo, religiose del nostro tempo, di «un fatto che venga a dare un senso all’attesa e alla tensione», come commenta Romano Luperini.

L’angoscia della prima guerra mondiale è il senso del vuoto, di non scorgere e affermare nulla sotto di sé. Eugenio Borgna, all’incontro «Clemente Rebora: l’ardore il limite, l’eterno. La vita come tensione», organizzato dal Centro Culturale di Milano, ha analizzato e descritto questo sentimento in Rebora: «Il filo rosso di questa mia prima sequenza è dunque l’angoscia come esperienza umana  (sebbene possa essere anche un’esperienza psicotica, ma io ne parlo  come esperienza umana) che però è anche una esperienza creatrice […]. L’angoscia della morte diventa sul piano lirico angoscia creatrice. I Canti anonimi, pubblicati nel 1922 ma incominciati nel 1900, hanno come leit motiv il Mistero o l’attesa. In queste poesie si spegne la fiamma divorante dell’angoscia: la guerra è finita e Rebora entra in una vita normale, almeno apparentemente».

L’angoscia come portatrice di significati per creare, scrivere, raccontare la crudeltà e la durezza di quel «corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata».

Il senso del nulla non fa implodere la ricerca di un infinito che si presenta: redimere non è risarcire. La redenzione è il bacio che non lascia sole le labbra: «Eppure la cosa capita / non redime la cosa sofferta; / e la parola senza bacio / lascia più sole le labbra». Le parole senza presenza subiscono al condanna al vuoto, tremano come dallo sperpero di un bisogno, come da una culla. In quel bacio c’è tutta la dimensione del nostro essere.

La trepidazione dell’immagine è l’attesa di qualcosa che nell’«ombra accesa» ha imminenza di passaggio. Egli spia i suoni impercettibili di quel (sin estetico) «polline di suono» fra quattro mura dilatate di spasimo infinito, pur non aspettando immobile nessuno, ne avverte l’orlo della presenza. L’immagine tesa di Rebora è «la mia persona stessa assunta nell’espressione del mio viso proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis Hospes animae». Ma quest’Ospite arriverà improvvisamente e imprevisto (immagine già presente in Peguy), sbocciando, portando il dono della  vittoria sulla morte. Sarà un bisbiglio come la certezza di una nuova positività (il poeta si convertirà nove anni dopo) e come egli stesso scrisse a Montale: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Il silenzio di oltre trent’anni dai Canti anonimi (1922) ai Canti dell’infermità (1955), raccoglie il seme della conversione, ma non è silenzio assoluto (se non di pubblicazione), bensì tremore e affermazione di Dio: «Se il sole splende fuor senza Te dentro, / tutto finisce, in cupa nebbia spento. / orrore disperato, Gesù mio, / trovarsi in fin d’aver cantato l’io!».

Afferma ancora Eugenio Borgna, soffermandosi sul silenzio di Rebora, molto simile all’angoscia paolina, o a quella di Teresa d’Avila, o del grido sulla croce che fa scoprire l’eterno: «L’angoscia creativa, l’angoscia umana che ritroviamo nelle poesie composte in quegli anni fatali quando non sarà più l’angoscia del campo di battaglia ma l’angoscia che la malattia fa riemergere, angoscia riscattata dalla speranza, diventa una nuova, rinnovata, misteriosa sorgente di creatività, e allora i Canti dell’infermità non si capirebbero fino in fondo se non le ricollegassimo anche al fatto che dopo venticinque anni di silenzio rinasce una esperienza creativa che sia per la concomitanza molto stretta con questa malattia devastante sia per i contenuti, seppur trasfigurati,rimanda ai componimenti nati nel periodo della guerra. Questo lungo silenzio […] permette di meglio comprendere le ultime poesie, insieme alla rinascita dell’angoscia, che pure è ormai segnata, incrinata dalla speranza».

La febbrile e micidiale fertilità degli ultimi anni, accompagnati dal cuore del pensiero rossiniano, destinano l’infermità al percorso del suo dettato esistenziale e del giovanile gemito ramingo senza Cristo, degli amori giovanili, della guerra, dell’abisso «preso dall’artiglio dell’io», del cielo dell’alba raccontato dal fievole belato della Grazia.

Bacerà la tenerezza di Dio, accadrà l’Avvenimento che consente di sfiorare e poi di toccare la dimora tenera del suo compimento di uomo, che attraverso la sofferenza partecipa alla redenzione di Cristo, centro del cosmo e della storia.

In un’umanità vissuta interamente, la realtà rivela il suo essere segno, «il grido diventa azione di fede-sveglia nel mondo, e da lì sorge la speranza», per sorprendere la possibilità, ultima e positiva, di una risposta, di un’azione di fede nel mondo e in cui le cose rappresentano il vertice di un rapporto in cui vivere e costruire:  «Nella sommersa pace il guardar mio / tenue senso di un crepolìo / D’aria che a galla su per l’acqua levi; / Cammino in nimbo, e rarefatto inclino / Sinuoso al fosforico sentiero: / Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; / E per l’amante cuor nulla è mistero».

Clemente Rebora archivio Giovannetti/effigie 

rebora c., Le poesie (1913-1957), Garzanti, Milano 1999.

id., Diario intimo. Inedito, Interlinea, Novara 2006.

Aa. Vv., A verità condusse la poesia. Per una rilettura di Clemente Rebora. Atti del convegno(Milano, 30-31 ottobre 2007), Interlinea, Novara 2008.

boine g., in “Riviera ligure”, settembre 1914.

borgna e., in Clemente Rebora: l’ardore, il limite, l’eterno. La vita come tensione, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di Clemente Rebora, Centro Culturale di Milano, 2007.

cecchi e., in “La Tribuna”, 12 novembre 1913.

contini g., Esercizi di lettura, Einaudi, Torino 1974.

filippetti r., Il per-corso e i percorsi, vol.III, Itaca, Castel Bolognese 2002.

guglielminetti m., Clemente Rebora, Mursia, Milano 1968.

giussani l., Le mie letture, BUR Rizzoli, Milano 1996.

lauretano g., Incontri con Clemente Rebora. La poesia scoperta nei luoghi che le hanno dato vita, BUR Rizzoli, Milano 2013.

marchione m., L’Imagine tesa. La vita e l’opera di Clemente Rebora, Storia e Letteratura, Roma 1974.

musini g., Le pietre e il suono. Moderno e anti-moderno nella poesia di Clemente Rebora, «Microprovincia», n.38, a cura di Franco Esposito, 2000.

pautasso s., Rebora e la poesia del Novecento, «Microprovincia», n.38, a cura di Franco Esposito, 2000.