L’apertura di René Char

di Andrea Galgano                                                                                               26 giugno 2013

Poesia Contemporanea

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Non c’è poema di René Char, scrive Jean Starobinski:

«che non ci dia il senso dell’apertura. Uno spazio accresciuto appare dinanzi a noi, si illumina in noi, si offre ai nostri occhi aperti. Questo spazio non ha gli agi del sogno: è il volume brulicante e rude del nostro soggiorno terrestre, è l’istante del nostro respiro presente, rivelati nella loro piena estensione. Un luogo abitato imperiosamente s’annuncia; e la sua ampiezza ci è resa sensibile dall’empito di un’emozione che non sopporta di sentirsi disgiunta dalle grandi energie naturali: riconosciamo l’avvento della «materia-emozione istantaneamente regina».

L’ora presente che promuove il suo accrescimento di prospettiva, di luogo e di sguardo, si sviluppa nell’originaria spazialità inaccessibile e pronunciata, si sofferma sulla nominazione designata e integra, che si ammanta di lontananze e assenze.

La parola che afferma il suo annuncio, appartiene all’indicibile del linguaggio, all’assoluto intervallo della contemplazione estatica e della sottrazione: «La poesia è, di volta in volta, parola e provocazione silenziosa, disperata, del nostro desiderare una realtà che non teme eguali. Immarcescibile. Imperitura, no; perché corre i rischi di tutti. Ma la sola che visibilmente trionfa della morte materiale. Tale la Bellezza: apparsa fin dai primi tempi del nostro cuore, ora risibilmente cosciente, ora luminosamente attento».

Char continua, nel suo empito e nella funzione della poesia, a «fronteggiarsi dei contrari» e «raccoglierne la sofferenza e il frutto», come sostiene Starobinski, permanendo nella conciliazione e nella ferita, come squarcio silente e amoroso, che vive di guerra e di pace e in cui la poesia diviene «essenza del poema, […] messa di fronte a se stessa e resa visibile nella sua essenza, attraverso le parole che la ricercano» (M. Blanchot).

Quando essa si serra nella custodia di un precetto e di una definizione, l’assenza e la lontananza celebrano l’indefinibile, si affrancano in una liberazione che soggiace all’humanisme e all’allargamento di senso e di foglio: «Quando la nostra missione è quella di svegliare, si comincia col lavare se stessi nel fiume».

Giorgio Caproni, analizzando il vortice poetico di Char, scrive: «fra tutte le “poesie” da me lette ed amate in questi ultimi anni, è la più lontana dall’ “idea di poesia” che ciascuno di noi (per tradizione, per educazione, per abitudine) possiede, e la più stretta al cuore della poesia stessa, dove la letteratura o la poesia-che-si-sapeva-già non porgono più alcun soccorso al lettore, e questi, coinvolto da capo a piedi in quei bouts d’existence incorruptibles che sono i poèmes, rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un potere – d’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta altro non avesse fatto che risvegliarla, non inventando ma scoprendo; e quindi suscitando un moto, più che d’ammirazione, di gratitudine. Ho sottolineato i tre vocaboli non per ammiccare, ma perché possono essere, penso, tre piccoli sesamo, offerti dallo stesso Char».

Il suscitatore di vita celebra la forma contratta del mondo («Il poeta, / custode degli infiniti volti di tutto ciò che vive»), il cielo illuminato che riserva l’intensità del moto vivente («Bandita dai nostri occhi, la luce si è nascosta / da qualche parte nelle nostre ossa. La cacciamo / a nostra volta, per restituirle la corona»), la folgorazione dell’istante che ama lacerare i lacerti del silenzio («Non apparteniamo a nessuno, se non al lampo / di quella lampada ignota, inaccessibile, / che tiene svegli il coraggio e il silenzio») e della attesa, per ricomporsi, rigenerarsi, sostare nell’asserzione del presente, che, come scrive ancora Caproni: «è forse l’unica voce costruttiva, e vorrei dire, in senso proprio, edificante, nel cuore del generale sfacelo. È la voce viva e quasi magica, nourriture semblable à l’anche d’un haut-bois [nutrimento simile all’ancia di un oboe], d’un datore di speranza: d’un fautore acerrimo di libertà, nel più vasto e limpido senso laico. E nel più umano. D’un umanesimo che pianta le radici nello stesso suolo d’origine del poeta (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, circondario d’Avignone, dove Char è nato nel 1907) e che trae la sua maggior forza di vivo alimento proprio dalla catastrofe della guerra e dall’oppressione nazista, duramente sofferta e ormai sfondo morale del poeta, più d’ogni altro fratello dei suoi fratelli nel cristallo del proprio amore infinito. Sfondo, insieme con quello della lucente bellezza della terra (Char ha saputo ben fare sa toilette dans la rivière: e ogni sua parola è un essere vivente, uomo o albero o fiume o trota o allodola che sia), che nemmeno nelle poesie più schiettamente amorose verrà meno, sempre espresse con un tal sentimento etico della parola da trovare pochi termini di confronto».

La designazione di una meta per la parola richiede il superamento dell’ostacolo notturno, la falla dura e fulgida di un humus di fondo, oscuro e doloroso, che serpeggia nei recessi dell’indistinto e nella tenebra delle frasi.

Ma non si rinviene una nostalgia decorosa e fragile, non c’è fascino di origine o retrospettiva di slargo («Somigliamo a quei rospi che nell’austera / notte delle paludi si chiamano e non si vedono, / piegando al loro grido d’amore / tutta la fatalità dell’universo»), bensì tenta di strapparsi all’origine, alle regioni dell’inconscio, e, come sostiene Starobinski: «si manifesta come un sollevamento che, lasciandosi alle spalle una regione notturna, punta, attraverso la pura chiarità del giorno, verso un rischio ulteriore».

È nella chiarità densa dell’istante che la durata delle sue transizioni scorrono, nella temporalità disgiunta e rotta che sale la sua immagine interiore, come origine di arcipelago, urto, balzo, ascensionalità: «Oggi ho vissuto l’istante della potenza / e dell’invulnerabilità assolute. / Ero un alveare che migrava / verso le sorgenti del cielo / con tutto il suo miele e tutte le sue api».

Il movimento della poesia e della parola si accompagnano al moto del poeta, fusi e discinti nella accettazione di un pericolo smosso, nella massima intensità di un’altitudine franta che non ha terrore di lasciare lo spazio alla bellezza e al suo «cono d’ombra»: «Non c’è spazio, nelle nostre tenebre, per la Bellezza. / Tutto lo spazio è per la Bellezza», o ancora «Ognuna delle lettere che compongono il tuo nome, Bellezza, / nel posto d’onore dei supplizi, sposa la distesa semplicità / del sole, s’iscrive nella frase immensa che copre il cielo, / e si accompagna all’uomo impegnato a ingannare il destino / col suo opposto indomabile: la speranza».

In questi passaggi, la memoria prenatale di Char insegue le sue regioni segrete, come la notte, appunto, la terra, l’angoscia e la roccia.

Nell’antagonismo dell’ uomo «incerto dei suoi fini», si espone la gemma della diversità che frequenta il fondo sotteso delle tenebre, l’astro che si impone nelle braci, lo splendore numinoso della fecondazione antagonista, che percuote lo strappo e la ferita del respiro: «Proprio l’istante in cui la bellezza, / dopo essersi fatta lungamente attendere, / sorge dalle cose consuete, / attraversa il nostro campo rigoglioso, / lega tutto ciò che può essere legato, / illumina tutto ciò che deve essere illuminato / del nostro retaggio di tenebre».

La rigenerazione rievocativa dell’infanzia, come densità nata realmente per la nostra stoffa umana, slanciano la noncuranza e lambiscono il dolore della veglia, del ritardo dinamico dell’essere: «Porteranno fronde gli ostinati a limare la notte nodosa che precede e segue il baleno».

La «macchia di purezza / al di là della scrittura insozzata» è salvarsi dal naufragio di «un passante intento a passare» che spia l’alba cremisi e non annulla, per nessun motivo, la densità dei contrari, l’opposizione del limite tragico e slanciato di un istante imprevisto e di un palpito guardingo.

Commenta Starobinski: «Al limite estremo del sollevamento poetico, ritroviamo una nuova soglia, ma una soglia proibita che non può essere valicata. La cima non è una mèta conquistata e posseduta. Se il poema si slancia verso la sua più grande altezza – e accade che vi giunga con stupefacente celerità – vi si ritroverà meno ricco del suo acquisto che anelante a ciò che gli manca e ancora gli sfugge. La sommità è cosa di un istante, in cui l’ignoto, il futuro, il silenzio si manifestano col loro stesso sottrarsi».

Come ha aggiunto Adriano Marchetti, nella introduzione di Mulin premier e Au-dessus du vent, per cui «René Char, come Mandel’štam, che lui stesso ha tradotto, e Paul Celan da cui è stato tradotto, appartiene a quella generazione di poeti che è rimasta segnata dagli orrori del totalitarismo europeo e che tuttavia non ha abbandonato il cammino della resistenza dimorando nella tensione della poesia, compiendo un gesto che Simon Weil avrebbe chiamato action non agissante», la poesia di Char afferma il culmine di una costrizione: dapprima alla verità, poi alla cartografia dell’accumulo di una dimora possibile e il poeta, come egli scrive, «traducendo l’intenzione in atto ispirato, convertendo un ciclo di travagli in carico di resurrezione, costringe l’oasi del freddo a trapassare per ogni poro i vetri dello scoramento e crea il prisma, idra dello sforzo, del meraviglioso, del rigore e del diluvio, con le tue labbra per saggezza e il sangue per predella».

Come sostiene Stefano Raimondi, per cui

«Le immagini chariane sono una vera e propria mappatura dello spirito iconico nel corpo dell’espressione. Egli le costruisce per comprensione del mondo, per decifrazione delle cose e del circostante che lo invadono e lo coinvolgono negli istanti rivelatori che si forgiano nel farsi del poema stesso. La forza delle sue immagini scaturisce dalla certezza di un rapporto con una parte reale che lo orienta, che lo inizia, come un substrato oggettuale che lo perimetra e lo affranca. Nel procedere per apparizioni, Char è perfettamente conscio del rischio che corre, della possibilità di non poter più riprendere il suo carnet tra le mani, per raccontare il proseguire del giorno, delle ore drammatiche.

Nella stratificazione del dolore naufrago, nella polvere di una situazione, il frammento chariano non geme nell’inerzia di una vertigine, ma si pone come atto fiero, in cui il poeta fa fronte all’ignoto e resiste («Resistenza è solo speranza. Così la luna d’Ipnos, con tutti i suoi quarti stanotte, domani visione sul passaggio dei poemi.»), si pronuncia nell’attualità drammatica sospesa nella scansione dell’istante violento e dell’ascesa meridiana: «Mi faccio violenza per conservare, malgrado l’umore, questa mia voce d’inchiostro. Sicché, è con penna a testa d’ariete, senza posa spenta, senza posa riaccesa, concentrata, tesa e d’un sol fiato che scrivo questo, tralascio questo. Automa delle vanità? No, sinceramente. Necessità di controllare l’evidenza, di farla creatura».

Scrive Vittorio Sereni: «Nel suo insieme antielegiaca, antinarrativa, antidiscorsiva la poesia di Char è poesia d’illuminazione, ellittica, oracolare. Ha le radici nell’istante e nel fenomenico e dunque – contro ogni apparenza – nel quotidiano. Ma non è, in alcun modo, poesia del quotidiano nella misura in cui rifiuta di essere gestione poetica della quotidianità»

La violenza e la tenerezza della sua immagine colgono la sospensione miracolosa e vivente verso un orizzonte mai neutro che si protende al tempo rinviabile e leggibile, poiché «il poema è sempre sposato a qualcuno».

Annota Starobinski: «L’unità dell’amore non si compie nella fusione dei simili, ma nel rapporto asimmetrico in cui il desiderio fa fronte alla parte d’ignoto e d’assenza che, nella fortuna offerta, non smette mai di sfuggirci».

È la densità dell’istante che avviene a cogliere il tempo della vita e della scrittura, come i rosai selvatici, che da scomparsi, appaiono fulgidi e perseveranti, o la Francia delle Caverne, rischio essenziale di una sproporzione libera e generosa: «M’incanta il popolo dei prati. La sua bellezza esile e priva di veleno, non mi stanco di narrarmela. Il topo campagnolo, la talpa, oscuri bimbi perduti nella chimera dell’erba, l’orbettino, figlio del vetro, il grillo, pedissequo quant’altri mai, la cavalletta che schiocca e conta i suoi panni, la farfalla che simula ebbrezza e stuzzica i fiori coi silenziosi singulti, le formiche fatte sagge dalla verde distesa, e , immediatamente sopra, le rondini meteore … Prateria, sei lo scrigno del giorno».

Commenta ancora Starobinski: «La terra incrociata dai voli degli uccelli, la marcia sull’immutabile cammino, o ancora: il corso del fiume. Sono tutte immagini esemplari, precetti sensibili che insegnano l’alleanza tra la fissità e il movimento, tra l’essere radicati e il fluire. Il poeta trova nel mondo le grandi figure che rispecchiano il suo destino d’uomo dilacerato e di conciliatore, delle quali il poema dovrà ripetere il tracciato».

Decifrare il mondo nel tessuto del poema è «ritrovare, / in egual numero, gallerie nascoste, stanze armoniche, / e, nello stesso tempo, lembi di futuro, portici al sole, / sentieri insidiosi ed esistenze che si riconoscono alla voce. / il poeta è il traghettatore di tutto ciò che plasma un ordine. / Un ordine insorto».

La laconica espressività di Char diviene l’emblema di un passaggio di dimore, forgiate dall’alone esile e forte, in cui l’azione si fa natura, parola-veggente che si deposita nel fondo dell’esperienza e nel suo fascio di tenebre, come immagine tolta al nulla e restituita al campo radioso dell’essere: «Temo la scalmana non meno della clorosi degli anni che terranno dietro alla guerra. Presento che l’unanimità salutare, la bulimia di giustizia avranno solo una durata effimera, una volta sottratto il laccio che annodava la nostra lotta. Qua uno si prepara a rivendicare l’astrattezza, là un altro reprime ciecamente quanto è suscettibile da alleviare la crudeltà della condizione umana di questo secolo e di permettergli d’accostarsi con passo fiducioso al futuro. Già il male è dovunque in lotta con il suo rimedio. I fantasmi moltiplicano i consigli, le visite, fantasmi la cui anima empirica è un cumulo di muco e nevrosi. Questa pioggia che penetra l’uomo fino all’osso, è la speranza d’aggressione, la scolta del disprezzo. Ci si precipiterà nell’oblio. Si rinunzierà a scartare, a tagliare e guarire. Si supporrà che i morti sepolti abbiano noci nelle tasche e che un giorno, per caso, l’albero sorgerà […]».

 

 

char r., Ritorno Sopramonte e altre poesie, a cura di Vittorio Sereni, con un saggio di Jean Starobinski, Mondadori, Milano 2002.

id., Poesia e prosa, prefazione e traduzione di Giorgio Caproni, Feltrinelli, Milano 1962.

blanchot m., La follia del giorno. con due poesie di Georges Bataille e René Char, L’obliquo, Brescia 2005.

raimondi S., Il male del reticolato. Lo sguardo estremo nella poesia di Vittorio Sereni e René Char, CUEM, Milano 2007.

 

Anton Raphael Mengs e l’Arcadia del Mito

L’Immaginale                                                Prato, 16 giugno 2013

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 di Irene Battaglini

«Ut pictura poësis»

Quinto Orazio Flacco

 

«La bellezza consiste nella perfezione della materia secondo le nostre idee. Siccome Iddio solo è perfetto, la bellezza è perciò una cosa divina. Quanto più la bellezza si trova in una cosa, tanto più è la medesima animata. La bellezza è l’anima della materia. Siccome l’anima dell’uomo è la causa del suo essere, così anche la bellezza è come l’anima delle figure; e tutto quello che non è bello è come morto per l’uomo.

Questa bellezza ha un potere, che rapisce ed incanta; ed essendo spirito, muove l’anima dell’uomo, accresce, per così dire, le sue forze, e fa sì che si scordi per qualche momento di essere racchiusa nel ristretto centro del corpo. Da ciò nasce la forza attrattiva della bellezza: subito che l’occhio vede un oggetto assai bello, l’anima ne risente, e desidera unirvisi; onde cerca l’uomo di avvicinarvisi, ed accostarvisi.

La bellezza trasporta i sensi dell’uomo fuori dall’umano: tutto si altera, e si commuove in lui talmente che, se questo entusiasmo è di qualche durata, egli degenera facilmente in una specie di tristezza, allorchè l’anima si avvede non esservi che la mera apparenza della perfezione».

Anton Raphael Mengs

 

Avvicinarsi a Anton Raphael Mengs (Aussig 1728 – Roma 1779) significa due cose: farsi sorprendere dal Neoclassicismo ed esplorare con occhi nuovi il crinale del mito. «Il termine Neoclassico contiene un duplice rimando, il primo al classico e il secondo al rinnovamento, due parole che sono oggi di uso facile e quindi in un certo senso degradate», sostiene Steffi Roettgen nell’Introduzione a Mengs, la scoperta del Neoclassico, (Marsilio Editori, Venezia 2001).  Non è un deja-vu, ma un appropriarsi di stilemi che appartengono ad un tempo passato, del quale non vi è stata ancora piena elaborazione.

La sfrangiatura dei critici contemporanei a discredito del Neoclassicismo ha gettato un’ombra lunga sull’apporto di autori di grande spessore, tra i quali un ruolo significativo è giocato dallo il pittore Anton, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (che fu con Mengs il teorico del Neoclassicismo), gli scultori Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen, il pittore francese Jacques-Louis David, i pittori italiani Andrea Appiani e Vincenzo Camuccini, e il grande incisore Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. A Roma si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori.

Fu un movimento di “risposta”, caratterizzato dall’adesione ai principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione e serenità che l’Uomo Moderno intravvide nell’arte degli antichi greci e romani, e dal “rifiuto” dell’arte barocca, segnata da un destino di gestione dell’eccesso e della ridondanza.

Stefano Susinno (in Steffi Roettgen, cit.):

 «[…] Tale gruppo di intellettuali – da Giovanni Cristofano Amaduzzi ad Aurelio de’ Giorgi Bertola, da Ippolito Pindemonte ad Antonio Di Gennaro, duca di Belforte, per non dire dei due più noti esegeti e biografi mengsiani, Gian Ludovico Bianconi e José Nicolas de Azar – si colloca significativamente all’interno di quella istituzione accademico-letteraria, allora quasi centenaria che, nata per promuovere una riforma del gusto in opposizione agli “eccessi” del Barocco, dalla sua fondazione nel 1690, con il programmatico nome di Arcadia, incoraggiava uno stile poetico basato sulla conoscenza dei grandi classici dell’antichità e della tradizione italiana fino al Cinquecento. Questi erano riproposti a modello per trattare con verità e naturalezza non solo i vari generi della poesia ma anche argomenti di religione, di scienza, di filosofia».

 Un movimento artistico di “necessità” è sempre dinamico e porta con sé gli elementi di una psicologia difensiva,  dovuta alla modalità con cui i suoi protagonisti affrontarono quel particolare bisogno sociopolitico, estetico, linguistico. La necessità di liquidare gli effetti estetici di “troppo” dell’arte barocca generò un’equazione spuria: l’eliminazione di ciò che è “oltre” attraverso il ritorno a ciò che è “puro”. Questa operazione coincise con l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari. «Considerando il Neoclassico come corrente di moda si riesce almeno ad intuire in una certa misura per quale motivo esso potesse venir infine spodestato da un atteggiamento antagonista preannuciantesi già con il Romanticismo» (S. Roettgen, cit.).

 La caratterizzazione dinamica del Neoclassicismo trova conferma nella l’opera di divulgazione data dallo stesso Piranesi alle campagne di scavo archeologico, che permisero lo studio del rapporto tra arte greca e arte romana. Una “terapia” del bello, che va a risanare le ferite di una decadenza stilistica e sociale qual è quella dell’età barocca: il frutto di una degenerazione spettacolare e illusoria, ubriaca di sé, virtuosistica, qualche cosa che oggi definiremmo irregolare, kitch, trash, superstizioso, ingannevole. Un effetto d’Ombra che l’Illuminismo tenterà di chiarificare con il ricorso apollineo alla ragione, alla scienza.

La riabilitazione neoclassica vede uscire l’arte romana più debole dal confronto con quella greca: la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, Lisippo, sono esempi senza tempo cui fare riferimento per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza», ovvero un’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi» (Winckelmann, 1755 Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura; Storia dell’arte nell’antichità, 1763).  La qualità elegante della forma, la bellezza dei volti, la dolcezza lontana degli sguardi: un’arte ispirata alle virtù, quasi a coniugare temperanza, giustizia, pace, abbondanza,  l’effetto di un buon governo estetico governato da Armonia. Tuttavia i valori rinascimentali erano di matrice umanistica e non illuministica, e diedero all’uomo una centralità storicopolitica, religiosa ed economica che mal si coniuga con la razionalità neoclassica che tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla licenza e dalla sregolatezza barocca.

La pittura del tedesco Rafael Mengs (ammesso all’Arcadia romana con il nome di Dinia Sipilio), – l’artista di corte di Spagna pagato con cifre oggi miliardarie, critico d’arte e principe dell’Accademia di San Luca a Roma, solo per citare un paio degli alti riconoscimenti a suo favore – è uno dei più luminosi esempi di arte neoclassica. «Il monumento all’amicizia tra Mengs e Winckelmann è il Parnaso della villa Albani, al quale Winckelmann ha dedicato un elogio esorbitante e smisurato e non privo di zelo patriottico» (S. Roettgen, cit.), pubblicato nel 1764 in Storia delle arti del disegno.

Il Parnaso è di una bellezza indiscutibile. Tuttavia vi è un’altra opera di un incanto straordinario, che è il dipinto Perseo e Andromeda (olio su tela 227 x 153,5 cm, Ermitage di San Pietroburgo) con il cui acquisto segreto Caterina ii di Russia ebbe ad appagare il suo desiderio: «Verrà alla fine quel giorno, in cui io potrò dire di aver visto un’opera di Mengs?», avrebbe scritto l’imperatrice nel 1778 in una lettera a Melchior Grimm, figura centrale del xviii secolo come mediatore tra pubblico e privato nel processo di riforma illuminata delle corti, agente e mercante d’arte.

Il grande quadro segue di alcuni anno la pittura monocroma che porta lo stesso titolo, di piccole dimensioni, e che è accolto presso la Pinacoteca Manfrediana del Seminario Patriarcale di Venezia. È un bozzetto creato per la preparazione, che durò almeno sette anni, del pezzo principale. L’opera è di una eleganza non ascrivibile ad un movimento artistico: è senza tempo, e documenta una fase della composizione in cui non è ancora avvenuto il totale e auspicato distacco percettivo che caratterizza l’opus magnum finale con il suo stampo inequivocabilmente neoclassico.  Gli sguardi di Perseo e Andromeda e del fiero Imeneo sono testimoni di un attimo, di una storia vissuta. La composizione è intima e narrativa, intrisa di una tenerezza che Mengs più volte riuscirà a codificare segretamente nel gioco di luci che gli occhi dei suoi ritratti tradiranno. Si pensi alla Sibilla, che è potentemente allusiva, all’allure contemporanea di una spavalda Maria Luisa di Parma principessa delle Asturie – che il Goya ritrasse in modo ripugnante con un pennello impietoso, ai molteplici autoritratti che sfuggivano alla tendenza a eliminare ogni forma di personalizzazione.

Il grandioso Perseo e Andromeda fu oggetto di numerosi studi critici. Steffi Roettgen (cit.):

 «Mengs ha scelto per la sua composizione diversi modelli antichi, che possono essere individuati senza fatica ad un osservatore con una certa esperienza. Appare evidente il legame con il rilievo, proveniente dalla collezione di Alessandro Albani, del Museo Capitolino di Roma, che raffigura la stessa scena. Gli atteggiamenti delle figure richiamano il modello rappresentato dal mosaico antico con la Liberazione di Esione, che il Cardinale Albani aveva acquistato nel 1761 per la sua collezione privata di villa Albani. Oltre a questo modello, riconosciuto da Mario Praz, si nota infine l’influenza che l’Apollo del Belvedere (Roma, Musei Vaticani) ha esercitato direttamente sull’atteggiamento di Perseo. Con questi riferimenti diretti all’antichità, Mengs andò ben oltre l’iconografia rinascimentale relativa al tema tratto dalle Metamorfosi di Ovidio (iv, 670 ss.), che prediligeva per lo più la lotta di Perseo contro il drago, rispetto alla liberazione di Andromeda dalla rupe. I motivi del destriero Pegaso guidato da Perseo e dal fanciullo dell’imeneo che lo precede correndo con una fiaccola, possono stati essere presi da un dipinto di Peter Paul Rubens, raffigurante lo stesso soggetto, che raffigurava lo stesso tema, e che Mengs conosceva probabilmente per averlo osservato nella collezione del conte Brühl (oggi San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage)».

Nel saggio “Pensieri sulla bellezza e sul gusto nella pittura” (Gedanken über die Schönheit und über den Geschmack in der Malerei) pubblicato nel 1762 a Zurigo, Raphael Mengs, il “Mozart della pittura”, teorizzò il concetto del bello ideale che trascende la natura, perfezionandola. Tre erano gli assiomi del pensiero neoclassico di Mengs:  il primato dell’antico e la sua imitazione non servile; la scelta e il concetto della «bellezza ideale»; il primato dell’intellettualismo del disegno contro il sensualismo del colorito.

Il concetto di bellezza ideale postulato da Mengs poggia le basi sull’impianto filosofico di Platone. Scrive lo stesso Anton Raphael[1]:

«La natura ha perciò prodotte molte bellezze graduate, affine di tener lo spirito umano colla varietà in una commozione eguale, e continuata. La bellezza attrae tutti, perchè la sua potenza è uniforme, e simpatica all’anima dell’uomo; chi la cerca, la trova su tutto, e da per tutto, poichè ella è la luce di tutte le materie, e la similitudine della stessa divinità.  […] Nella bellezza l’arte può superare la natura L’arte della pittura vien detta una imitazione della natura: laonde sembra che nella perfezione debba ella esserle inferiore; ma ciò non sussiste se non che condizionatamente. Vi son delle cose della natura, che l’arte non può affatto imitare, ed ove questa comparisce assai fiacca, e debole in confronto di quella, come, per esempio, nella luce e nell’oscurità. Al contrario ha l’arte una cosa molto importante, in cui supera di gran lunga la natura, e questa è la bellezza. La natura nelle sue produzioni è soggetta ad una quantità di accidenti: l’arte però opera liberamente, poichè si serve di materie del tutto flessibili, e che niente resistono. L’arte pittorica può scegliere da tutto lo spettacolo della natura il più bello, raccogliendo e mettendo insieme le materie di diversi luoghi, e la bellezza di più persone: all’incontro la natura è costretta a prendere, verbigrazia, per l’uomo la materia soltanto alla madre, ed a contentarsi di tutti gli accidenti; onde è facile che gli uomini dipinti possano essere più belli di quello che sieno i veri. […]».

Gli “sfondi” di Roma, Parigi, Dresda, Londra, San Pietroburgo fanno da scenario al confronto del mondo naturale con il modello ideale dell’antichità.

L’arte contemporanea a volte “prende” da quell’immane serbatoio, fregiandosi di stile e chiarezza, di pulizia compositiva. Bellissimo poter contare su questa certezza, su queste basi.  Marc Augé ha affrontato il problema dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti di queste “memorie e macerie”, facendo riferimento al concetto di sûrmodernité, ampiamente caratterizzata dalla spettacolarizzazione delle immagini. Il rapporto tra spazio e tempo, tra realtà e rappresentazione, sono temi propri della filosofia e dell’antropologia contemporanea.

I Neoclassici nell’Europa dei Lumi diedero spazio ad un tentativo rigoroso e disciplinato di una rifondazione dell’arte e della cultura tutta partendo dalle strutture e dalle immagini classiche, consapevoli che la grandezza di un Mengs e di un Canova non era da meno di quella di un greco antico. Erano orgogliosi del proprio atteggiamento, e lo difesero con molti argomenti e studi. Non vollero saccheggiare né distruggere, ma solo fronteggiare la vertigine della libertà con la misura semplice e sicura del bello e del buono, come ci insegnano i grandi filosofi classici.

 «Questi è il Monti, poeta e cavaliero, gran traduttor de’ traduttor d’Omero».

Ugo Foscolo

«Come il creatore della natura ha posta una perfezione in ogni cosa, e ci fa apparir tutta la natura bella, ammirabile e degna di lui; così deve anche il pittore mettere e lasciare in ciascuna espressione, in ciascuna pennellata un contrassegno del suo spirito e del suo sapere, acciò l’opera sua sia sempre e da tutti stimata degna di un’anima ragionevole».

Anton Raphael Mengs

William Carlos Williams e le vene dell’America

di Andrea Galgano                                                                  Prato, 6 giugno 2013

Poesia Contemporanea

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pdf    William Carlos Williams e le vene dell’America

 

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lo scrittore statunitense William Carlos Williams (1883-1963) nacque a Rutheford, New Jersey, il 17 settembre 1883, da padre americano di origini inglesi e madre portoricane di origini basche e ebraico-olandesi.

Dopo aver frequentato la scuola secondaria a New York, a Ginevra e Parigi e nel 1902 si iscrisse a Medicina presso l’Università della Pennsylvania, dove conobbe Pound e Marianne Moore. In Europa per la specializzazione, si spostò a Lipsia, Londra, Spagna e Italia.

Nel 1912 sposò la sua compagna del liceo Florence Herman (detta «Flossie») e svolse l’attività pediatrica dedicandosi alla classe operaia di Paterson, nel New Jersey, città importante, poiché darà il titolo alla sua opera principale.

Nel 1949 gli fu assegnata la prestigiosa cattedra di Poesia presso la Biblioteca del Congresso, subito revocata per via del maccartismo nascosto nei suoi scritti considerati sovversivi.

In un suo testo, dal titolo «Di nuovo pane e caviale. Un consiglio al nuovo scrittore», scrive: «Ne abbiamo fin sopra i capelli della cantilena secondo cui l’artista è un debosciato nato, le sue opere sono provocate dalla nevrosi, dalla sublimazione, dalle fughe dal brutale contatto con la vita che egli, povero cristo, paventa terribilmente».

La ribellione nei confronti dell’immagine dell’artista che trova la fonte di ogni ispirazione soltanto nell’evasione, nel rifugio assolato di un pensiero distante, trova la possibile strategia di una risposta: «tanto dipende / da / una carriola / rossa / smaltata di / pioggia / presso bianche / galline» (The Red Wheelharrow).

Il celeberrimo assioma no ideas but in things, niente idee se non nelle cose, trova nella poesia una proporzione netta, in cui le cose, qui rappresentate dalla carriola e dalle galline, vengono raccolte nello sguardo che unisce la vivezza del rosso, smaltato di pioggia, all’indistinta presenza del bianco. Essi uniti dalla pioggia, rinascono nella chiarezza e nelle affermazione degli oggetti.

La semplicità nasce dalla combinazione e la poesia non vive se non nella stoffa del mondo: «La provincia della poesia è il mondo / Quando il sole sorge, sorge nella poesia / e quando il buio scende al tramonto / la poesia è buia».

Il valore dell’immagine assume consistenza solo nella espressione concreta e la sua operazione poetica, persino nelle suggestioni della poesia cinese e giapponese, come scrive Cristina Campo «ha origine nello sguardo: fisso, con meravigliosa costanza, più che all’oggetto alla sua metamorfosi».

La dedizione di Williams all’Immagismo rappresentò il contorno preciso di una traduzione di oggetti e nel rigore della bellezza, molto simile all’inscape di G.M. Hopkins, come fine ultimo della ricerca.

Le incursioni vitali dell’essere si muovono in una geografia di arcipelaghi, per usare una immagine cara alla Campo, che tenta di raggiungere le cose fuori dell’io, fino a immergersi nella datità che egli vede: «Al di fuori / al di fuori di me / c’è un mondo, / mormorò egli, soggetto alle mie incursioni / – un mondo / (per me) in riposo, / cui mi accosto / concretamente».

L’immaginazione permea il concreto contatto con le cose, con una forza che distrugge la rigidità della materia e che il poeta paragona alla fusione: «è la fusione, il divenire fluido dell’immaginazione che segnala come la mente stia entrando in una dimensione creativa. Dev’esserci fusione perché ci sia creazione, fluida, priva di qualsiasi impedimento».

La parola si fa materia fluida, come traboccante. Essa stessa si fa visione, fino ad assumere una potente valenza simbolica. Il valore della poesia sta in questa energia tremenda e spaziale che fissa il mondo in una mimesi grafica luminosa e chiara: «Una rosa è una rosa / e una poesia la eguaglia / se è ben fatta».

Lo stupore si afferma nella intuizione di un germoglio, di un vasto aprirsi di pupille e pazzie tattili: «uno scoppio d’iris così / scesi per la / colazione / esplorammo tutte le / stanze in cerca / di / quel profumo dolcissimo e da / prima non riuscimmo a / scoprirne la / sorgente poi un azzurro / come / di mare ci / colse / in sussulto improvviso di / tra gli squillanti petali» (Iris).  

È nel frammento, nella scaglia d’orizzonti che si scopre la meraviglia, la miscela del sangue che lascia il campo allo stupore che conosce: «Ciò che era vasto ma / pareva depredato del / potere di versare sul mondo / la sua onda di splendore / nuovamente trabocca in ogni / angolo».

La forza delle parole ama sostare nell’abbandono, nella sognata allegria dolorosa di una voce che deborda ma non riesce ad abbracciare tutto.

Solo un sigillo infinito che reca quel «sapore massimo di ogni parola», come scrive in una lettera, Cristina Campo: «Prima di cominciare avevo un profondo disgusto delle parole. Ero rimasta per mesi lontana da ogni cosa scritta. Lei mi ha restituito le parole al momento in cui ho riaperto il suo libro».

Lo stupore della visione può assumere un valore laudativo e salvifico di liberazione e rinascita, resistenza e fioritura: «Non ho trovato altra cura / per i malati / che questo fiore storto / che solo a guardarlo / ogni uomo / guarisce. Questo / è quel fiore / al quale ogni uomo / canta in segreto / il suo inno di lode», o ancora «è come se Michelangelo / ne avesse tratto / l’idea dei suoi Prigioni – / o lo avrebbe potuto. / non fece forse / fiorire il marmo?».

Si tratta in sostanza, scrive W.C.Williams, «di prendere i materiali della vita di ogni giorno (o anche altri) e usarli per elevare la consapevolezza della nostra esistenza a un più alto livello estetico e morale per mezzo dell’arte».

Egli, spingendosi oltre la dinamica immagista, tenta la via di una tensione, nella inquietudine dinamica e corposa della città americana e nella «grazia dell’abbandono dell’azzardo […] vive della propria perenne tramutazione, del proprio instancabile ritorno, di salmone controcorrente, alle sorgenti della parola, di quel sapore massimo d’ogni parola che dicevo in principio».

L’attitudine «a sviluppare interiormente verso la pienezza del significato il dato grezzo e bruciante di una sensazione o di un sentimento iniziale», come afferma Vittorio Sereni, è il grido di un biografia poetica, che congedandosi dall’astratto rimane fedele alla cosa osservata, ai suoi contorni, alle sue dilatazioni.

La poesia che fa nascere idee dalle cose costruisce il suo edificio in una complessa densità di immagini e di relazioni tra le idee, potenziate fino alle estremità luminarie, fino a raggiungere significato e figura pieni.

In Paterson, egli descrive la “biografia” della città omonima, percorrendo un processo concreto e simbolico che unisce l’antropomorfismo alla concatenazione di immagini, come quella dell’uomo-città, della donna-collina, del fiume-flusso della vita.

Scrive Antonio Spadaro: «Le città americane, a differenza di quelle europee, non si presentano come elementi di una tradizione: esse sono come schegge di un presente esploso in direzione del futuro. Così, se in Europa le cattedrali sono il deposito della tradizione cristiana e gli antichi templi sono le opere della civiltà greca e romana, le grandi città americane e le loro periferie sono vestigia viventi del loro peculiare presente proiettato verso il futuro, nonostante tutta la sofferenza e la delusione possibili».

Il dinamismo di Williams è il colore dell’epica, in cui rifluisce la tradizione del mito, del passato, del modello che si fa incipiente e caratterizza il tempo, come egli scrive in White Mule, a proposito di Flossie, figlia di operai, non senza un tocco di ironia: «Entrò, grondante come Venere, dal mare. L’aria l’avviluppò, la sentiva tutt’intorno a sé, che la palpava, la destava. Se Venere, una volta sottrattasi alla pressione del grembo marino, non aveva pianto rumorosamente entrando in contatto con il nuovo e più leggero flusso che le dirompeva in petto – questa invece sì. Torcendo il suo faccino imbrattato, cacciò tre grida convulse – e giacque immobile. Basta piangere, disse la signora D., dovresti essere contenta di uscire da quel buco».

Il contatto con la provincia rappresenta un valore aggiunto e decisivo per la sua inner poetica, nei fatti, negli oggetti, nella quotidianità che diventa epica e nei margini sociali depressi.

Anche la sua professione medica, se da un lato contribuisce a una prospettiva umana più attenta, dall’altro fornisce materiale per le storie che egli racconta: «La bambina mi divorava con quei suoi occhi freddi e fissi, il viso privo di espressione. Non si muoveva e sembrava che dentro di sé fosse tranquilla; una bimba insolitamente graziosa e, all’aspetto, robusta come un vitello. Ma aveva la faccia arrossata, il respiro affannoso, e mi resi conto che aveva la febbre alta. Aveva magnifici capelli biondi, foltissimi. Una di quelle bambine da fotografie pubblicitarie che appaiono spesso sui manifesti e nelle pagine illustrate dei giornali della domenica» (L’uso della forza).

Commenta ancora Spadaro: «I racconti registrano dunque sia il clima e le tensioni legate al mondo del lavoro, sia le vicende di un’esperienza umana ordinaria, tesa sempre tra la percezione della propria vulnerabilità, il bisogno di guarigione e la speranza di riscatto. La figura del medico è attentamente esaminata in tutte le sue reazioni: dal fastidio all’attenzione, dal cinismo all’empatia, dalla furia all’ostinazione. Tutta l’emotività che questi racconti necessariamente contengono per la loro materia (affetti, dolore, rabbia, speranza, fallimenti…) assume una forma chiara, netta, senza ombra di patetismo o sentimentalismo».

La terra di Williams è più vicina a Steinbeck che a T.S.Eliot, in essa oltre a scoprire la depressione economica si evince una sorta di innocenza ignota e perduta (alcuni critici hanno parlato di uno sfondo di catholic vision): «Siamo semplicemente mortali / ma essendo mortali / possiamo sfidare il nostro destino. / Possiamo / per caso a noi esterno / perfino vincere!».

l’assedio della scrittura. W.C. Williams insegue la scrittura vivificante, l’evento che popola il tempo, il linguaggio e il simbolo che devono essere racchiusi nelle «venature dell’ambra».

È nella radici storiche e sociali, nelle «vene d’America» che si realizza la prospettiva del suo sguardo che cerca le primizie dell’origine, la traccia degli uomini che toccano terra: «Avevo cominciato a pensare di scrivere Nelle vene dell’America, uno studio in cui avrei tentato di scoprire per me stesso che cosa potesse significare la terra dove, più o meno accidentalmente, ero nato … Il progetto era di entrare nella testa di alcuni fondatori o, se volete, “eroi” americani, attraverso l’esame delle loro testimonianze. Volevo che non ci fosse niente fra me e i documenti della loro vita: la traduzione di una saga norvegese, The Long Island Book, il caso di Eric il Rosso, sarebbero stati l’inizio; poi il diario di Colombo; le lettere di Hernán Cortés a Filippo di Spagna; l’autobiografia di Daniel Boone, e così via, fino a una lettera scritta da John Paul Jones a bordo del Bon homme Richard dopo la sua battaglia con la Serapis».

Commenta acutamente Spadaro: «il bisogno di raccogliere la biografia del Nuovo mondo e di toccarne il nucleo originario certamente affonda nel desiderio di ritrovare il respiro delle proprie origini, legate più a una geografia reale e ideale che a una genealogia corrente».

Nel respiro delle origini affonda la sua zolla di terra, nel crogiolo incandescente di un senso di appartenenza che salva peculiarità e singolarità, in un retroterra di lingua e identità messo a fuoco in una espressione poetica netta e piana. Cogliere la realtà del mondo è la sillabazione rafferma della visione dell’esistenza in un unico flusso verbale, in un unico principio sensibile e misurato che coglie i movimenti e le deviazioni della vita, per generare «parole, lente e veloci, affilate / nel colpire, quiete nell’attendere, / insonni. / – a conciliare con metafore / le persone e le pietre».

L’atto d’amore per l’essere umano si risolve in un’attesa profonda, nella tensione verso il destino che invoca compimento e promessa di eterno nei miti, nei linguaggi, nelle dinamiche del presente, come il fiore che aspetta di sbocciare, anche se deve spaccare la pietra.

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