Il Segno e la Veggenza di René Magritte

di Irene Battaglini                              15 luglio 2013

L’Immaginale

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«Quanto ai nomi, diciamo che nessuno di essi ha alcunché di stabile, e che nulla impedisce che le cose che ora sono dette rotonde vengano chiamate rette e che le rette vengano chiamate rotonde, e [diciamo dunque] che le cose non sarebbero meno stabili per coloro che ne mutassero i nomi e le chiamassero in modo contrario».

Platone, VII Lettera, 343a 9-b 4

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René Magritte, La clairvoyance, 1936La Clairvoyance è un autoritratto ad olio su tela del 1936 di Magritte. René Magritte (belga, 1898-1967) è il pittore contemporaneo più discusso, studiato e interpretato al mondo. La sua adesione al surrealismo è il movente per fare della sua arte un ampio scenario simbolico, linguistico, onirico e metaforico, prestandosi ad ogni forma di interpretazione psicoanalitica, di diagnosi per lo più ispirate alla dinamica, peraltro assai congrua, del trauma della morte della madre, avvenuta in circostanze mai del tutto chiarite.

René Magritte dipinse talmente tanto, soggetti ed elementi così diversi, utilizzando oggetti e “lemmi figurativi” così privi di un legame sintattico elementare, eliminando ogni logica “conscia” o “inconscia”, da far pensare ad almeno tre questioni di fondo: la prima, che non si tratti di oggetti e di soggetti scelti da Magritte, ma più verosimilmente di universi esperienziali, in cui immagine e parola sono connessi da un’intima storia di amore e di ontologia semantica; in secondo luogo, che si esime dalla triangolazione interpretativa per andare in una dimensione narrativa autonoma, dotata di coerenza interna, il cui unico condizionamento è determinato dalla scelta di utilizzare un mezzo (la figurazione, perché la pittura è probabilmente l’arte che gli è congeniale) connaturato ad esser visto, dotato di centralità espositiva – e pagandone il prezzo; in terza istanza, emerge una caratteristica portante di Magritte: il bisogno di far emergere con chiarezza e determinazione, con principi di trasparenza e bellezza, il proprio mondo interiore, – anche del trauma, ma non solo – diventando testimone fedele e docile di una condizione creazionista, di una cosmogonia geneticamente governata dal cromosoma dell’eleganza, dell’armonia, dell’ironia. Non una archeologia simbolica e insondabile, mistificante. Non è solo il mistero a far da contrappunto glorioso alla vividezza dei colori e al nitore delle forme; non è solo la diade vita/morte a far da trama liturgica alle simbolizzazioni; forse è l’espressività di un popolo – quello che abita l’isola di Magritte – di un’era antisimbolica, linguisticamente smembrato dai sostegni metaforici, alla ricerca di un nuovo punto euclideo, di un dio che ne definisca l’alfa e l’omega. L’impressione è che un universo extramondano abbia deciso di materializzarsi e di usare le nostre competenze linguistiche per avvicinarsi a noi, per farsi intravvedere, scorgere solamente, seppure manifestandosi con fervida abbondanza. Come se il dio avesse deciso di uscire dal tempio, ma non di rivelarsi nella sua piena identità. Venuto nel mondo, si lascia cullare dalla fantasia degli uomini, e desidera aprire una sfida scoprendo le carte con l’ambiguità – dosando con saggezza e astuzia impeto e quiete, favola e stigma, legge e verità – di chi vuole a lungo impiegare la scena che gli viene concessa, sapendo di dover prima o poi entrare nell’archivio museale delle cose dell’arte. Sostiene Collina, psicologa dell’arte:

«La realtà e la surrealtà delle immagini magrittiane, il senso e il nonsenso in cui si dibattono attraversando continuamente quel confine tra razionale e irrazionale che i surrealisti volevano abolire, nascono all’interno della struttura stessa della visione; egli non descriveva, come Dalì, i sogni, a lui bastavano le sue visioni e il mistero si genera dal cuore stesso della realtà, come la morte di sua madre; e una vasta letteratura internazionale dalla quale attingeva ispirazione, come le opere di Stevenson, Hegel, Kant, Baudelaire, Verlaine, Poe e Lautréamont. E proprio in quest’ultimo, di cui Magritte illustrò  i Canti di Maldoror, è da ritrovare la fonte della figura dello “stregone” come colui che, analogamente all’artista, è partecipe attore dei misteri del mondo».[1]

Ed è il mercuriale – che si maschera da stregone, briccone, sciamano, artista – a farci da guida nel grande gioco delle rappresentazioni di Magritte, che se è vero che rimandano sempre agli scacchi, al metafisico, all’arcano disegno, è vero anche che rimandano ad un ulteriore che ci appartiene sotto le scarpe, che abbiamo ad un centimetro dal naso, che possiamo scorgere con la coda dell’occhio: qualche cosa che non possiamo centrare del tutto, che non possiamo definire, ma che appartiene al quotidiano – perché adopera le strutture del nostro immaginario – e non al mitografico o al mistico.

Clairvoyance è segno e destino, è intelligenza metacognitiva, è intuizione e obbedienza. Eppure i protagonisti sono oggetti e soggetti “semplici”, dotati di autonomia scenica. Proviamo ad elencare i mattoncini della composizione, partiamo dai fondamentali, adottando il criterio del “rasoio di Ockham” e prendendo tutto l’insegnamento di Wittgenstein «non pensare, ma osserva!» (1967, 46): a volte l’indagine è investigazione, ma si deve basare sulla descrizione fenomenologica, sull’osservazione della realtà: un tavolino coperto da un drappo rosso, un uovo, un cavalletto, una tela; il pittore, in autoritratto e vestito con rigida eleganza, seduto compostamente su una sedia, con una tavolozza sulla mano sinistra, che “dipinge” una piccola aquila grigio-azzurra sulla tela. Qual è l’elemento che genera dissonanza? Che cosa è apparentemente incongruo, o – sempre con Claudia Collina:

«in prospettiva antropologica, [invece], l’immagine dell’artista che dona la vita, che anima con la sua materia, riporta alla spiritualità fideistica nella potenza creativa della divinità che alita il soffio vitale in forme di argilla, ma porta con se anche il suo ambivalente contrario, come ogni situazione: l’artista è mirabile, ma pericoloso.  È creatore possente, ma mago cattivo, che come alita la vita la pu  anche togliere. E da questo sincretismo d’origine antropologica alla lettura psicanalitica della psicogenesi del creare, indissolubilmente legata al suo opposto del dialettico distruggere, il passo è breve.  Magritte, come si vede dalla fotografia e dal dipinto Doppio autoritratto – Magritte mentre dipinge la chiaroveggenza e La chiaroveggenza, si autocelebra in veste di mago chiaroveggente portatore di messaggi simbolici sinonimi di presagio e messaggi celesti, come l’uccello che è anche latore di stati spirituali e superiori dell’essere; deux artifex in piena onnipotenza confermato anche dal ritratto da Terapeuta in veste magica di viandante e custode dello spirito».

Sappiamo anche che Magritte non amava l’interpretazione psicoanalitica. Negli Scritti:  «L’arte come la concepisco io, è refrattaria alla psicanalisi: essa evoca il mistero senza il quale il mondo non esisterebbe, ossia il mistero che non si deve confondere con una sorta di problema per quanto difficile sia. Io mi sforzo di dipingere se non immagini che evochino il mistero del mondo. Perché ciò sia possibile devo essere ben vigile, ossia devo cessare di identificarmi interamente con idee, sentimenti, sensazioni».[2]

Come facciamo a liberare Magritte dal destino indesiderato della psicoanalisi – seppure legittimo, utile, essenziale ad agevolare la lettura delle opere? Leggere le opere come un test proiettivo è ingiusto. Abilitare i quadri a insegnanti di linguistica è un’operazione altrettanto impropria. Danno suggerimenti, elicitano fantasmi, emozioni e forme, aprono un discorso. Ma noi dobbiamo capire che cosa stia facendo Magritte. Escludiamo la celebrazione narcisistica del self-portrait: sarebbe una condizione ovvia e a priori di ogni qualsivoglia autoritratto, e l’artista belga aveva il talento per ritrarsi in ogni guisa, in ogni condizione desiderata, con ogni mezzo espressivo disponibile. Dobbiamo chiederci perché lo faccia in quel modo, con la meditata tecnica dello storyboard, in cui non si lascia nulla a al caso. Escludiamo la volontà oniromantica: è ovvio che dentro un uovo si celi l’embrione di un oviparo, che sia un rapace o un gabbiano, è un fatto meramente incidentale. Quello che non è ovvio è perché un pittore debba interrogarsi su cosa dica un uovo. Infatti egli non lo fa. Egli non si interroga, ma si pone nel gesto del “sentire”, in una dimensione come di ascolto attivo dei movimenti all’interno dell’involucro gestazionale. Osserva con grande umanità il piccolo uovo, tende l’orecchio, è “professionale” e al tempo stesso “familiare”. Fa da tramite, da diaframma, da cassa di risonanza? Neppure, o comunque non si esaurisce in questo la funzione mantica, e non è neppure utile al processo di differenziazione senza l’apporto del soggetto che trova la propria strada di individuazione. L’aquila azzurrognola deve avere la sua parte nella storia.

… Il protagonista solo apparentemente dipinge. Di fatto sta osservando e ascoltando l’uovo, e non solo dipingendo. È l’aquila a farsi dipingere perché sembra averlo deciso: è tutt’altro che appena nata. Esce fuori, vuol volare. Egli guarda l’uovo perché è là dentro che stanno il genoma, il disegno, la mappa del viaggio. Ma non è un chiaroveggente, perché come abbiamo detto non occorre esserlo per sapere che dall’embrione si manifesterà l’individuo: vuole dirci che il chiaroveggente si lascia vedere dentro e mette in forma scritta, figurativa o verbalizzata i suggerimenti non già dell’uovo, ma di quell’individuo che là dentro è costretto ad albergare. Egli libera. Non è dunque solo stregone, ma ostetrico: disegna il parto autoctono di un individuo ben differenziato, in grado di dire delle cose precise, dotato di esperienza e dignità. Eppure manca ancora qualche cosa, non è necessario l’ostetrico se non alla presenza incombente di una puerpera. Ebbene, il pittore-veggente è cavità endometriale, è luogo di attaccamento e prima base sicura, è nido e valva di perla. Ma è sopra ogni cosa la scena primaria del delitto dell’essere-nel-mondo: una colpa priva di fondamento che è fondamento del codice morale.

Quindi è il processo di re-metaforizzazione e non l’immagine a far da quaderno per il nostro apprendimento. È un materno indiscutibile, che non si offre nella struttura standardizzata – rotonda, concava, toroidale, neppure nell’identità orientale vuoto = forma. Salta la metafora e salta il dominio target della metafora. Chi vuole comprendere, si accosti con silenzio e con attenzione, si liberi dalle preordinate e – seppur pertinenti ed eleganti – restituzioni lacaniane sulla natura che imparenta linguaggio ed inconscio. Il problema è l’archetipo, la sua qualità non frammentaria ma densamente unitaria, che deve essere scissa per essere analizzata, interrogata, segmentata e resa utile allo psicologo.

Il mercuriale – la qualità visionaria e trasformativa – è mescolato (e non invischiato) allo ctonio, al materno, al generativo, in una unità compositiva di magistrale forza espressiva, anche per le felici proprietà degli elementi: tre supporti quadrati (tavolino, tela, tavolozza), tre esseri viventi (uovo, pittore, aquila), tre supporti “bucati” (cavalletto, sedia, tavolozza), con un unico piccolo pennello a far da strumento chirurgico, da estensione della mano-levatrice: non è forse la Chiaroveggenza di Magritte, una retorica intorno all’arte della maieutica? Il valore dell’opera, se diamo credito a questa nostra ipotesi, diventa il cuore di una questione conoscitiva che intende andare nella direzione filosofica e morale, restituendo alla pittura una funzione non solo decorativa e sentimentale ma intellettiva, non solo linguistica e comunicativa ma morale in senso alto, di costruzione di tematiche proprie di ogni universo. In altre parole, il processo è protagonista, la relazione è decisiva, la mappa è centrale, mentre oggetto, soggetto e segno sono periferici, strumentali. Non si tratta quindi di una abolizione della metafora, ma della istruzione di processi di metaforizzazione complessi, riordinati, ristrutturanti del pensare, del nominare, e in definitiva del “vedere”. Quindi non è solo una riparazione della ferita portata dalla madre-morte del piccole René, ma della grande occasione di cogliere nei segni dei fatti della nostra vita quello che è il cuore della ricerca dell’oggetto perduto e dell’oggetto ritrovato. Una poetica dello sperdimento e un colore acceso a celebrare la nascita come apertura al mondo della logica e della semiotica: perché se l’aquila viene al mondo pronta per volare, tesa verso un “alto”, l’omo nasce animato dal desiderio dell’ “oltre”, dell’autentico Sé che è «bisogno di libertà di vivere», per dirla con David Foster Wallace.

Sostiene Arturo Martone, filosofo del linguaggio:

«Di là dalle questioni interne al testo wittgensteiniano (Voltolini: 2003), la pratica del vedere come, almeno in questa lunga notazione di LW, concerne sempre e soltanto il vedere A come B, ovvero A nei termini di B, concerne cioè tutti quei casi – percettivi, immaginativi e fantastici, interpretativi o infine propriamente conoscitivi -, nei quali accade come uno spostamento o trasferimento di senso, da A a B e viceversa (nel senso dell’interazionismo di Black: 1983), nel senso cioè che, proprio come s’era richiamato per il processo di metaforizzazione, anche qui un topic viene ridefinito nei termini di un vehicle, ovvero un dominio fonte viene ri-categorizzato nei termini di un dominio target. Dicendolo appena diversamente, certe proprietà vengono sia mutuate, o per riprendere quella già vista terminologia jakobsoniana, selezionate a partire da un dominio target o vehicle, e sia riferite ovvero combinate ad altre proprietà, quelle del dominio fonte o topic. E però, e sarà proprio questo uno dei punti conclusivi di questo contributo, è ammissibile che oltre al vedere A come B, si dia anche un vedere A come A (o anche, certo, un vedere B come B)? Che vuol dire questa domanda? Con essa ci si interroga sul senso, ammesso pure che se ne dia uno, di quelle cosiddette proposizioni identiche ovvero tautologie che, com’è noto, sempre Wittgenstein riteneva, se non propriamente insensate, come appartenenti tuttavia al simbolismo della logica (1964: 4.46, 4.461, 4.4611, 4.462, 4.463, 4.464).» [3]

Alla luce della logica, tutto appare nominabile: archetipi, figure, simboli. Ad esempio: l’uovo è simbolo della vita, della nascita. Il viaggio invece nel simbolismo della logica e nel processo di evoluzione metaforica che è interno a tutti i linguaggi, è un viaggio a ritroso, a dover nascere e camminare su un sentiero magmatico, nella luce crepuscolare dello sguardo del maestro-veggente. È un viaggio ai margini della poetica di Magritte, che ci apre alla vastità e al precipizio come fa l’uomo di Friedrich affacciato al mare di nebbia. Si affida alla natura, sorella simbolica, ma non troppo. Sorella di fatto, capace di attendere che il poeta e il pittore si annidino dentro i suoi millenni alla ricerca del vero Sé.



[1] Claudia Collina, Università degli Studi di Bologna, “Didattica & Ricerca  a.a. 2006-2007”, Gli autoritratti di René Magritte alla luce della psicoanalisi,

http://www.psicoart.unibo.it/Interventi/Interventi%20Collina%20Magritte.pdf

[2] René Magritte, Scritti, traduzione a cura di L. Sosio, Milano, Abscondita, 2001

[3] Arturo Martone, Università degli Studi L’Orientale di Napoli, Tra metaforizzazione e nominazione. Una ipotesi di ricerca.   http://www.unior.it/userfiles/workarea_477/Martone%20LZ%202%2029-12-2010.pdf  [Grassetti miei].

Rafael Alberti e l’immagine che freme

di Andrea Galgano                                         10 luglio 2013

Poesia Contemporanea

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Rafael Alberti

La poesia di Rafael Alberti (1902-1999) è una grazia colorata. Come l’Andalusia che ha dato origine al denso filtro onirico del suo spasmo, in linea con la tragica contadinità di Lorca, ma che ha sviluppato i prodromi di una allegria briosa, dinamica, in un clima che è «un disegno che iscrive le cose in una luce mattutina, una luce senza ombre né tramonti» (Vittorio Bodini).

Nel sacro fuoco della pittura Rafael Alberti ha albergato, ne ha penetrato l’essenziale e l’indefinibile, con la luce, ricolma di ardore, di quadro fervido, di nostalgia per la sua baia di Cadice, che nei suoi spostamenti, come accadde nel 1917 a Madrid, rimane fremente spazialità di infanzia originaria, e che si assesta in un decoroso spazio visivo, «per dipingere la poesia col pennello della pittura» (Alla pittura, 1945-1952).

In una intervista Marìa Asunciòn Mateo ricorderà che «a Rafael bastavano un pennarello, un quaderno e una camicia sgargiante per essere felice, seduto nel giardino a disegnare e scrivere poesie. Non chiedeva niente di più. Era questa la sua grandezza».

È nella traccia visiva, esiliata e primigenia, che riemerge il suo approdo, essenziale e parco di colori. Il suo cromatismo conosce il tempio della fedeltà, mai recisa, con l’assetto antico e acceso del mare meridionale, grembo di azzurri e bianchi, come le spume, le vele, le saline.

È il suo luogo che diventa sostanza di osservazione e abbandono, dalle «dune di sabbia calda», al «rubino che arde tra le mani» «nell’abbandono di un sogno».

È il volto di Alberti che rappresenta la sosta e i passaggi di stazioni invisibili. È l’invisibile, stregato nelle visioni, come scrive ancora Vittorio Bodini:

«Vi è fra il mondo interno e il mondo esterno di Alberti, fra la sua emozione soggettiva e la porzione di realtà oggettiva che investe, un grandissimo equilibrio affatto insolito nella poesia spagnola, che approda non al realismo ma a una realtà artistica, o a una immaginazione formale (come dice L.F. Vivanco) lievemente idealizzante, quanto basta per far parlare la critica di un Alberti italianizzante, di un italianismo che ha profonde radici in due avi, il nonno materno e il nonno paterno, entrambi toscani. Questo italianismo di Alberti è un filone non trascurabile, concordemente ammesso dalla sua critica, ma contrastato e sopraffatto da altri caratteri, come l’indole andalusa – allegria di vivere, scherzosità, grazia – e un’educazione letteraria esclusivamente ispanica».

Se il suo “ulissismo” da marinaio dell’Atlantico, fornisce il segno di una ricerca di spasmo, il forte miracolo della sua architettura visiva, fornisce l’impronta di una rara freschezza invasiva.

Marinaio a terra (Marinero en tierra 1924), che ottiene il Premio nazionale di letteratura, scolpisce il suo giovane autoritratto, impregnato della nostalgia del simbolo.

La realtà è simbolica perché unisce i vessilli e i rimpianti marini alla sua condizione di abitante della Sierra di Guadarrama, in un concerto di presenza-assenza che finisce per inventare le linee intermedie di sogno o di scalmana, per gridare il cielo della stanza della sua geografia ansiosa e rigogliosa, come la neve che pattina sulla luna: «è caduta la neve sulla luna. / Pattinano gli abeti sopra il gelo; / la tua sciarpa arricciata ascende il cielo / come un addio che il chiaro cielo stria. […] Un brinato silenzio ti corteggia, / si stesse nella luce dei fanali, / mentre tu incrini il candido cristallo. / Addio, pattinatrice! / Il sole albeggia / le gelate terrazze siderali, / dietro a te, Malva-luna, pattinando».

La danza astrale della donna «ardente-e fredda» che conduce nell’universo o l’inconducibile isola, segnano il cammino del mare, con «l’onda sempre si spegne sulla spiaggia», come lotta della vita nell’arena del tempo, come l’appartenenza alla sua origine marina o sottomarina, o l’immagine di un immaginario venditore subacqueo che grida e offre la sua mercanzia: «ah, come starei bene / in un orto del mare, / con te, ortolana mia! Su un carretto, tirato / da un salmone, che allegria / vendere sotto il mare salato, / amore, la tua mercanzia! / – Alghe, fresche di mare, / alghe, alghe».

Scrive Josè Bergamín su Marinero en tierra: «Quando diceva le sue canzonette, mettendosi la mano a bucina davanti alla bocca, come per bandirle, tutto s’empiva di allegria, dell’allegria del banditore mattutino: un’allegria fruttale, verde e fresca; allegria di mercati, di fiere, di vessilli; l’allegria di un cielo radioso in cui esplode un clarinetto stonato; l’allegria del suo volto giovanile e umano, che traboccava da tutto e tutto colmava nella sua follia…».

Ernesto Gimenez Caballero ha insistito sulla natura giullaresca di Alberti, in una prospettiva vigorosa e surreale che spodesta il vuoto, per insediarsi in un mare alto e naufrago, flessibile ed elegante:

«Il futurismo ti ha rifornito. Alberti, maglione bianco, pantaloni larghi, macchina da scrivere per i suoi versi, innamorato di Charlot; poesie assonanti e poliritmiche, entusiasmo per il non convenzionale: vagabondi, mascalzoni, toreri, sportivi, ricchi tenutari che ti portano in giro in macchina di tanto in tanto come facevano i cavalli dei magnati medievali con i giullari e i divi eletti. Di corte in corte, di dama in dama Alberti, sei un poeta cortese, cortigiano. Picaro. Dall’Andalusia hai tirato fuori lo scandinavismo, quello romantico di Bécquer e il lunatismo di Juan Ramón (non dimenticare che ti doleva il petto e che sul cuore ti sono cresciute violette). Ma hai anche ereditato uno splendido suddismo, non sempre valutato come merita. E la sensibilità per la norma, per la disciplina, per la raffinatezza dell’essenza poetica, sensibilità della migliore Andalusia» (p. 170).

In un articolo su «Vuelta», Octavio Paz evidenzia la potenza seduttiva e fascinosa del repertorio poetico di Rafael:

«Una delle mie prime letture è stato Alberti. Leggendo le sue poesie sono penetrato in un mondo in cui le cose vecchie e le realtà consumate, pur essendo le stesse, erano diverse. Avevano cambiato pelle e sembrava che fossero appena nate, animate da un entusiasmo contagioso. Lessi quelle poesie – anche le più tristi e misteriose – con gioia, come se stessi cavalcando un’onda verde e rosa sulla pianura del mare, popolata di tori, delfini, sirenette, tritoni e ragazze cadute dal cielo, intrepide nuotatrici di tutti i maridell’amore- per non parlare delle naiadi delle stratosfera, come Miss X, sotterrata dal vento dell’est. È stato un esercizio vitale: imparare a bere la luce di ogni giorno, pensare con la pelle, vedere con la punta delle dita».

L’inquadratura poetica e visiva di Alberti si insedia nell’eclettismo fecondo che lucida la tensione creativa in un tracciato di radice e verità che si fa inquieta quando ricorda e rammenda le linee del suo vertice emotivo. Il passato acquista la dinamica del recupero della materia vivente, in cui la luna, le pianure, le donne amate, i viaggi magici e i paesi di sabbia e deserto, sollecitano il remoto anelito di un infinito presente, come ricorda Ernesto Sábado:

«quante volte hai decantato la bellezza della tua terra gaditana, il tuo mare, il tuo cielo, i tuoi imponenti tori destinati a quel sacro sacrificio che viene dal profondo della storia mediterranea. E quanto abbiamo apprezzato quelle tue visioni, perché l’arte è a volte, la cosa più individuale e più universale che esista, perché il cuore dell’uomo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, è fatto delle stesse cose. E tu, così profondamente andaluso, hai destato ammirazione nei luoghi più remoti della terra ed hai incitato i popoli alla fratellanza così come solo l’arte può fare».

La ricerca della patria paradisiaca e infantile si accompagna, sin dall’inizio, alla discreta e fremente presenza femminile (La amante, 1956) che conferisce freschezza profonda alla minuta e umanissima realtà albertiana, popolare e dotta, come afferma José Hierro:

«quello che fa Alberti non è, alla maniera di Manuel Machado, imitare una voce popolare viva ma, interpretare una voce popolare che è stata e che non è più; condivide, probabilmente, il punto di vista di Juan Ramón Jiménez e viaggia verso il passato per impregnarsi dell’incanto della raffinatezza perdute. Le brevi poesie dei primi libri, Marinero en tierra e El alba del alhelí, sono strettamente collegate con le raccolte rinascimentali: espressioni, accenti, libertà metrica e a volte quella rottura finale che si fa beffa della rima perché riappare un verso quando non ce lo aspettavamo, un verso di cui avevamo dimenticato il suono finale che chiude la canzone a mo’ di ritornello. Come in questo passo del Cancionero de Barbieri che potrebbe benissimo appartenere a La amante del nostro Rafael Alberti: “No pueden dormir mis ojos, / no pueden dormir. / Y soñaba yo, mi madre, / dos horas antes del día / que me florecía la rosa: / el vino so el agua fría: / no pueden dormir”».

In L’alba della violacciocca (Alba del Alhelí, 1925-1926) e in Cal y canto (1926-1927), il romance fornisce ampiezza alla descrizione di una società rurale che è come se fratturasse la festosa ricchezza marina, per assegnare alla pagina il dramma e il mistero.

L’esperimento del futurismo, dell’ultraismo e del creazionismo, si impasta del recupero di Gòngora, per celebrare l’ambizione di un linguaggio ironico e complesso, che celebra, irrora, solleva il mondo a nuovi cieli e gioca con le penombre rapide:

«Biondi, lucidi seni di amaranta, / limati dalla lingua d’un levriero. / Portici di limoni, fuorviati / dal canale che monta alla tua gola. / Rosso un ponte di riccioli che avanza / fa ardere gli avorii tuoi ondulati. / curvo, morde e ferisce i denti esangui, / librandoti nel vento che ti innalza. / dorme la solitudine nel folto, / calza il piede di zeffiro e poi scende / dall’alto olmo al mar della pianura. / Ecco il suo buio corpo che s’accende / e, gladiatrice, come brace impura, 7 fra Amaranta e il suo amante si distende».

Annota José Bergamín:

«C’è castità nella poesia di Rafael Alberti – limpidezza, purezza – sicura, decisa, dura, duratura, severa: di calce e canto. I suoi angeli – o il suo angelo Andaluso (arcangelo tutelare) – gli costruirono quel muro così profondamente andaluso. Di Cal y canto, la poesia di Alberti si innalza e si afferma, verticale, tocca terra, guarda il mare tra due cieli. Rompe e definisce la luce stessa come il muro imbiancato di un compasso o di un cortile di una casa andalusa di tradizione romana. La Siviglia del Rinascimento, Santa Clara, San Lorenzo, non del quartiere ebreo o musulmano. Siviglia becqueriana».

Nel 1927 una crisi violentissima, poetica, amorosa, politica ed esistenziale invade i suoi angoli fioriti e luminosi, producendo un cambiamento repentino di tenebra folta, che diventa un crampo febbrile e rivoltato. Da questo sconvolgimento nasce, nel notturno delle stesure, Sobre los ángeles.

Commenta Vittorio Bodini:

«Gli angeli di Alberti non hanno nulla a che vedere coi begli angeli cristiani, corporei e decorativi: sono enigmatiche sostanze, per lo più periferiche, dell’anima, che trovano nel poeta una perfetta oggettivazione: staccate dalla matrice, esse vivono la loro sintetica esistenza nel modo più autonomo e indipendente. I gesti che compiono sono di una straordinaria nitidezza, senza una sbavatura, sicchè non ultimo fra i pregi di questo libro è il contrasto fra la natura larvale dei suoi soggetti e la pulitissima precisione delle azioni che compiono, e in cui danno a conoscere la loro acuta diversità».

L’allegoria delle figure sintetizza lo strato più oscuro della coscienza che si impone nella fantasmatica crisi interiore. Angeli sconosciuti, angeli dei numeri e senza fortuna, angeli dei colori muti e disillusi, del dolore rappreso e della rabbia, «stelle erranti come bambini che ignorano la matematica», accompagnano i segreti e i sogni più umani e affondano nel loro prato incollocabile ed acre: «Tu non sei sola, dice l’angelo d’amore e morte a Maddalena nell’Andrea Chenier, io raccolgo le tue lacrime, sto sul tuo cammino e ti sorreggo. Che importa se tutto intorno è fango e sangue? Io sono la vita, sono quello che fa della terra un cielo. Sono l’amore…».

Il successivo Sermones y moradas (1929-1930) si appropria dello strepito delle ombre esangui, per confluire nell’umanità in lotta contro il fascismo franchista, in una poesia rivoluzionaria e marxista (Con los zapatos puestos tengo que morir).

L’appartenenza politica e il matrimonio con María Teresa León (con i viaggi successivi, dopo aver ricevuto dalla Junta para la Ampliación de Estudios, una borsa di studio per l’analisi del movimento teatrale europeo) segnano un’ansia di cambiamento che dirompe sulla scena.

La sua poesia si pone al servizio della rivoluzione sociale, della resistenza e dell’esilio, lanciando la sfida non solo da un verso civile, ma dalla grande aspirazione umana che invoca la strada (El poeta en la calle 1931-1935), in una precisione esatta e lucente: «Non è più profondo il poeta rinchiuso nel suo buio sottosuolo. Il suo canto raggiunge il profondo allorché, aperto al vento, è ormai di tutti gli uomini».

La semplicità della voce popolare ed eroica scopre la dignità davanti al mistero della morte, alla dignità lucente che cavalca l’aria, all’irrompere dell’avvenimento umano come soglia e legame.

Durante la guerra civile, Rafael Alberti milita nelle file repubblicane e poi fugge in esilio, prima a Parigi, poi in Argentina e infine a Roma. Al dolore per i morti della guerra civile si unisce la lontananza dalla Spagna, dai luoghi della sua anima che «nessuno può risarcire»:

«Fra realtà e fantasia, fra realtà e sogno, fra verità storica e una poesia che chiamano impegnata o non impegnata, io ho cercato di spiegarlo in un libro che si intitola Fra il garofano e la spada. Io credo che un poeta non nasca per parlare della guerra o di politica o di tanti fatti orribili che ci circondano quando apriamo gli occhi al mattino. Allora il dramma è questo, mio e di tanti altri, noi viviamo fra il garofano e la spada, fra la spada e il muro… Viviamo incalzati da una orrida realtà che ogni mattino distrugge i pensieri belli e giocosi, ci spazza via dagli occhi le cose grandi che possiamo vedere, facendo di tutti noi tanti schiavi di situazioni così drammatiche e spaventose che bisogna essere fatti davvero di pietra per non parlarne, perché non si riflettano in quello che si fa… Perché a me piacerebbe parlare del mare che mi ha sempre dato tanta gioia, del mare limpido e puro, incontaminato, libero da navi da guerra, del cielo terso, con le stelle, senza voler sapere che viene attraversato da aerei che lanciano bombe e riempiono la terra di morti, l’aria di grida strazianti… Ci si sveglia al mattino pensando che il mondo è bello, un mondo in cui la gente è buona, i rapporti umani perfetti, e subito ti accorgi che tutto è diverso. Ma davanti alla guerra, un essere umano con un minimo di sensibilità, quale poeta soprattutto, può avere lo spirito, la coscienza di mettersi a parlare d’un uccellino che sta cantando su una rosa. Ecco l’origine di questa durezza che di quando in quando si fa sentire, di questa amarezza, di questi accenti talvolta pieni di coltelli. Sono un poeta che al mattino vorrebbe guardare il vecchio mare di Cadice, dipingere le barche che dipingevo quando ero bambino, i gabbiani, seppellire nella sabbia i testi di geometria, di storia, di latino e pescare: invece… non posso farlo… devo scrivere una poesia tremenda».

L’albero divelto, le cui foglie scoperte e nude gli impediscono di ricevere dalla terra il nutrimento vitale, dal suo golfo di ombre («Cerco di non trovare l’uscita, / di restare sprofondato / nel tuo definitivo, arenato, naufragato/ per sempre,/ Golfo d’ombre») promana il suo grido spezzato: «Certo il mio canto / può essere di qualsiasi luogo. / Ma queste radici spezzate, / ahimè, queste radici spezzate / a volte non me lo lasciano / esser del mondo, e neanche / di quella terra, soltanto di quella / piccolissima parte della Terra». Che è il suo tempio strenuo e felice che affluisce alla luce delle immagini e dei miti perduti, nell’approdo esiliato di una lontananza energica e dura, ma sfrondato di gracile grazia, come le sponde del Paranà (Ballate e canzoni del Paranà, 1953-1954), fresche e allegre nella loro dimensione fruttale, che riportano il baluginio delle terre agli occhi, in una luce irreale che sfronda l’infanzia: «Resta pur sempre la fortuna, il dono / infinito di poter tornare sui remoti / passi che demmo un dì in quei luoghi / che il nostro amore andò creando / come in un sogno» o ancora: «Il fiume appende alla cintura / una scimitarra blu di navi / E sopra, il cielo: un turbante / azzurro con uccelli bianchi».

I luoghi di esilio e esilianti, come Roma, ad esempio, (tornerà in patria solo nel 1977 e sarà anche eletto deputato), in cui diventerà parte del quartiere trasteverino, lamentandosi dei pericoli del traffico in Roma, pericolo per i viandanti (1968) («Lo si chieda al gatto / lo si chieda al cane / e alla scarpa rotta. / Al fanale perduto […]. / E all’ acqua corrente / che scrive il mio nome / sotto il ponte») e sperimenterà l’espressione “lirico grafica”, divengono tappe di un incendio esistenziale e vocalico che tenta di catturare la spazialità dell’essere, per divenire respiro, comporsi di respiro, farsi elegia di atlante perduto (come era già accaduto in Fra spada e garofano (1939-1940), Alta marea 1942-1944, Poesie da punta dell’Est (1945-1946), Ritorni della vita lontana (1948-1956)) e attesa consunta: «Non aveva la rosa compleanni o l’arcangelo. / Tutto, anteriormente al pianto e al belato. / Quando ancora la luce non sapeva/ se il mare nascerebbe maschio o femmina. / Quando il vento sognava chiome da pettinare / e garofani il fuoco e gote da infiammare / e l’acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. / tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo, / Allora, io ricordo che una volta nel cielo…».

Dopo ave ricevuto nel 1983 il premio Cervantes, e successivamente esser entrato nella Real Academia de Bellas Artes di San Fernando e in quella di Bellas Artes di Santa Cecilia perde la sua María Teresa León, nel 1988, vittima di una grave malattia.

Nelle liriche amorose Canzoni per Altair, la donna-stella illumina la vita e la via dell’uomo-poeta, «sei scesa, / stella rivelata dei miei occhi perduti, / e sei caduta su di me, fuoco d’amore / e nel mio sangue hai preso dimora fin da allora», come il confine e la visione che superano il tempo, coltre incantata e «energia astrale».

È interessante notare, come questa ultima finale produzione albertiana, si imponga in modo epifanico e frenetico, nell’attesa del giorno improvviso e nuovo e nel raggio sulla vita nuova poiché «sai bene che in me non muore la speranza, / che gli anni in me non sono foglie ma fiori, / che non sono mai passato, ma sempre futuro». Fino all’abbandono ultimo: «Entra tutta nel mio respiro e portami in volo nei tuoi cieli. Per sempre».

 

 

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