Le porte di sabbia lilac-poin​t di Kairouan

di Irene Battaglini                                          Prato, 28 aprile 2013

L’immaginale

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pdf  5. PAUL KLEE 28 04 2013

 «Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte.
Poi pesante e prezioso e reso forte dal fuoco.
Di sera pervaso da Dio e curvato.
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati, verso cieli stellati».
Paul Klee, 1918
 
«L’arte non deve riprodurre il visibile ma deve rendere visibile»
Paul Klee, La confessione creatrice, 1920 – Lezioni al Bauhaus

 

L’universo pittorico di Klee è governato dalle leggi della fisica e del linguaggio dei segni, esposte nelle virtù più eleganti, sofisticate, delicate.

Due sono le anime che si avvicendano nella pittura di Klee, nella recondita armonia della danza degli opposti: la dolcezza estrema di una mano autorevole e formativa, paterna, piena, senza ripensamenti, e la necessaria spinta sconfinante di un bambino che esplora l’universo delle cose e di Dio. Avanguardista per i critici, fu l’esempio silenzioso e rivoluzionario dell’antimodernismo nell’arte contemporanea. Coniugò i tratti appresi dalle tradizioni pittoriche e dallo studio dei grandi ai colori bruni e rossi delle terre e ai freddi viola del cielo, ai verdi dei prati e degli occhi di un gatto, amò l’Italia e la sua anomalia genetica, il suo viversi senza ipotesi, dentro se stessa, la sua storia.

Pittore-uomo tra le macerie classiche, raccoglie uno ad uno quei cocci spenti sotto i quali arde la cenere dell’arte mediterranea. I suoi patchwork cromatici, splendenti più del bronzo fuso dei grandi decori dell’Art Nouveau, di cui pure fu contemporaneo, accendono fuochi di immensa potenzialità espressiva. Le sue linee – le più sottili, quelle del periodo del Bauhaus, dagli anni 20 agli anni 30 –, sono il grimaldello che fa apparire il possibile, il dono del colore, la realizzazione delle possibilità. Eccellenti fulcri generativi per la formazione dei giovani modernisti, allievi di Walter Gropius, di fatto sono veri e propri interventi di psicologia dell’arte, di indagine nelle stratificazioni dell’inconscio dinamico e cognitivo, alla ricerca di impliciti sostegni al necessario, al minimale come essenziale, di leggi che governano mondi sconosciuti alle geometrie euclidee perché a queste precedenti.

Sostiene lo stesso Klee: «Io, a differenza di Kandinskij e di Marc, vivo un mondo intermedio; mentre Kandinskij vive il mondo iperuranico, dove c’è lo spirituale, l’assoluto, l’abbandono del sensibile, Marc vive il mondo terreno, io vivo un mondo intermedio, abitato dai morti e dai non nati, cioè delle possibilità che non si sono date» e ancora «Nell’al di qua non mi si può afferrare. Ho la mia dimora tanto tra i morti quanto tra i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione, gli altri al cuore della creazione, ma non abbastanza vicino». (Paul Klee, Diari, 1898-1918)

Klee non dichiara un rifiuto nei confronti dell’arte contemporanea, – che all’epoca tracciava i primi segni fondamentali, – tutt’altro. Kandinskij e Marc sono suoi grandi amici. Era forse l’unico artista d’avanguardia in grado di leggere il greco antico. Nei Diari dirà che l’Italia classica rimane la base, il punto di partenza per il suo lavoro autonomo. Alcuni mesi prima di morire ebbe un dichiarato riavvicinamento al suo background classico. Già nel 1932, Klee compone il mosaico Testa di atleta (Metropolitan Museum of Art, New York), che recentemente Phyllis Lehmann ha collegato con i mosaici antichi, con le teste di atleti, rinvenuti nelle Terme di Caracalla. Lo studioso ceco Jan Bažant, nell’articolo Klee’s “Senecio” and “senecio” in Rome, (pp. 332-335, 2004, “Umění Art”, Journal of the Institute of Art History, Academy of Science of Czech Republic), argomenta copiosamente le connessioni tra Klee e l’arte classica, scandagliando quelle direzioni spesso trascurate dai critici, che tendono a collocare Klee a ridosso delle linee che collegano le avanguardie al minimalismo e all’architettura di interni, l’astrattismo all’espressionismo elegante, come una sorta di filosofo della forma senza alberi genealogici. Un Klee naturalmente intatto, portatore di una storia senza tempo passato. Ma sono le immagini a tradire questa idea di superficie.

Alla fine della sua vita la bellezza chimerica delle sue figure “astratte” (di fatto vicine alla percezione basica, alla “scena primaria” della storia dell’arte) divengono vere e proprie imago, si pensi alle serie di Eidola, Angeli, Passioni, che somigliano ad un percorso alchemico di approssimazione all’immagine primordiale della morte. Morte che si fa figura, fatto, e costringe Klee ad abbandonare anche il regno della metafora e della rappresentazione. Il visibile emerge nella piena luce, è risurrezione e destino, bianco ritorno al colore in purezza, unito e compatto, il colore spirituale di Kandinskij.

Sono figurette che si addobbano di un pudore intimo, di una lingerie inviolabile, come se racchiudessero nella loro purezza originaria un’etica mai provvisoria dell’identità. Che diventa questione non negoziabile: Klee dipinge, scrive, ed è musicista affermato.

È la discussione intorno al segno che è centrale, mentre i linguaggi possono essere scelti, possono essere sovrapposti. La pittura non è il suo destino, ma il crogiuolo più adatto ad accogliere la sua attitudine a comporre e scomporre, avendone una restituzione immediata e tangibile. Se il lavoro di Klee è la negazione della materia nello studio sulla materia, egli decide di farlo con la metodologia più adeguata: ovvero sul campo, non già adottando escamotage intellettuali, ma confrontasi direttamente con la materia pittorica, elaborando un suo proprio sistema di enunciati a sostenere un’architettura estetica alla sua tensione verso la liberazione dai vincoli della sintassi abitativa che l’uomo organizza scartando continuamente tutti gli input che non riesce ad elaborare.

I tratti di bambino creativo rispecchiano l’adesione alla percezione scomposta, frammentaria e sfalsata che il bambino ha della realtà del mondo sensibile, ma anche il grumo percettivo vitale che costituisce il primo passo dell’uomo nell’universo naturale attraverso i suoi sensi ancora non del tutto perfezionati, nel quale il soffio è nell’atto di essere inspirato, nel quale il verbo è nel punto di essere detto. Quest’uomo balbettante percepisce l’orizzonte e le forme degli animali e il suo muoversi a tentoni, e ancora non comprende del tutto il rapporto che si genera tra loro per triangolarne la posizione. Di fatti, i disegni di Klee non costruiscono un percorso regressivo verso le forme arcaiche, diciamo le forme impresse nel sistema nervoso rettiliano, ma sono un approdo antropologico nella sua ricerca delle percezione immaginale del primo istante, della scintilla dell’origine. Klee sostiene che l’arte debba rendere visibile l’invisibile. Quindi non deve scontornare, dal tutto, l’antico e il primitivo sottraendone il nuovo, ma far vedere quel che l’occhio non ha potuto imprimere in forma segnica, in altre parole fa un lavoro di integrazione e non di sottrazione. In questo sta il suo antimodernismo rivoluzionario. Egli si libera dell’asservimento progressista alla materia e alla tecnica per declinare la sua totale autonomia narrativa e linguistica, ed è questo coraggio a farne uno dei più celebrati ed amati pittori di ogni tempo. Egli piace, perché raggiunge il cuore, perché evidenzia il trascurato, perché alimenta l’occhio desiderante dell’uomo di una tensione mai colma ma sempre sul punto di rivelarsi, alla De Chirico, alla Morandi. Non è mai saturo, non è mai in risposta. Interpretato ed errante, Klee è e si vive, si fa vivere dal mondo, si mette al servizio della dimensione umana, traghettandoci in quel futuro plastico dell’arte contemporanea in cui il dibattito tra l’archetipo legislatore della forma e il versante destruente della materia è sempre acceso. Il lascito di Klee è però molto molto impegnativo. Le riflessioni sulla sua produzione monumentale (si contano oltre novemila opere …) costituiscono un nucleo fondamentale di nodi critici, sui quali ancora si articolano mostre internazionali, cataloghi, saggi, laboratori e piste di ricerca. Ma fu soprattutto un teorico, un filosofo dell’estetica. «L’importanza di Klee per concenzione artistica del Novecento è pari a quella che ha avuto Leonardo da Vinci con il suo De Pictura del Quattrocento, in mezzo non c’è nessun altro che eguagli una pari grandezza», sostiene Giuseppe Di Giacomo (Paul Klee, treccani.it, 2012).

Deborda, colorando, dai confini che egli stesso ha disegnato sulla carta; esprime, dipingendo, una ingenuità cromatica che ha del sublime, che arresta ogni tentativo di collocazione, che declina l’invito alla mattanza del raziocinio.

La pittura di Klee è poetica e sperduta, perché è innamorata del mondo. Egli è da subito abile nella sintesi, ma in realtà in ogni suo lavoro si cela sempre il tema dell’infinito, o meglio del rapporto primigenio tra l’Uomo e l’Infinito. ”Davanti le porte di Kairouan” ne rappresenta l’anelito e l’epifania.

Ha il chiarore dell’alba, Kairoaun, e la tenebra della notte imminente nel deserto. I colori sono dell’ebbrezza delicata, gli sfondi e i protagonisti in primo piano, un tutt’uno con i molteplici orizzonti. L’acquerello del 1914 è di una bellezza impressionante, e – insieme a Cupole rosse e bianche, Case rosse e gialle a Tunisi, Motivo da Hammamet, Il tappeto del ricordo, – Davanti alle porte di Kairouan è una preghiera, un desiderio puro di unione con il mondo, di ritorno al naturale.

La tavolozza cromatica è delicata, eppure i rosa dell’alba sono i viola del tramonto, i grigi colori della polvere sollevata dai dromedari sono pari agli ori della sabbia intrisa di sole sfolgorante. A farla da padrone il rosso. Un rosso che non c’è eppure si percepisce, pervade come un inchiostro liquido e magico tutta la tela di carta, di quegli inchiostri invisibili che appaiono come per magia, appena ti avvicini alla mappa del tesoro. È il rosso della terra, che è contiguo al viola del cielo in assenza del verde. Questi colori giocano a nascondino, si separano, si accoppiano, si rincorrono. L’inafferrabile visione di Klee, è la sintesi del suo amore per il colore, per la pittura, per il creato: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore». Kairouan, 16 aprile 1914.

Robert Frost e la perdita

di Andrea Galgano                                                                                            Prato, 25 aprile 2013

Poesia Contemporanea

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pdf  25.04.2013 ROBERT FROST E LA PERDITA

robert frost

La poesia di Robert Frost (1874-1963) raccoglie a piene mani nella perdita e in essa trova, come scrive Massimo Bacigalupo «il risanamento», il «fare punto momentaneo contro lo smarrimento».

È il cuore, la vetrata centrale della sua poesia. Il rapporto diretto tra poesia e memoria solleva il piano della smaccata atemporalità, del dettato bucolico che non conosce perfezione edenica, ma si riscopre vellutato nella rottura profonda, nella lacerazione e nella follia.

Quando T.S. Eliot lo definì «il più eminente e il più distinto poeta anglo-americano vivente» univa la sedimentazione della cultura anglosassone alla materia rurale e ancestrale della poesia, che unisce il monologo al dialogo, l’inflessione alla creazione fertile dei personaggi.

Nato in California, dove rimase per 11 anni, si trasferì, dopo la morte del padre, con la madre e la sorella nel Massachusetts, dopo essersi iscritto al Dartmouth College e poi successivamente ad Harvard. Non raggiunse mai la regolarità negli studi, lavorando come insegnante, calzolaio e perfino editore dell’opera di D.H. Lawrence.

Il matrimonio con Elinor Miriam White rappresentò la vertigine del suo discorso amoroso, con lei si trasferì definitivamente in Inghilterra nel 1912, dopo gravi dissesti finanziari e psicologici.

All’estero Frost incontrò Pound, che apprezzò e lo aiutò nel pubblicare i suoi testi. La vicinanza e l’influenza di poeti come Edward Thomas, Rupert Brooke o Robert Graves, fu decisiva. Di ritorno negli Stati Uniti, la sua fama divenne conclamata, arrivando a vincere ben quattro premi Pulitzer.

Il New England rappresentò per lui il mistero e la calibrata ancestralità di un movimento espressivo che per guardare il reale, incanala nel discorso, nelle inflessioni colloquiali e nel linguaggio, la tensione metrica che, se per temi si avvicina a Hardy, Browning e Yeats, di contro, sviluppa una peculiare e profonda espressività, unita alla lirica breve, musicale, lontana da ogni unisono vocale, come annunciava egli stesso nel 1913: «Io solo fra gli scrittori inglesi mi sono consciamente proposto di ricavare musica da quello che potrei chiamare il suono del senso».

Quel suono del senso è l’esito di un rinnovamento che inventa una ruralità bucolica e invita chi legge a decifrarne i segreti, le sineddoche, l’ambiguità di un “tranello”: «Bello è il bosco, buio e profondo, / Ma io ho promesse da non tradire, / Miglia da fare prima di dormire, / Miglia da fare prima di dormire».

Il respiro del bosco, ossia di una condizione vivente e vitale, si accompagna al peso della vita e alla tappa ultima del riposo eterno. Esiste sempre un doppio piano nella radice di uno sguardo: da una parte l’elemento naturale che si pone come spartiacque per una condizione successiva, per aprire il tempo poetico alla riflessione del dialogo. La bellezza e la pace hanno sempre una sinistra condizione, in cui l’oscurità dei boschi raccoglie il suo tremore, la sua paura o tragedia, in un originale contrasto. Il suono del senso accompagna il senso del suono, come tensione vitalistica a una suggestione mai dolciastra, a una struttura che pone l’accento sulla condizione umana nelle sue varianti, solo apparentemente, leggere.

Per Frost il senso è un accordo musicale che precede l’esistenza delle stesse parole, in questa vicinanza avviene la vitalità del linguaggio.

In una lezione del 1915, tenuta alla Browne and Nichols Schools afferma: «Quando ascoltate qualcuno che parla, sentite delle parole, certo, ma sentite anche dei toni. Il problema è quello di riportarli, di ri-immaginarli, e di metterli per iscritto […] E il grande problema è questo: come metti su carta questi toni? Come esponi il tono?». E poi successivamente nel 1918 si rapporta a Yeats, intravedendo un possibile accenno di risposta:

 «William Butler Yeats dice che tutte le nostre parole, frasi ed espressioni per avere efficacia devono conservare il carattere della lingua parlata. Dobbiamo scendere al linguaggio di ogni giorno, prima di tutto – alla dura parola quotidiana della strada, degli affari, dei commerci, del lavoro estivo – prima di tutto; ma abbiamo anche un obbligo, quello di elevare le parole di ogni giorno, di dare loro un’impronta di metaforicità».

Se Brewer affermava che Frost «appartiene a una tradizione che deriva dall’insoddisfazione con la melodia “tennysoniana”, e si pone con Yeats, Pound ed Eliot tra i grandi rinnovatori della voce parlante nella poesia moderna», è pur vero che l’interesse metafisico di Frost gioca il suo ruolo decisivo in una doppiezza ironica e tragica, in cui la sottigliezza si accompagna all’eloquenza radicata e ordinata.

La più americana delle questioni poetiche, ossia il rapporto tra la poesia e il parlato, che da noi solo nel Novecento ha visto in alcuni autori un campo profondo di indagine, da Montale, a Giudici fino a Sereni, gioca la sua partita su questo rapporto. Persino William Carlos Williams ricostituirà la tessitura musicale della poesia-prosa, in cui suono e significato corrispondono perfettamente, come equilibrio ragionato tra lingua e parlante.

La stessa rusticità di campagna si allontana dal dettato straniante della vita sociale e l’intonazione omogeneizzante del verso frostiano recupera una tendenza e un avvicinamento all’uso metrico virgiliano, come ha esaminato Brodskij «Frost e Virgilio hanno in comune la tendenza a nascondere il vero tema dei loro dialoghi sotto lo splendore opaco e monotono rispettivamente dei pentametri e degli esametri». L’altezza sonora afferma il flusso della rarità del ritmo.

In un saggio del 1931, Educazione attraverso la poesia, Frost afferma:

«L’educazione attraverso la poesia è educazione attraverso la metafora […] La poesia comincia con metafore superficiali, graziose, decorative, e giunge al pensiero più profondo che conosciamo. La poesia offre il solo modo ammissibile di dire una cosa e intenderne un’altra. Chiedono: “Perché non dici quel che pensi?” Non lo facciamo mai, d’accordo, perché siamo tutti troppo poeti. Ci piace parlare in parabole e accenni indiretti, vuoi per diffidenza vuoi per qualche altro istinto […] Scrivere è tutta questione di avere idee. Imparare a scrivere è imparare a avere idee».

Le labbra socchiuse della verità obliqua di Emily Dickinson, trovano in Frost un alleato complice, come comunicazione tra sé e sé in un linguaggio mai soggiogato e netto, mai povero ma profondamente segnico.

L’originaria trasposizione comunicativa destina la indecidibilità verso la doppiezza dell’espressione, verso il gioco continuativo e arduo dell’esperienza poetica. È la sua forza, il suo non celebrato specchio: «The land was ours before we were the land’s».

Scrive acutamente Massimo Bacigalupo che:

«Frost vive ben diversamente il mondo o il mondo morale (per lui sono tutt’uno), un mondo che non ha facili soluzioni, in cui le persone offrono le loro versioni parziali senza che ne venga indicata una definitiva. L’universo è caratterizzato dalla problematicità, dall’indecidibilità, non in maniera amletica e capziosa, ma a livello immediato di percezione. La moralità in Frost è sensazione, per parafrasare la lode che di John donne fece Eliot: è poesia. L’idillio coi boschi non produce certezze o consolazione, ma rimanda sempre al principio della verità assente».

Il bagliore del concetto e della figura, che egli racimola dall’esperienza elisabettiana di Shakespeare e dal concettismo del Seicento, trova uno stridore tra chi abita i campi e la joi de vivre, tra il contrasto silente tra bianco e chiaro, intento e forma e disegno e assenza.

L’isolamento, l’estinzione e i limiti umani insuperabili, messi in evidenza da Randall Jarrell non chiudono la semplificazione ironica e vertiginosa della sua scrittura, ma aprono a una questione insoluta.

La natura del New England porge il suo barbaglio di comunione con la condizione umana. Un muro con il filo spinato occlude la vista di due persone, dall’altra parte ci sono una cerva e un cervo, da questa, due individui guidati da amore e dimenticanza: «Quasi la terra per un imprevisto favore / Li avesse assicurati che ad essi ricambiava / il loro amore».

L’evento che tocca le due persone annota e glossa la loro affezione, porgendo la specularità di un amore ricambiato tra il loro essere e la terra che guardano.

In Frost non esiste il bozzetto melodrammatico o l’edenica percezione di uno spazio, nonostante la vicinanza con Wordsworth e con la tradizione classica, ma il limite umano rivela la sua intensa precarietà, come ad esempio il vaneggiamento di alcuni personaggi, la scoperta di un adulterio, la lunga incertezza mentale.

La sua pantomima lirica acquista la dimensione del dramma, in cui la fattoria afferma il suo centro propulsivo e fragrante del mondo.

Il mondo di Frost concede inenarrabili effetti di quinta, in cui l’umano abita frequentemente e assiduamente l’angolo convesso di un trapasso, come da una landa felice al nido delle api nelel pareti, come dal dramma domestico alla teatralità dell’idillio (come accade in All revelation), per «destarsi all’esperienza, raccogliere i semi gettati prendendo in mano ogni tondo frutto, assopirsi stanchi e soddisfatti prima ancora di aver spogliato tutto il frutteto».

La conoscenza della notte è un viaggio inesauribile nella perdita, nel sonno, nella distanza cinica e virulenta, con una capacità ironica e spregiudicata che non si nutre di ansia o di inquietudine soffusa e solo nell’agone sconvolge la «satisfaction of superior speech», per convogliare in un terrore ironico di molte voci: dalla metafisico-ironica alla drammatico-teatrale, fino alla satirico-discorsiva, che meditano sulla realtà fattuale, soggettiva e poi universale, ordinata e coordinata in solchi, come testimonia Mietitura:

«Non si sentiva oltre al bosco altro suono che uno, / la mia lunga falce che frusciava al suolo. / Che cosa sussurrava? Non lo sapevo io stesso; / era forse qualcosa sul calore del sole, / qualcosa, forse, sull’assenza di suono – / Per questo sussurrava e non parlava. Non era sogno del dono d’ore vuote, / o facile oro profuso da fata o da elfo: / qualunque cosa in più della verità sarebbe apparsa / debole al fermo amore che ordinò il prato in solchi, / non senza delicate lanceole di fiori / (orchidee pallide), e un fulgido verde serpente fugò. / Il fatto è il sogno più dolce che la fatica conosca. / La mia lunga falce frusciava, lasciava il fieno ammucchiarsi».

Il «New York Times» nel dedicare a Frost un editoriale in occasione del suo ottantesimo compleanno mise in rilievo la sua intensità peculiarmente americana:

 «Poeta intensamente americano, Frost ha toccato quegli aspetti della vita degli Stati Uniti che, pur dopo un secolo di sviluppo urbanistico, ancora costituiscono il nostro comune substrato. Il nostro concetto delle relazioni tra gli uomini, il nostro modo di intendere il lato tragico dell’esistenza e la nostra nozione della speranza restano intimamente legati alle case coloniche ed ai campi appena arati. Frost scrive su un mondo vero di gente vera, riuscendo ad introdurre in esso il lettore che ne ricava il senso di una viva esperienza e momenti di autentica rivelazione».

Il lavoro del poeta abbraccia l’infrangersi del tempo, il suo smarrimento e nascondimento, il ritrovamento di luce, come l’abbandono di un tratturo e il ritrovamento di un calice nascosto e originario in Directive, in essi trova luce e sospetto di ombra.

 

Frost R., Conoscenza della notte e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Giovanni Giudici, Mondadori, Milano 1999.

Brodsky J., On Grief and Reason, Farrar Straus & Giroux, New York 1995.

Brower R.A., The poetry of Robert Frost: constellations of intention, Oxford University Press, Oxford 1963.

Gardini N., Com’è fatta una poesia, Sironi, Milano 2007.

Jarrell R., Poetry and the Age, Knopf, New York 1953.

Penn Warren R., The themes of Robert Frost, University of Michigan 1947.

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Andrea Galgano.25-04-2013 Robert Frost e la perdita

Il linguaggio poetico di Paul Klee

di Andrea Galgano                                                                                             Prato, 18 aprile 2013

Poesia Contemporenea

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pdf: IL LINGUAGGIO POETICO DI PAUL KLEE

220px-Paul_Klee_1911Il gesto poetico di Paul Klee (1879-1940) persegue il segreto e l’attrazione della genesi, la coltivazione di una ricerca, mai marginale, che non tocca il movimento di una glossa all’opera figurativa, ma sostanzia la percezione linguistica in una accezione significativa e densa, in un tratto omologo all’espressione artistica.

Se nei suoi Diari lo scenario, il divenire e il formarsi della creazione raggiungono l’acme di una continua tensione, i suoi testi poetici non affermano una subordinazione all’atto artistico, ma raccolgono il fecondo rapporto tra l’artista e la creazione, tra la tensione cosmica e la sigla strutturale dell’umano:

«Sguardo retrospettivo. Mi sono posto dinanzi a me stesso, a scrutarmi. Ho detto addio alla musica, alla letteratura. Ho desistito dall’aspirare ad una raffinata esperienza sessuale, rinunciando a quella tale avventura. Anche alle arti figurative penso appena, devo dedicarmi prima a sviluppare la mia personalità. In questo devo essere conseguente e non cedere alle sollecitazioni. Sono certo che solo così riuscirò a trovare poi la giusta espressione nell’arte»

o ancora

«L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico. La liberazione degli elementi, il loro raggruppamento in sottoclassi composte, lo smembramento e la ricomposizione in un tutto da più parti contemporaneamente, la polifonia figurativa, il raggiungimento della quiete mediante la compensazione dei movimenti: sono tutti alti problemi formali, fondamentali per la conoscenza della forma, ma non ancora arte della cerchia superna. Nella cerchia superna, dietro la pluralità delle interpretazioni possibili, resta pur sempre un ultimo segreto – e la luce dell’intelletto miseramente impallidisce».

Dunque, se in questo libro la sua attenzione si rivolge ai meccanismi precipui di indagine, nella sua poesia sembrano assentarsi le cromature, discostandosi da altri poeti espressionisti, come Georg Trakl, ad esempio, in cui la forte pregnanza cromatica ha densità metaforica ed esaurisce il momento della scrittura.

Scrive Giorgio Manacorda, a cui si deve l’edizione dell’opera poetica di Klee: «Nei versi di Klee non si incontrano colori, non affiora una visione cromatica della realtà. I versi di Klee non descrivono il fantasma colorato del mondo, così come non lo descrivono i suoi quadri. […] Il colore è intuito dal lettore come qualità non nominata di una funzione. In questi lessemi («essere incandescente», «incandescenza», «bruciare», «sangue», ecc.)  la valenza semantica prevale sul momento dell’implicito e presente valore cromatico».

Tale valenza si contrappone all’impressione, abbracciando la vertigine di un lessico mitico e simbolico. Il rapporto tra i segni linguistici e la densità espressiva carpisce la forte corposità di metafora e connette la sofferenza dell’esistere alla sensazione panica, al turbamento, all’abrasione, specie quando egli scrive: «Io somiglio al dirupo / dove la resina cuoce nel sole, / dove i fiori scottano», oppure, «Mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio».

Il vocabolario delle immagini, che egli sviluppa, si avvale del pittogramma che si trasforma in icona, ridestando una stretta vicinanza tra la decorazione del passaggio interiore con la simbolizzazione dell’atto figurativo.

Il testo visivo di Klee sottende a una orizzontalità pronunciata e invoca una lettura intrinsecamente temporale, in cui l’enfasi, il volume e il ritmo conferiscono un netto e inequivocabile parallelo visivo.

La metafora incendiaria raccoglie la solitudine nei confronti degli elementi della natura, cambia prospettiva di paesaggio, come un’esclusione sproporzionata e tripudio d’assedio, finestra verbale e visuale: «Come davanti alla tempesta / fuggono gli uomini … / Io sono il timoniere e la mia nave / forte mi porta alla meta» oppure «Io sono cresciuto solo su una landa / (…)  / tempeste andavano e venivano, / avevano spazzato via ogni debole cosa. / (…) Il mio riparo sia intanto solamente il pensiero».

Il momento prometeico di Klee però afferma, rispetto allo Sturm und Drang, a cui potrebbe rimandare, un’apertura alla realtà, come centro di amore e orrore, scultura di frammenti, grido di sole: «Tu sei grande, è grande / la tua opera. Ma / solo grande all’inizio / incompiuta. / Un frammento. // Compila! / Allora griderò l’evviva!».

La sua vertigine tra uomo-artista e divinità raccoglie un confronto solitario, insegue un discorso sul reale che non ha l’enfasi estatica ma «il problema del rapporto con dio è il problema del rapporto (gnoseologico) con il meccanismo che muove l’universo. Dalla dialettica o forse, meglio, dalla contrapposizione tra particolare e universale non nasce nessun misticismo». (Giorgio Manacorda)

La relazione dinamica tra la natura e la metafora è biunivoca e diverge nella sottigliezza di una struttura semantica che nega quest’ultima, per raggiungere la conoscenza dei meccanismi cosmici.

La misura con il dio-cosmo non annulla distanze, ma provoca la sbavatura della sofferenza oltre il margine umano. L’uomo-artista riesce, attraverso la profusione creativa, ad abbracciare e raggiungere l’ordine cosmico. Il risultato è un vortice e una vertigine metafisici: «Pensa di essere morto / lontano e dopo molti anni / ti viene concesso un solo sguardo / verso la Terra. // Vedrai un lampione e un cane / vecchio con la zampa alzata. / Singhiozzerai dalla commozione».

La distanza è una visione che non solo partecipa, ma “vede” il suo processo creativo, attraverso lo svolgimento di una istanza umana sofferta, dura e lenta: «La mia testa brucia da saltare / / Uno dei mondi / che nasconde / deve nascere // Ma prima di creare / devo soffrire».

Il parto creativo avvicina l’anima alla genesi femminile. La donna di Klee ha il nome annunciante di un infinito silente e artefice, plasmatrice e innovatrice della fecondità ideale, come il verde della vita e dell’amore verso Evelina, gioia e aggettivo di una fertile serenità:

«Eveline è un sogno verde tra gli alberi, il / sogno di un bambino nudo nella campagna. / Me ne andai fra gli uomini per non lasciarli più / e fu impossibile essere così felice. / Liberato dal potere di troppo noti dolori / mi rifugiai nei campi assolati abbandonato / al rovente declivio. E ritrovai Eveline, donna / ma non invecchiata. Solo spossata dall’estate. / adesso lo so cosa volevo quando cantavo. / siate teneri con i miei doni» o ancora «Appoggiati a me / e seguimi se / si apre la terra / chiudi gli occhi. // Fidati del mio passo e del mio / freddo alto spirito. / Così come Dio / saremo in due».

Il chiaroscuro della penombra, del contrasto, di un rinvio di buio alla luce condensano il paesaggio interiore. Laddove egli dichiara di lavorare «sempre in rapporto alle più inconsce dimensioni del quadro», la sua tendenza pittorica e poetica abbraccia l’immaterialità, la astratta precisione e l’astrazione mitica, archetipica e autonoma, come scrive Clement Greenberg: «In Klee il disegno è, per così dire, temporale, o musicale».

Il poeta che disegna le sue partiture di profili o segni astratti, figure e confessioni precarie afferma la sua linea temporale-musicale, come conferma ancora Greenberg: «La linea di Klee indica, conduce, allaccia, congiunge. L’unità si attua per mezzo di relazioni e di armonie che giocano attraverso aree neutre la cui presenza è più una presunzione che un fatto».

Il verso si ricollega proprio ai segni che determinano l’arte, al mistero dei suoni, vicini più a sostantivi che ad aggettivi, indicati dal tocco verbale per «dare ordine al movimento», per offrire consistenza al valore ritmico della lingua.

Ed ecco che il colore, nelle poesie in controluce o in chiaroscuro, diventa gesto che si azzera, vive di assenza, annullato e ridotto a luce, ombra, bivio di buio: «E tuttavia questo genere di colore, nelle mani di Klee, raggiunge una particolare specie di profondità. Non una profondità nella quale gli oggetti rappresentati sono probabili, ma qualcosa di soffuso, respiri di colore che danno un baluginare distante, ambiguo». (C.Greenberg)

Il segno grafico o verbale, differenziato dal processo metaforico, ha una istanza primitiva, originaria come l’arte del Paleolitico, l’equilibrio e il disequilibrio e la coltre di una percezione.

La parola acquista un potere descrittivo che «ha il compito di completare e precisare le impressioni» e la continua oscillazione tra poesia e arte figurativa e musicala determina il motivo potente e fragile di una vicinanza che possa formalizzare il vissuto e il mistero indicibile: «In fondo essere poeta non dovrebbe ostacolare l’arte figurativa. E se dovessi decidermi per la poesia, Dio sa cosa altro vorrei fare».

La profonda parentela tra la pagina dipinta e quella scritta non contiene solo la fissazione di uno spazio, ma la stessa sospensione dell’oggetto determina la perdita dello spessore esistenziale.

Quando Klee si muove dal modello all’archetipo rintraccia una linea articolata ed elementare, rende appieno l’univocità del segno come affermazione piena, come sonda di un rapporto complementare di ordine e caos: «L’arte è una similitudine della creazione. Essa è sempre un esempio, come il terrestre è un esempio cosmico». L’estrema iconizzazione del testo poetico realizza mimesi e replicabilità, promuove un codice speculare di rovesciamento e  ripetizione per leggere il caos e ristabilire l’ordine che non muta.

Il cardine sistematico del testo rispecchia la scacchiera cromatica della figurazione e della costellazione e visualizzazione di altri significanti. Esiste, pertanto una variante codica tale per cui sia i testi e sia gli ordini vengono presi come varianti di un ordine invariante, come annota Giorgio Manacorda: «L’operazione di Klee tocca un tale grado di astrazione e di formalizzazione da presupporre un allontanamento definitivo dall’ordine dei referenti extra-testuali, in direzione (viceversa) della fondazione di strutture archetipiche che poi vengano costantemente «replicate» dai testi e «iconizzate» in essi».

Roman Jakobson in un interessante testo che indaga la produzione poetica di Holderlin, Brecht e Klee: «Una sorprendente unione di trasparenza radiosa e di magistrale semplicità con multiformi indicazioni permette, al Klee pittore e poeta, di dispiegare un’armonica combinazione di molteplici procedimenti sia sulla superficie di una tela sia nelle brevi note di un diario».

L’acuta sensibilità, che unisce la profondità chiaroscurale ella miniatura verbale e il concetto grammaticale alla geometria della visione, permette l’organizzazione del movimento creativo in relazioni logiche che costituiscono il senso profondo e complesso di visibile e in-visibile, di domanda ed enigma: «Nel mondo terreno non mi si può afferrare perché io abito altrettanto bene tra i morti come i non nati. Più vicino del consueto al cuore della creazione ancora troppo poco vicino».

La fine ha trovato l’inizio.

KLEE P., Poesie, a cura di Giorgio Manacorda, Guanda, Parma 1995.

ID., Confessione creatrice e altri scritti, Abscondita, Milano 2004.

ID., Diari 1898-1918. La vita, la pittura, l’amore: un maestro del Novecento si racconta, Net, Milano 2004.

AICHELE PORTER H., Paul Klee Poet/Painter, Boydell & Brewer Ltd., Woodbridge 2006

GREENBERG C., Saggio su Klee, Il Saggiatore, Milano 1960.

JAKOBSON R., Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 2002.

WyMAN S., The Poem in the Painting: Roman Jakobson and the Pictorial Language of Paul Klee, Word & Image: A journal of Verbal / Visual Enquiry, Routledge 2004.

 

La poetica del terrore di Alfred Kubin

di Irene Battaglini

L’immaginale                                                                                        Prato, 16 aprile 2013

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ALFRED KUBIN - THE LAST KING, 1902La vera funzione dell’Arte è rivelare la bellezza nascosta, l’impronta divina che è in tutte le cose.

Roberto Assagioli

 

 

 

 

 

Alfred Kubin,The last king, 1902

 

Alfred Kubin è assai vicino al segreto della materia oscura.

Conosce il linguaggio arcaico dei sogni in bianco e nero, sfolgorante tripudio di colori indicibili all’occhio umano, colori animali, viaggi – fuoco alla scoperta di forme di vita aliene perché non ancora note, con cui stringersi negli appartati silenzi di una giungla aperta solo all’inconscio e al sogno.

Popolazioni di piccoli esseri con zampe e piccoli occhi sanguinari, di creature o-scene, prive di pudore e di ritegno, inghiottite dallo stomaco eterno del tempo arcaico.

Un tempo senza meridiane, demarcato dalle sfumature rese con la violenza strabiliante dello stilo che incide la pietra-carta. Non privo di effetti destruenti su colui che guarda, salvato di quando in quando da figure più amabili e mai dolci, mai tenere. Ma dotate di una qualche ispirazione simpatetica. Figure quasi vergini che deflorano la pupilla, ignare della propria immane forza ctonia. Una bella dormiente è di fatto cadaverica, un caro animale domestico è in realtà l’investigatore pubblico di un devastante tradimento affettivo.

In Alfred Kubin (1877-1959, austriaco di origine ceca) la privatezza del sogno e la vergogna dell’istinto manifesto costituiscono la coppia protagonista di un duplice matrimonio di opposti. Si tratta di vecchi amanti clandestini, di violacciocche, rose e fragole passate, che un tempo furono turgide e splendenti. Il tempo ha distrutto quelle irrorate terre di passione e ha prosciugato tutto, desertificato. Nuove forme di vita hanno popolato quel campo desolato, cittadini nuovi di un cimitero di veli di spose e di giovani martiri in abito da cerimonia. Il funerale è stato officiato e nelle camere scurite dal freddo le pareti divengono luogo di immaginazione perversa.

L’impianto accusatorio della linguistica di Kubin è una sorta di emisfero monco di un mondo che necessita di comprensione e di attesa di una risurrezione. È un universo onirico psicoide, a base di strampalate occasioni di tessitura di storie e di incrocio di segni.

I tratti del disegno e delle incisioni sono sempre trasversali, sottili, chiusi. La definizione, tuttavia, non è mai fumettistica e il tratto grafico tradisce un amore pittorico, sfocia in una grafologia iridata su un fondale opacizzato, è equidistanza dal caos eppure è sempre commistione nel magma da cui sembra emergere l’immagine principale.

Una criminologia immaginale, quella di Alfred Kubin. Che rievoca Lovecraft, e Edgar Allan Poe, di cui fu illustratore in oltre settanta opere.

Gli uomini di molti disegni sono spesso ipocondriaci, malaticci, preda di donne-licantropo, attentati da strategie di autoannientamento, vittime consapevoli e un po’ masochiste di uno schema sovrabbondante e conosciuto.

La copiosa produzione di Alfred Kubin è stata da sempre teatro di riflessioni di ordine psicoanalitico, e ci coinvolge anche come studiosi di psicologia dell’arte per via dell’effetto scenico dell’orrore, che ha una sua ragione di essere anche nell’estetica stessa, se si tiene conto della suggestione che riceviamo in relazione alla forma e alla tessitura di ogni singolo disegno. Simona Argentieri, in «Alfred Kubin: un sognatore a vita» (nel saggio La lente di Freud. Una galleria dell’inconscio, a cura di Giorgio Bedoni), articola la riflessione a proposito del rapporto tra psicologia e arte in Kubin:

«[…] sarebbe assurdo precludersi l’esplorazione dei possibili nessi tra parole e immagini, tra opera e vita quando Kubin stesso ne fa un elemento costante della sua poetica, intrecciando continuamente il percorso creativo con l’autobiografia. Direi anzi che un elemento particolarmente interessante è proprio la meticolosità con la quale egli costruisce la sua teoria su se stesso: l’autodiagnosi di patogenesi traumatica dei suoi tormenti, corredata dalla certificazione degli scritti e dalla preziosa esibizione sintomatica dei disegni. Anche la cura, d’altronde, ha tale qualità autarchica e autoreferente: l’isolamento di dieci giorni in corrispondenza di una crisi, la parentesi buddhista, la scrittura del romanzo L’altra parte che – a suo dire – avrebbe composto di getto in sole dodici settimane come rimedio al dolore della morte del padre.

Come è suo diritto, egli talvolta mente sulla stesura dei resoconti […], tuttavia è vero – come dice Erwin Mitsch (1988) – che su questa base emotiva si fondano il fascino e la forza soffocante che emanano dalla sua opera, che si eleva molto al di sopra della pittura concettuale e allegorizzante dei suoi contemporanei.

Insomma, c’è del metodo, sia pure ingenuo, nella sua follia; e c’è della teoria, sia pure convenzionale, nella sua sommessa infelicità e nella sua fedeltà ad un processo creativo fatto di andirivieni tra disegno e scrittura,che intreccia l’invenzione, il “gioco crepuscolare della fantasia”, le reminiscenze infantili con angosce esistenziali nutrite dalle letture di filosofi quali Nietzsche e Schopenhauer, di scrittori come Poe e Hoffmann, di lezioni di artisti come Klinger, Munch, Redon, Ensor, Goya, Rops… Sappiamo anche che teneva sulla scrivania il famoso libro di Hans Prinzhorn, che era andato a visitare la sua famosa collezione di artisti folli della Clinica Psichiatrica di Heidelberg, con i quali dichiarava una dolente fratellanza umana ed estetica. (*) Così procedeva con immagini e parole alla costruzione dell’immagine di sé, adattando eventualmente la biografia all’arte, che – a suo avviso – è la “conseguenza della vita”. (*) In un articolo pubblicato nel 1922 su “Kunstblatt” ne esalta “i miracoli dello spirito dell’artista che emergono dagli abissi reconditi e imponderabili”».

Nei suoi lavori, quindi, l’urgenza abreattiva del trauma e lo spasmo creativo dello «spirito dell’artista» si accordano in una ricerca violenta di armonia, con l’esito di rovesciare i codici della psicopatologia, che è fondamentalista circa l’identità tra psicosi e assenza di consapevolezza.

I temi della fine del mondo, dell’incubo, della coazione a ripetere, dell’accesso al simbolico della morte in ogni sua declinazione, sono stati ampiamente trattati dai critici e dagli storici dell’arte, che non hanno mancato di esaurire in giudizi talora molto duri la sua talentuosità, innegabilmente mescolata con la mostruosità. Ebbe in vita numerosi riconoscimenti, un’esistenza piena in un clima di grandi eventi culturali, ma anche storici e politici. Fu tutt’altro che estraneo a questa realtà, conobbe e strinse amicizia con le maggiori personalità artistiche e letterarie del suo tempo. In un certo senso, l’impressione è che sia stato confinato a sofisticato e misterioso illustratore del terrifico e del luttuoso. Una sorta di sovversivo dell’estetica, il «polo contrario di Klimt […], il lato notturno della Secessione» (K. Schuster, 1981), nell’andirivieni mortifero di Ade e Persefone, sotto l’invariabile dominio di Crono.  Espressionista della notte, che si abitua quasi a “rubare” lo spazio creativo, iniziando a disegnare dietro le mappe catastali ereditate dal padre.

In un certo senso, la psicoanalisi è stata ed è una chiave di lettura che, in mano ai profani, gioca a favore della patogenesi dell’arte. E Kubin, anche solo per l’autoritratto in cui si disegna decapitato con la testa in un vassoio (illustrazione a Hugo Schmidt, Demoni e storia notturna, Monaco 1922), è preda ambita per la psicodiagnostica la più liberamente proiettiva. Com’è giusto che sia, se si considera che chi espone le proprie opere non può esimersi dall’essere sottoposto ad ogni forma di valutazione. In qualità di ipotesi inconfutabile, possiamo considerarla un punto di intersezione con altre ipotesi anziché una mappa di orientamento. Uno dei problemi filologici che emerge nello studio di Kubin, è la sua versatilità rispetto al mezzo creativo. Scrittore, pittore, incisore, disegnatore, illustratore, grafico (pensiamo agli inquietanti capilettera), usò la penna, l’acquerello e le chine con generosità di segno.  Studiarne le incisioni, significa approcciarsi al suo linguaggio, che è però ampiamente rappresentato nel romanzo L’altra parte e nelle altre produzioni letterarie. Egli illustra il suo stesso libro con l’impeto ribelle dello scrittore ferito dal suo stesso desiderio, ornandolo con lavori scurissimi, intessuti di graffi allucinati, a rappresentare case immerse nella notte deserta, scorci di paesi maledetti, finestre chiuse su muri di silenzio: spazi privi di una dimensione umana, in apparenza. Oppure, in realtà, completamente immersi nella melma che si fa fatica a drenare, che si relega alla notte, all’onirico, al mysterium tremendum.

Difatti fu proprio C. G. Jung (1928) a portare l’attenzione sulla qualificazione archetipica di Kubin, in cui l’abbandono passivo al fantastico e al simbolico assolve una funzione «trascendente, artisticamente valida».

Per la stessa ragione, possiamo articolare la sua collocazione tra i più grandi artisti del suo tempo. Fu cassa di risonanza del decadimento delle cose e del mondo, tanto da meritarsi di essere annoverato tra i “profeti del tramonto” da Vassily Kandinsky: oscuri narratori delle rovine dell’Europa avvolta dalla caligine che segue al crollo degli dei.

In lavori come Bancarotta (1938) o La morte del povero dello stesso anno, sembra assumere su di sé la fortissima responsabilità di un’Austria crocevia di conflitti bellici in un’Europa vessata dalle forze disgreganti. Non si tagliò fuori dal dibattito della sua epoca, anzi ne fu protagonista insieme a tanti nomi illustri, come Mann, Kafka, Jünger, Redon, con cui strinse ampi rapporti epistolari.

Subì l’influenza di maestri come Goya e Bosch, oltre a Max Klinger, che anticiparono quel che i Surrealisti usavano addurre alle fonti inesauribili dell’inconscio.

Alfred Kubin non può essere quindi collocato tra le sponde rovinose di una psicopatologia della scrittura, del segno e del simbolo. I lavori vanno presi tutti insieme e visti come un “arazzo rovesciato”, parafrasando il titolo dell’ultimo lavoro di Andrea Monda e Giovanni Cucci. Il male non può essere spiegato ma al massimo raccontato. E in questo caso disponiamo di un immenso racconto, il romanzo della vita e dell’arte di un uomo che si mette a nudo e ci offre una delle più vaste geografie dell’inconscio, individuale, sociale, collettivo.

Octavio Paz e il regno perduto

Poesia Contemporanea                                                                                    Prato, 12 aprile 2013

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pdf   OCTAVIO PAZ E IL REGNO PERDUTO

di Andrea Galgano

pazOctavio Paz (1914-1998), premio Nobel per la letteratura nel 1990, esprime meglio di ogni altro autore ispanoamericano la capacità di sintesi dello scavo poetico, della esistenza vissuta del testo, di un ermetismo propulsivo e dinamico che unisce linearità e fasto immaginario.

Nato in una famiglia indiano-ispanica dopo la rivoluzione messicana del 1910 (suo padre fu il rappresentante di Zapata negli Stati Uniti, mentre suo nonno fu uno dei primi intellettuali a favore della causa degli indios), ha respirato da subito, come testimonia la sua prima silloge a 19 anni Luna silvestre, la tensione dilatata di un processo espressivo che raccoglie erotismo, comunione, solitudine, morte, come un quadrilatero che innerva la sua arte e il suo gesto poetico.

A 23 anni aderì alla causa dei repubblicani andando a combattere e rompendo poi con gli stalinisti, definendo in modo indelebile e irreversibile una frattura con i totalitarismi di ogni tipo.

Le sue raccolte successive portano i riflessi della guerra spagnola, ma lasciano intatta la nitida scoperta di una fraternità e di una identità che caratterizzerà la sua produzione successiva, aprendo il suo corso mitico alle esplorazioni del reale e all’appartenenza.

Tutta la sua esistenza è stata un germoglio di feconde amicizie e crinali duraturi: Rafael Alberti, Cesar Vallejo, Pablo Neruda.

Rientrato in Messico nel 1938 fonda la rivista “Taller”, incontra Benjamin Peret, si lega ai surrealisti parigini e poi si sposa con Elena Garro. Su consiglio di Neruda entra in diplomazia (lascerà l’incarico nel 1968 dopo il massacro di Tlatelolco) e nei suoi innumerevoli viaggi (Francia, Svizzera, Giappone, India), scoprì la bellezza del misticismo orientale.

Le raccolte di poesie Versante Est e Libertad bayo palabra si alternano a saggi di politica e critica letteraria, fino a raggiungere con la Pietra del sole del 1957, lungo poema sul Messico, considerato da Julio Coràlez il più bel poema d’amore mai scritto in America Latina, la vertigine dell’inno.

Dopo le prese di posizione contro il castrismo, tentando di perseguire una via più democratica, nel 1976 fonda il mensile di riflessione politica “Vuelta”, iniziando, pertanto, una messa a fuoco di emarginati e esiliati, come più tardi testimonierà il bellissimo Il labirinto della solitudine: «La solitudine è il fondo ultimo della condizione umana. L’uomo è l’unico essere che si sente solo e l’unico che è ricerca d’un altro. (…) L’uomo è nostalgia e ricerca di comunione. Perciò ogni volta che sente se stesso si sente come mancanza d’un altro, come solitudine».

Quando ritirò il Premio Cervantes nel 1982 scrisse:

«la libertà, che comincia per essere l’affermazione della mia singolarità, si risolve nel riconoscimento dell’altro e degli altri: la loro libertà è condizione della mia. Nella sua isola Robinson non è realmente libero; benché egli non subisca una volontà estranea e nessuno lo costringa, la sua libertà si dispiega nel vuoto. La libertà del solitario è simile alla solitudine del despota, colma di spettri. Per realizzarsi, la libertà deve incarnare e mettersi di fronte ad un’altra coscienza e ad un’altra volontà: l’altro è, contemporaneamente, il limite e la fonte della mia libertà».

La poesia di Octavio Paz tende alla sponda infinita degli archetipi, solleva il binario dell’attività poetica verso una orditura di sacralità di immagine:

«L’uomo, persino quello avvilito dal neocapitalismo e dallo pseudo socialismo dei nostri giorni, è un essere meraviglioso perché, a volte, parla. Il linguaggio è il marchio, il segno della sua sostanziale non-responsabilità anziché della sua caduta. Attraverso la parola possiamo accedere al regno perduto e così recuperare gli antichi poteri. Quei poteri non ci appartengono. L’uomo ispirato, colui che davvero parla, non dice nulla di suo; per la sua bocca parla il linguaggio»

o ancora «Non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della non-significazione e quello non meno terrificante, della significazione indicibile».

La scomparsa del poeta nella sua voce, in quanto voce del linguaggio, acquista una tensione altra, una rivelazione magmatica e fervida.

Il quadro polisemico che emerge dalla sua lettura è il sedimento in cui la nevrosi, presente in Neruda o Vallejo, si affranca in uno spazio mai soddisfatto, in un’indagine di materia e d’istante senza condizionamenti.

Le mitologie messicane si aprono nell’opera circolare di un tempo originario e primordiale, nella Storia, senza la quale il poema resterebbe disincarnato, flesso:

«prima della storia, ma non all’infuori di essa. Prima, in quanto realtà archetipica che è impossibile datare, inizio assoluto, tempo totale e autosufficiente. Dentro la storia – meglio: storia anch’egli – perché vive soltanto incarnato, ri-generandosi, ripetendosi nell’attimo della comunione poetica. Senza la storia – senza gli uomini che sono origine, sostanza e fine della storia – il poema non potrebbe nascere né incarnarsi; e senza il poema non ci sarebbe nemmeno storia, perché non ci sarebbero né origine né inizio».

Lo splendido istante, che germina nella vertigine, ha, nel particolare, l’estasi di un tempo irripetibile, calato in un solco di dimensione storica, laddove un pioppo, una montagna o un fiume partecipano a una immaginifica trasposizione della realtà e della visione d’insieme.

Scrive  Franco Mogni: «poesia e poetica di Paz rispondono proprio a una peregrinazione verso le origini, alla ricerca di una cosmogonia (o cosmologia?) personale: lungo il percorso affiorano ciclicamente delle strutture pressoché compiute, dei testi singolari per cadenza e tenuta compositiva che in qualche modo chiudono una fase e ne introducono un’altra».

Se nella sua poesia tutto riconduce alla porta di un avvenimento, il desiderio di ricomporre il contesto lacerato dell’uomo segna definitivamente la traccia di una rigenerazione affascinata, di una puntualità dell’istante e del suo fluire e, infine, della sua pienezza.

La pietra del sole assurge una viva compenetrazione amorosa che unisce tempo rigenerato e illuminazione. La poesia e quindi l’amore, qualora fossero anche balbettii silenziosi, riescono a estinguere e estirpare l’umana materia grezza in una fascinazione preziosa, in una non totalizzante conciliazione di contrari, in quanto «poema della riconciliazione degli opposti, in cui la polarizzazione tra tu ed io, presente e passato, si risolve in una corrispondenza universale che mette in comunicazione piani considerati incompatibili».

L’apertura polisemica del tempo al mondo può aprire costellazioni indicibili oltre «il muro verdigno», in una congiunzione che permette l’irretimento di una statica contemplazione:«Tutti si trasfigurano, volando, / ogni fregio è nuvola, ogni porta / immette al mare, al campo, all’aria, ogni / tavola è in festa; conchiglie serrate / cui il tempo inutilmente stringe assedio/ svaniti il tempo, i muri / spazio, spazio / apri la mano, cogli la ricchezza, / raccogli i frutti, mangia dalla vita».

Il flusso dell’esistenza, la luce delle lampade, l’inabissarsi della luce nei cerchi di basalto, sono i frammenti musaici di una flessione rigenerativa, in cui l’Amore definisce il passaggio verso una temporalità accesa, una voce nascosta, una suggestione esuberante di immagini.

Sembra quasi che nell’esilio dell’abbraccio degli amanti il tempo si fermi, ceda il passo all’immensità di istante, dilati le sue coltri a un incondizionato bagliore sacro:

«Tutto si trasfigura, tutto è sacro, / il centro della terra è in ogni stanza, / sempre è la prima notte, il primo giorno, / il mondo nasce quando due si baciano. / Amare è lotta, quando due si baciano. / Il mondo cambia, i desideri incarnano, / anche il pensiero incarna, / il mondo cambia / se due si guardano e si riconoscono» perché «Perdiamo i nostri nomi e galleggiamo / Alla deriva tra l’azzurro e il verde, / tempo totale dove nulla accade/ se non il suo trascorrere felice».

Una fusione che chiarifica il ritmo creatore dell’universo, che fonde la percezione di odori, suoni, presenze e gaie prefigurazioni.

La donna di Paz è indistinguibile dal paesaggio che abita, riflette la natura che si sparge sui vestiti, come un trionfo ricolmo di risorse, come una docile festa disinibita e sparsa. È la persona a determinare il passaggio dal sesso all’erotismo: «Senza la fede in un’anima immortale inseparabile da un corpo mortale, non avrebbe potuto nascere l’amore unico né la sua conseguenza: la trasformazione dell’oggetto desiderato in soggetto desiderante. L’amore esige come condizione a priori la nozione di persona, e questa, a sua volta, la nozione di un’anima incarnata in un corpo».

Nella totalità concreta dell’essere si realizza il compimento di una unicità senza fine, protesa alla sua duplice fiamma, alla zona magnetica tra coscienza e realtà.

L’edonismo di Octavio Paz riflette un misticismo naturale che, come scrive Guillermo Sucre, «non cerca di raggiungere nessuna trascendenza ma di riscattare il corpo originario del mondo», poiché, come scrive lo stesso Paz, «La vita non comincia senza il sangue / senza la brace del sacrificio».

Quando la stilla dell’esistenza percorre le innervature, gli addensamenti, per toccare persino l’evaporazione, il debito della parola al silenzio esalta

«il senso dell’assenza, dell’incarnazione del vuoto, innervatura di un ritmo che dalla nascita alla caduta e viceversa dice e disdice la manque di un incontro, e non fusione, atto a provocare anziché l’armonia dei contrari, la loro trasformazione in un corpo altro: quello del testo, de foglio bianco (in, nel, verso il blanco-bersaglio) sul quale il testo inesorabilmente cresce».

Cogliendo i segni del tempo, è possibile rintracciare l’esperienza sovrannaturale, come dimensione originale e originaria dell’esistenza, come trasmutazione di sé: «Le pietre sono tempo / Il vento / secoli di vento / Gli alberi sono tempo / gli uomini sono pietre / Il vento / si avvera con gli orecchi».

Si assiste a una ricerca urgente di identità, per una natura perduta. In uno scandaglio pietrificato e vibrante, egli scopre un ponte nuovo, la «fiamma nera» dell’infinito, la vertigine e lo spasmo cosmici.

La sola parola afferma la rivelazione di un regno perduto, quasi adamitico. Il poeta si innerva in questa origine, in questa co-nascenza, come copula che annulla il potere menzognero del sopruso e della sua traiettoria sanguinosa di ogni esilio.

La percezione si trasforma in concepimento, la creazione che subissa la descrizione, come lo specchio segreto di un mondo invisibile aperto sul visibile. Ecco, quindi, che l’immagine assurge a un ruolo fondamentale e decisivo: essere promemoria della realtà materiale, in un termine momentaneo e passeggero della magia dell’istante al vuoto succedaneo: «L’ora mi innalza / fame d’incarnazione patisce il tempo / Oltre me stesso in qualche luogo attendo il mio arrivo»..

Il culmine della liberazione poetica, come l’uccello astro e serpente precolombiano Quetzalcòatl, erompe  in una realizzazione altra da sé, in una nudità originaria, in una paternità sofferta e vera, in una lingua madre desiderata, per riappropriarsi e salvaguardare la temperie liberatoria: «Mani e coscienza per cogliere il tempo / sono una storia / una memoria che s’inventa / mai sono solo / parlo sempre con te / parli sempre con me / Cammino nel buio e pianto dei segni».

I segni riallacciabili a Fourier, i romantici tedeschi, come Blake, Novalis e Hölderlin, i barocchi e mistici ispanoamericani, vivono nel fuoco dell’atto creativo, come prominenza salvifica di una dicotomia sofferta e viva: la sonorità del silenzio.

Tra patriottismo e ribellione, attività politica e solitudine artistica, Paz compone il suo ritmo errante, la sua dizione priva di confine, il fulcro dialettico di una «disseminazione germinante» (Franco Mogni) che fonda la fede di un tempo puro, per iniziare un nuovo ciclo, per fondere gli opposti di un flusso misterico, in una corrente alternata. Il ritmo e le immagini rivelano il mondo:«Scorpione che si conficca nel mio petto / sigillo di sangue sui miei anni d’uomo».

Scrive Grace Schulman:

«La poesia di Octavio Paz è una questione urgente perché insiste sulla totalità della vita, l’amore, e le nazioni, una unità che solo l’arte può rivelare. E se io ho sempre saputo che la poesia vive su livelli più profondi dell’essere al mondo, mi comanda la voce di Octavio Paz ad ammettere la giustezza di questa conoscenza. Paz vede il mondo che brucia, e sa con chiarezza visionaria che gli opposti si sono risolti in un luogo al di là di contrari, in un momento di pura visione: in quel luogo, non ci sono frontiere tra uomini e donne, vita e morte. Se la sua poesia incarna il viaggio della mente verso la comprensione, il suo viaggio è il mio viaggio, la sua passione, la mia passione… ».

L’erranza di immagini concepisce lo spirito fuori del dramma della vita, tra lo stupore della quiete e le cicatrici del movimento.

Octavio Paz sa bene che quell’uragano che «s’è piantato in mezzo all’anima» esprime tutta la sua realtà corporea, la sua cadenza rituale e l’ascensione di fuoco acqua, terra e fuoco, uniche espressioni di accesso polimorfo alla parola vivente che riemerge dalla cenere, per scaldare la linfa luminosa dell’essere, in un suono primigenio e in un ragionamento irragionevole: «Vita e morte / Saldano in te, signora della notte, / torre di luce, regina dell’alba, / vergine luna, madre d’acqua madre, / corpo del mondo / cado in me stesso e non tocco il mio fondo, / coglimi dai tuoi occhi, unisci polvere / dispersa e riconcilia le mie ceneri».

Paz O., Vento cardinale e altre poesie, a cura di  Franco Mogni, Mondadori, Milano 1998.

Id., La duplice fiamma. Amore ed erotismo, ES, Milano 2006.

Id., Il labirinto della solitudine, Il Saggiatore, Roma 1982.

Addolorato A., La parola danzante. Octavio Paz tra poesia e filosofia, Mimesis, Milano 2000.

Christ R., The Master of Contraries, in «The Nation», 2 agosto 1975.

Gallagher D.P., Octavio Paz, in Modern Latin American Literature, Oxford University Press, Oxford 1973.

Schulman G., Man of two words, in The Hudson review, vol. xxvii, n. 3, Autunno, 1974.

Sucre G., Paz: la vivacidad, la trasparencia, in La máscara, la trasparencia, Monte Avila, Caracas 1975.

a cura di Andrea Galgano e Irene Battaglini

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